TRENTINO, DAL 1945 ALLA NUOVA AUTONOMIA – 7

a cura di Cornelio Galas

Siamo sempre nei primi anni Sessanta. Mentre tra Roma, Vienna e Bolzano si veniva delineando un preciso triangolo diplomatico, a Trento negli ambienti politici crescevano i timori per un’emarginazione del Trentino dal quadro istituzionale dell’autonomia.

Bruno Kessler

Bruno Kessler

A questi timori però rispose in maniera energica Bruno Kessler, nominato nel 1960 presidente della Giunta provinciale di Trento, che impresse alla sua amministrazione un impulso decisivo sulla via della modernizzazione, tanto da far scrivere alla stampa che il Trentino, come l’America di John Kennedy, si stava muovendo verso una “nuova frontiera” di benessere e di crescita culturale.

Da allora si iniziò a parlare di programmazione economica ed urbanistica, che coinvolse illustri docenti universitari, incaricati di elaborare il “Piano urbanistico provinciale” (PUP), allo scopo di programmare lo sviluppo del territorio sulla base delle risorse e dell’aumento della popolazione, proprio in un momento storico in cui il “boom” stava raggiungendo il suo apice, mettendo tuttavia in evidenza anche i primi segnali negativi, che allora significavano caos edilizio, inquinamento, degrado ambientale, consumismo esagerato, di cui si iniziò a dibattere anche sulla stampa.

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Dopo lunghe discussioni in aula, il PUP venne approvato nel settembre 1967 e nello stesso anno nacquero anche i comprensori – primi in Italia – che raggruppavano i paesi di una stessa valle (ora ve ne sono 11) e che avevano la funzione di razionalizzare le spese della Provincia per gli investimenti soprattutto nel campo della sanità, della medicina di fabbrica, dell’edilizia popolare e dell’organizzazione scolastica.

Molti trentini, a dire il vero, non considerarono il comprensorio come elemento rappresentativo della propria storia e come strumento necessario per la crescita civile alla pari, ad esempio, del comune, bensì come una sovrastruttura; perciò si accesero vivaci dibattiti anche tra la popolazione, segno dell’intensità con cui venivano sentiti taluni problemi.

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Molto più estesa e partecipata fu, invece, la discussione sul progetto di creare a Trento l’università. La “voglia di università” aveva radici lontane, risalendo ai tempi della scuola di giurisprudenza fondata a Trento da Calepino dei Calepini nel XV secolo e poi al tentativo del cardinale Cristoforo Madruzzo di erigere uno “studium generale” a Trento nel 1553, fino all’importante cattedra di Diritto civile tenuta, sempre a Trento, da Carlo Antonio Pilati e da altri insigni docenti nell’epoca illuministica e soprattutto alle lotte sostenute dai trentini fra Otto e Novecento per la creazione di una università italiana in Austria.

Cristoforo Madruzzo

Cristoforo Madruzzo

Nel secondo dopoguerra si era tentato di supplire a questa mancanza con l’istituzione di corsi estivi dell’università cattolica di Milano al Passo della Mendola (marzo 1954) e con la creazione a Trento di un Centro studi dell’università di Bologna (maggio 1954), dove si tenevano periodicamente cicli di conferenze su temi a carattere culturale.

L’impulso determinante per elaborare un progetto organico di università venne dato però dalle circostanze politiche legate al problema dell’autonomia. Come ricordò lo stesso Kessler, quando l’autonomia speciale di tipo regionale entrò in crisi, lasciando prevedere attraverso il Pacchetto la piena autonomia concessa alla provincia di Bolzano, allora agli amministratori del Trentino si pose il grave problema di evitare per la loro provincia la caduta di prestigio cui Trento sarebbe andata incontro con lo smembramento della regione.

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Da qui l’impegno per la realizzazione dell’università, che avrebbe dovuto non solo far lievitare culturalmente la società trentina, ma anche distinguersi dagli altri atenei italiani per la novità della proposta e per il piano degli studi. Per questi motivi venne scelta come prima facoltà quella di Sociologia. La figura del sociologo, infatti, era nuova nel panorama culturale italiano.

Il 27 luglio 1962 il Consiglio provinciale approvò il disegno di legge che creava l’ITC (Istituto trentino di cultura), un organismo appoggiato da vari soci fondatori, che avrebbe dovuto garantire all’università trentina la sua autonomia amministrativa.

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Qualche giorno dopo, il 31 luglio, con un solo voto contrario e un’astensione, venne approvato anche il disegno di legge che dava il via al “Libero Istituto di Scienze Sociali”, inaugurato solennemente il 14 novembre, alla presenza dei più bei nomi del mondo accademico nazionale e in un’atmosfera di goliardia contenuta.

Ben presto però tra la popolazione locale iniziarono a manifestarsi perplessità e diffidenze nei confronti dell’università, sia per la mancata definizione degli sbocchi professionali, sia per il crescente afflusso di giovani provenienti da fuori, che creavano qualche problema alla tranquilla vita di provincia.

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Di lì a pochi anni, queste diffidenze si tramuteranno in aperta ostilità, quando cioè gli studenti, anche a causa degli eventi politici nazionali ed internazionali, daranno inizio alla cosiddetta “contestazione globale” al sistema. Nella questione dell’autonomia regionale, alla metà degli anni Sessanta, un elemento di dinamismo venne portato, come abbiamo già visto, dalla Chiesa trentina.

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L’arcivescovo Carlo de’ Ferrari negli anni della crisi della Regione non aveva assunto posizioni ufficiali, mentre per cercare una mediazione fra trentini e sudtirolesi erano intervenuti altri esponenti del mondo cattolico trentino, come ad esempio don Giulio Delugan, direttore del settimanale diocesano “Vita trentina”, Luigi Menapace, primo presidente del Consiglio regionale, e qualche altro rappresentante della Democrazia Cristiana trentina, più disponibile al dialogo con i sudtirolesi per cercare di uscire dall’impasse istituzionale e per evitare un ulteriore inasprimento del clima di convivenza.

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Quando l’arcivescovo de’ Ferrari si ammalò gravemente, tanto da essere impedito nella guida della diocesi (morirà nel dicembre 1962), nel febbraio 1961 da Roma venne nominato amministratore apostolico di Trento il vescovo di Bressanone Joseph Gargitter, che già qualche anno prima era intervenuto in maniera molto equilibrata sia per deplorare gli attentati terroristici, sia per appoggiare le rivendicazioni dei sudtirolesi nella difesa della propria identità.

Mons. Joseph Gargitter

Mons. Joseph Gargitter

A Trento la nomina di Gargitter, tuttavia, venne accolta con molto stupore. Tra i politici locali la si riteneva una mossa che avrebbe danneggiato i trentini; negli ambienti più riservati della Curia trentina si temeva che il vescovo di Bressanone ambisse anche alla cattedra di S. Vigilio, mentre invece si sperava nella nomina di un vescovo locale (assai benvoluto era il vescovo ausiliare Oreste Rauzi).

Ma Gargitter non pensava a questo. Il suo obiettivo era quello di ridefinire i confini della diocesi altoatesina, visto che la diocesi trentina comprendeva anche parte dell’Alto Adige, cioè tutta la zona mistilingue, Bolzano e una parte della Val Venosta.

Città del Vaticano - Il vescovo Joseph Gargitter (a destra) con Papa Giovanni XXIII

Città del Vaticano – Il vescovo Joseph Gargitter (a destra) con Papa Giovanni XXIII

La questione dei decanati tedeschi appartenenti alla diocesi di Trento era stata sollevata ancora nel 1920 dal vescovo trentino Celestino Endrici, che aveva suggerito alle autorità italiane di aggregare quei decanati alla diocesi di Bressanone, suscitando le ire dei nazionalisti trentini. Nel breve periodo del suo mandato, anche Gargitter fece pressione sul patriarca di Venezia e sulle autorità romane perché fosse creata una diocesi altoatesina omogenea, ridisegnando i confini delle due diocesi.

Celestino Endrici

Celestino Endrici

Il 12 maggio 1963 fece il suo solenne ingresso nella diocesi di Trento il vescovo Alessandro Maria Gottardi, proveniente da Venezia, ma di origini trentine. Il nuovo vescovo all’inizio, malgrado i frequenti scambi di opinione con il presule di Bressanone, non pensava ancora al cambiamento dei confini della diocesi; anzi si riteneva a tutti gli effetti vescovo anche di Bolzano, dove si recava ogni settimana per incontrare sacerdoti e fedeli, con i quali si intendeva attraverso “il linguaggio dell’amore” più che parlando in tedesco, non essendo egli bilingue.

Mons. Alessandro Maria Gottardi

Mons. Alessandro Maria Gottardi

Questo fatto creava malumori e preoccupazioni tra i cattolici di lingua tedesca dell’Alto Adige. Gargitter, da parte sua, continuò a sostenere nelle sedi competenti il progetto di rivedere i confini delle due diocesi, trovando però ostilità ed ostacoli sia a Trento che a Roma, dove addirittura ad un certo momento si pensò di creare una diocesi di Bolzano, che avrebbe sostituito o affiancato quella di Bressanone, cancellando in questo modo secoli di storia.

Dopo mesi di febbrili e concitate trattative, il 6 agosto 1964 due bolle pontificie stabilivano la nascita della diocesi di Bolzano-Bressanone, alla quale venivano aggregati i territori abitati da popolazioni mistilingui prima appartenenti alla diocesi tridentina.

Il duomo di Bressanone

Il duomo di Bressanone

Il provvedimento suscitò qualche sorpresa e malumori diffusi in vari ambienti: a Trento venne ritenuto come un cedimento ai sudtirolesi, mentre altri, con un po’ di romanticismo, rimpiangevano i tempi in cui presso il seminario teologico di Trento venivano a studiare i chierici di Bressanone, favorendo perciò il dialogo e una certa apertura di orizzonti.

A Bressanone invece si guardava con preoccupazione allo spostamento della sede episcopale a Bolzano, mentre altre perplessità erano dovute alla “retrocessione” di Bressanone come sede suffraganea di Trento, e al distacco dei territori ladini di Cortina e di Livinallongo dalla diocesi sudtirolese.

La diocesi Bolzano-Bressanone

La diocesi Bolzano-Bressanone

A parte il modo non sempre lineare con cui era stata portata avanti la vicenda e le ferite procurate, che rimarranno aperte per qualche tempo, i decreti del 1964 sulla ridefinizione dei confini delle due diocesi assunsero ben presto anche un significato politico molto importante, come modello di riferimento per riportare la pace tra i due gruppi linguistici.

In effetti facendo coincidere i confini delle due diocesi con quelli linguistici della popolazione, la Chiesa intendeva offrire un suggerimento da tradurre anche sul piano politico ed amministrativo, come poi sarebbe avvenuto di lì a breve con il Pacchetto.

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Fino all’inizio degli anni Settanta l’annosa questione della tutela della comunità di lingua tedesca in Alto Adige ha rappresentato per l’Italia un problema etnico di non poco conto. Un problema che alla fine è stato risolto per via politica, ma sul quale i servizi segreti italiani misero in atto i loro soliti giochi sporchi, rischiando così di creare nel nord del Paese una sacca di ribellione dagli sbocchi quanto mai incerti.

Dopo l’8 settembre 1943, allorché – vedi precedenti puntate – l’Alto Adige fu incorporato di fatto nel Terzo Reich, molti vi rinunciarono definitivamente, mentre non pochi ritornarono nei luoghi dai quali erano emigrati. La comunità tedesca si ricostituì quasi per intero dopo il 1948 quando molti di coloro che avevano optato per la Germania optarono nuovamente per l’Italia, cosicché nel 1961 su circa 373 mila abitanti altoatesini, 232.717 erano di lingua tedesca, 128.271 di lingua italiana e 12.394 di lingua ladina.

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L’Austria intanto aveva avanzato la richiesta che l’Alto Adige le fosse restituito (novembre 1945), poggiando le sue argomentazioni soprattutto sul fattore etnico. L’Italia invece, pose l’accento su motivi strategico-geografici (il confine naturale del Brennero) ed economici (soprattutto l’impulso dato all’industria locale).

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I Ministri degli Esteri dei Quattro grandi dettero ragione all’Italia (maggio- giugno 46) assegnandole l’Alto-Adige: una decisione che voleva contribuire in una certa misura a equilibrare le perdite subite in altri settori (Trieste, le colonie Briga e Tenda). L’accordo De Gasperi-Gruber – lo ricordiamo – sanciva, qualche mese dopo, questa situazione: esso si impegnava ad assicurare una completa autonomia amministrativa culturale ed economica all’Alto Adige.

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Tra l’altro era previsto il riconoscimento del pieno diritto dei cittadini di lingua tedesca all’ accesso alla pubblica amministrazione, dove veniva introdotto ufficialmente il bilinguismo. L’Assemblea costituente accolse nello spirito e nella sostanza il trattato, concedendo uno statuto speciale alla Regione Alto-Adige (31 gennaio ’48) all’interno della quale la provincia di Bolzano otteneva una larga autonoma legislativa e amministrativa che ne faceva, praticamente, una “regione minore”.

Ciò nonostante molti furono gli scontenti, soprattutto tra gli abitanti di lingua tedesca.  Del  loro  stato   d’animo  si  fece interprete sin dall’inizio il Sudtiroler Volkspartei (Partito popolare del Sud- Tirolo), fondato nel 1946 a Bolzano con l’obiettivo di ottenere l’istituzione di una regione autonoma per la provincia di Bolzano, ma in realtà mirante, almeno in molti suoi esponenti, all’autodecisione e all’annessione all’Austria.

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A dar vigore a queste correnti revisioniste intervenne nel 1956 lo stesso governo austriaco con la presentazione di un memorandum all’Italia contenente lamentele circa i modi di applicazione dell’accordo De Gasperi- Gruber (mancata realizzazione dell’autonomia, della parificazione dei diritti dei cittadini, delle lingue ecc.).

Da questo momento la “nuova questione dell’Alto Adige” andrà avanti a colpi di memorandum e ricorsi all’Onu. Mentre però la battaglia diplomatica si sviluppa, quella ben più cruenta degli attentati dinamitardi dei terroristi altoatesini. Nel periodo “caldo” del terrorismo, il decennio fra il 1956 e il 66, vi furono oltre trecento attentati a centrali elettriche, tralicci dell’alta tensione, stazioni ferroviarie.

La "guerra dei tralicci" cominciò in Alto Adige il 26 settembre 1956

La “guerra dei tralicci” cominciò in Alto Adige il 26 settembre 1956

Dal 1964 vengono prese dì mira le forze di polizia, nove tra carabinieri, guardie di frontiera e finanzieri sono uccisi fra il ’64 e il ’66. Con l’attentato di Cima Valona (23 giugno ’67) la situazione sembra davvero precipitare, i negoziati in corso fra i due paesi ormai da due anni tornano in alto mare.

E’ di questo periodo il piano di provocazione messo in atto dai nostri servizi segreti militari, tendente a creare – con bombe piazzate da agenti italiani, da attribuire all’estremismo altoatesino – un clima di tensione da sfruttare in seguito per una repressione forsennata contro la componente tedesca.

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Fu quella attuata dal SIFAR, una sorta di prova generale di quella che – su scala più ampia – divenne all’inizio degli anni Settanta la strategia della tensione che tanti lutti ha portato al nostro Paese. Questo piano di provocazioni sarà smascherato soltanto molti anni dopo, quando – all’inizio degli anni Novanta – verrà alla luce l’esistenza di Gladio e di altre strutture militari e paramilitari segrete.

Sarà soltanto nel 1971 che la situazione si sbloccherà con l’approvazione da parte dei parlamenti italiano ed austriaco (dicembre) del cosiddetto “pacchetto”, contenente provvedimenti che ampliano ulteriormente i poteri legislativi e amministrativi di Bolzano e Trento.

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