a cura di Cornelio Galas
Vediamo, in questa puntata, cosa succede in Trentino Alto Adige fino ai primi anni Sessanta. Le cose cominciano a mettersi male – rispetto al clima pacifico che nei primi tempi aveva caratterizzato la vita della Regione autonoma – verso la metà degli anni Cinquanta. Per vari motivi.
Sul piano internazionale e nazionale alcuni fatti ebbero ripercussioni negative anche sulla vita della Regione. Nel 1954 la Germania federale era entrata a far parte del Patto Atlantico, ponendo le basi per una sua rinascita politica ed economica.
A questa Germania, di nuovo forte e prosperosa, iniziò a guardare l’Austria, che a sua volta il 15 maggio 1955 era riuscita a ottenere il Trattato di Stato, liberandosi in questo modo dal controllo degli Alleati.
Il nuovo governo austriaco, formatosi nel giugno 1956 e guidato da Julius Raab, avviò passi diplomatici formali presso il governo italiano chiedendo che le disposizioni dell’Accordo di Parigi del 1946 a favore dei sudtirolesi fossero attuate in maniera completa.
Per questo motivo all’interno del governo austriaco venne creata la carica particolare di sottosegretario agli Esteri per gli affari sudtirolesi affidata a Franz Gschnitzer, uno dei capi del “Berg Isel Bund”, un’associazione fondata ad Innsbruck nel marzo 1954 e in breve tempo passata su posizioni oltranziste nella difesa delle richieste degli altoatesini di lingua tedesca.
L’Austria, quindi, come nota lo storico Pietro Pastorelli, aveva decisamente scelto la politica della “rivendicazione” nei confronti dell’Italia riguardo alla questione dell’Alto Adige. Ma anche in Italia stavano emergendo correnti nazionalistiche, favorite dalla spinosa questione di Trieste, la città ancora contesa tra Italia e Jugoslavia.
Nel momento culminante delle trattative con gli Alleati, il nuovo presidente del Consiglio, Giuseppe Pella, affermò che l’unico sistema democratico per risolvere la questione di Trieste era quello del plebiscito. Questo creò forti ondate di emozione collettiva in Italia, ma anche la reazione dei deputati sudtirolesi in Parlamento, i quali affermarono che se il plebiscito valeva per Trieste avrebbe dovuto valere anche per l’Alto Adige.
Da quel momento, sia in Alto Adige che al di là del Brennero, ripresero vita le correnti più oltranziste, che tornarono a rivendicare per i sudtirolesi il diritto all’autodecisione (Selbstbestimmung), accusando la classe politica trentina di aver sempre governato senza tener conto delle richieste dei sudtirolesi.
Di più. Il canonico Michael Gamper, assai stimato e quasi venerato dalla popolazione sudtirolese come un “padre della Patria”, nell’anniversario della marcia fascista su Roma, il 28 ottobre 1953 aveva addirittura parlato di Todesmarsch (marcia della morte) per il Sudtirolo e di genocidio, ricordando il progressivo impoverimento economico ed etnico della provincia di Bolzano.
Gli esponenti della Volkspartei iniziarono ad esprimere in maniera sempre più forte la loro insoddisfazione, accusando soprattutto il presidente Odorizzi di comportarsi come un “prefetto di Roma” e denunciando la classe politica trentina di aver amministrato la Regione senza tener conto dei bisogni della minoranza sudtirolese, facendosi forte della maggioranza numerica in Consiglio regionale.
SUDTIROL: LA MISSIONE DI GAMPER – FILM RAI
In realtà, anche con il favore di mutamenti internazionali, fra i sudtirolesi stava riemergendo la vecchia nostalgia per l’autodecisione, sopita fino allora sotto le forme, accattivanti e anche, almeno fino allora, rassicuranti, dell’autonomia regionale.
Di fronte a questa nuova situazione, la classe politica trentina non brillò certamente per lungimiranza e capacità di mediazione, a parte poche iniziative assunte isolatamente da qualche uomo politico o rappresentante del mondo ecclesiale.
Formalmente tutto si giocò attorno al famoso articolo 14 del primo statuto di autonomia, che così recitava:
“La Regione esercita normalmente le funzioni amministrative delegandole alle Province, ai comuni e ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”.
La Volkspartei considerava questo articolo come base di un’autonomia di tipo provinciale, per cui continuava a chiedere deleghe per la provincia di Bolzano; il presidente Odorizzi, invece, partendo da un’interpretazione sottilmente giuridica di quell’articolo, in realtà lo svuotava di ogni potenzialità concreta.
Quando dopo varie schermaglie si decise di fare ricorso alla Corte Costituzionale, essa riconobbe che la ragione stava dalla parte di Odorizzi. Ma questa decisione inasprì ancora di più il conflitto fra trentini e sudtirolesi.
La Volkspartei accusò la classe politica trentina, e in particolare la Democrazia Cristiana, di non voler applicare l’articolo 14 dello statuto e pertanto poco per volta si disimpegnò dal governo regionale. Nel 1955 fu l’assessore sudtirolese Hans Dietl ad uscire dalla Giunta regionale.
Il 17 novembre 1957, dopo i primi attentati terroristici, il partito sudtirolese organizzò una massiccia manifestazione di protesta a Castelfirmiano, chiedendo a chiare lettere la separazione di Bolzano da Trento (molti cartelli recavano la scritta Los von Trient, “via da Trento”).
I tempi delle cortesie stavano per finire. Infatti nel febbraio del 1959 i rappresentanti sudtirolesi uscirono dalla Giunta regionale e passarono all’opposizione. In questo modo il sogno di Degasperi e di Gruber di creare una pacifica convivenza tra i gruppi linguistici della regione Trentino-Alto Adige, dopo dieci anni si era già infranto.
Come stava accadendo per il mondo occidentale sotto la cappa della “guerra fredda”, così anche a questo grave periodo di crisi per la Regione corrispose paradossalmente un periodo di progresso sul piano economico.
Lo storico sudtirolese Claus Gatterer parla a questo proposito di “indisturbata normalità”, alludendo al fatto che alla fine degli anni Cinquanta, in piena crisi politica, in regione erano arrivate le prime ondate del cosiddetto “miracolo economico”, che aveva interessato il resto dell’Italia già negli anni del centrismo degasperiano, ma che raggiunse il suo apice soprattutto come conseguenza dell’avvio del processo di industrializzazione.
Lo sviluppo industriale in Trentino avvenne con un certo ritardo rispetto al resto dell’Italia. A favorirlo furono senza dubbio la presenza di abbondante manodopera e la vicinanza con i centri di produzione dell’alta Italia e con i mercati centroeuropei.
Non si può inoltre dimenticare il clima sindacale relativamente tranquillo, ma soprattutto l’intervento dell’ente pubblico regionale che portò un sostegno diretto e sostanziale allo sviluppo dell’industria.
Ancora sotto la guida di Odorizzi e poi con la successiva Giunta di Luigi Dalvit nel 1961, furono presi provvedimenti importanti in questo senso, come ad esempio l’approvazione della legge sulle azioni al portatore, con la quale si intendeva attirare nella provincia capitali e imprenditori da altre regioni, l’istituzione del Mediocredito per il finanziamento delle medie e piccole imprese, l’offerta a prezzo ridotto dell’energia elettrica alle nuove industrie, i notevoli contributi concessi ai comuni e ad altri enti pubblici per l’acquisto e l’apprestamento di aree destinate agli investimenti industriali, la progettazione dell’autostrada del Brennero, cui era legata anche la proposta, lasciata poi cadere, del traforo del Brennero.
Anche per quanto riguarda la vita sociale, i primi anni Sessanta in Trentino portarono una ventata di novità. Il tenore di vita migliorò in maniera sensibile.
Molti trentini impiegavano il tempo libero sfruttando le nuove forme di divertimento (l’uso dell’automobile, il nuovo ballo del Rock and roll reso celebre da Elvis Presley, le vacanze all’estero, la moda giovanile con il lancio dei blue jeans, gli sport invernali favoriti dall’apertura di vari impianti di risalita), tanto che un’indagine dell’Istat definiva Trento come città “quasi ricca”.
Come nel resto d’Italia, anche nel Trentino insomma si viveva con grande ottimismo nel clima del “miracolo economico” o del Welfare State, nel senso che il benessere portato dalla tecnica e dalla produzione industriale aveva delle ricadute positive anche sulla classe media della popolazione, favorito da un sistema politico che sul piano nazionale aveva scelto l’apertura alla sinistra moderata e riformista.
La Regione autonoma, invece, stava procedendo tra difficoltà sempre maggiori, anche perché l’Austria aveva posto la vertenza dell’Alto Adige all’attenzione internazionale con un duplice intervento all’ONU nel 1960 e nel 1961, in cui chiedeva l’allargamento di poteri per la provincia di Bolzano.
La risposta dell’organismo internazionale rimandava ogni decisione alla buona volontà dei due Stati interessati alla questione, per cui da allora tra Italia ed Austria prenderanno il via nuovi negoziati bilaterali, malgrado l’intensificarsi degli attentati, che culmineranno nella “notte dei fuochi” dell’11 giugno 1961 (in una sola notte si verificarono in Alto Adige ben 47 attentati; in totale gli attentati compiuti in dieci anni saranno 323 con 23 morti: approfondiremo questo periodo buio nelle prossime puntate).
Come scrive Pastorelli, insomma, dopo la fase della “rivendicazione”, stava per iniziare quella della “conciliazione” tra Italia ed Austria per risolvere la questione sudtirolese.
A Roma, infatti, il 13 settembre 1961 il presidente del Consiglio Mario Scelba insediò una commissione di 19 esperti, composta dai rappresentanti del governo italiano, dei partiti trentini, degli altoatesini e dei ladini, che aveva il compito di rivedere lo statuto del 1948, adeguandolo alle nuove richieste.
La commissione lavorò tre anni in maniera molto intensa, compiendo frequenti viaggi nella regione per incontrare gli esponenti locali della vita politica e civile e discutere con loro una nuova forma possibile dell’autonomia.
Al termine di questo lungo lavoro, nel maggio 1964, la commissione presentò al governo italiano una lunga relazione, che in sostanza prevedeva il mantenimento dell’ente regionale, come elemento di raccordo tra le due province di Trento e di Bolzano, anche se alle due province venivano delegate molte competenze in vari settori.
Nel settembre 1966 il governo italiano, presieduto da Aldo Moro, dopo una fitta serie di colloqui bilaterali con Vienna, approvò una serie di misure, passate sotto il nome un po’ singolare di “Pacchetto”, che modificavano in maniera sostanziale lo statuto originario dell’autonomia.
Le norme del Pacchetto recepivano fondamentalmente le proposte della commissione dei 19, in quanto molte competenze venivano trasferite dalla Regione alle due province di Trento e di Bolzano, anche se l’ente regionale non era del tutto svuotato delle sue prerogative. Come allora si disse, la Regione venne ristrutturata in maniera da creare due case sotto uno stesso tetto.
Il Pacchetto si concludeva con un “calendario operativo”, che definiva modi e tempi della realizzazione delle nuove disposizioni. Innanzi tutto andava elaborato e promulgato dallo stato italiano un nuovo statuto di autonomia.
In secondo luogo si sarebbe formata una commissione di dodici membri per stendere le norme di attuazione del nuovo statuto di autonomia, che avrebbero dovuto essere emanate entro due anni dalla sua approvazione.
Infine, dopo il varo dell’ultima norma, l’Austria, riconosciuta Paese tutore dell’Alto Adige, avrebbe dovuto rilasciare la cosiddetta “quietanza liberatoria”, che avrebbe posto fine alla controversia dell’Alto Adige, oggetto delle risoluzioni dell’ONU.