ALTO ADIGE, CACCIA ALL’ORO NAZISTA – 5

a cura di Cornelio Galas

Questa volta parliamo del processo contro il governatore della Banca d’Italia Vincenzo Azzolini tenutosi a Roma nel 1944, a pochi giorni dalla liberazione della capitale da parte degli alleati. Quali erano le colpe di Azzolini? Secondo l’accusa, sostenuta dall’Alta Corte di giustizia contro i crimini del fascismo, presieduta dall’onorevole Mario Berlinguer, Azzolini portava la responsabilità di aver consegnato tutta la riserva aurea della Banca d’Italia all’invasore tedesco.

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Tutto questo era avvenuto, subito dopo l’8 settembre 1943, quando ancora non si era costituito a Sud il nuovo governo italiano e la città di Roma, dopo i combattimenti di Porta San Paolo, era caduta in mano nazista.

Il governo Badoglio, con Vittorio Emauele III e tutta la famiglia, era intanto fuggito dalla Capitale per trasferirsi a Brindisi, insieme ai generali dello Stato Maggiore, al principe ereditario e parte del vecchio governo. Roma, in quel momento, era in mano soltanto a chi si opponeva all’ingresso dei nazisti e al generale Calvi di Bergolo, imparentato con la famiglia reale che si era subito premurato di arrendersi ai nazisti per “evitare guai peggiori.

PIETRO BADOGLIO

PIETRO BADOGLIO

Gli invasori, naturalmente, si erano subito occupati dell’oro della Banca d’Italia per il trasferimento in Germania in base ad un accordo con il governo di Salò. La riserva aurea dello Stato ammontava, in quel periodo, a 117 tonnellate del prezioso metallo, più molte altre tonnellate che il governo fascista italiano aveva letteralmente rapinato alla Banca nazionale Jugoslava e a quella Albanese.

Priebke

Priebke

Quell’oro tornerà – lo abbiamo visto più volte nelle precedenti puntate – in Italia dopo la fine della guerra ad opera delle truppe alleate che lo avevano recuperato in Germania. Ma non tutto. Almeno 25 tonnellate risulteranno sparite definitivamente. Finite dove? Non lo sapremo mai. Certo è che, durante il processo al boia delle Ardeatine Erich Priebke, di quell’oro sparito si parlerà a lungo, perché l’incarico di occuparsi della “faccenda” era stato assegnato proprio alla polizia nazista di Roma, quella comandata da Herbert Kappler che aveva alle proprie dipendenze Priebke che operava a sua volta con il maggiore Karl Hass, anche lui coinvolto nel processo per la strage delle Ardeatine.

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Dell’oro prelevato dai nazisti nel caveau della Banca d’Italia, spedito con un convoglio ferroviario diretto a Nord, una mattina di settembre, aveva anche parlato, nel corso di un interrogatorio, il comandante della polizia nazista e massacratore delle Ardeatine Herbert Kappler. Copia di quell’interrogatorio era stata trovata a Trento, in casa del faccendiere internazionale Glauco Partele, collaboratore dei servizi segreti inglesi e americani.

Il ritrovamento era avvenuto durante una perquisizione ordinata dal giudice istruttore di Trento, Carlo Palermo, che indagava su un traffico di armi. Era subito corsa la voce che almeno due vagoni dell’oro italiano portato via da Roma, si trovavano ancora a Fortezza in Alto Adige, dove tutto l’oro italiano aveva sostato per qualche mese, prima di essere trasferito in Germania.

Carlo Palermo

Carlo Palermo

Così, proprio a Fortezza, erano iniziate anche delle ricerche, ma delle venticinque tonnellate di metallo prezioso sparite, nessuna traccia. Insomma, una specie di giallo incredibile e complicato che, però, aveva visto all’opera proprio il maggiore Karl Hass e altri ufficiali nazisti, Priebke compreso. L’uomo delle Ardeatine, d’altra parte, quando era arrivato in Argentina, formalmente povero in canna, aveva acquistato, come ha raccontato qualcuno, un albergo e alcune proprietà.

Karl Hass

Karl Hass

Hass, invece, non si era mai mosso dall’Italia, forse nella speranza di mettere le mani su quell’oro. Durante il processo per la strage delle Ardeatine, alcuni giornali avevano anche affacciato l’ipotesi che l’oro italiano, mancante all’appello, fosse finito nelle mani di “Odessa”, la celebre organizzazione nazista che aiutava le “SS” a rifarsi una vita lontano dalla Germania sconfitta.

Ipotesi, voci e “soffiate” di ogni genere, ma niente di più concreto. Pubblichiamo il testo del processo contro Azzolini, stampato il 15-10-1944, in un librettino, con il consenso degli alleati e ora depositato nella Biblioteca della Banca d’Italia. Contiene il testo integrale di un accordo poco conosciuto con il quale il governo di Salò aveva consegnato ai nazisti tutto l’oro della Banca d’Italia, quello della Banca Jugoslava e della Banca d’Albania.

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Vincenzo Azzolini

E’ di estremo interesse controllare direttamente dai documenti in che modo i “camerati tedeschi” trattassero “l’alleato italiano” e di come agissero direttamente e con assoluta prepotenza padronale. Per la cronaca, va detto che per Azzolini, nel corso del processo a Roma, il pubblico ministero aveva addirittura chiesto la pena di morte. Lui, si era sempre dichiarato innocente.

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La Corte, dal canto suo, lo aveva ritenuto colpevole e aveva comminato, in prima istanza, trenta anni di reclusione. In appello l’ex governatore della Banca d’Italia era stato, invece, completamente assolto e rimesso in libertà. Ed ecco il testo del librettino che racconta la vicenda della Banca d’Italia e dell’oro consegnato ai nazisti, oltre alle udienze del processo contro l’allora governatore Vincenzo Azzolini.

“La sera dell’otto settembre 1943 la radio annunziava all’Italia e al mondo che il Governo del Maresciallo Badoglio aveva chiesto ed ottenuto dagli Alleati l’armistizio e cessavano perciò le ostilità da parte delle forze italiane. Alla stessa ora si trovavano riuniti al Viminale il Ministro delle finanze Bartolini, il Governatore della Banca d’Italia Azzolini, il Sottosegretario di Stato Baratono i quali apprendevano dalla radio la notizia, ignari sino a quell’istante dello svolgimento delle trattative, dato di fatto molto importante da cui risulta che tanto il Ministro delle Finanze di allora, quanto il governatore della Banca d’Italia non conoscendo lo stato delle trattative, non avevano potuto prender alcuna seria e concreta deliberazione in merito alla salvaguardia delle riserve auree depositate nella sacrestia della Banca a Roma”.

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Nel periodo dal ventisei luglio all’otto settembre vi erano stati bensì degli scambi di vedute tra il Capo del Governo, il Ministro delle Finanze e il Governatore intesi a studiare la possibilità di un trasferimento dell’oro dalla capitale in posto più sicuro, presumibilmente a nord verso il confine svizzero, in maniera da poter più facilmente farlo emigrare oltre confine.

In tale occasione fu richiesto un esatto prospetto dei quantitativi d’oro onde far approntare i necessari barili e recipienti adatti al trasporto, e i mezzi occorrenti che sarebbero poi stati messi a disposizione della banca dallo Stato Maggiore e pare che i prospetti siano stati eseguiti e trasmessi, tramite il direttore generale della Banca, ma la cosa non ebbe allora alcun seguito.

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Gioverà ricordare a tal proposito che nel maggio ’43, essendo ministro delle finanze Acerbo, questi interpellò Azzolini per il trasferimento dell’oro nel Veneto, e precisamente a Bolzano o Verona, ma il Governatore intuendo il pericolo che l’oro potesse passare poi rapidamente in mano ai tedeschi, trovò ogni pretesto per far naufragare tale progetto e fece restare l’oro a Roma.

Nessun addebito pertanto si può muovere al Governatore della Banca per non aver pensato e provveduto, durante il periodo del regime Badogliano, a trasportare fuori Roma l’oro oppure a nasconderlo in altro locale, lasciandolo invece nel suo naturale deposito. Studiare e trovare il modo migliore di salvaguardare le riserve auree, i depositi e il patrimonio della Banca:tale l’assillante problema che torturò la mente di Azzolini e dei suoi collaboratori sin dal mattino del nove settembre, mentre si combatteva alle porte di Roma e nei giorni seguenti nei quali con colpi di scena, scaramucce, bandi e proclami si maturavano le sorti della città.

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Furono tre giornate tragiche di ansia e di terrore durante le quali si incrociavano le notizie più disparate e spesso infondate, sparse per ingenerare se possibile maggior panico e confusione: «gli inglesi sbarcano ad Ostia …», «sono vicini ai Castelli», «sono sbarcati a Napoli», «i tedeschi lasciano Roma e si ritirano oltre il Po».

Purtroppo la realtà era ben diversa: gli Alleati avevano iniziato lo sbarco a Salerno, i tedeschi stringevano la città in un cerchio sempre più ferreo e inesorabile, il governo era sparito, lo Stato Maggiore dissolto, i comandi non funzionavano, la difesa di Roma vacillava e si risolveva in manovre che portavano alla resa ed allo sbandamento di intere divisioni; la vita era paralizzata in ogni attività.

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Nonostante tale situazione e i gravi pericoli ché ne derivavano Azzolini pensò, in quei giorni, ad attuare il trasferimento dei preziosi della Corona, di proprietà dello Stato, il cui valore ascende a parecchie centinaia di milioni che erano in custodia nei sotterranei della Banca.

Con l’aiuto e la cooperazione di alcuni fidi funzionari della Casa Reale fece trasferire le casse con i preziosi alla filiale della banca in piazza del Parlamento depositandoli a nome di privati per non destare sospetti e in tal modo il tesoro fu salvato dalla rapina dei tedeschi che non ne fecero ricerca convinti che il Sovrano avesse pensato, come logico, a portarlo seco quando abbandonava con il Governo la Capitale.

La mattina del 12 settembre uno spiraglio di luce e di speranza parve balenare con il primo manifesto firmato dal Conte Calvi di Bergolo che annuncia il buon esito delle trattative con i tedeschi, proclama Roma «città aperta» e dichiara che i Ministri restano in carica per tutti i loro atti e provvedimenti.

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Il generale Conte Calvi di Bergolo

Da quel giorno, mentre i tedeschi iniziavano il metodico e subdolo gioco che doveva in pochissimo tempo permettere di impadronirsi di ogni centro vitale della città e di instaurare il governo brutale di Kesselring, Azzolini riprendeva subito i contatti con il Conte Calvi di Bergolo che doveva ritenersi il legittimo successore del Maresciallo Badoglio il quale aveva abbandonato la capitatale verso il sud seguito infine dai vari ministri che si guardarono bene dal riprendere i loro posti.

Perciò, dopo tre giorni, il quindici settembre, il Conte Calvi è costretto, forse anche per le pressioni tedesche, a nominare con altro proclama i vari Commissari ai ministeri con poteri e funzioni di ministro. Al Ministero delle finanze è nominato il dr. Cambi con il quale Azzolini discute subito la urgente questione della riserva aurea che certo sarà richiesta dai tedeschi per rinsanguare le loro finanze, e che sarà prudente tentare di nascondere.

KESSERLING

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Dall’otto settembre sono quindi trascorsi esattamente sette giorni: una settimana di vera passione durante la quale mentre si è versato alle porte di Roma tanto generoso sangue di soldati patrioti e cittadini nella impari lotta contro I’invasore, si è determinato il pauroso crollo di tutta la impalcatura dello Stato per mancanza di uomini e direttive e la capitale si è davvero trovata come «nave senza nocchiero in gran tempesta».

Cosa ha fatto Azzolini dopo il quindici settembre, quando con la nomina del Commissario al ministero delle finanze, sentiva alleggerire in parte la tremenda responsabilità che gravava sulle sue spalle, per la salvaguardia delle riserve auree e dell’organismo della Banca che occorreva difendere da manomissioni che si profilavano sempre più minacciose all’orizzonte, specialmente dopo il tracotante discorso di Hitler e la liberazione di Mussolini?

Mussolini a Campo Imperatore, dopo la liberazione da parte dei tedeschi

Mussolini a Campo Imperatore, dopo la liberazione da parte dei tedeschi

È in tale periodo (quindici – venti settembre) che va maggiormente meditata e valutata la sua opera riportandosi e riferendosi alla tragica atmosfera del momento che tutti in Roma hanno vissuto più o meno intensamente a seconda della loro posizione è della loro situazione.

Azzolini è un mortale e così va giudicato: in quelle tremende giornate in cui capi e proclami si avvicendavano come in un turbinoso, caleidoscopio, egli è solo, lontano dalla famiglia che si trovava a Velletri, apprende che la casa dove essa alloggiava è stata distrutta in seguito al bombardamento aereo, non ha notizie dei suoi figli, uno allievo all’Accademia navale di Livorno, l’altro dell’Accademia militare di Modena.

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Vincenzo Azzolini

Riesce solo a sapere che, dopo aver combattuto contro i tedeschi sono riusciti a fuggire; vive perciò giornate di ansia per i suoi cari, in una angoscia che solo chi ha provato può valutare. Se avesse seguito il primo e più urgente impulso, avrebbe chiuso il suo ufficio, sarebbe partito alla ricerca della sua famiglia senza preoccuparsi, come tanti altri capi e funzionari, della sua carica e della sua responsabilità.

L’abbandono da parte di Azzolini del suo posto che allora sarebbe stato giustificato e che, ad ogni modo, non lo avrebbe poi portato in carcere sotto il peso della gravissima accusa dì aver dato aiuto al nemico, sarebbe però stata diserzione davanti al pericolo, e tale gesto ripugnò all’animo del funzionario ligio al dovere e del combattente, ferito e decorato al valore nella guerra del Carso e del Piave.

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Il generale Calvi Bergolo

Egli decise perciò di restare al suo posto mentre pericoli e difficoltà aumentavano sempre di più e di dedicare tutte le sue attività nell’interesse della Banca. Dopo il rifiuto da parte del Conte Calvi di adeguata scorta armata per la protezione e la difesa dei sotterranei nei quali erano depositati i tesori, il sedici settembre, d’accordo con il vice direttore generale Introna e il cassiere capo fu deciso di nascondere la metà del quantitativo dell’oro per sottrarlo alla immancabile rapina da parte dei tedeschi i quali avevano già iniziati i loro passi per una visita alla Banca d’Italia.

Circa sessanta tonnellate d’oro furono infatti ammucchiate e nascoste nella intercapedine che recinge a guisa di un corridoio la sacrestia centrale della banca, previa muratura di una porticina dalla quale si accedeva alla stessa intercapedine, lavoro di cui erano a conoscenza parecchi funzionari e gli operai e che fu ultimato la mattina del venti settembre.

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«Allo scopo di allontanare ogni sospetto di trafugamento furono create e inserite in un copialettere riservato, che aveva dei fogli in bianco, due lettere datate al settembre ’42, e indirizzate alla filiale di Potenza e alla Cassa centrale di Roma dalle quali appariva che l’oro della Banca per circa cinquanta tonnellate, era stato sin dal 1942 trasferito a Potenza.

Naturalmente tale artifizio era sufficiente solo per addormentare i sospetti della soldataglia o degli inesperti, ma non avrebbe potuto aspirare a successo nei confronti di persone pratiche ed esperte le quali non avrebbero mancato di rivolgere la loro attenta indagine sui registri contabili, registri di cui non era possibile fare allora un’alterazione qualsiasi»: tale la deposizione resa da Azzolini nel suo primo interrogatorio, confermata in udienza davanti all’Alta Corte.

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La mattina del venti settembre, a poche, ore di distanza dalla ultimazione della costruzione del muro nei sotterranei della Banca, Azzolini è chiamato d’urgenza dal Commissario alle Finanze dr. Cambi, il quale riferisce che l’Ambasciata tedesca aveva dato un perentorio ultimatum per la consegna dell’oro: o la Banca accedeva alla visita dei funzionari e consegnava l’oro in giornata o sarebbe stato asportato con la forza.”

Azzolini, stupito e atterrito, convocava d’urgenza il Direttorio della Banca e comunicava al commissario Introna, al segretario generale Giacomelli ed al direttore generale Acanfora (che era stato invano ricercato e poi per caso trovato in banca mentre provvedeva a ritirare somme di sua proprietà), i risultati del suo colloquio con il ministro Cambi.

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E informò anche che i tedeschi erano in possesso dei prospetti indicanti la quantità precisa dell’oro giacente in banca, particolare che gli era stato riferito dal direttore generale Acanfora, sebbene questi poi abbia negato tale circostanza.

«Esposi altresì, senza peraltro esprimere il mio parere per non influenzare la decisione dei convocati, che il Comando della città aperta aveva in quel giorno stesso fatto sapere di non avere forza disponibile per osteggiare o respingere eventuali violenze tedesche: a seguito di tale esposizione il commissario Acanfora espresse voto favorevole per la consegna dell’oro indi si allontanò (per andarsi a nascondere come lo stesso teste depose al magistrato), il commissario Urbini espresse l’avviso che se occorreva dare utilmente il proprio sangue per la salvezza dell’oro egli avrebbe fatto ciò stoicamente, ma che, date le circostanze, non si poteva fare altro che piegarsi alla imposizione tedesca; in tal senso votarono altresì tutti i partecipanti alla riunione».

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Così ha deposto Azzolini in istruttoria e ciò hanno confermato i vari testi a carico i quali compresero allora come fosse stato inutile continuare a voler nascondere la parte dell’oro per sottrarla ai tedeschi. Tale la reale situazione dei fatti e degli avvenimenti, e nella breve e drammatica seduta del direttorio forse nessuno pensò ad una altra circostanza di capitale importanza che ancor più doveva convincere della inutilità di tentare di sottrarre parte dell’oro.

Infatti il venti settembre, giorno in cui i tedeschi si presentarono alla Banca, Potenza (che a quanto risulta da Radio Londra cadde solo il ventitré), era ancora in possesso dei tedeschi ai quali sarebbe stato molto facile controllare la verità delle false lettere retrodatate e, avuta da Potenza risposta negativa sulla giacenza dell’oro, avrebbero dato mano libera ai loro guastatori per trovare il nascondiglio più recondito, che nel caso era invece costituito da un muro costruito poche ore prima.

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È d’altronde facile rispondere ai più accaniti accusatori di Azzolini che se anche egli si fosse sacrificato, opponendosi alle richieste tedesche, il suo sacrifico sarebbe stato inutile, perché l’oro sarebbe stato ugualmente asportato in tutta la sua quantità, e il nascondiglio, se non subito, trovato durante i lunghi mesi della occupazione tedesca a Roma.

Quante spie e quante delazioni hanno portato in quel triste periodo alla cattura di gente nascosta, al ritrovamento di tanta merce celata nei luoghi più reconditi e sicuri, quanti saccheggi e rapine sono state consumate con l’aiuto e l’acquiescenza delle autorità fasciste, sono fatti di pubblico dominio. Basti ricordare l’audace impresa che portò al trafugamento dei corpi di reato custoditi al Palazzo di Giustizia per un valore di oltre trecento milioni d’oro e gioielli, con un furto grossolanamente inscenato.

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Dopo la riunione del direttorio e il voto unanime di consegna dell’oro, rimase solo a fronteggiare la situazione criticissima, sotto ogni aspetto, il Governatore, il quale alla richiesta esplicita e perentoria dei tedeschi di consegnare l’oro che sarebbe dovuto partire in aereo oppose un rifiuto, e dopo lunghe conversazioni con i funzionari germanici, creando ostacoli e difficoltà di ogni genere, riuscì a consegnare l’oro in varie riprese e a farlo partire in ferrovia per Milano, con impiegati di banca, e a farlo depositare nei locali della Banca d’Italia della metropoli lombarda.

Era questo un primo passo e un notevole successo ottenuto grazie alla abilità ed alla tattica adottata da Azzolini, in quanto se l’oro fosse partito in aereo, accedendo alle prime richieste dei tedeschi, sarebbe subito andato a finire in terra germanica senza più speranza alcuna di recupero.

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Infatti le due tonnellate e mezzo d’oro fino, della Banca d’Albania, richiesto dai tedeschi, e consegnato dal direttore generale di quella banca senza obiezioni, fu immediatamente caricato sopra aerei i quali dopo poco atterravano in un aeroporto del Reich, particolare di grande importanza per valutare l’opera svolta da Azzolini nelle trattative con i tedeschi conclusa non già con la consegna pura e semplice dell’oro, come essi in un primo tempo pretendevano, ma con il trasferimento dell’oro in territorio italiano, nei locali della stessa Banca d’Italia.

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Trasferimento operato, dopo la riunione del direttorio, per ordini e disposizioni del governo legale che agiva nella capitale, in assenza del Maresciallo Badoglio, in epoca nella quale ancora non era stato creato il governo repubblicano che fu costituito con la nomina dei nuovi ministri solo il venticinque settembre.

Così agendo ed operando Azzolini riuscirà ad attuare in seguito il suo piano per ottenere, superando difficoltà ed ostacoli che sembravano insormontabili, di trasferire in Svizzera da Milano parte dell’oro per complessivo ammontare di circa seicento milioni a saldo di debiti contratti dall’Italia verso la Banca Nazionale Svizzera e la Banca Internazionale dei Regolamenti.

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Tale operazione che richiese un lavoro assiduo e delicato per convincere i tedeschi i quali non volevano assolutamente riconoscere l’impegno assunto dal governo italiano e volevano includere anche tali partite d’oro tra quelle che poi sarebbero migrate verso la Germania, fu condotta a termine nell’aprile del 1944, e lo stesso Azzolini scortò con fidi funzionari i vagoni sino a Chiasso donde furono fatti proseguire per Berna.

«La consegna dell’oro alle due banche in Svizzera per il pagamento di un debito d’onore quando le circostanze tragiche del nostro paese potevano anche spiegare e giustificare la mancanza di fronteggiare l’impegno è giovata e gioverà sempre alla Banca ed all’Italia; è una pagina gloriosa nella storia della finanza mondiale che non sarà dimenticata».

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Così commenta l’episodio lo stesso Azzolini nel suo Memoriale scritto in carcere alla vigilia del processo, e testimonianza migliore del riconoscimento da parte degli stranieri di tale gesto sono stati i telegrammi inviati al Capo del Governo, durante le fasi dell’istruttoria del processo, dal Presidente della Banca Internazionale dei Regolamenti residente in Svizzera e da quello della Banca Nazionale Svizzera.

Dopo che l’oro era stato portato e sistemato a Milano, alla fine del novembre le autorità tedesche iniziarono i passi per trasferire l’oro a Fortezza, adducendo la scusa dei bombardamenti aerei, e Azzolini sollevò subito obiezioni eccependo tra l’altro la incapienza delle sacrestie, la difficoltà dei trasporti ecc. e riuscì momentaneamente nel suo intento.

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Solo dopo molti colloqui, insistenze, e per la nefasta opera del ministro Pellegrini, ligio al governo repubblicano ed agli ordini tedeschi, l’oro fu trasferito a Fortezza e quindi consegnato ai tedeschi per un importo di circa 141 milioni di marchi, in base al trattato tra il governo germanico e quello repubblicano del 10 febbraio 1944.

Questa la copia integrale di tale accordo con il quale Mussolini, prono ai voleri del padrone Hitler, cedeva a quest’ultimo le ultime riserve dello Stato, dopo aver condotto l’Italia alla più completa rovina.

Domenico Pellegrini Giampietro

Domenico Pellegrini Giampietro

“Tra il Governo della Grande Germania, rappresentata dall’Ambasciatore dr. Rudolf Rahn, Plenipotenziario della Grande Germania in Italia, ed il Governo della Repubblica Sociale italiana rappresentato dal dott. Serafino Mazzolini, Segretario generale del Ministero degli Affari esteri e dal prof. Domenico Pellegrini Giampietro, Ministro delle Finanze viene stipulato il seguente accordo: il Governo della Repubblica Sociale Italiana dispone su l’oro libero di proprietà della Banca d’Italia come segue:

1 – il Governo della Repubblica Sociale Italiana consegnerà al Governo della Grande Germania per le spese delle rappresentanze diplomatiche italiane all’estero 100 milioni di lire (centomilioni) 10 milioni di RM in oro effettivo importo che verrà amministrato in qualità di fiduciario da parte del Ministero degli affari esteri del Reich a Berlino. Da tale importo dovrà essere restituito l’importo di 10 milioni di lire un milione di RM in oro effettivo anticipato già a tale scopo da parte del Ministero degli Affari Esteri del Reich.

Buffet organizzato in occasione del rientro dei reduci dalla Grecia a Salò: Mazzolini è il primo da destra

Buffet organizzato in occasione del rientro dei reduci dalla Grecia a Salò: Mazzolini è il primo da destra

2 – Il Governo della Repubblica Sociale Italiana consegnerà al Governo della Grande Germania l’importo di 50.000.000 di lire (cinquantamilioni) 5 milioni di RM in oro effettivo che sarà inoltrato alla Deutsch Reichsbanck in restituzione del credito oro concesso nella stessa misura.

3 – Il Governo della Repubblica Sociale Italiana consegnerà al governo della Grande Germania l’importo calcolato di oltre 260.000.000 (duecentosessantamilioni) 26 milioni di RM in oro effettivo che venne sequestrato in Jugoslavia, in deposito fiduciario e per la distribuzione agli Stati aventi diritto in base alla quota proporzionale stabilita a tale scopo. 4 – Come contributo per la comune condotta della guerra il governo della Repubblica Sociale Italiana mette a disposizione dell’ambasciatore e Plenipotenziario della Grande Germania in Italia l’importo complessivo dell’oro libero di proprietà della Banca d’Italia dopo aver detratto gli importi di cui alla cifra di uno a tre.

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Di questo importo saranno consegnati subito 1.000 milioni di lire (millemilioni di lire) 100 milioni di RM in oro effettivo. Come apprezzamento per il contributo di cui alla cifra 4 del Governo della Repubblica Sociale Italiana e per la comune condotta della guerra l’Ambasciatore e Plenipotenziario della Grande Germania in Italia mette subito dopo la firma del presente accordo a disposizione della Repubblica Sociale Italiana dal fondo spese di guerra un importo di 1 miliardo di lire (un miliardo di lire).

Il Governo della Repubblica Sociale italiana curerà affinché i sopra indicati quantitativi di oro siano consegnati al più presto a Fortezza agli incaricati dall’Ambasciatore e Plenipotenziario della Grande Germania in Italia. Fatto a Fasano 12 febbraio 1944. In due originali lingua tedesca e italiana.

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Mentre a Roma la compagine dello Stato era in pieno sfacelo e con l’avvento della repubblica sociale altri e non meno gravi pericoli si profilavano all’orizzonte, se Azzolini, dopo le tragiche giornate dal venti al venticinque settembre avesse lasciato il suo posto per un comodo rifugio, come tanti altri capi, le conseguenze sarebbero state incalcolabili e gravissime per la Banca e per la Nazione.

Infatti il nuovo ministro delle finanze come già per l’Istituto Cambi e altri Enti finanziari, stava provvedendo alle sostituzioni ed alle nomine di capi fascisti: avrebbe certo pensato, in caso di vacanza del posto di governatore, alla nomina di persona adatta, il che avrebbe provocato il trasferimento della sede centrale al nord con danni irreparabili, così come è avvenuto per i vari Ministeri e tanti altri enti e istituti durante il tragico periodo dell’occupazione tedesca a Roma.

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Vincenzo Azzolini

Azzolini, prevedendo che il suo successore sarebbe stata una creatura dei nazi fascisti dà anche in tale occasione prova del suo coraggio, e della sua abnegazione e decide di restare al suo posto di combattimento.

«Vidi che la Banca d’Italia correva il rischio di veder distrutta l’opera che i miei quattro predecessori avevano svolta ed io tenacemente continuato per render l’Istituto di emissione italiano stimato in Italia e all’estero; prevalso il sentimento ereditario dell’ufficiale d’onore in quell’ora io ho visto che il mio dovere era di rimanere al mio posto per difendere sino all’estremo l’organizzazione della Banca, il suo credito all’estero e il suo personale».

Così nel suo memoriale Azzolini dipinge il suo stato d’animo e precisa i motivi che lo spinsero a sacrificarsi ed a partire per il nord, con pochissimo personale, lasciando intatta l’organizzazione della Banca a Roma con quasi tutti gli impiegati, i quali non furono costretti a giurare alla repubblica e non ebbero molestie e persecuzioni.

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I risultati dell’opera di Azzolini nel periodo dall’ottobre al maggio sono davvero imponenti: egli facendo la spola tra Milano e Roma, tra la sede del governo repubblicano e le altre città, con una serie di tergiversazioni, colloqui con autorità tedesche, cavilli e pretesti riesce ad evitare il trasferimento al nord, e forse in Germania, dell’intero complesso industriale, dell’officina carte valori d’Aquila e di gran parte del macchinario del Poligrafico dello Stato di Roma.

Non solo, ma grazie ai suoi suggerimenti, i tedeschi non riuscirono mai ad ottenere il quantitativo chiesto sin dal primo istante della formidabile cifra di dieci miliardi di lire al mese per le spese d’occupazione.

I tedeschi poterono solo avere una cifra aggirantesi sui sei o sette miliardi mensili, con quale innegabile vantaggio per la nostra circolazione e relativa inflazione è facile immaginare: lo stesso Ministro Soleri nella sua esposizione sulla tragica situazione finanziaria ha ricordato che i tedeschi non sono riusciti ad ottenere il quantitativo voluto di divise per deficienze tecniche, dovute all’opera di sabotaggio di cui fu primo artefice il governatore della Banca d’Italia.

Marcello Soleri

Marcello Soleri

D’accordo con altri funzionari e con i tecnici del Poligrafico, egli fece preparare anche in gran segreto una serie di cliches per i biglietti di banca di vecchio tipo modificato e nasconderla onde all’arrivo degli Alleati, fosse possibile la ripresa della stampa dei biglietti occorrenti per Roma e per l’Italia meridionale, cliches che furono poi trovati in parte e sequestrati dai tedeschi in seguito alla delazione di un funzionario del Poligrafico.

Tra le molteplici e gravi preoccupazioni non dimenticava neppure il suo dovere di buon italiano e patriota nascondendo in banca numerosi ufficiali alla macchia, facendoli figurare quali funzionari regolarmente in servizio e retribuiti, dava sussidi a profughi ed ebrei che aveva anche prima sempre aiutato, in contrasto alla nefasta politica razziale del regime, faceva distribuire viveri nei refettori dell’Istituto a rifugiati, senza le carte annonarie ed elargiva cospicue somme di denaro ai vari rappresentanti ed esponenti il fronte clandestino per acquisto d’armi e di munizioni contro il tedesco invasore.

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Finalmente, dopo tanti mesi, verso la fine di maggio, presentendo prossimo l’arrivo degli Alleati, riusciva a partire da Moltrasio e attraverso varie peripezie, giungeva nella Capitale nascondendosi in un Istituto religioso sino a quando le prime pattuglie dei liberatori entravano a Roma. Due giorni dopo egli era nel suo gabinetto per attendere l’incontro con gli ufficiali della Divisione Finanziaria del Comando militare alleato e consegnare la Banca d’Italia.

Dopo una violenta campagna di stampa nella quale Azzolini era additato come pericolosa personalità del regime fascista, nel pomeriggio del dieci giugno era interrogato, alla presenza dei componenti la Divisione Finanziaria alleata dal Col. Pollock della Polizia Britannica e le spiegazioni fornite parvero soddisfacenti da indurre lo stesso colonnello a non eseguire alcun arresto ma a limitarsi di chiedere al Governatore della Banca di considerarsi prigioniero sulla parola nella sua abitazione.

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Dopo poco tempo fu annunciato che Azzolini era stato rimosso dalla carica e fu nominato Commissario alla Banca d’ltalia il prof. Introna, già vice direttore generale, che aveva partecipato alla drammatica riunione del Direttorio in cui ad unanimità fu deciso di non opporsi alle richieste dei tedeschi relative alla riserva aurea della Banca.

In data primo agosto, l’Alto Commissario Aggiunto per la punizione dei delitti del fascismo, On. Mario Berlinguer emetteva mandato di cattura contro Azzolini, imputato del delitto di cui all’art. 5 del Dec. Legge Luog.le 27 luglio 1944, n. 159 per «aver posteriormente all’otto settembre 1943 in Roma collaborato con il tedesco invasore, facendo al medesimo consegna della riserva aurea della Banca d’Italia»,

Mario Berlinguer

Mario Berlinguer

Azzolini era perciò arrestato e tradotto nel carcere di Regina Coeli dal capitano dei RR.CC. Lasiretti e da un brigadiere della Benemerita. Si iniziò subito la istruttoria del processo affidata al giovane giudice Meloni assistito dal cancelliere Filippucci: sin dal primo interrogatorio Azzolini negò assolutamente non solo ogni e qualunque forma di collaborazione con il tedesco, ma dichiarò invece che tutta la sua attività si era sempre svolta nell’interesse del Paese, nell’intento di salvare la Banca nel suo organismo, e le riserve auree che purtroppo, non per sua colpa, erano migrate, dopo il trasferimento a Milano, in Germania per l’accordo tra Hitler e Mussolini.

HITLER E MUSSOLINI

HITLER E MUSSOLINI

Fece tutto il racconto dei fatti e avvenimenti svoltisi nel periodo dall’otto settembre al venti e nel periodo successivo. Lumeggiando episodi e particolari sull’opera da lui svolta durante le trattative per la consegna dell’oro, per il trasporto a Milano, per la partita inviata in Svizzera, ecc.

Testimoni principali sentiti durante il periodo istruttorio senza giuramento furono: il prof. Introna, vice direttore della banca ed ora Commissario alla stessa, il quale confermò i fatti esposti da Azzolini, ma disse di non ricordare se questi nella riunione del Direttorio dicesse aver saputo che i tedeschi erano in possesso del prospetto con l’esatta quantità dell’oro e non aver mai saputo che tale prospetto era stato inviato dal Banca allo Stato Maggiore in precedenza: ricorda però che tanto il commissario Acanfora, direttore generale della Banca quanto il segretario Giacomelli erano del parere che il celamento dell’oro (dietro il famoso muro) non dovesse più continuare.

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Il commissario Acanfora, dopo, aver riferito sulla seduta del direttorio alla quale prese parte in gran fretta perché aveva premura di sottrarsi alle ricerche dei tedeschi e fascisti, disse di non ricordare aver riferito ad Azzolini la notizia che i tedeschi si erano impadroniti del documento allo Stato Maggiore, ma aggiunse «non poter escludere aver riferito ad Azzolini su tale particolare in un precedente incontro, raccogliendo una voce non certa né controllata che correva in diversi ambienti».

Il segretario generale della Banca commerciale Giacomelli ha deposto di aver appreso da Azzolini, presenti gli altri membri del Direttorio, che i tedeschi si erano impossessati della documentazione presso lo Stato Maggiore e quindi anche del prospetto relativo all’oro, il cassiere capo commissario Urbini, dopo aver ricordato il celamento dell’oro e la costruzione del muro, dichiarò aver passato ad Azzolini, nel periodo prima dell’armistizio i prospetti da cui risultava l’ammontate dell’oro depositato in banca.

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Il Direttore Generale del Tesoro dr. Grassi era presente, ma solo in una prima parte, al colloquio tra il Commissario alle Finanze e il Governatore e sentì il primo dare ordini affinché l’oro fosse trasportavo al nord. Il Generale Rossi, Sotto Capo di S.M. al Comando Supremo, ha deposto di non aver mai richiesto personalmente alla Banca prospetti delle riserve auree e il Generale Aliberti, direttore generale della motorizzazione, dichiarò non aver mai saputo di un progetto per il trasposto dell’oro, aggiungendo però che lo Stato Maggiore avrebbe potuto impartire ordine in proposito anche all’Ufficio Segreteria che aveva mezzi propri, e che nessuno degli ufficiali di tale ufficio, trovasi ora in Roma.

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Di scarsa importanza altri testimoni, impiegati di Banca che hanno fatto apprezzamenti personali sull’opera del Governatore e sul suo atteggiamento fascista durante il regime, e la deposizione del fratello del Colonnello Montezemolo, il quale apprese dal fratello che Azzolini non aveva dato parere favorevole ad un progetto per il trasferimento dell’oro, senza precisarne particolari.

I punti basilari della questione, se cioè i prospetti delle riserve fossero stati fatti in banca (ciò pare risolto dalla deposizione Urbini) e se siano passati allo Stato Maggiore, e se Azzolini abbia appreso prima della riunione del Direttorio che i tedeschi erano in possesso di tali prospetti, sono restati incerti e assai difficili a chiarire. Quali i quesiti giuridici che la difesa ha posto all’Alta Corte di Giustizia? Azzolini è imputato, a sensi dell’art. 5 del Decreto Luog. del 27 luglio 1944 in relazione all’art. 51 Cod. Pen. Militare di guerra di aver consegnato ai tedeschi in Roma le riserve auree della Banca d’Italia.

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Orbene se come si evince dai fatti e dalle testimonianze di parte avversa egli non ha consegnato oro ai tedeschi, ma sebbene, in conformità ad ordini avuti dai suoi diretti superiori Commissario alle finanze e Conte Calvi di Bergolo che rappresentava allora il Capo del Governo, e su voto unanime del Direttorio della Banca, giusta l’art. 26 Statuto della Banca, ha consentito al trasferimento in Italia da Roma a Milano dell’oro, può per tale fatto, diverso da quello contestatogli (consegna ai tedeschi) esser condannato?

L’art. cinque del Decreto luglio 1944 e l’art. 51 del Codice penale militare esigono la prova piena e completa previa indagine scrupolosa – data la gravità del reato e delle pene comminate – del dolo da parte dell’imputato. Da quali dati e fatti si può desumere l’animus nell’Azzolini di voler collaborare con il nemico e dargli aiuto? Occorre provare che egli abbia voluto spontaneamente favorire il tedesco con la consegna dell’oro, il che stranamente contrasta non solo con tutto quanto ha preceduto la data dell’armistizio, ma con il suo contegno posteriore.

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Si deve infatti solo alla sua opera se i tedeschi hanno consentito al semplice trasferimento dell’oro a Milano per ferrovia, e se poi hanno permesso il trasporto in Svizzera di parte dell’oro a saldo dei due debiti contratti dal Governo italiano. Si deve all’opera di Azzolini se la Banca non fu trasferita al nord con impianti e personale, se il macchinario di Aquila restò intatto, se la circolazione cartacea non subì aumenti allarmanti e i tedeschi non riuscirono mai a realizzare neppure per la metà le loro richieste mensili di divise.

Anche il comportamento di Azzolini durante il periodo della occupazione tedesca contrasta singolarmente con la figura del collaboratore e dell’amico dei tedeschi: le sue resistenze al Ministro Pellegrini ed ai tecnici tedeschi per il trasporto dell’oro da Milano a Fortezza e per tutte le loro altre richieste, i suoi viaggi da Roma al nord e nelle varie filiali per cercare di salvare il più possibile tutta l’organizzazione della Banca, e il suo viaggio clandestino alla fine di maggio a Roma onde esser pronto all’arrivo degli alleati a consegnar loro la Banca, sono fatti evidenti e positivi che si impongono nell’esaminare la sussistenza o meno dell’elemento del dolo nel reato.

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Fatti ai quali va aggiunto l’esame sulla personalità dell’imputato, su tutto il suo passato di funzionario ligio al dovere che ha dato prova di saper resistere a pressioni politiche e di partito durante il regime fascista, di combattente, ferito e decorato al valore nella guerra ’15-’18, di personalità finanziaria notoriamente conosciuta e stimata negli ambienti esteri e in quelli anglo-americani.

Ad ogni modo balza evidente e si impone su tutta la vicenda del «caso» Azzolini, lo stato di necessità, che come è noto mira per l’art. 54 cod. pen., a non punire i fatti preveduti come reato commessi sotto l’impulso dello istinto della conservazione ancorché tali fatti ledano interessi altrui, e quindi anche quelli dello Stato.

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Occorrerà pertanto riportarsi in pieno alla tragica atmosfera delle giornate del settembre scorso vissute nella Capitale, al senso di paura che tutti e tutto aveva pervaso, mentre un senso di terrore e di sfiducia aveva invaso ognuno e ben pochi furono, occorre ricordarlo, coloro che seppero addossarsi responsabilità enormi per restare al loro posto, responsabilità che oggi si tramutano in gravissimi capi d’accusa.

La difesa dell’Azzolini, aveva chiesto all’Alto Commissario un termine per acquisire testimonianze di persone residenti al Nord e all’estero relative all’accertamento di circostanze importanti, tra cui il Conte Calvi di Bergolo, il Commissario alle Finanze Cambi, il dott. Vecchia, capo di gabinetto del Governatore, il commissario Cimino, il comm. Fummi, finanziere legato particolarmente ai gruppi anglo-americani, ma l’istanza fu respinta, e accolta solo quella di un rinvio della data di fissazione del dibattimento.

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Quattro giorni prima di tale data Azzolini depositò un lungo e dettagliato Memoriale a sua discolpa, nel quale premise: «Ho cercato nella affrettata ed oltremodo disagiata redazione di detta memoria, evitare sino all’estremo limite di compromettere persone che si trovano in zone occupate dai tedeschi e dai fascisti e, soprattutto una persona la cui testimonianza sarebbe per me preziosa; che arrestata a Roma nel marzo fu portala in carcere nel nord: rinunziando così ad una più completa esposizione dei fatti la cui conoscenza da parte dei giudici mi sarebbe meglio giovata per lumeggiare l’azione di difesa degli interessi dell’Italia che ho piena coscienza di aver fatto contro nemici interni ed esterni».

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Nello stesso giorno era depositata la lista dei testi a discarico: diciannove dei quali otto residenti all’estero e nell’Italia occupata, e la Banca d’Italia si costituiva parte civile patrocinata dall’avvocato Sinibaldo Tino, con eventuale sostituzione dell’avv. Vittorio Angeloni.

La mattina del nove ottobre, a Palazzo Corsini, nella stessa aula del processo Caruso, con lo stesso apparato di forza, macchine fotografiche e cinematografiche in azione hanno preso posto autorità, numerosi giornalisti italiani e stranieri e folto pubblico. L’Alta Corte presieduta da S.E. Lorenzo Maroni è composta dai Consiglieri di Cassazione: Giuseppe Carlizzi, Francesco Arena, Filippo Profeta e dai Giudici e Patini: P.M. il Sost. Proc. Gen. Cristoforo De Villa, Cancelliere De Mitri.

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Al banco della difesa siedono gli avvocati popolari Laj, Fasciotti, Reale, Negarville; supplenti Ragnisco Ettore Botti del foro di Napoli, Annibale Angelucci, Luigi Biamonti e Vincenzo Sechi del foro di Roma. Per la parte civile, alla cui costituzione la difesa non si oppone, sono gli avvocati Tino e Angeloni. Dopo le formalità di rito, Azzolini che è sereno e tranquillo, espone tutte le vicende relative al periodo dall’8 al 20 settembre sino al trasferimento dell’oro da Roma a Milano, le fasi successive al nord, la consegna delle partite alla Svizzera, il trasporto a Fortezza dell’oro rimasto e poi preso dai tedeschi in seguito agli accordi tra Mussolini e Hitler.

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Si diffonde in particolari sulla sua opera in difesa dell’organizzazione della Banca, sul salvataggio delle officine d’Aquila, sulla circolazione monetaria e sulle sue resistenze a fascisti e tedeschi. L’interrogatorio è durato tutta la prima udienza, con le contestazioni del Presidente, della Parte Civile e le domande della difesa ed è stato attentamente seguito dall’Alta Corte di Giustizia.

L’udienza successiva è stata dedicata all’esame dei testi di accusa che hanno in parte rettificato le deposizioni rese in istruttoria, ma non hanno saputo dare utili chiarimenti sui prospetti inviati allo Stato Maggiore e sulla circostanza da chi Azzolini avesse appreso che i tedeschi erano venuti in possesso di tali prospetti. Drammatico il confronto tra il teste Acanfora, già direttore generale della Banca che ha negato aver riferito tale particolare ad Azzolini nella seduta del direttorio, ma ha ammesso averglielo detto in un giorno precedente, e l’imputato che ha invece ribadito quanto da lui sempre sostenuto ed ha ricostruito la scena dell’incontro con Acanfora il venti settembre.

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Il teste però ha mantenuta la sua tesi, negando aver consegnato il prospetto allo Stato Maggiore ed ha esibito un prospetto relativo ai dati e peso dell’oro che, come dichiara per la prima volta, avrebbe chiesto in Banca per suoi studi personali. Il Direttore Gen. del Tesoro comm. Grassi ricorda come il Commissario Cambi dette a lui e ad Azzolini l’ordine di consegnare l’oro e come perciò abbia inviato alla Banca tredici barili d’oro per darli ai tedeschi, suscitando commenti tra il pubblico.

Il Commissario alla Banca prof. Introna si dilunga sulla costruzione del muro, sulle lettere retrodatate (la Parte Civile esibisce una lettera da cui risulta che a Potenza il 20 settembre erano giunte pattuglie alleate), sulla riunione del venti nella quale diede voto favorevole al trasferimento dell’oro, negando aver prima saputo l’esistenza dei prospetti, nonché sulle vicende successive e sul trasferimento al nord dell’Azzolini che vi annuì dietro pressioni e minacce.

Vincenzo Azzolini

Vincenzo Azzolini

I vari impiegati della Banca: Giacomelli, Quattrone, Urbini, Pacetti, Platter, Zinnari e Pierini non si discostano molto da quanto deposto in istruttoria, salvo qualche apprezzamento ed episodio di natura politica a carico di Azzolini. Ribadiscono la efficienza del nascondiglio, ammettono aver potuto fare e fornire prospetti dell’oro ma nulla di concreto posso dire in merito.

Il generale Rossi, conferma che il prospetto non fu mai chiesto né giunse al Comando Supremo di cui faceva parte, ma ammette che potesse esser chiesto e trasmesso allo Stato Maggiore, e fa il nome di altri generali che non furono né sentiti né citati. Il fratello del compianto colonnello Montezemolo riferisce, e così pure il generale Accame, aver appreso di un progetto per trasferire l’oro cui non aderì Azzolini e ricorda che questi fece pervenire lire centomila al fronte clandestino della resistenza.

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Dopo qualche contestazione mossa all’imputato dal Presidente e dalla Parte Civile su episodi di natura politica e sul ritiro di forti somme in Banca da parte di Vittorio Mussolini l’udienza è tolta. Nella terza giornata di udienza sfilano i vari testi a discarico sentiti per la prima volta. Le più importanti deposizioni sono quelle dell’Esarca Rev. Clemente Bardovil, capo di un Istituto Religioso, che ricoverò durante l’occupazione tedesca, raccomandato dalla famiglia Azzolini, S.E. Acanfora il quale gli raccontò tutte le vicende dell’oro e disse che Azzolini aveva da lui appreso come i tedeschi si fossero impadroniti dei documenti presi a lo Stato Maggiore e come in tali circostanze non potesse far altro che accedere alle richieste dei tedeschi.

 Da sinistra: Niccolò Introna, Vincenzo Azzolini e Pasquale Troise.

Da sinistra: Niccolò Introna, Vincenzo Azzolini e Pasquale Troise.

Depone pure molto favorevolmente sui sentimenti della famiglia e dell’Azzolini durante il periodo dall’8 settembre al 5 giugno 1944, sulle erogazioni fatte per rifugiati e ufficiali che trovarono in Banca occupazione e ricovero per interessamento del Governatore, dell’ing. Del Guercio, giunto dall’Aquila, direttore di quell’officina che descrisse il viaggio fatto da Azzolini per far alterare i cliches occorrenti alla fabbricazione dei biglietti della Banca d’Albania, e la tattica adoperata per le riduzioni nella fabbricazione dei biglietti, limitando così la consegna ai tedeschi con vantaggio per l’inflazione, ed evitare il trasporto, chiesto più volte, al nord dei macchinari dell’officina e del relativo personale che restò tutto al suo posto.

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Il Gr. Uff. Terrizzani quale membro del Consiglio Superiore della Banca d’Italia riferisce sulla linea di condotta seguita da Azzolini per resistere alle pressioni fasciste e naziste di trasferimento al nord dell’organizzazione della Banca e sulle varie vicende dell’oro dopo l’otto settembre. Su tali fatti, e in particolare sull’opera del Governatore per poter inviare l’oro in Svizzera a pagamento dei debiti verso la Banca Svizzera e la B.R.I. si diffonde il dott. Guglielmo Mancini, che prese parte al viaggio sino a Berna, e che depone sull’atteggiamento ostile a nazisti e fascisti tenuto sempre da Azzolini durante la sua permanenza al nord.

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Il dott. Mario Pennacchio, che fu Delegato della Banca a Parigi, informa sui sentimenti dell’Azzolini contrari ai tedeschi, sulla estimazione che egli godeva all’estero negli ambienti finanziari e politici francesi e svizzeri anche in momenti particolarmente difficili quale quello delle sanzioni. Su tali circostanze si esprime a lungo anche il dott. Nathan, figlio di Ernesto Nathan, già inviato finanziario a Londra, il quale ricorda gli aiuti dati da Azzolini agli ebrei e l’interessamento svolto per ottener dal Capo del Governo la sua discriminazione che poi fu concessa.

I due testi, dott. Carlo Possenti e rag. Enea Fabrizi, hanno ricordato vari fatti che testimoniano la linea di condotta dell’Azzolini nella sua qualità di Capo dell’Ispettorato del Credito per resistere ad inframettenze di gerarchi fascisti e citano nomi di federali e dirigenti più o meno compromessi, tra cui l’avv. Di Giacomo e Pascolato, nonché l’episodio della Banca di Soncino che fu salvata dalle ingorde brame di Farinacci.

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Ultimi testi sono il comm. Bernardino Nogara, della Città del Vaticano che riferisce il convincimento di Azzolini sulla località più idonea per la custodia dell’oro e cioè Roma, sulle voci corse circa un trasferimento dell’oro in Valicano reso impossibile da ragioni tecniche e politiche, sulla stima che il Governatore godeva all’estero negli ambienti finanziari e l’ing. Eduardo Pfister che curò la costruzione del muro e che riferisce come, dato lo spessore del muro, sarebbe stato facile con percussione individuare il nascondiglio e ricorda come parecchi fossero gli operai e impiegati a conoscenza del celamento, nonché descrive la pianta e la conformazione dell’intercapedine della sacrestia della Banca d’Italia.

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Dopo breve permanenza in Camera di consiglio il presidente legge l’ordinanza con la quale si respinge la richiesta della difesa per l’audizione dei testi residenti al nord e non ammette un teste dell’ultima ora esibitosi a carico dell’imputato.

Siamo alla quinta giornata del processo: cominciano le arringhe e ci avviciniamo alla fine; pubblico più numeroso ed attento che segue il primo oratore l’avv. Tino della Parte Civile il quale, dopo aver premesso che riconosce all’imputato le benemerenze militari e civili nonché la stima che gode negli ambienti finanziari, si propone di risponder a tre domande dalle quali dovrà scaturire la responsabilità dell’Azzolini.

Quali iniziative ha preso per la difesa delle riserve auree, quale il suo atteggiamento davanti alle iniziative e proposte altrui, quali i suoi rapporti dopo l’8 settembre con tedeschi e fascisti? Le risposte illustrate dall’oratore sono che il Governatore che, pur salvò il Tesoro della Corona, rimase passivo per quanto avrebbe potuto giovare al salvataggio dell’oro, che restò interdetto davanti alla proposta Montezemolo e così pure davanti a quella del celamento dell’oro accettandola solo in parte, proposta partita dal prof. Introna di cui l’avv. Tino tesse caldo elogio.

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Alla terza domanda risponde dichiarando che l’imputato avrebbe dovuto resistere all’ordine del Cambi e dire che l’oro era a Potenza e poi fu supino servo della volontà nazi-fascista. Conclude, dopo breve perorazione patriottica, perché sia fatta giustizia e l’oro sia restituito alla Banca che lo rivendica.

Dopo l’intervallo il Proc. Gen. De Villa con breve requisitoria, senza dilungarsi molto nell’essenza della causa, dichiara che la colpevolezza dell’imputato sta nel fatto di esser stato consapevole dell’aiuto apportato al nemico con la consegna dell’oro e, dopo aver ricordato la natura politica dell’Alta Corte, chiede la condanna alla pena capitale in base all’art. 51 cod. pen. militare unica ipotesi prevista, rimettendosi peraltro alla giustizia della Corte per concessione di attenuanti generiche.

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Azzolini che ha seguito con calma e attenzione le due arringhe non perde la sua serena compostezza neppure a tale enorme richiesta. Venerdì tredici è la giornata dedicata alla difesa che ha radunato nella sala dell’Accademia dei Lincei folto pubblico tra cui numerosi avvocati.

L’avv. Angelucci inizia subito con il paragone tra Caruso la belva umana e Azzolini il finanziere per i quali si chiede la pena uguale, la morte, e dopo aver ricordato le tragiche vicende delle giornate successive all’armistizio, sbandamento e crollo pauroso di ogni difesa e assenza di ogni autorità, l’atmosfera di terrore e di morte i cui maggiori responsabili non sono stati neppure arrestati, entra nel vivo della causa.

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Con sottile analisi dei fatti e avvenimenti, ricordando date ed episodi, confutando deposizioni, mettendo in rilievo amnesie e salvataggi, tra cui quello di Acanfora e del Direttore Gen. del Tesoro, ricostruisce tutte le vicende dall’8 al 20 settembre e il periodo successivo, onde dimostrare come non solo ad Azzolini possa imputarsi di aver collaborato con il nemico ma abbia fatto quanto era in lui possibile per salvare il patrimonio della Banca, saldare il debito con la Svizzera, le officine d’Aquila e ridurre la circolazione cartacea, risultati positivi che fanno cadere nel nulla l’ipotesi del tradimento di cui né parte civile né P.M. hanno potuto dare la prova.

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L’oratore, seguito con viva attenzione, conclude ricordando il passato del Governatore, la sua ferita e la sua medaglia nella guerra contro i tedeschi chiedendone l’assoluzione. Il P.M. prende la parola per alcune precisazioni, ma commette il grave errore di chiamare l’Alta Corte nientemeno che Tribunale Speciale suscitando le proteste della difesa e gli ironici commenti del pubblico, mentre il Presidente invoca la serietà agitando più volte il campanello!!!

Dopo breve intervallo l’avv. Botti di Napoli, prende la parola illustrando il profilo giuridico della causa nei suoi vari aspetti. L’art. 51 del cod. militare non è applicabile nel caso perché si riferisce ad aiuto al nemico solo in relazione ad operazioni belliche, né si può contestare l’art. 54 dello stesso codice che prevede intelligenze o corrispondenze, dovrebbe la Corte riferirsi se mai all’art. 248 cod. pen. che punisce il cittadino il quale in tempo di guerra favorisce il nemico economicamente.

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Ma per tutti questi reati occorre la prova rigorosa del dolo specifico, la volontà e la consapevolezza di portare aiuto al nemico e danneggiare la Nazione, prova che nel caso non è stata non solo raggiunta ma neppure si è tentato di dimostrare. La mattina del quattordici, dopo una settimana di serrati dibattiti l’avv. Botti riprende e termina la sua fatica, mette in evidenza la fragilità del nascondiglio dell’oro e la poca attendibilità del trucco delle lettere retrodatate.

Quindi esamina lungamente i benefici apportati al Paese per la tattica di Azzolini: pagamento del debito alla Svizzera, salvataggio delle officine d’Aquila e dell’organismo della Banca con personale e materiale, riduzione della circolazione e dimostra come il presunto traditore fosse invece inviso a tedeschi e fascisti, vigilato da loro e tenuto come ostaggio.

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«Dite all’Italia, dite al mondo – conclude – se nel dissolvimento di tutti i poteri e nella catastrofe nazionale, la consegna dell’oro ai tedeschi debba avere come capro espiatorio, come vittima Azzolini. Vi dissi ieri che la difesa di Azzolini è nella legge, vi dico oggi che è anche nelle vostre coscienze.

I primi gruppi di resistenza ebbero un motto superbo: Giustizia e Libertà. Binomio magnifico; dica la vostra sentenza che non vi è libertà senza giustizia!». L’arringa veramente superba che ha ricordalo le difese dei più celebri Maestri del Foro Napoletano, è terminata alle dieci e trenta. L’Alta Corte si ritira a deliberare; passano due ore di attesa trepidante nell’aula e nelle sale adiacenti dove sosta il pubblico, i giornalisti e molti avvocati.

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Nella stanzetta attigua Azzolini, che ha mantenuto sempre un contegno calmo e sereno durante tutta la settimana e che, invitato dal Presidente, dopo le ultime parole del difensore risponde «mi rimetto a quanto hanno detto i miei difensori e mi affido al senso di giustizia dell’Alta Corte» ora si intrattiene con I’avv. Sechi che poi raggiunge fuori Palazzo Corsini i famigliari dell’ex Governatore.

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Alle dodici e mezzo, rientra l’imputato nell’aula; si dispongono i carabinieri, si piazzano i microfoni della radio e l’usciere annunzia «entra l’Alta Corte di Giustizia». Il Presidente dopo pochi istanti, legge la sentenza con la quale Vincenzo Azzolini è riconosciuto colpevole del reato ascrittogli con le attenuanti generiche e condannato ad anni trenta di reclusione, alle spese ed al risarcimento dei danni alla parte civile.

Come è finita la storia di Azzolini? Rinchiuso a Regina Coeli, divenne vicedirettore della biblioteca del carcere. Il 6 agosto 1946 Giuseppe Paupini, segretario della Nunziatura apostolica, intervenne presso Alcide De Gasperi perché fosse riesaminato il caso.

Mons. Giuseppe Paupini

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La Corte d’Appello di Roma, il 28 settembre 1946, dichiarò estinto per amnistia il delitto a lui, imputato dall’Alta Corte, Azzolini quindi fu liberato e si ritirò a vita privata. Infine il 14 febbraio 1948, in un clima più disteso, la Corte di Cassazione annullò la sentenza dell’Alta Corte con la motivazione che “…  il fatto non costituisce reato“. Nato a Napoli, il 5 dicembre 1881, Vincenzo Azzolini morì a Roma il 2 agosto 1967.

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