“LAGER” PER EBREI IN ITALIA – 3

a cura di Cornelio Galas

L’analisi della definizione di «ebreo» nella politica antisemita dello Stato fascista ha riguardato, come abbiamo visto finora, l’elemento razziale, ovvero l’appartenenza a una determinata razza secondo criteri naturali e biologici, nonché politici e culturali.

Analizzando la normativa del 1938 e le successive circolari prodotte a sua integrazione dalla Demorazza tra il 1938 e il 1943, Michele Sarfatti insiste proprio su questo aspetto: le leggi anti-ebraiche classificavano una persona appartenente alla razza ebraica in base alla razza dei genitori e così via indietro nelle generazioni fino ad arrivare a un punto non ben definito nel passato, dove si dava per scontata la coincidenza razza ariana/religione cristiana e razza ebraica/religione ebraica.

Il criterio principale di classificazione era dunque il principio della trasmissione ereditaria, determinante per stabilire la quantità di sangue ebraico presente in un individuo: avere più del 50% di sangue semita significava cioè essere considerati di razza ebraica.

La classificazione delle persone non destava problemi nel caso di figli di genitori entrambi appartenenti a un’unica razza (ariana o ebraica), sebbene dopo l’accertamento fatto su basi parentali intervenissero altri fattori individuali (storici, sociali, religiosi) a determinare una eventuale discriminazione.

Nel caso in cui invece ci si trovava di fronte a figli di matrimoni “misti” (un genitore ariano e uno ebreo), la questione si complicava. Non essendo infatti prevista nella normativa una specifica categoria di “misti”, a differenza della legislazione nazista, la posizione delle persone nate da queste unioni dipendeva da altri elementi o caratteristiche individuali.

Innanzitutto dalla nazionalità dei due genitori: l’essere figlio di stranieri, in questo caso, rappresentava un fattore peggiorativo nel processo di valutazione di appartenenza alla razza ebraica.

Tra i vari punti del famigerato articolo 8 del Regio decreto legge del 17 novembre, è scritto infatti che i figli di un italiano ebreo e di uno straniero erano considerati sempre di razza ebraica, mentre colui che era nato da genitori entrambi di nazionalità italiana, di cui solo uno di razza ebraica, poteva essere classificato anche non ebreo (qualora al 1° ottobre 1938 avesse professato una religione differente da quella ebraica).

La legislazione del 1938 presentava dunque un carattere xenofobo, che si riversò anche nelle misure prese dal  governo nei mesi successivi all’emanazione delle disposizioni di novembre.

A livello pratico, la politica nei confronti degli ebrei stranieri si tradusse in una precisa attività persecutoria, che non si limitava a contemplare per il momento, come nei confronti degli ebrei italiani, solo l’estromissione dalla società e dalla vita pubblica, ma si prefiggeva fin da subito il radicale obiettivo della loro scomparsa dal Regno, da attuare mediante l’emigrazione e l’espulsione all’estero.

L’atteggiamento ostile contro gli ebrei stranieri tenuto dal governo fascista dopo il 1938 sorprese quanti avevano trovato rifugio in Italia durante gli anni Trenta. La maggior parte di questi erano ebrei tedeschi, che avevano lasciato la Germania con l’avvento del nazismo.

Nella prima metà degli anni Trenta, il regime non ne aveva impedito l’ingresso in Italia, anzi aveva rilasciato, senza troppe difficoltà, le autorizzazioni necessarie e non aveva mai revocato il permesso di immigrazione.

In generale, furono applicate le leggi liberali in vigore prima del fascismo. Il fenomeno migratorio tra il 1934 e il 1938 non fu certo di massa: le statistiche effettuate dagli organi ministeriali e dai comitati di assistenza ebraica del periodo fanno ammontare a meno di 2.000 le persone di confessione ebraica giunte in Italia tra il 1934 e il 1936.

Il censimento degli ebrei stranieri, voluto nel settembre 1938, calcolava vi fossero quasi 3.000 ebrei tedeschi arrivati dopo il 1933.

D’altronde, in assenza di una legislazione ant-iebraica in Germania fino al 1935 e quindi di appositi segni di riconoscimento (come la segnalazione di appartenenza alla razza ebraica sui documenti d’identità), era difficile distinguere gli ebrei dai non ebrei venuti dalla Germania.

Alla base dell’atteggiamento  liberale del governo fascista nella prima metà degli anni Trenta vi erano considerazioni d’ordine politico ed economico. Tra il 1933 e il 1934 italiani, francesi e inglesi si schierarono contro le mire espansionistiche tedesche sull’Austria, periodo culminato con il “fronte di Stresa” del 1935.

L’uccisione del cancelliere austriaco Dolfuss a opera di fanatici nazisti (1934) aveva provocato una decisa reazione di Mussolini, il quale aveva perfino ordinato di schierare le truppe italiane alla frontiera del Brennero. L’accoglienza, o meglio, la non opposizione all’ingresso in Italia di emigrati tedeschi era dunque in parte conseguenza dei contrasti del periodo tra Roma e Berlino.

Allo stesso tempo, però, vi erano anche motivi di opportunità economica, legati non soltanto al patrimonio che gli emigranti ebrei avrebbero portato con loro, soggetto in realtà alle limitazioni degli accordi internazionali tra i due paesi: dalle zone industrializzate della Germania poteva infatti arrivare gente ricca e specializzata, come imprenditori o dirigenti di aziende.

Le facilitazioni all’ingresso in Italia si spiegavano, infine, col fatto che la penisola era un paese di transito, dove gli emigranti, se provvisti di visto e documenti di viaggio, passavano per trasferirsi altrove.

Chi veniva a stabilirsi in Italia sapeva certamente di imbattersi in una dittatura, dove qualsiasi manifestazione politica antifascista era vietata. Coloro che abbandonavano la Germania non solo per sfuggire alla violenza nazista, ma anche spinti da convinzioni ideologiche (intellettuali, artisti, lavoratori ecc.), una volta entrati nel territorio italiano erano pertanto obbligati a rinunciare all’attività politica.

Quella degli anni Trenta dalla Germania verso l’Italia non fu dunque un’emigrazione politica, perché questa si indirizzò piuttosto su altre mete: Stati Uniti, Francia e Palestina prima di tutto.

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E il governo fascista, da parte sua, molto probabilmente considerava una garanzia la sua organizzazione statale autoritaria: l’essere una dittatura,  infatti,  poteva  dimostrarsi  un  elemento sufficiente a scongiurare l’ingresso di antifascisti e di oppositori politici.

L’atteggiamento del governo fascista cominciò a mutare a partire dalla metà degli  anni Trenta. Questo cambiamento va letto all’interno di un duplice ordine di ragioni: da una parte gli ebrei provenienti dal Reich iniziarono a crescere di numero; dall’altra era in corso un riavvicinamento tra lo Stato nazista e l’Italia di Mussolini.

Nel 1936 la comunità d’intenti fra i due regimi fu suggellata dal conflitto in Spagna; nello stesso anno fu stipulato un accordo di collaborazione tra la polizia italiana e quella tedesca (la Gestapo).

Questo accordo non prevedeva alcuna misura di controllo nei confronti degli ebrei tedeschi presenti in Italia, ma era in realtà incentrato per lo più sull’attività di sorveglianza e persecuzione degli oppositori politici.

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Un decisivo cambiamento si ebbe dopo l’Anschluss, a seguito del quale aumentò considerevolmente il flusso migratorio dai territori appena annessi al Reich: il governo  fascista rispose vietando l’ingresso in Italia agli ebrei austriaci.

Prima della definitiva promulgazione delle leggi razziali, un altro avvenimento determinò un “salto di qualità”  nella politica contro gli ebrei stranieri nel Regno.

In occasione della visita di Hitler in Italia, la polizia italiana procedette all’arresto di circa 500 esuli austriaci, tedeschi e polacchi, per la maggior parte ebrei, sulla base di indicazioni fornite dalla Gestapo. Questa azione fu giustificata come misura di sicurezza contro individui sospetti di attività politica.

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Il decreto legge di espulsione del 7 settembre 1938, noto sotto il nome di Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri, era quindi il punto di arrivo di un processo iniziato qualche anno prima e culminato con la visita di Hitler: in questa occasione, infatti, il ministero dell’Interno prese in considerazione l’ipotesi dell’espulsione in alternativa agli arresti effettuati dalla polizia.

Il decreto di settembre stabiliva che gli ebrei stranieri non potessero più fissare stabile dimora in Italia, in Libia e nei possedimenti nell’Egeo. L’articolo 4 del decreto ingiungeva a tutti gli ebrei stranieri che avessero cominciato il loro soggiorno in Italia dopo il 1 gennaio 1919 di lasciare il paese entro sei mesi (ovvero entro il marzo del 1939) per non incorrere nel provvedimento d’espulsione.

La definizione di ebreo risultava essere quella classica: agli effetti del presente decreto legge è considerato ebreo colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica.

I figli di matrimoni “misti” erano quindi esclusi dalla misura di espulsione. Due mesi dopo, il provvedimento fu inserito e inglobato nelle leggi del 17 novembre, all’interno delle quali, come abbiamo detto, la classificazione diventava più ampia e contemplava il criterio aggravante della nazionalità straniera nel caso dei nati da unioni miste.

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Era stabilito anche il divieto di lavorare per gli ebrei stranieri, da applicare contemporaneamente alla misura di espulsione (ovvero dal 12 marzo 1939).

Il regime fascista, dunque, da un lato invitava i cittadini stranieri di razza ebraica a emigrare  in un altro paese entro un breve periodo di tempo; dall’altro mostrava i denti, minacciando l’espulsione per chi non fosse emigrato e chiudendo le frontiere, onde evitare l’arrivo di nuovi indesiderati o il rientro di persone già allontanate in precedenza.

I provvedimenti legislativi e amministrativi mettevano in pratica quelle che fino a quel momento erano rimaste solo rivendicazioni della propaganda, che traevano alimento dall’orientamento antisemita diffuso in Europa e in Italia.

Uno Stato alla ricerca dell’unità, della purezza spirituale e storica della sua comunità nazionale doveva obbligatoriamente valutare e tenere sotto controllo l’elemento estraneo rappresentato da persone che non appartenevano, secondo questa teoria, a quella nazione.

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Osserva Nicola Labanca che, a differenza del razzismo coloniale, l’intolleranza per lo straniero non prevedeva generalmente, come nei confronti del suddito, una politica basata sul dominio e sul potere, giustificata da una supposta inferiorità di chi si aveva di fronte: il pregiudizio xenofobo, cioè, non trovava sempre sostegno da elementi d’ordine razziale.

Le leggi antiebraiche del 1938 unirono invece queste due componenti. Ne uscì un «razzismo xenofobo» che conteneva in sé due elementi: l’attenzione (e la paura) per un elemento estraneo alla comunità nazionale, e motivi di inferiorità razziale.

Questo mix, formato da fattori biologici portati a supporto di motivazioni storiche e culturali, provocò quindi due ordini di provvedimenti.

Gli ebrei italiani, sebbene estranei alla stirpe pura nazionale perché  di razza inferiore e non assimilabile, erano pur sempre nati in Italia e avevano condiviso in parte la storia di questo paese: seguendo un criterio meramente razziale, dunque, il loro “sangue” era diverso, ma la “terra” era comune con il resto degli italiani.

Quasi fossero “sudditi” sotto il potere fascista (nati in Italia, ma in una terra che non era la loro), erano soggetti a una restrizione della libertà e della presenza nella vita civile, per evitare che in futuro continuassero a mischiarsi con la società italiana e soprattutto con i “veri” cittadini italiani.

In realtà anche per loro era stato previsto l’allontanamento dal Regno: dall’autunno del 1938 in poi, il governo adottò un orientamento volto a facilitare e a non ostacolare l’espatrio, ma non prese misure ufficiali.

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Quanto agli «ebrei stranieri», invece, considerati ora una vera e propria categoria a parte, non esisteva nessun elemento che li unisse alla comunità nazionale italiana e che ne giustificasse la presenza in Italia, né storico-culturale, né tanto meno razziale.

Di conseguenza, l’allontanamento fisico dal Regno risultava essere un provvedimento coerente, nonché l’unico da prendere.

Il passaggio dalla legge alla sua applicazione poneva tuttavia dei problemi concreti non previsti. Ben presto, infatti, anche le autorità governative si accorsero che il progetto di allontanamento e di espulsione degli «ebrei stranieri» non era attuabile in modo così lineare come lo era a livello teorico.

Ai problemi burocratici legati ai tempi di rilascio dei visti si aggiungeva, elemento non secondario di certo, la questione dell’accoglienza di questi individui negli altri paesi.

La conferenza di Evian convocata nel luglio 1938 dal presidente americano Roosevelt proprio per discutere dell’accoglienza degli ebrei in fuga dalla Germania nazista non aveva portato ad alcun accordo.

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All’inizio del 1939, di fronte all’aggressiva politica tedesca e all’avvicinarsi di una guerra che appariva sempre più inevitabile, ogni paese europeo, già aggravato dagli effetti della crisi del 1929, si stava dunque organizzando per limitare l’ingresso indiscriminato di profughi, ebrei e non.

Il regime fu posto subito davanti all’evidenza che non aveva senso, quindi, inviare persone alla frontiera francese, svizzera o jugoslava, se questi governi si rifiutavano di accoglierle.

Così, già nel marzo 1939 Mussolini decise, in quanto ministro dell’Interno, di sospendere il decreto di espulsione a favore di un allontanamento più graduale, diluito in un arco di tempo più ampio rispetto ai pochi mesi inizialmente considerati.

Come osserva Klaus Voigt, il Duce: a fine febbraio (1939, Mussolini) aveva ormai deciso di non applicare in pieno il decreto di espulsione, che in effetti costituiva un tipico esempio di politica impulsiva e improvvisata, sulle cui implicazioni non si era  riflettuto a sufficienza.

Allo stesso tempo però il governo perseguì una linea molto più decisa nell’opporsi all’ingresso in Italia di profughi provenienti dall’estero.

Nell’agosto del 1939 vietò gli ingressi, anche solo per “soggiorno”, agli ebrei in fuga dai paesi che applicavano una legislazione razziale: Germania, Ungheria, Polonia e Romania.

Poco dopo la promulgazione delle leggi del 1938, il sottosegretario all’Interno Guido  Buffarini Guidi inviava una relazione al duce nella quale avanzava tre proposte per accelerare la soluzione della questione ebraica in Italia, al fine di risolvere anche gli aspetti meno chiari della  normativa:  la parificazione  giuridica  di  tutti  gli  ebrei  convertiti  sposati  con ariani, «l’eliminazione assoluta dalla Nazione di tutti gli altri ebrei – italiani e stranieri –» che non rientravano in questa categoria, attraverso facilitazioni (economiche, patrimoniali ecc.) per coloro che erano destinati a lasciare il Regno; il divieto di ingresso nel Regno agli ebrei già allontanati  o  stranieri.

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La soluzione della questione ebraica in Italia doveva essere conseguita dunque attraverso «l’eliminazione assoluta dalla Nazione» di tutti gli ebrei “puri”, fossero essi italiani o stranieri.

È paradossale che questo documento venga citato dal figlio del futuro ministro dell’Interno della Repubblica sociale italiana con lo scopo di assolvere il padre dalle responsabilità nella politica antiebraica fascista e repubblicana.

Innanzitutto, infatti, il sottosegretario all’Interno proponeva una semplificazione della procedura, per limitare i casi controversi e snellire le pratiche di accertamento.

Ancor più evidente è però la parificazione tra ebrei di nazionalità italiana e «ebrei stranieri», accomunati dallo stesso destino: l’espulsione dall’Italia. Come abbiamo visto, il governo aveva differenziato le misure nei confronti degli ebrei italiani e di quelli stranieri.

Per i primi aveva decretato l’“espulsione” dalla vita sociale, politica e culturale del paese. I secondi invece erano stati destinati a un’«eliminazione» (per riutilizzare il termine di Buffarini Guidi) fisica dal Regno, non nello stesso senso ad essa attribuito dai nazisti negli anni successivi, ma intendendo, sotto questo termine, l’emigrazione e l’allontanamento dalla penisola.

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Lo scoppio della guerra accelerò il processo avviato con le leggi razziali. All’inizio del 1939, il governo fascista era stato costretto a sospendere le procedure di espulsione dal Regno degli ebrei stranieri a causa di problemi di cui probabilmente non aveva tenuto conto al principio, primo fra tutti, come detto, l’indisponibilità da parte degli altri paesi ad accogliere un gran numero di profughi ebrei in fuga.

Contemporaneamente all’allontanamento degli ebrei stranieri, era stata decisa anche la chiusura delle frontiere, per evitare l’ingresso di nuovi indesiderati. Tuttavia, il governo continuò a rilasciare visti “turistici”, rendendo così possibile l’entrata  nella  penisola,  mediante  questa  scorciatoia,  di  almeno  5.000  persone.

Dal 7 settembre 1938 al giugno 1940, lasciarono dunque il paese tra i 10.000 e gli 11.000 ebrei stranieri; ne rimasero poco meno di 4.000.

Con l’inizio del conflitto il regime si apprestò a prendere provvedimenti nei confronti dei sudditi stranieri in base alla corrente legislazione bellica, messa a punto con il decreto legge del luglio 1938, che seguiva il piano generale per l’organizzazione del paese in guerra votato nel 1925: questo prevedeva, tra le altre cose, la disposizione d’internamento.

Per reprimere il dissenso e l’opposizione al fascismo, il governo aveva disposto nel Ventennio misure di polizia che contemplavano ammonizioni, diffide e, nei casi estremi, l’arresto e il confino.

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Quest’ultimo era stato introdotto nel 1926 con le nuove leggi di pubblica sicurezza, e aveva scopi di repressione politica (subentrò al domicilio coatto deciso a fine Ottocento per  contrastare il  fenomeno del   brigantaggio).

Quella dell’internamento, invece, era una pratica diffusa in Europa e in Italia fin dalla prima la Prima guerra mondiale per colpire i sudditi nemici, i sospetti di spionaggio, gli anarchici, i socialisti e i contrari alla guerra.

Nel 1938 venne definitivamente disciplinata: tramite apposito decreto, il ministero dell’Interno poteva disporre l’internamento di tutti i sudditi nemici in grado di portare le armi o che potessero svolgere una qualsiasi attività ai danni dello Stato e la possibilità, quindi, di obbligare i cittadini di una potenza nemica a risiedere temporaneamente in una località del Regno.

Le misure nei confronti dei sudditi nemici erano dunque decise tramite decreto del duce e il loro trattamento rispondeva alle norme applicate per i prigionieri di guerra. Con l’entrata in vigore, il 21 maggio 1940, delle disposizioni per l’organizzazione del paese in guerra, fu ordinato alle prefetture di disporre l’internamento di cittadini stranieri e italiani considerati pericolosi.

Vale la pena di ricordare che secondo il diritto internazionale (l’internamento) è una misura restrittiva della libertà personale che, in caso di conflitto, gli Stati hanno il potere di prendere nei confronti di certe categorie di stranieri o di propri cittadini, allontanandoli  dalle  zone  di  guerra  e  relegandoli  in  località  militarmente non importanti ove  esercitare agevolmente la vigilanza.

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Le misure di internamento e l’organizzazione dei campi di concentramento vennero stabilite nella circolare ministeriale del 1 giugno 1940, con cui si ordinava ai prefetti, una volta entrata l’Italia in guerra, di procedere all’arresto delle persone pericolose straniere e italiane, «di qualsiasi razza», che potessero nuocere al paese, nonché all’internamento degli individui segnalati dai Centri di Spionaggio.

Le istruzioni per aprire i campi e per individuare le località d’internamento erano comunicate con la circolare dell’8 giugno 1940 (n. 442/12267), ribadita e integrata da quella successiva del 25 giugno quando ormai l’Italia era entrata in guerra.

Infine, il decreto legge del duce del 4 settembre 1940 sanciva giuridicamente le misure già adottate tramite circolare nei mesi precedenti.

Nel periodo di preparazione alla mobilitazione bellica, pochi erano stati gli accenni a  eventuali provvedimenti da adottare nei confronti degli ebrei.

Il 25 settembre 1939 il capo della polizia Bocchini aveva inviato ai prefetti il seguente telegramma, nel quale si riferiva di un generale atteggiamento antinazionale degli ebrei nella penisola: è stato segnalato che notizie false et tendenziose che circolano Regno momento politico attuale sarebbero diffuse da elementi ebraici scopo creare disorientamento tra il popolo alt Raccomandasi impartire precise categoriche disposizioni dipendenti autorità P.S. singole province perché sia esercitata oculata vigilanza sugli ebrei et ove risultino accertati nella specie elementi concreti responsabilità siano adottati provvedimenti rigore loro confronti alt. Informare Ministero eventuali emergenze.

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Né la legislazione del 1938 né questi primi documenti parlavano pertanto di internamento degli ebrei. Il primo riferimento ai campi di concentramento fu la comunicazione del sottosegretario all’Interno Buffarini Guidi al capo della polizia Bocchini, il 26 maggio del 1940, nella quale si riportava la volontà del Duce di preparare campi di concentramento per ebrei nel caso di guerra: Caro Bocchini, il Duce desidera che si preparino dei campi di concentramento anche per gli ebrei, in caso di guerra. Ti prego di riferire direttamente.

I giorni seguenti, il capo della polizia invitò le prefetture a inviare gli elenchi degli ebrei considerati pericolosi e, per questo motivo, da internare: la pericolosità degli ebrei italiani andava esaminata «anche nei riguardi loro capacità propaganda disfattista et attività spionistica».

Le disposizioni di giugno, dunque, compresero nelle misure di internamento gli «ebrei stranieri», sudditi di Stati nemici, e gli ebrei italiani sospetti.

Tra gli stranieri, le circolari del giugno 1940 contemplarono anche gli ebrei stranieri sudditi di paesi che applicavano una politica razziale. La misura prevedeva l’internamento libero (ovvero il domicilio obbligato) in comuni del Regno per le donne e i bambini, mentre per gli uomini il campo di concentramento.

Queste disposizioni erano basate dunque su criteri razziali, perché presupponevano l’individuazione  di  una  categoria di  persone distinta  in base all’appartenenza alla razza ebraica.

Tuttavia le misure d’internamento furono soprattutto una conseguenza dello scoppio della guerra e insistevano su motivazioni di ordine pubblico o politico, ovvero trovavano giustificazione nella pericolosità delle persone.

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Osserva Paola Carucci che: mentre Buffarini Guidi, per quanto concerne gli ebrei, mira a interventi di massa basati esclusivamente sull’appartenenza alla razza ebraica, intensificando la politica razziale e invitando i prefetti a inviare nei campi di concentramento “gli ebrei che più danno luogo a sospetto”, il capo della polizia limita l’interpretazione della norma alla circostanza che gli ebrei svolgano attività antinazionale.

Emergono cioè qui due piani differenti, uno relativo alle caratteristiche della normativa,  l’altro concernente la reale applicazione delle disposizioni.

Innanzitutto i provvedimenti di internamento libero in comuni del Regno o in campo di concentramento, adottati nei confronti degli ebrei di nazionalità straniera e, in parte, degli ebrei italiani, sono da collocarsi all’interno di una soluzione più ampia che riguardava gruppi di persone o singoli individui che il governo fascista riteneva potessero essere «pericolosi in contingenze belliche».

Una parte della più recente storiografia ha molto insistito sul carattere razzista delle misure prese ai danni degli ebrei: le considerazioni di ordine politico da parte del governo fascista, dovute alla situazione bellica, sarebbero state comunque subordinate a motivi razziali.

La pericolosità degli ebrei, quindi, non era determinata soltanto dalle contingenze della guerra ma aggravata dalla loro appartenenza a un popolo nemico a prescindere.

Riemergeva qui, è vero, un tradizionale tema antisemita quale quello dell’ebreo visto come “straniero minaccioso”, organizzatore di complotti internazionali: un’immagine diffusa in Italia e in Europa e, come abbiamo visto, utilizzata fin dall’inizio come giustificazione di una politica anti-ebraica dello Stato fascista.

Osserva David Bidussa: all’interno del discorso fascista questo tema assume due significati specifici. Ossia: 1) l’ebreo come componente del complotto presunto per la destrutturazione dell’“Italiano vero e autentico” (ciò che nel linguaggio di regime è indicato come minaccia “plutogiudeomassonica”); e 2) l’ebreo come sovvertitore della comunità.

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Il fatto che gli ebrei venissero distinti ora dal resto degli italiani, tuttavia, non attribuisce per forza un valore razzista aggiunto ai provvedimenti in questione, ma si può forse spiegare  come una conseguenza di motivi pratici derivanti da un processo già iniziato in precedenza con l’emanazione delle leggi razziali.

Nelle disposizioni degli anni 1940-1943 si conservò, cioè, l’approccio razzista sancito nel 1938, che aveva individuato gli ebrei come una categoria a parte.

Del resto, negli stessi documenti d’identità risultava ormai specificata l’appartenenza alla razza ebraica e, quindi, qualsiasi ordine ministeriale o legge non poteva prescindere da una simile distinzione.

L’elemento nuovo e determinante rispetto agli anni precedenti fu in realtà la motivazione bellica: vennero infatti disposte dal governo misure più rigide nei confronti della popolazione presente in Italia e furono adottate soluzioni repressive specifiche della guerra e previste dal diritto internazionale, come l’internamento in campi di concentramento, difficilmente giustificabili in periodo di pace.

In maggior numero furono colpiti gli ebrei sudditi di Stati schierati in guerra contro il regime: la decisione di estendere le misure di internamento anche ai sudditi di Stati che applicavano una politica razziale rientrava coerentemente anche nell’ambito di valutazioni di ordine politico e propagandistico, indirizzate a colpire un “capro espiatorio”, ovvero un nemico esterno e interno all’Italia.

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Gli ebrei tedeschi, considerati acerrimi nemici dalla Germania nazista, a loro volta diventavano elementi pericolosi per un’Italia fascista alleata del III Reich. Una valutazione analoga può essere estesa alla vicenda degli ebrei italiani. Anche loro furono colpiti per la pericolosità politica e non secondo considerazioni esclusivamente razziali.

Il progetto di un allontanamento dall’Italia di tutti gli ebrei italiani era stato presto abbandonato, nonostante fossero continuati tentativi in questa direzione anche durante gli anni del conflitto: il 9 febbraio 1940, ad esempio, Mussolini comunicò ufficialmente a Dante Almansi, neo presidente dell’Unione delle Comunità israelitiche italiane, che gli ebrei italiani avrebbero dovuto lasciare gradualmente il paese e non farvi più ritorno.

Falliti i progetti di espulsione, la misura dell’internamento riguardò circa 400 ebrei italiani. Le motivazioni dell’internamento dichiarate dalle autorità di polizia sono varie e non è facile stabilire se queste avessero un fondamento o fossero piuttosto dei pretesti: in ogni modo riconducono a  un orientamento antifascista e antinazista e a una generale ostilità al Regime (espressa ad esempio tramite sentimenti espliciti di insofferenza per le leggi razziali).

Osserva a questo proposito Enzo Collotti: la decisione di considerare gli ebrei, stranieri o italiani, come gruppo a sé stante derivava evidentemente dagli orientamenti assunti nel momento stesso in cui era stata varata la prima legislazione razzista; l’internamento e l’invio nei campi di concentramento sotto questo profilo era la coerente prosecuzione (e forse anche la normale e inevitabile conclusione) di quell’indirizzo; l’aggravamento della pressione sugli ebrei in concomitanza con lo stato di guerra aveva anche una indubbia valenza propagandistica, in consonanza con l’inasprimento della guerra psicologica che vedeva gli ebrei più che mai sul banco degli accusati.

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L’adozione di misure di controllo più rigide rispetto agli anni precedenti e l’utilizzo, ora, di strutture prese in prestito dalla pratica bellica (quali appunto il campo di concentramento) rappresentarono del resto anche “un salto di qualità” nello sviluppo della politica di terrore e di repressione di uno Stato già di per sé autoritario.

Lo studio dei campi di concentramento aperti nel cuore dell’Europa nel XX secolo si scontra innanzitutto  con  l’evidente  difficoltà  di  formulare  una  precisa  definizione  di  cosa  sia un «campo di concentramento».

In Occidente, l’uso del termine da parte delle autorità militari risale alla Prima guerra mondiale: in Italia, ad esempio, viene usato per indicare i campi allestiti per i prigionieri dell’esercito austro-ungarico e a quelli per gli oppositori politici italiani (anarchici e socialisti) e i civili sudditi di nazioni nemiche, internati per motivi di sicurezza nazionale.

Tuttavia, quella di rinchiudere una determinata categoria di persone all’interno di un campo di concentramento era una pratica già in uso da qualche decennio.

I primi esempi di queste strutture risalgono al 1896 quando, durante l’insurrezione di Cuba, gli spagnoli allestirono appunto appositi spazi recintati per privare la guerriglia di qualsiasi elemento che potesse sostenerla.

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Questi luoghi accoglievano non solo materiale d’approvvigionamento, cavalli o bestiame in generale, ma anche la popolazione civile, in particolare donne e bambini. La reconcentratión prevedeva per la prima volta l’utilizzo del filo spinato – una recente invenzione – e di un mezzo di trasporto come il treno per la deportazione (o lo spostamento temporaneo) dei civili da una zona all’altra del territorio soggetto alle operazioni di guerra.

Successivamente, e con lo stesso scopo, gli inglesi si servirono di campi di concentramento nella guerra anglo-boera in Sudafrica (1899-1903).

Elemento comune a queste due diverse esperienze fu il coinvolgimento della popolazione civile, costretta a trascorrere il periodo bellico in pessime condizioni di vita, tali da determinare un alto tasso di mortalità (trattandosi per di più di anziani, donne e bambini).

Nel corso della Prima guerra mondiale, per la prima volta nella storia, si fece un uso di massa dei campi di concentramento, che servirono a internare sia i prigionieri militari che i profughi  dei territori di guerra.

Durante il conflitto, tra l’altro, si testarono anche le potenzialità micidiali che queste strutture potevano avere in determinate situazioni: si pensi ad esempio al ruolo che i campi ebbero nella terribile vicenda della deportazione della popolazione armena, in occasione della quale si rivelarono veri e propri ingranaggi di una macchina di sterminio.

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I civili, dunque, erano ormai diventati le vittime ordinarie di una guerra “totale” e i campi furono parte integrante di questa nuova cultura bellica che opponeva l’esercito anche alla popolazione civile.

Il prigioniero del campo si trasformava in un numero e in un dato da comunicare ogni 15 giorni alle autorità: si attuava cioè un processo di spersonalizzazione dell’internato, in  quanto le caratteristiche individuali  (e  umane) passavano in secondo piano.

Tuttavia, nel caso della Prima guerra mondiale, non si può ancora parlare di un  vero e proprio «sistema concentrazionario»: questi campi (dal 1896 fino alla Grande Guerra) furono il frutto di un disordine incoerente e improvvisato, nel quale la prigionia dei soldati catturati sul campo di battaglia si mischiava all’internamento dei civili, fossero questi considerati nemici interni o semplicemente popolazioni che si venivano a trovare nei territori occupati dalle truppe.

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Ripercorrere la genesi dei campi di concentramento, in ogni modo, non aiuta a formulare una definizione precisa di cosa sia classificabile sotto questa espressione, soprattutto tenendo conto delle profonde differenze che esistono tra queste prime esperienze e quello che accadde sotto i regimi fascista, nazista e comunista dagli anni Venti fino al secondo conflitto mondiale, quando invece il fenomeno si iscrisse in un sistema ben organizzato e indirizzato a precisi scopi politici.

Annette Wieviorka, in un articolo dedicato proprio all’«espressione campo di concentramento», ha riflettuto sulla difficoltà, o meglio, sull’impossibilità di racchiudere in un’unica definizione tutta la complessità della vicenda, che muta in base al periodo, al luogo o al contesto storico.

Difficoltà ancora più grande dopo Auschwitz, che ha rappresentato un momento emblematico per la storia non solo dei campi di concentramento, ma per tutto il Novecento.

Proprio la presenza ingombrante del più noto lager della Seconda guerra mondiale,  infatti,  fa  correre  spesso  il  rischio  di  ricondurre  ogni  singola esperienza al confronto con un unico «universo concentrazionario» nazista, simbolo ormai affermato dello sterminio degli ebrei.

D’altra parte, anche analizzando il caso tedesco, non tutti i campi di concentramento avevano lo stesso scopo o erano destinati alla “soluzione finale” del problema ebraico: il primo campo di concentramento sorto in Germania, a Dachau, fu  costruito   negli  anni Trenta per  rinchiudervi gli  oppositori  politici, ruolo che conserverà anche durante la guerra.

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Se prendiamo il caso dell’Italia, il continuo confronto con i lager nazisti – ormai forse automatico nella nostra mente – comporta due rischi. Primo: il sistema di terrore instaurato dai nazisti non è paragonabile per violenza e intensità a ciò che accadde nelle strutture allestite altrove, che vengono quindi assolte.

All’opposto, però – e questo è il secondo rischio –, si finisce spesso per sovrapporre le immagini dei campi di sterminio nazisti (con i suoi simboli che tutti conoscono: il cancello, le baracche, i kapò, il filo spinato) a qualsiasi campo di concentramento, senza analizzarne le profonde differenze e le singole caratteristiche (tipologia della struttura, presenza degli internati ecc.).

Sulla base di queste considerazioni generali, risultano dunque essere molto importanti, nell’approccio allo studio del caso italiano, due elementi: il contesto storico e la tipologia degli internati, e quindi dei campi.

Venendo al caso italiano della Seconda guerra mondiale, dunque, è necessaria una distinzione tra il primo periodo del conflitto (1940-1943), con la presenza di un regime fascista al  governo e quindi di un’Italia da considerare ancora una nazione sovrana e libera di agire, almeno all’interno del paese, in maniera autonoma; e il biennio 1943-1945, durante il quale incide senza dubbio l’ingerenza che l’occupante tedesco, con i suoi progetti di deportazione nei campi del Reich, ha sullo Stato di Salò.

In base allo sviluppo degli eventi bellici, pertanto, cambia anche l’autorità responsabile delle decisioni. Inoltre, l’evolversi della guerra in corso è caratterizzato dal progressivo aumento, soprattutto nel 1943-1945, di una violenza diffusa su tutto il territorio italiano che vede coinvolta in prima persona la popolazione civile in rappresaglie, rastrellamenti e nella “guerra civile”.

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Sulla base dello stato attuale della ricerca è possibile disegnare una mappa dei campi di concentramento sorti in Italia durante la Seconda guerra mondiale, istituiti , come abbiamo già detto, in precise e complesse contingenze belliche.

La tipologia degli internati può essere divisa in due categorie principali: gli internati militari e i prigionieri di guerra (PG) da un lato; la popolazione civile dall’altro.

I campi per prigionieri di guerra militari, denominati POW o PG, presenti sul territorio italiano allo scoppio del conflitto erano 75: all’8 settembre 1943 vi risultavano internati circa 70.000 soldati alleati, in strutture dislocate per lo più nell’Italia centro settentrionale.

Erano divisi in campi per ufficiali, per sottufficiali e per la truppa. In generale il trattamento fu corretto e rispettoso degli accordi di Ginevra che prevedevano, tra l’altro, la visita di delegati della Croce Rossa Internazionale.

Discorso a parte merita il destino dei soldati appartenenti all’esercito jugoslavo, ai quali, come vedremo più avanti, viene tolto lo status di prigionieri di guerra, così da essere annoverati nella categoria degli internati civili.

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La vicenda dei campi di concentramento per civili è invece strettamente legata allo studio dei metodi repressivi del regime nei confronti di un nemico non solo proveniente dall’esterno, ma che si trovava soprattutto al suo interno.

Se le strutture preposte all’internamento dei militari possono essere ricondotte generalmente a un’immagine standard del campo (recinto di filo spinato, luogo isolato, tende o baracche per i prigionieri), quelle per civili ci pongono di  fronte una grande quantità di soluzioni diverse: spesso infatti sorsero in edifici già destinati a un altro utilizzo e sono pochi i casi in cui vennero allestiti ex novo.

Capogreco prova a dare una definizione del caso italiano: ciò che identifica un “campo di concentramento” è la presenza di uno spazio deputato ad accogliere dei civili segregati attraverso una decisione amministrativa, sia essa civile o militare.

È evidente perciò che qualsiasi luogo che risponda a queste caratteristiche potrà essere considerato quale campo di concentramento indipendentemente dalla specifica tipologia delle sue strutture fisiche (un terreno cintato, un edificio o quant’altro) o dal fatto che esso ufficialmente venga denominato in modo differente.

Come fa notare Giorgio Agamben, il campo rappresenta lo spazio dove lo stato d’eccezione comincia a diventare la regola, dove la decisione politica opera nell’indifferenza assoluta del diritto: la detenzione è infatti amministrativa o militare e non in realtà giudiziaria, perché gli internati civili dei campi non sono né giudicati né condannati.

Con l’inizio del conflitto, il governo italiano prese, come si è accennato, disposizioni in base  al piano generale di organizzazione della nazione in guerra.

L’internamento divenne legge  nel settembre del 1940 e si divise in internamento libero in località del Regno o in campo di concentramento, mentre restava la soluzione del confino politico sulle isole o in altre località lontane da centri abitati.

In seguito a questo decreto, furono aperti numerosi campi di concentramento per civili: stranieri sudditi nemici, ebrei stranieri, zingari, italiani pericolosi per  motivi  di  pubblica  sicurezza  (oppositori  politici,  antifascisti).

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Per lo più distribuiti nell’Italia centro meridionale, questi campi erano concepiti come strumento di controllo dove rinchiudere le persone e metterle in condizione di non agire contro lo Stato. In alcuni casi, gli internati erano destinati ad attività lavorative.

Per fare qualche esempio, sono noti i principali campi per sudditi stranieri nemici britannici, inglesi, francesi e greci: questi sorsero, tra gli altri, a Montechiarugolo (Parma), a Civitella della Chiana (Arezzo), a Civitella del Tronto (Teramo), a Pollenza e a Treia (Macerata), a Bagno a Ripoli (Firenze). Al contrario, la vicenda degli zingari risulta più difficile da ricostruire.

In mancanza di documenti d’archivio, le uniche fonti a disposizione sono spesso le testimonianze orali. Da un punto di vista normativo, già dagli anni che precedono la guerra, il governo fascista aveva cominciato  a studiare una soluzione per quello che veniva definito il «problema zingaro» e aveva deciso di espellere gli zingari stranieri dal territorio nazionale.

Nel settembre del 1940 (e poi nell’aprile del 1941) il ministero dell’Interno dispose l’internamento degli zingari italiani, considerati pericolosi perché avrebbero potuto manifestare atteggiamenti antinazionali,  mentre gli zingari stranieri risultavano inclusi nei generali provvedimenti riguardanti le persone  suddite  straniere  presenti  nel  Regno.

Agnone  in  provincia  di  Isernia,  Tossicia a Teramo, le Isole Tremiti, la Sardegna e Boiano in provincia di Benevento sono alcuni dei luoghi dove vennero internati gli zingari colpiti dal provvedimento, ma testimonianze orali parlano anche di località in provincia di Viterbo e in Sabina.

Non è chiaro quanto la componente razzista abbia spinto il regime fascista a prendere provvedimenti nei loro confronti: in nessun documento ufficiale, infatti, vi sono esplicite motivazioni di razza e gli zingari sono sempre definiti pericolosi in quanto «asociali» e dediti al crimine.

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Un discorso a parte merita invece la sorte che toccò a un’altra categoria di internati: i civili dei territori occupati dall’esercito italiano.

I più recenti studi sull’occupazione militare italiana nei Balcani, in Grecia, in Albania e, per certi versi, nella Francia Meridionale, propongono una distinzione tra quello che fu il comportamento dell’esercito nei confronti della popolazione (che ha dato vita al mito del «buon italiano») e, al contrario, l’applicazione spesso violenta delle disposizioni militari d’internamento e deportazione. Il caso dei civili jugoslavi è emblematico.

Sebbene vi siano differenti interpretazioni sulla politica d’occupazione nei Balcani, gli studiosi concordano nel riconoscere un certo legame di continuità tra questa e i provvedimenti di snazionalizzazione e italianizzazione forzata applicati da anni nei confronti delle popolazioni slave della Venezia Giulia.

Non va dimenticata, naturalmente, l’influenza che può aver avuto l’esperienza coloniale della conquista della Libia e dell’Eritrea negli anni Trenta: la cosiddetta «pacificazione» della Cirenaica (1929-1933) si realizzò anche mediante l’apertura di campi di concentramento nella parte costiera, per trasferirvi momentaneamente  la popolazione locale e permettere ai coloni italiani un ripopolamento delle zone più fertili.

Nella Seconda guerra mondiale l’elemento razzista, infatti, già presente durante tutto il Ventennio, corse parallelo alle disposizioni d’ordine militare di internamento e deportazione  in Italia: ne furono coinvolte intere popolazioni in grado (o presunte tali) di prendere parte alla lotta partigiana.

Alessandra Kersevan ripercorre la storia dei rapporti dello Stato italiano con i Balcani a partire dal periodo post risorgimentale: dall’irredentismo ai tentativi di italianizzazione  dei  territori  orientali  dopo  l’annessione  della  Venezia  Giulia  (trattato  di Rapallo, 1920),  fino alla politica fascista che puntava allo scontro di razza e alla “bonifica” nazionale in quei territori.

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Il pregiudizio antislavo, accompagnato da manifestazioni riconducibili a forme di razzismo, assai diffuso nella classe dirigente italiana, avrebbe in tal modo supportato ideologicamente l’aggressione bellica alla Jugoslavia, nonché le disposizioni che colpirono i civili e le violenze dei militari.

Si spiegano così alcune scelte delle autorità fasciste, come il considerare «italiani per annessione» gli abitanti delle province occupate e quindi di esclusiva competenza italiana, o la finta “liberazione” dei prigionieri militari dell’esercito jugoslavo, internati come civili subito dopo, in modo tale che non potessero beneficiare dei diritti internazionali riconosciuti ai soldati.

Se durante la prima fase dell’occupazione l’internamento dei civili jugoslavi fu competenza del ministero dell’Interno, a partire dal 1942 la responsabilità passò nelle mani dell’autorità militare.

Per contrastare la crescente azione partigiana venne messo al comando della II Armata italiana (il cosiddetto Supersloda, Comando Superiore della Slovenia e della Dalmazia) il generale Roatta: la sua “circolare 3C” e in seguito la “3CL”, stabilivano i criteri dell’internamento manu militari di individui, famiglie e popolazione nei territori d’occupazione, a scopo repressivo e di mantenimento dell’ordine pubblico.

A questo si legava anche la pratica della deportazione, che colpiva interi gruppi sociali e professionali ritenuti pericolosi (operai, studenti), comprese le famiglie alle quali mancavano, senza un chiaro motivo, componenti maschili.

A seconda  del territorio di provenienza (Provincia di Lubiana, Slovenia, Dalmazia, Montenegro e Macedonia) e in base all’evolversi delle operazioni militari, dal 1942 sempre più civili rastrellati finirono nei campi locali o deportati in quelli allestiti in Italia.

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Sono tristemente noti per le loro drammatiche condizioni di vita i campi di Gonars, Arbe o Visco al confine orientale; nel Regno, dove le condizioni di detenzione erano più sopportabili, i campi furono istituiti a Monigo (Treviso), Renicci (Arezzo), Chiesanuova (Padova), Fraschette di Alatri (Frosinone), Colfiorito  (Perugia), sotto il  controllo dell’autorità militare  o  civile.

Col passare del tempo, il gran numero di internati costrinse il governo alla decisione di smistarli in altri campi, come quello di Ferramonti di Tarsia in Calabria, di Pisticci (Matera), di Farfa in Sabina (Rieti) o di Cairo Montenotte (Savona).

In tutto, secondo dati comunque non precisi, il numero dei civili jugoslavi rinchiusi in campi di concentramento e deportati ammonterebbe a circa 100.000.

Dopo il 25 luglio del 1943, la disposizione di Badoglio sulla liberazione degli internati non comprese gli jugoslavi e solo in seguito all’8 settembre, in conseguenza del disfacimento dell’esercito italiano, la maggior parte di loro riuscì a scappare, a tornare in patria o a unirsi alla lotta partigiana.

Nel contesto di una simile politica di occupazione, volta all’italianizzazione forzata dei territori, alla deportazione e alla creazione di «un nuovo ordine mediterraneo» sotto il controllo fascista, i campi di concentramento per civili slavi diventavano dunque lo strumento più efficace attraverso il quale il governo attuava un tentativo di conquista, controllo e trasferimento di intere popolazioni.

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Gli ebrei nei territori d’occupazione italiana

La politica antisemita nelle zone occupate va innanzitutto inserita nel generale  contesto bellico e integrata nella storia delle occupazioni italiane durante la Seconda guerra mondiale.

Dopo l’entrata in guerra, l’Italia procedette all’occupazione e all’annessione di alcuni territori dell’Europa mediterranea. A seguito della sconfitta della Jugoslavia, nell’aprile 1941, i Balcani furono divisi in varie zone sotto il comando tedesco (tutta la Serbia), croato (con la formazione di uno Stato filo-fascista con a capo l’ustascia Ante Pavelic), bulgaro e italiano.

Le autorità italiane crearono delle zone di annessione nella parte costiera della Dalmazia (dove fu istituito un governatorato), nella provincia di Lubiana e in quella di Fiume: denominate Zona 1, erano governate da un’amministrazione civile.

Nei mesi  successivi, alcuni territori della Croazia furono occupati militarmente dalle truppe dell’Esercito Regio e andarono a costituire la Zona 2.

In Grecia, gli italiani non erano riusciti a sconfiggere l’esercito greco nelle operazioni tra l’ottobre 1940 e l’aprile 1941 e, solo dopo l’intervento tedesco, le truppe fasciste poterono occupare molte isole dello Jonio e gran parte della regione ellenica, fatta eccezione per la Macedonia e la Tracia spartite tra la Germania e la Bulgaria.

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Infine, sul fronte occidentale francese, all’iniziale occupazione di poche città costiere vicine alla frontiera, si aggiunse, dopo il novembre del 1942, quella della Corsica e di sette dipartimenti (e di parte di altri due) nel Sud della Francia.

Nello specifico, ci si soffermerà qui maggiormente sul caso della Francia e della Croazia, indicativi per il rapporto che le autorità italiane ebbero con quelle tedesche proprio sulla “questione ebraica”.

La radicalizzazione delle misure repressive che colpirono i civili fu determinata ad esempio dall’intensità della Resistenza locale o dal differente approccio “ideologico” che il fascismo ebbe nei confronti delle popolazioni occupate: al contrario della Francia, infatti, l’atteggiamento nei Balcani fu influenzato dall’idea di una supposta superiorità razziale degli italiani sugli slavi che, come si è detto si poneva tra l’altro in continuità con la politica di snazionalizzazione e italianizzazione forzata al confine orientale portata avanti durante il Ventennio.

Di fronte alle richieste da parte nazista di farsi consegnare gli ebrei presenti nei territori governati dal fascismo, gli italiani opposero però un “rifiuto”, provocando così degli attriti con le autorità tedesche.

Il governo fascista e l’Esercito Regio furono posti di fronte a una scelta importante, come quella di destinare alla deportazione e allo sterminio le migliaia di ebrei che si trovavano sotto giurisdizione fascista: come e perché si arrivò alla decisione di opporsi a una richiesta dell’alleato dell’Asse? Quali furono i risultati di questa scelta?

La storiografia ha fornito differenti interpretazioni dell’atteggiamento italiano, che possono rappresentare una chiave di lettura anche per spiegare gli eventi successivi alla caduta di Mussolini e all’armistizio dell’8 settembre.

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Con l’occupazione tedesca della penisola e la nascita della Repubblica sociale italiana, infatti, si riproporrà una situazione per certi versi simile: tra dicembre 1943 e l’estate del 1944, l’opposizione del neonato Stato di Salò alla richiesta tedesca di consegnare tutti gli ebrei arrestati in Italia dalla polizia repubblicana determinò nuove incomprensioni tra le autorità militari e civili dei due paesi alleati.

La Jugoslavia

In Croazia, come detto, il governo fascista creò due zone distinte:179 una costituita dai territori annessi (Governatorato di Dalmazia, provincia di Lubiana e provincia di Fiume) e amministrata dall’autorità civile, e l’altra occupata e governata direttamente dall’Esercito Regio (la II Armata, detta anche Supersloda – Comando Superiore Slovenia e Dalmazia).

Nelle regioni annesse fu applicata la legislazione razziale in vigore dal 1938: gli ebrei lì residenti subirono le restrizioni delle leggi antisemite, mentre per gli stranieri e i profughi che fuggivano dai territori di occupazione tedesca o dallo Stato croato era previsto  l’internamento o l’espulsione.

Come si è visto, furono trasferiti in campi di concentramento locali o aperti nel Regno molti civili, ebrei compresi. Allo stesso tempo, i confini rimasero chiusi e non fu permesso l’ingresso a nuovi profughi.

Nel corso del 1942 la misura d’internamento fu estesa anche agli ebrei residenti in Dalmazia; motivi di ordine pubblico spinsero inoltre le autorità italiane a trasferire gli ebrei nella zona sotto il controllo militare: la responsabilità di questi quindi sarebbe passata nelle mani dell’Esercito Regio.

Nella parte di Croazia occupata militarmente si pose fin dall’inizio un problema ebraico, condizionato soprattutto dall’esodo di numerosi ebrei che fuggivano dalla feroce persecuzione nei territori controllati dai tedeschi e dagli ustascia.

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Nella zona italiana, in realtà, gli ebrei non erano numerosi e rimanevano per lo più concentrati nei grandi centri abitati di Dubrovnik e Mostar, piccole collettività che non avevano niente a che vedere con le decine di migliaia di persone della comunità ebraiche di Sarajevo e Zagabria nella zona nazista e croata.

In un primo tempo, le autorità militari italiane decisero di rassicurare le popolazioni civili promettendo loro la garanzia di un buon trattamento e di nessuna discriminazione di religione o di razza, al fine di procedere senza ulteriori disordini alla pacificazione della zona e alla  lotta ai ribelli.

Nei mesi successivi, con l’intensificarsi dell’arrivo dei rifugiati dalle zone limitrofe, si procedette tuttavia a una distinzione tra ebrei residenti e ebrei giunti negli ultimi mesi: per chi era arrivato dopo il settembre 1941 fu deciso l’allontanamento, ma il provvedimento fu giustificato secondo motivazioni di pubblica sicurezza, tanto che    riguardò non solo gli ebrei ma tutti gli “indesiderabili”, per la maggior parte stranieri.

La   situazione cominciò a mutare dall’estate del 1942, quando tedeschi e croati giunsero a un accordo che prevedeva la deportazione degli ebrei presenti in Jugoslavia nei territori occupati della Russia. In agosto, i nazisti fecero pervenire al governo fascista, tramite la loro ambasciata a Roma, la richiesta di consegnare nelle loro mani (o in quelle croate) gli ebrei dei territori occupati dagli italiani, per procedere al loro trasferimento a Est.

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Mussolini diede il «nulla osta» a procedere, ma le autorità militari si dimostrarono reticenti: il generale Roatta, comandante della II Armata, si oppose alla consegna, perché sarebbe stata una violazione delle garanzie promesse alla popolazione civile, nonché una concessione ai tedeschi e quindi un colpo al prestigio dell’esercito italiano (secondo almeno le motivazioni usate nelle comunicazioni fra i vertici dell’esercito e gli apparati di governo).

Nell’ottobre del 1942, in un promemoria diretto al Comando Supremo dell’Esercito Regio, scritto dal colonnello Zanussi, un’alta autorità delle forze d’occupazione in Jugoslavia, si legge:

Se alla consegna e quindi alla soppressione dei 3000 ebrei della seconda zona si volesse a tutti i costi arrivare, occorrerebbe almeno evitare che l’esercito italiano si imbratti materialmente le mani in questa faccenda (come l’inoltro degli stessi ebrei in nostri campi di concentramento avvenuto in questi giorni fa purtroppo prevedere).

Se i croati ci tengono proprio a consegnare ai tedeschi gli ebrei, si accomodino. Ma vadano a prenderseli da sé, senza bisogno che noi facciamo da intermediari o peggio, e provvedano a rimetterli direttamente ai tedeschi. È già sufficientemente penoso per l’esercito di un grande paese permettere spettacoli del genere e assistervi.

Le autorità italiane presero tempo di fronte alle richieste tedesche, che tra l’altro si rinnovarono nel corso dei mesi successivi coinvolgendo personalità importanti del III Reich, quali il ministro degli Esteri Von Ribbentrop (gennaio/febbraio 1943).

Da parte sua  Mussolini, se da un lato rassicurava i tedeschi che la consegna sarebbe stata effettuata, dall’altro ordinava al generale Robotti della II Armata «di inventare tutte le scuse che riteneva necessarie, ma di non consegnare un solo ebreo ai tedeschi».

I vertici militari, invece, adottarono un comportamento intermedio. Disposero dapprima un censimento, distinguendo gli ebrei di cittadinanza croata, da consegnare ai tedeschi, dai residenti nelle zone di competenza dell’esercito italiano o titolari di cittadinanza italiana, da internare nei campi di concentramento del Regno (23 ottobre 1942).

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L’accertamento di “fattori discriminanti” fu eseguito secondo alcuni criteri detti di «pertinenza», ovvero che dimostrassero un qualche legame con l’Italia o con il territorio di annessione: i requisiti per essere considerati italiani contemplavano innanzitutto l’iscrizione alle anagrafi delle città e dei villaggi locali. In caso contrario, si teneva conto della nascita o del periodo di residenza nella Zona 1, della eventuale discendenza da individui nati in questa zona o, in alcuni casi, di benemerenze per aver svolto azioni in favore delle forze di occupazione.

Nel febbraio 1943, secondo i risultati del censimento, il numero degli ebrei ammontava a 2.661: 283 appartenevano a Stati europei (Croazia esclusa); 2.378 erano croati, di cui 893 avevano requisiti per l’ottenimento della cittadinanza italiana, mentre 1.485 erano non «pertinenti» e sarebbero stati consegnati alla autorità croata.

Il censimento fu accompagnato dalla misura di internamento in un campo di concentramento situato, questa volta, nella zona di annessione e non di occupazione. Fu scelto dalle autorità un campo sull’isola di Arbe (Rab), già utilizzato in precedenza per i civili slavi.

Gli italiani internarono tutti gli appartenenti a nuclei familiari il cui capo famiglia risultava essere di «razza ebraica», inclusi coloro che chiedevano di avere  diritto all’esclusione dal provvedimento, e i cittadini ebrei di Stati terzi (non croati).

Il ministero  degli Esteri stabilì le condizioni dell’internamento: gli ebrei di altri Stati sarebbero stati internati e chi possedeva il visto per uno Stato neutrale sarebbe potuto partire solo dopo aver ricevuto  l’autorizzazione del  Servizio  informativo  militare  (SIM); i  funzionari croati sarebbero rimasti in libertà solo se lo Stato croato lo avesse desiderato; coloro che fossero  stati dimessi non avrebbero potuto più soggiornare in territorio occupato dagli italiani e avrebbero dovuto scegliere se rimanere internati o essere inviati in Croazia; infine, i cittadini italiani non sarebbero stati dimessi dal campo di concentramento.

Si sarebbe dovuto infatti evitare il trasferimento degli ebrei in Italia: solo gli italiani avrebbero potuto esercitare il cosiddetto «diritto di chiamata» per parenti o coniugi, a patto che dimostrassero di avere i mezzi finanziari per il mantenimento dei parenti chiamati.

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La Francia

Il caso della Francia, al pari di quello croato, è emblematico per l’atteggiamento ambiguo degli italiani davanti al tentativo di soluzione del problema ebraico perseguito dai nazisti. Due settimane dopo la dichiarazione di guerra italiana, il 24 giugno 1940 venne firmato l’armistizio tra la Francia e l’Italia.

Come detto, l’occupazione italiana dei territori  meridionali francesi fu ridotta a una sottile striscia di Costa Azzurra fino al novembre 1942, quando lo sbarco anglo-americano nell’Africa settentrionale convinse Hitler a procedere all’invasione della zona non ancora occupata della Francia, al fine di stabilire le truppe dell’Asse nella parte mediterranea e scongiurare così un possibile sbarco nemico su quella costa.

La IV Armata dell’esercito regio occupò interamente sette dipartimenti meridionali (Alpi Marittime, Hautes et Basses Alpes, Var, Isère, Savoia e Alta Savoia) e solo in parte la regione del Vaucluse e del Var.

Nel frattempo, il governo francese del maresciallo Pétain, insediatosi nella città di Vichy, aveva disposto una serie di leggi discriminanti contro gli ebrei e, nel giugno 1941, aveva decretato un nuovo statuto che aggravava la loro situazione.

Nella primavera del 1942 cominciarono le retate antiebraiche a opera delle forze di occupazione tedesche e della polizia francese, che culminarono con quella del luglio dello stesso anno a Parigi, in occasione della quale furono arrestate più di 12.000 persone: i tedeschi reclamavano dal governo di Vichy la consegna di 30.000 ebrei stranieri.

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In questa occasione, le autorità italiane chiesero che fossero rilasciati gli ebrei italiani arrestati e comunicarono che nella zona di loro competenza le misure anti-ebraiche non potevano essere applicate senza prima il consenso dell’Italia.

Vista la situazione quanto mai pericolosa in gran parte della Francia, numerosi ebrei si erano rifugiati nella zona costiera mediterranea: nel novembre del 1942 vi risiedevano tra i 15.000 e i 20.000 ebrei, per lo più stranieri, e nella sola Nizza se ne erano stabiliti circa 13.000.

Nel mese di dicembre, il governo di Vichy, in accordo con i nazisti, aveva chiesto di trasferire gli ebrei della regione in dipartimenti occupati dai tedeschi  e aveva ordinato alla polizia francese di attuare rastrellamenti nei territori sotto il controllo italiano: le autorità italiane però si opposero all’iniziativa, considerata una violazione dei diritti della potenza occupante, e comunicarono che le misure contro gli ebrei erano una loro prerogativa.

Per rispondere alle richieste di collaborazione con le autorità tedesche e francesi e per «epurare il territorio da rifugiati tedeschi di cui molti ebrei et in genere sovversivi et altri elementi stranieri pericolosi», tra i quali anche gli italiani, il governo  fascista dispose l’istituzione di un Organismo di polizia italiano, alle dipendenze del  Comando della IV Armata, con il compito: di arrestare i sudditi nemici pericolosi e procedere all’internamento degli ebrei e all’applicazione di adeguate misure restrittive nei confronti di stranieri appartenenti a Stati anche non nemici e che siano ritenuti pericolosi o comunque sospetti, residenti nella zona occupata dalle truppe italiane.

Queste misure nei confronti degli ebrei facevano parte di un serie di provvedimenti che riguardavano una più ampia categoria di persone.

Contrariamente però a quanto richiesto dalle autorità tedesche, invece di collaborare al trasferimento nei dipartimenti occupati dai nazisti degli ebrei stranieri arrestati in zona italiana, le autorità regie optarono per il loro internamento in località dell’entroterra e lontane dalla costa.

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La responsabilità degli arresti ricadeva sugli organi di polizia, più precisamente sui funzionari e agenti della Pubblica sicurezza forniti dal ministero dell’Interno.

Questo nuovo organismo, diretto dall’Ispettore di Polizia Barranco, agiva in stretto rapporto con il Sistema informativo militare e il ministero degli Esteri: si occupava di organizzare campi di concentramento e di altri compiti specifici come individuare persone, enti o beni ebraici da sottoporre al provvedimento; gestiva le relazioni con le autorità francesi per risolvere le difficoltà (e i contrasti) nell’applicazione delle misure; infine assicurava la collaborazione tra gli organi militari e quelli di Pubblica sicurezza.

In generale, secondo quanto deciso ai vertici, «i criteri da seguire non dovrebbero essere diversi da quelli seguiti nel Regno per alcuni ebrei stranieri e perciò qualche riguardo dovrà essere usato nei confronti dei vecchi, bambini, donne e malati».

Per gli ebrei italiani era contemplata la possibilità del rimpatrio e di non essere sottomessi ai provvedimenti razziali francesi, ma solo a quelli previsti per gli italiani residenti in Francia.

La Commissione italiana d’armistizio con la Francia per il rimpatrio e l’assistenza, con sede a Nizza, rilasciava ai cittadini italiani un documento nel quale si accertava la loro nazionalità e la loro razza, e specificava:

Le surnommé ne pourra, en conséquence et PAR LE SEUL FAIT D’APPARTENIR A LA RACE ISRAELITE, être l’objet d’aucune mesure restrictive de sa liberté, soit personnelle soit patrimoniale, sans le formel consentement préalable de cette Délégation Civile.

Cette déclaration est conforme aux accords franco-italiens en vigueur, qui règle le séjour des citoyens italiens en France SANS QU’IL SOIT ATTRIBUE AUCUN RELIEF INTERNATIONAL A LA DISTINCTION RACIALE.

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Più complicata, in realtà, risultava essere la questione dei beni ebraici, sui quali tedeschi e francesi erano intenzionati a mettere le mani: una legge di Vichy, infatti, prevedeva la nomina di “amministratori provvisori” dei beni requisiti, rigorosamente di razza ariana. Qui in realtà  si toccava un argomento che superava i confini francesi:

i beni degli ebrei italiani devono essere particolarmente difesi, costituendo essi un interesse italiano all’estero; e quindi la nostra protezione dovrà essere estesa anche alle zone di occupazione tedesca.

Una presa di posizione in tal senso è stata già fatta presente, in via di massima, a Berlino, sia per quanto concerne i beni degli ebrei italiani in Francia non occupata dai tedeschi prima degli ultimi avvenimenti, sia in Tunisia ed in qualsiasi altra regione.

Sarà pertanto necessario che nei contatti con le Autorità tedesche sia fatto presente che nelle zone di loro nuova occupazione dovranno essere seguiti quegli stessi criteri di cui fu chiesta l’applicazione negli altri territori francesi sia metropolitani che dell’Impero; e cioè che nei confronti degli ebrei italiani non dovrà essere adottato alcun provvedimento se non concordato con le autorità italiane dopo che il Ministero degli Esteri sia stato opportunamente informato.

Il governo italiano fornì dunque alle autorità locali d’occupazione le disposizioni per organizzare luoghi d’internamento in territorio francese: nell’immediata periferia della cittadina di Sospel fu approntata a campo di concentramento una ex caserma dove sarebbero stati rinchiusi i rastrellati stranieri da allontanare dalla regione delle Alpi marittime.

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Per motivi economici e di disponibilità di posti, il campo raccolse solo gli stranieri politicamente sospetti, mentre la maggior parte degli ebrei fu internata successivamente in comuni dell’entroterra (lontani cioè dalla zona di sicurezza militare), all’interno di alberghi invernali inutilizzati nelle località di Megève, Combloux, Saint-Gervais, Vance, Barcellonette, Saint Vincent Vésubie.

Una particolare attenzione fu posta all’ingresso dei profughi stranieri nella zona d’occupazione italiana, a meno che questi non fossero di nazionalità italiana.

Si era quindi creata in Francia una situazione già vista nel caso jugoslavo: gli ebrei stranieri erano destinati all’internamento in campo di concentramento o in residenza obbligata,  mentre venivano respinti coloro che provavano a entrare nella zona d’occupazione italiana.

Rispondendo alle pressioni esercitate da francesi e tedeschi, che spingevano per effettuare rastrellamenti di ebrei e ne chiedevano la consegna, gli italiani ribadivano soprattutto che ciò era in contrasto con l’autonomia decisionale nei territori di loro occupazione:

Secondo quanto è stato riferito dalla R. Delegazione per il Rimpatrio a Nizza, ebrei stranieri residenti nel dipartimento delle Alpi marittime sono stati assegnati a domicilio coatto in dipartimento di occupazione germanica e che degli ebrei italiani sono stati invitati a lasciare il dipartimento della Drôme occupato in parte da truppe germaniche.

A tale riguardo riteniamo necessario chiarire che non è possibile ammettere che nelle zone occupate dalle truppe italiane, le Autorità francesi costringano gli ebrei stranieri, italiani compresi, a trasferirsi in località occupate dalle truppe Germaniche.

Le misure cautelari nei confronti degli ebrei stranieri ed italiani debbono essere adottate esclusivamente dai nostri organi ai quali sono già stati comunicati i criteri da seguire […] con cui vengono fatti presenti le direttive che ispirano tale trattamento nel regno, salvo alcune misure cautelari particolari dipendenti dalle esigenze militari.

Durante i mesi d’occupazione, le autorità francesi e quelle tedesche lamentarono che la zona italiana fosse divenuta un rifugio per gli ebrei: nonostante i respingimenti alla linea di confine, nella realtà, l’effetto della politica fascista fu infatti quello di incrementare l’afflusso di profughi nei dipartimenti sotto giurisdizione italiana.

Da una parte proseguiva infatti  l’azione diplomatica tra i vertici nazisti e quelli fascisti, attraverso lo scambio di numerosi telegrammi tra ministeri e ambasciate.

Lo stesso Mussolini, nel suo atteggiamento ambiguo (tenuto del resto anche nella vicenda jugoslava), prometteva maggiore fermezza di fronte agli inviati del Reich e giustificava la situazione dando la colpa all’esercito.

Del resto, anche molte personalità naziste accusavano la Wehrmacht di avere una attitudine diversa rispetto alle SS di fronte alla questione ebraica.

Dall’altra, invece, gli organi di polizia francese provarono a prendere iniziative sul campo, che però videro la dura reazione degli italiani: nel febbraio del ’43, ad esempio, il prefetto di Lione ordinò il fermo di 300 ebrei, provocando le decise proteste italiane al punto che le truppe regie circondarono la gendarmeria della prefettura di Annecy per costringere le autorità francesi a liberare gli arrestati.

I risultati della politica italiana si riscontrano in un’analisi dei numeri. Su un totale di circa 7.000 individui, stranieri pericolosi o ebrei, residenti nella zona delle Alpi marittime, si prevedeva che sarebbero state colpite dai provvedimenti di polizia più o meno 2.000 persone: a metà febbraio, gli internati in campo di concentramento nel sud della Francia (a Sospel) erano soltanto 110.

Nel mese di marzo, l’ispettore di Polizia Lospinoso, dipendente dal capo della polizia a Roma, ricevette l’incarico di creare un ispettorato di polizia razziale a Nizza che si occupasse della questione ebraica (probabilmente anche per dare una risposta “di facciata” alle insistenti richieste tedesche in quella direzione).

Lospinoso in realtà non fece altro che continuare ad applicare diligentemente i provvedimenti decisi dagli organi italiani, senza procedere al trasferimento degli ebrei in mani tedesche: si occupò quindi di internare gli ebrei stranieri presenti nei dipartimenti di sua competenza, superando le difficoltà pratiche dovute anche all’avversione delle locali autorità francesi, e si impegnò a frenare il flusso di profughi dalla Francia occupata dalle truppe naziste.

Interpretazioni a confronto

Nonostante il «nulla osta» del duce in Croazia, la consegna degli ebrei ai tedeschi non avvenne, almeno fino all’armistizio dell’8 settembre.

Negli altri paesi d’occupazione, come in Francia, gli italiani si comportarono più o meno in maniera analoga, eccezion fatta per l’Albania.

Conquistata prima dell’inizio del conflitto – il 16 aprile 1939 Vittorio Emanuele III fu proclamato Re d’Albania –, questa regione fu sottoposta fin da subito ai provvedimenti razziali del 1938: gli ebrei furono concentrati in un campo nei pressi di Pristina fino a quando, nel marzo 1942, il tenente colonnello De Leo ordinò al maggiore dei carabinieri Silvestro di consegnare ai tedeschi un primo gruppo.

In questo paese la scelta di destinare i pochi ebrei lì presenti alla deportazione nei campi di concentramento dell’Europa orientale non provocò nessuna opposizione da parte delle autorità italiane e la misura fu eseguita tramite accordi di polizia con gli Stati alleati.

In Libia, invece, la comunità ebraica non fu toccata fino allo scoppio della guerra: gli ebrei erano stati infatti protagonisti della conquista coloniale di questo paese, da un punto di vista economico, sociale e amministrativo.

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I provvedimenti razziali furono applicati solo nel corso della guerra, dal 1940 in poi: oltre all’adozione di leggi che estromisero gli ebrei dall’esercito e dal partito, furono allestiti vari campi di concentramento per il lavoro forzato di ebrei italiani e stranieri (campi di Giado, Sidi Azaz e Bukbuk).

A causa delle difficoltà militari dell’esercito nazi-fascista in Nord Africa e dopo   la battaglia di El-Alamein, nel 1943 le autorità italiane decisero il loro trasferimento nella penisola nel campo di “Villa Oliveto”, a Civitella della Chiana, nei pressi di Arezzo.

Nella Grecia occupata, infine, la comunità ebraica, che non destava nessun problema di ordine pubblico, non subì alcuna persecuzione da parte italiana.

Le autorità fasciste attuarono qui una politica di “protezione” per gli ebrei italiani residenti in Grecia, i quali  erano  considerati, di fronte alle richieste tedesche di deportazione, un patrimonio collettivo della nazione (soprattutto economico).

I tentativi di rimpatrio degli italiani presenti, ad esempio, nella città di Salonicco (in zona tedesca) ebbero successo fin quando, dopo l’armistizio, la politica persecutoria nazista non prese il sopravvento.

In generale, il governo fascista cercò di intervenire affinché gli ebrei di nazionalità italiana residenti all’estero non finissero nei convogli nazisti.

Ciò fu possibile negli Stati dell’Europa occidentale (Francia, Belgio, Germania ecc.), dove un intervento diplomatico era ancora attuabile, al contrario delle zone orientali, dove spesso l’assenza di uffici consolari e la confusione dovuta alle particolari condizioni della guerra lì combattuta non permettevano neanche di accertare il numero di ebrei italiani  residenti in quei paesi.

Al pari di altri personaggi, quali ad esempio l’ebreo Angelo Donati, di cui si parlerà più avanti, che si impegnò nell’ostacolare la politica antiebraica di Vichy nei territori d’occupazione italiana, l’ispettore di polizia Lospinoso fu citato per anni dall’opinione pubblica e dalla storiografia per la sua opera di salvataggio in favore degli ebrei perseguitati in Francia.

In linea generale e come conseguenza della costruzione dell’immagine “italiani brava gente” in opposizione alla ferocia nazista, nel dopoguerra si diffuse l’idea che gli  italiani avessero difeso per motivi umanitari la popolazione ebraica presente nelle zone d’occupazione militare e che queste fossero divenute un rifugio dove scappare dai rastrellamenti dei nazisti e dei loro collaboratori.

Le peuple qui a pendu à l’étal, l’affreuse dépouille de Mussolini, qui vient de proclamer la République, a montré, à l’égard des Juifs, un sens de l’humanité et de la justice, qui lui a fait repousser toute aide à la persécution hitlérienne et l’a préservée de la servilité complice des collaborateurs de tous pays.

Cette attitude a fait des territoires occupés par l’armée italienne, tant en France qu’en Yougoslavie et en Grèce, des zones de sécurité pour les Juifs.

Così si esprimeva Léon Poliakov nel 1946, nella prefazione al suo pionieristico lavoro sugli ebrei sotto l’occupazione italiana in Francia.

L’autore affermava l’estraneità alle leggi razziali degli italiani, perché «impregnati di una tradizione umanitaria e cristiana». Questa umanità tutta italiana determinò, a suo avviso, i modi in cui il fascismo applicò la propria politica antisemita: l’ostilità al razzismo dimostrata dal popolo italiano, cioè, influenzò le autorità fasciste al momento di agire contro gli ebrei.

Una simile interpretazione prendeva le  mosse dalla centralità accordata al fermo rifiuto che le autorità italiane opposero alle richieste naziste di consegnare gli ebrei presenti nei territori sotto loro occupazione: da qui l’uso del termine «protezione». La storiografia si divide ancora oggi su come interpretare una simile scelta delle autorità italiane in Jugoslavia, Grecia e Francia.

Una parte degli studiosi insiste infatti sulle motivazioni appunto umanitarie piuttosto che politiche, mettendo in evidenza uno scarso sentimento antisemita dell’esercito italiano e delle autorità di occupazione e arrivando persino a  definire  l’atteggiamento  italiano  «una  delle poche  pagine  luminose  della  storia militare italiana nella seconda guerra mondiale».

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Questa interpretazione è però criticata in alcuni lavori più recenti, secondo i quali, se vi fu un salvataggio degli ebrei, questo era stato consigliato non da motivazioni umanitarie ma piuttosto da valutazioni politiche e strategiche legate al contesto bellico: la vicenda del trattamento degli ebrei era strettamente intrecciata, infatti, al rapporto spesso conflittuale tra autorità italiane e tedesche.

L’opposizione alle richieste naziste di consegna degli ebrei andrebbe dunque letta come una reazione da parte del governo fascista ai tentativi di ingerenza tedesca nei suoi spazi di autonomia politica e amministrativa. Per il caso jugoslavo, Davide Conti osserva:

L’incertezza dei vertici militari circa la consegna degli ebrei derivarono dalle considerazioni di ordine militare relative alle conseguenti reazioni che si sarebbero potute scatenare nelle milizie cetniche (i serbi filo-monarchici che collaboravano con gli italiani) e anticomuniste impegnate nella guerra antipartigiana, che difficilmente avrebbero accettato un così evidente allargamento del peso politico croato nella regione.

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Un’eventuale rottura con le milizie collaborazioniste avrebbe provocato un danno enorme alle truppe del Regio Esercito, tenute presenti le già gravi difficoltà italiane nel controllo della zona di loro competenza; gli italiani cercarono allora un compromesso in grado di soddisfare i tedeschi senza scalfire gli equilibri interni con i collaborazionisti.

In questo quadro la soluzione definita dalle componenti dell’Asse portò all’internamento, nei campi di confine controllati dalle truppe italiane, degli oltre duemila ebrei fatti prigionieri nella regione evitando la consegna ai tedeschi e soprattutto l’intervento delle truppe croate nella vicenda.

Gli ebrei divennero cioè una merce di scambio da utilizzare per scopi politici. Se le autorità italiane si trovarono di fronte a problemi per loro più urgenti da affrontare rispetto alla deportazione degli ebrei – il mantenimento dell’ordine e la pacificazione di quei territori richiedevano un impegno totale da parte dell’esercito e dell’autorità civile di amministrazione – erano però ben consapevoli di quanta importanza i tedeschi attribuissero alla “soluzione” della questione ebraica:

La politique à l’égard des juifs représenta la réaction la plus péremptoire à l’ingérence nazie. Elle fut le résultat d’un conflit d’intérêt politiques, économiques et militaires dan l’espace vital italien.

Les Juifs devinrent les pions d’un conflit interne à l’Axe et le régime fasciste pensa pouvoir les utiliser selon ses besoin (dans le cas d’une victoire allemande, les Juifs aux mains de l’Italie montreraient aux populations de l’Europe méditerranéenne les différences entre les deux puissances de l’Axe et feraient de l’Italie l’autre pole de l’Axe; les Juifs pouvaient être «utilisés» comme marchandise d’échange, puisque les italiens étaient conscients de la valeur que l’Allemagne accordait à la «solution finale» de la question juive.

Tenendo conto di entrambi questi orientamenti storiografici, si può affermare che nella scelta italiana confluirono sia motivazioni di ordine umanitario che politico.

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Gli italiani, infatti, erano senza dubbio venuti a conoscenza della politica di sterminio attuata dai nazisti nell’Europa orientale, non solo attraverso le relazioni diplomatiche tra i vertici governativi e militari, ma anche grazie alle testimonianze dei soldati che combattevano a fianco dell’esercito tedesco in quei territori.

Se anche una parte (o, forse, la maggior parte) delle autorità fasciste non avesse condiviso l’operato tedesco nei confronti degli ebrei, vi  era tuttavia la consapevolezza che l’antisemitismo fosse un elemento centrale nella politica  nazista e nell’alleanza tra i due paesi.

Allo stesso tempo, però, le valutazioni strategiche influirono sulla scelta di non sottomettersi a quelle che potevano sembrare imposizioni.

Già l’evoluzione della guerra aveva chiarito quale fosse il rapporto di forza tra le due potenze dell’Asse: le difficoltà italiane in Grecia nei primi mesi del conflitto, risolte soltanto con il decisivo intervento tedesco, avevano dimostrato che l’Italia dipendeva da un punto di vista militare dall’esercito del Reich.

Per le autorità fasciste era quindi fondamentale conservare una propria autonomia d’azione che affermasse una presenza fascista forte in Europa e che, nel rapporto italo-tedesco, non facesse pendere troppo l’ago della bilancia verso la Germania nazista.

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Si delineò dunque in Italia una differente visione della guerra ai vertici e, per così  dire, alla “base”, divisi entrambi tra le decisioni da prendere in considerazione di obiettivi militari e la percezione reale di quella che era la guerra nazista agli ebrei.

L’incapacità di prendere una posizione netta e l’adozione di un atteggiamento ambiguo nella soluzione della questione ebraica riuscì forse solo a indebolire le autorità italiane, sempre più incapaci, col passare del tempo, di contenere le pressioni tedesche.

Gli ebrei in Italia: tra internamento e precettazione al lavoro (1940-1943)

Le leggi razziali del 1938 non contenevano riferimenti all’internamento degli ebrei. Con l’entrata in guerra dell’Italia, si ebbe una svolta decisiva: furono internati quasi in blocco gli «ebrei stranieri» e gli apolidi, sudditi di nazioni nemiche e di Stati che seguivano una politica razziale o che si trovavano sotto la loro occupazione: tedeschi, polacchi, austriaci, cecoslovacchi ecc..

Per gli uomini, il governo aveva previsto il campo di concentramento, mentre per le donne era stato deciso l’“internamento libero”, ovvero la residenza obbligatoria in un piccolo comune del Regno.

Nel giugno 1940, come detto, il ministero dell’Interno aveva fatto pervenire a prefetture e questure due circolari contenenti le disposizioni generali per organizzare l’internamento, sia libero che in campo di concentramento, all’interno delle   quali veniva stabilito, fra l’altro, il regolamento per gli internati.

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È da sottolineare che si tratta di disposizioni che riguardavano in generale le pratiche di internamento, e quindi non specifiche regole per gli ebrei fermati.

Erano elencate ad esempio alcune restrizioni: gli internati non potevano allontanarsi o recarsi nei centri abitati, a seconda che fossero in internamento libero o in  campo di concentramento;  possedere  oggetti  di  valore  e  somme  di  denaro; leggere giornali o libri in lingua straniera; parlare o occuparsi di politica; tenere un apparecchio radio.

Veniva loro corrisposto un sussidio giornaliero di 6,50 lire e avevano diritto all’assistenza medica.

Per quanto riguarda invece la scelta della struttura da adibire a campo di concentramento, le direttive del ministero consigliavano alle autorità locali di requisire edifici già esistenti, se possibile abbandonati o poco utilizzati, che necessitassero solo di rapidi ed economici lavori di allestimento quindi strutture possibilmente provviste di luce elettrica, acqua potabile e allacciamento telefonico.

Per una migliore gestione, questi campi dovevano essere aperti lontani dal fronte, da grandi linee di comunicazione (ferrovie, porti, strade) o da luoghi militarmente strategici (fabbriche, caserme), onde evitare la trasmissione di notizie di guerra.

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Dovevano sorgere in un luogo isolato ma allo stesso tempo facilmente raggiungibile da una strada, non troppo lontano da un centro abitato dove vi fosse una stazione di carabinieri, un distaccamento medico e uno spaccio alimentare; dovevano, inoltre, avere uno spazio all’aperto dove gli internati potessero passare il tempo.

Gli «ebrei stranieri» dunque vennero divisi tra coloro che subirono l’internamento libero, coloro che furono rinchiusi in un campo di concentramento e coloro che furono esentati da entrambi i provvedimenti.

Questi ultimi erano persone arrivate prima del 1919 in  Italia, oppure sposate con cittadini italiani, individui di oltre 60 anni, oppure donne e bambini cui fu concesso di restare nella loro dimora abituale.

L’esonero era stabilito dopo un’accurata analisi dei singoli casi, effettuata di volta in volta dagli organi competenti del ministero (questure, prefetture, Ufficio della Demorazza): circa 3.000 persone ne poterono usufruire.

Furono allestiti numerosi campi di concentramento, la maggior parte dei quali sorse nell’Italia centro- meridionale, tra le Marche, l’Abruzzo, la Toscana, la Campania e la Puglia, lontani dal fronte di guerra. Erano generalmente sotto la responsabilità del ministero dell’Interno e della Pubblica Sicurezza. Fra i più grandi, quello di Campagna, in provincia di Salerno, fu aperto già il 15 giugno 1940.

Fu ricavato nei locali di due ex conventi di proprietà comunale. A fine giugno cominciò a funzionare anche il campo di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, divenuto poi il principale campo di concentramento per ebrei in Italia: accolse un gran numero di ebrei stranieri e apolidi, giacché era in grado di contenere circa un migliaio di internati.

I luoghi della persecuzione contro gli ebrei in Italia

I luoghi della persecuzione contro gli ebrei in Italia

Il campo  era costituito da baracche e recintato da filo spinato: fu costruito ex novo senza riutilizzare edifici  pre-esistenti.

Nella  maggior  parte  dei  casi,  invece,  furono  requisiti  degli stabili privati, come ville o tenute di campagna o, ad esempio, collegi e seminari.

In Toscana, furono aperti campi nella provincia di Firenze e di Arezzo, mentre strutture analoghe furono adattate in Abruzzo in provincia di Teramo, Chieti e Ascoli Piceno, nelle Marche vicino Macerata, ma anche in Molise e nel Lazio. Molto spesso gli ebrei furono rinchiusi in campi di concentramento destinati a differenti tipologie di internati, soprattutto civili stranieri.

Nella provincia di Parma, il castello di Montechiarugolo ospitò internati sudditi francesi  e  britannici, ma anche jugoslavi, apolidi e, appunto, ebrei.

Secondo quanto stabilito dall’articolo 5 del decreto legge del 4 settembre 1940: gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa o violenza. Essi non possono essere destinati in località esposte al fuoco nemico o insalubri.

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Tuttavia queste indicazioni non furono sempre seguite alla lettera, dal momento che, ad esempio, il campo di Ferramonti venne allestito in una zona paludosa e insalubre. Inoltre, a partire da un certo momento in poi, con l’evolversi del conflitto, l’Italia divenne sempre più  un teatro di guerra, esposto al pericolo dei bombardamenti.

La vita all’interno di queste strutture era precaria e monotona, scandita da regolamenti stilati dai direttori del campo, che erano generalmente funzionari della Pubblica sicurezza: vi era il divieto di avere rapporti con la popolazione circostante e la corrispondenza passava sotto il controllo della censura.

Gli internati non erano sottoposti a misure vessatorie e ricevevano generalmente un vitto fornito dalle  aziende  locali,  sufficiente  per  non  morire  di  fame:  avevano  diritto  a  un  sussidio giornaliero da parte del ministero che permetteva loro di procurarsi il cibo necessario.

La libertà religiosa per gli internati era garantita, sebbene, in base alla circolare del 19 agosto 1940 contenente le disposizioni per l’assistenza religiosa agli internati, i ministri di culti diversi dal cattolicesimo dovevano avere dal ministero un permesso speciale per accedere accedere ai campi di concentramento:

Mentre si comunica che questo Ministero nulla ha in contrario che gli internati in campi di concentramento abbiano l’assistenza religiosa […], si ritiene opportuno precisare che detta autorizzazione riguarda soltanto gli internati di religione cattolica.

Per gli altri internati deve essere rispettata la libertà di religione e di culto; però l’accesso ai campi di concentramento ai rappresentanti dei culti può essere accordato soltanto dietro analoga autorizzazione del Ministero da chiedersi di volta in volta.

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Queste norme, tuttavia, non riguardavano gli ebrei: «Tale accesso è in modo assoluto vietato ai rabbini e pertanto è inutile domandare per essi alcuna autorizzazione».

Una ulteriore circolare diretta alle prefetture del Regno, inviata dal ministero dell’Interno un mese dopo, specificava inoltre:

Con occasione pregansi Prefetture cui giurisdizioni trovansi campi concentramento impartire disposizioni at Direttori campi affinché in occasione festività religiose israelite che ricorrono prossimo ottobre (giorni due, tre, undici et dodici) sia consentito at ebrei attendere inverno campi esercizio loro pratiche religiose, fermo  restando divieto accesso campi at rabbini.

Spesso e volentieri le condizioni di vita risultavano essere più difficili di quanto previsto dalla normativa, soprattutto in quei campi sorti in territori depressi, caratterizzati da clima avverso.

Ciò che più era penoso per le persone, almeno a stare alle testimonianze giunte fino a noi, era però la restrizione delle libertà personali, in molti casi percepita come umiliante. L’assistenza degli internati, generalmente, era assicurata dalla Croce Rossa.

Le ispezioni dei suoi delegati nei campi e nelle località di internamento libero servivano a garantire che fossero rispettati i diritti stabiliti negli accordi internazionali firmati a Ginevra (1929) per coloro che avevano lo status di civili sudditi nemici e ad assicurare un’assistenza minima:

consegna di vestiti, cibo, coperte, possibilità di recapitare la corrispondenza ai familiari ecc.. In realtà, una parte degli «ebrei stranieri» e apolidi, come anche gli oppositori politici italiani, gli allogeni e i civili jugoslavi, non erano stati equiparati dal governo italiano agli internati stranieri nemici per motivi bellici.

Tuttavia, trovandosi spesso negli stessi luoghi di internamento  destinati  invece  ai  “sudditi  nemici”, potevano beneficiare anche  loro, a discrezione dei delegati della Croce Rossa Internazionale, dell’attività assistenziale.

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Altre organizzazioni e rappresentanze internazionali furono autorizzate a visite e a ispezioni: tra queste, la Legazione svizzera e il Vaticano. Quest’ultimo, in particolare, riuscì a ottenere che alcuni cappellani fossero presenti stabilmente nei campi. Per gli ebrei, in realtà, si organizzarono fin da subito associazioni con scopo assistenziale.

La più importante fu la Delegazione per l’assistenza agli emigranti ebrei (Delasem), creata dall’Unione delle comunità israelitiche italiane nel 1939 e che poteva contare su finanziamenti provenienti da molte organizzazioni ebraiche internazionali.

Questa associazione svolse un servizio di assistenza fondamentale per gli internati stranieri e non, facendo spesso da tramite tra le organizzazioni internazionali e le comunità ebraiche in Italia.

Ottenne ad esempio l’autorizzazione ad avere in ogni campo di concentramento dei suoi corrispondenti, che si occupassero dell’assistenza “morale” e fisica degli internati: chiaramente si trattava di individui che dovevano passare per l’approvazione dei direttori dei campi.

In molti casi la Delasem si sostituiva al ministero nel rifornimento di generi di prima necessità come vestiti e calzature. Come vedremo, la sua opera continuò nella clandestinità anche dopo l’8 settembre.

Oltre a questa organizzazione, nel 1939 nacque a Milano anche la “Mensa dei bambini”, istituita per: l’assistenza morale e materiale – mediante somministrazione di pasti, distribuzione di indumenti, libri, giocattoli – ai figli di ebrei profughi di transito in Italia e qui bloccati in seguito allo scoppio delle ostilità.

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Questa “mensa”, con l’evolversi delle vicende belliche, allargò la sua azione assistenziale agli stessi ebrei adulti e ai figli di coloro che si trovavano chiusi in un campo di concentramento, all’interno delle quali veniva stabilito, fra l’altro, il regolamento per gli internati.

È da sottolineare che si tratta di disposizioni che riguardavano in generale le pratiche di internamento, e quindi non specifiche regole per gli ebrei fermati.

Erano elencate ad esempio alcune restrizioni: gli internati non potevano allontanarsi o recarsi nei centri abitati, a seconda che fossero in internamento libero o  in  campo  di  concentramento;  possedere  oggetti  di  valore  e  somme  di  denaro; leggere giornali o libri in lingua straniera; parlare o occuparsi di politica; tenere un apparecchio radio.

Veniva loro corrisposto un sussidio giornaliero di 6,50 lire e avevano diritto all’assistenza medica.

Per quanto riguarda invece la scelta della struttura da adibire a campo di concentramento, le direttive del ministero consigliavano alle autorità locali di requisire edifici già esistenti, se possibile abbandonati o poco utilizzati, che necessitassero solo di rapidi ed economici lavori di allestimento: quindi strutture possibilmente provviste di luce elettrica, acqua potabile e allacciamento telefonico.

Per una migliore gestione, questi campi dovevano essere aperti lontani dal fronte, da grandi linee di comunicazione (ferrovie, porti, strade) o da luoghi militarmente strategici (fabbriche, caserme), onde evitare la trasmissione di notizie di guerra.

Dovevano sorgere in un luogo isolato ma allo stesso tempo facilmente raggiungibile da una strada, non troppo lontano da un centro abitato dove vi fosse una stazione di carabinieri, un distaccamento medico e uno spaccio alimentare; dovevano, inoltre, avere   uno spazio all’aperto dove gli internati potessero passare il tempo.

Rilevazione degli ebrei presenti negli istituti e sanatori della città di Arco (ACAR, fs. 170, rubr. 1938).

Rilevazione degli ebrei presenti negli istituti e sanatori della città di Arco (ACAR, fs. 170, rubr. 1938).

Gli «ebrei stranieri» dunque vennero divisi tra coloro che subirono l’internamento libero, coloro che furono rinchiusi in un campo di concentramento e coloro che furono esentati da entrambi i provvedimenti.

Questi ultimi erano persone arrivate prima del 1919 in  Italia, oppure sposate con cittadini italiani, individui di oltre 60 anni, oppure donne e bambini cui fu concesso di restare nella loro dimora abituale. L’esonero era stabilito dopo un’accurata analisi dei singoli casi, effettuata di volta in volta dagli organi competenti del ministero (questure, prefetture, Ufficio della Demorazza): circa 3.000 persone ne poterono usufruire.

Furono allestiti numerosi campi di concentramento, la maggior parte dei quali sorse nell’Italia centro- meridionale, tra le Marche, l’Abruzzo, la Toscana, la Campania e la Puglia, lontani dal fronte di guerra. Erano generalmente sotto la responsabilità del ministero dell’Interno e della Pubblica Sicurezza.

Fra i più grandi, quello di Campagna, in provincia di Salerno, fu aperto già il 15 giugno 1940. Fu ricavato nei locali di due ex conventi di proprietà comunale. A fine giugno cominciò a funzionare anche il campo di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, divenuto poi il principale campo di concentramento per ebrei in Italia: accolse un gran numero di ebrei stranieri e apolidi, giacché era in grado di contenere circa un migliaio di internati.

Il campo  era costituito da baracche e recintato da filo spinato: fu costruito ex novo senza riutilizzare edifici  pre-esistenti.

 Nella  maggior  parte  dei  casi,  invece,  furono  requisiti  degli stabili privati, come ville o tenute di campagna o, ad esempio, collegi e seminari.

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In Toscana, furono aperti campi nella provincia di Firenze e di Arezzo, mentre strutture analoghe furono adattate in Abruzzo in provincia di Teramo, Chieti e Ascoli Piceno, nelle Marche vicino Macerata, ma anche in Molise e nel Lazio. Molto spesso gli ebrei furono rinchiusi in campi di concentramento destinati a differenti tipologie di internati, soprattutto civili stranieri.

Nella provincia di Parma, il castello di Montechiarugolo ospitò internati sudditi francesi  e  britannici, ma anche jugoslavi, apolidi e, appunto, ebrei230. Secondo quanto stabilito dall’articolo 5 del decreto legge del 4 settembre 1940:

gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa o violenza. Essi non possono essere destinati in località esposte al fuoco nemico o insalubri.

Tuttavia queste indicazioni non furono sempre seguite alla lettera, dal momento che, ad esempio, il campo di Ferramonti venne allestito in una zona paludosa e insalubre. Inoltre, a partire da un certo momento in poi, con l’evolversi del conflitto, l’Italia divenne sempre più  un teatro di guerra, esposto al pericolo dei bombardamenti.

La vita all’interno di queste strutture era precaria e monotona, scandita da regolamenti stilati dai direttori del campo, che erano generalmente funzionari della Pubblica sicurezza: vi era il divieto di avere rapporti con la popolazione circostante e la corrispondenza passava sotto il controllo della censura.

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Gli internati non erano sottoposti a misure vessatorie e ricevevano generalmente un vitto fornito dalle  aziende  locali,  sufficiente  per  non  morire  di  fame:  avevano  diritto  a  un    sussidio giornaliero da parte del ministero che permetteva loro di procurarsi il cibo necessario.

La libertà religiosa per gli internati era garantita, sebbene, in base alla circolare del 19 agosto 1940 contenente le disposizioni per l’assistenza religiosa agli internati, i ministri di culti diversi dal cattolicesimo dovevano avere dal ministero un permesso speciale per accedere accedere ai campi di concentramento:

Mentre si comunica che questo Ministero nulla ha in contrario che gli internati in campi di concentramento abbiano l’assistenza religiosa […], si ritiene opportuno precisare che detta autorizzazione riguarda soltanto gli internati di religione cattolica. Per gli altri internati deve essere rispettata la libertà di religione e di culto; però l’accesso ai campi di concentramento ai rappresentanti dei culti può essere accordato soltanto dietro analoga autorizzazione del Ministero da chiedersi di volta in volta.

Queste norme, tuttavia, non riguardavano gli ebrei: «Tale accesso è in modo assoluto vietato ai rabbini e pertanto è inutile domandare per essi alcuna autorizzazione». Una ulteriore circolare diretta alle prefetture del Regno, inviata dal ministero dell’Interno un mese dopo, specificava inoltre:

Con occasione pregansi Prefetture cui giurisdizioni trovansi campi concentramento impartire disposizioni at Direttori campi affinché in occasione festività religiose israelite che ricorrono prossimo ottobre (giorni due, tre, undici et dodici) sia consentito at ebrei attendere inverno campi esercizio loro pratiche religiose, fermo  restando divieto accesso campi at rabbini.

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Spesso e volentieri le condizioni di vita risultavano essere più difficili di quanto previsto dalla normativa, soprattutto in quei campi sorti in territori depressi, caratterizzati da clima avverso. Ciò che più era penoso per le persone, almeno a stare alle testimonianze giunte fino a noi, era però la restrizione delle libertà personali, in molti casi percepita come umiliante.

L’assistenza degli internati, generalmente, era assicurata dalla Croce Rossa. Le ispezioni dei suoi delegati nei campi e nelle località di internamento libero servivano a garantire  che fossero rispettati i diritti stabiliti negli accordi internazionali firmati a Ginevra (1929) per coloro che avevano lo status di civili sudditi nemici e ad assicurare un’assistenza minima:

consegna di vestiti, cibo, coperte, possibilità di recapitare la corrispondenza ai familiari ecc..

In realtà, una parte degli «ebrei stranieri» e apolidi, come anche gli oppositori politici italiani, gli allogeni e i civili jugoslavi, non erano stati equiparati dal governo italiano agli internati stranieri nemici per motivi bellici. Tuttavia, trovandosi spesso negli stessi luoghi di internamento destinati  invece  ai  “sudditi  nemici”,  potevano  beneficiare anche loro, a discrezione dei delegati della Croce Rossa Internazionale, dell’attività assistenziale.

Altre organizzazioni e rappresentanze internazionali furono autorizzate a visite e a ispezioni: tra queste, la Legazione svizzera e il Vaticano. Quest’ultimo, in particolare, riuscì a ottenere che alcuni cappellani fossero presenti stabilmente nei campi.

l'elenco degli ebrei trentini deportati

l’elenco degli ebrei trentini deportati

Per gli ebrei, in realtà, si organizzarono fin da subito associazioni con scopo assistenziale. La più importante fu la Delegazione per l’assistenza agli emigranti ebrei (Delasem), creata dall’Unione delle comunità israelitiche italiane nel 1939 e che poteva contare su finanziamenti provenienti da molte organizzazioni ebraiche internazionali.

Questa associazione svolse un servizio di assistenza fondamentale per gli internati stranieri e non, facendo spesso da tramite tra le organizzazioni internazionali e le comunità ebraiche in Italia.

Ottenne ad esempio l’autorizzazione ad avere in ogni campo di concentramento dei suoi corrispondenti, che si occupassero dell’assistenza “morale” e fisica degli internati: chiaramente si trattava di individui che dovevano passare per l’approvazione dei direttori dei campi. In molti casi la Delasem si sostituiva al ministero nel rifornimento di generi di prima necessità come vestiti e calzature.

Come vedremo, la sua opera continuò nella clandestinità anche dopo l’8 settembre. Oltre a questa organizzazione, nel 1939 nacque a Milano anche la “Mensa dei bambini”, istituita per: l’assistenza morale e materiale – mediante somministrazione di pasti, distribuzione di indumenti, libri, giocattoli – ai figli di ebrei profughi di transito in Italia e qui bloccati in seguito allo scoppio delle ostilità.

Gazzetta Ufficiale del 19 novembre 1938 n. 264 con specificati tutti i divieti riservati agli ebrei (ACAR, Carteggio e Atti 1941, cat. XII, cl. 1).

Gazzetta Ufficiale del 19 novembre 1938 n. 264 con specificati tutti i divieti riservati agli ebrei (ACAR, Carteggio e Atti 1941, cat. XII, cl. 1).

Questa “mensa”, con l’evolversi delle vicende belliche, allargò la sua azione assistenziale agli stessi ebrei adulti e ai figli di coloro che si trovavano chiusi in un campo di concentramento.

In tutti gli anni di guerra rimasero costantemente internate nei campi circa 2.000 persone. L’internamento libero coinvolse invece un maggior numero di individui, che aumentò durante il conflitto dando luogo a evidenti problemi logistici. Klaus Voigt individua tre fasi dell’internamento libero degli «ebrei stranieri».

La prima va dall’entrata in vigore delle disposizioni fino all’agosto 1941: fu caratterizzata da un progressivo aumento del numero degli internati, conseguenza degli spostamenti di gruppi di popolazione durante la prima fase di guerra.

La seconda iniziò dopo il 10 agosto, quando fu autorizzato il ricongiungimento familiare tra gli internati liberi (donne e bambini) e coloro che erano concentrati a Ferramonti di Tarsia, e fu caratterizzata da un buon numero di trasferimenti all’interno del paese.

L’ultima fase, da novembre/dicembre 1941 in poi, vide il trasferimento in Italia degli ebrei delle province dei territori annessi, in particolare dalla Jugoslavia, e una maggiore mobilità degli internati determinata anche dalla progressiva saturazione di luoghi e strutture dove internare le persone, visto il gran numero di prigionieri, profughi, sfollati e civili presenti ormai nella penisola e da sistemare.

Gazzetta Ufficiale del 19 novembre 1938 n. 264 con specificati tutti i divieti riservati agli ebrei (ACAR, Carteggio e Atti 1941, cat. XII, cl. 1).

Gazzetta Ufficiale del 19 novembre 1938 n. 264 con specificati tutti i divieti riservati agli ebrei (ACAR, Carteggio e Atti 1941, cat. XII, cl. 1).

Per tutto questo periodo, il governo cercò di tenere separati questi nuovi arrivati dagli altri internati stranieri non ebrei, senza però, come abbiamo detto, riuscirvi sempre.

Questa tendenza all’aumento degli internati si nota, del resto, anche nell’analisi delle cifre: nell’ottobre 1940 si trovavano confinati nei comuni del Regno 2.412 ebrei, nel novembre 1942 invece 5.463 individui, nell’aprile/maggio 1943, infine, 6.386.

D’altronde, malgrado il divieto d’ingresso in Italia decretato dal governo, Mussolini autorizzò personalmente, tra il luglio del 1941 e l’8 settembre 1943, l’entrata nella penisola di almeno altri 4.000 ebrei che, per svariate circostanze, si erano venuti a trovare in territori annessi dall’esercito italiano: Jugoslavia, Albania, Rodi, Libia.

Di questi, circa i due terzi raggiunsero l’Italia in gruppi di persone costituiti in genere da non meno di 200/300 unità: il «gruppo di Bengasi» dalla Libia, «il gruppo di Lubiana», i cinque gruppi provenienti da Spalato, il «gruppo di Kavaja» (composto dagli ebrei provenienti da Belgrado e Sarajevo, trasferiti nell’omonimo campo di concentramento in Albania), il «gruppo del Pentcho» (dal nome della nave sulla quale naufragarono un gruppo di circa 500 ebrei provenienti da Rodi) e gli anglo- libici.

La vicenda degli ebrei dalmati trasferiti in Italia tra il 1941 e il 1942 dimostra come, col passare degli anni e con lo sviluppo del contesto bellico, la situazione fosse destinata a diventare poco gestibile nella penisola, data la carenza di luoghi liberi per accogliere gli internati, tra l’altro segnalata ripetutamente dalle prefetture. Tra novembre e dicembre 1941 furono trasportati nel Regno circa 1.000 ebrei residenti in Dalmazia.

Gruppi di 200 persone alla volta venivano caricate su un piroscafo che faceva scalo al porto di Ancona, dove per l’occasione era stato allestito un luogo di concentramento all’interno delle strutture portuali, nel nuovo fabbricato della stazione marittima.

Ebrei in fuga verso la Valle Aurina

Ebrei in fuga verso la Valle Aurina

Da lì, gli ebrei erano smistati e inviati in varie località e province dell’Italia. I convogli in nave e gli spostamenti in Italia erano scortati dai carabinieri.

Il 1° gennaio 1942 il Governatore della Dalmazia, Stracca, chiese disposizioni al ministero  riguardo i rimanenti  3.000   ebrei   residenti   ancora   in   quel territorio, «rappresentando urgenza di eliminare tale forte quantitativo elementi razza ebraica cui presenza è quanto mai pregiudizievole data delicata situazione politica et ordine pubblico».

Nella risposta ministeriale si spiegava che non era più possibile internare in campi di concentramento o in località d’internamento gli ebrei dalmati, perché le località erano ormai sature, e si chiedeva di interrompere l’esodo degli ebrei dalla Dalmazia, considerata anche «l’ingente spesa che comporta il trasporto via mare di detti ebrei».

Veniva citato inoltre un telegramma precedente nel quale era scritto che il Governatorato, in accordo col Genio Civile, «disponga gli opportuni accertamenti per la designazione di un’idonea località della Dalmazia dove poter istituire campi di concentramento per l’internamento degli ebrei».

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La vicenda diventò presto di complicata gestione e fu evidente che non era più possibile accogliere ulteriori internati in territorio italiano. Nel mese di marzo la presidenza del Consiglio dei Ministri fu informata dal ministero dell’Interno:

in relazione al telegramma N. 1364=001804 in data 28-2 u.s. del Governatorato della Dalmazia si ritiene opportuno far presente che dalla Dalmazia sono già affluiti oltre un migliaio di comunisti ed elementi politicamente pericolosi che sono stati destinati nei vari campi di concentramento nonché circa due mila ebrei che, data l’insufficienza di posti nei campi di concentramento sono stati destinati in numerose località d’internamento.

Tali assegnazioni in comuni liberi hanno però provocato varie lamentele da parte delle gerarchie del Partito e delle popolazioni per i pericoli che possono derivare dai contatti delle popolazioni stesse con l’elemento ebraico.

D’altra parte sono in corso le pratiche per la costruzione ad Ugliano di un campo di concentramento per duemila persone e sono stati già chiesti al Ministero delle Finanze i fondi (quindici milioni) per l’inizio dei relativi lavori.

Mentre dette pratiche saranno, com’è necessario, accelerate, non si può fare a  meno di fare presente che questo Ministero, data la deficienza di posti nei campi di concentramento e gl’inconvenienti cui hanno dato luogo gli ebrei destinati nelle località d’internamento, già pur esse sature d’internati, non è in condizione di poter aderire alla richiesta del Governatorato della Dalmazia specie per quanto riguarda l’invio nella Penisola di nuclei famigliari d’internati. Tuttavia il Governatorato della Dalmazia potrebbe fare una opportuna selezione degli elementi più pericolosi che potrebbe poi segnalare con singoli brevi rapporti allo scrivente per l’internamento nei campi di concentramento dove sono disponibili pochi posti.

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Capitava spesso, infatti, che le prefetture responsabili dei luoghi d’internamento chiedessero  al ministero un trasferimento degli internati ebrei: queste richieste divennero sempre più insistenti col passare del tempo, quando i bombardamenti subiti da alcune città dell’Italia costrinsero le varie province del Regno ad accogliere un gran numero di sfollati. Per convincere il ministero, le autorità locali insistevano sulla pericolosità degli ebrei, soprattutto quelli stranieri, accusati ad esempio di indisciplina e ostilità al regime, e chiedevano provvedimenti  disciplinari  come  appunto  il  trasferimento  al  campo  di  Ferramonti.

Gli «ebrei stranieri» si ritrovarono cioè in una situazione quanto mai “precaria”: privati della loro libertà personale, erano soggetti a provvedimenti amministrativi che potevano stravolgere la loro condizione di vita da un giorno all’altro. Molti di loro approfittarono della confusione degli eventi dell’estate del 1943 e dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre si diedero alla fuga dai campi e dai comuni di internamento. Se quello degli ebrei provenienti dalla Dalmazia rappresenta un buon esempio per spiegare le dinamiche del loro trasferimento in Italia da un territorio occupato militarmente, altrettanto significativa è la vicenda degli ebrei stranieri internati nella provincia di Aosta dopo il loro arrivo nel Regno253. Il 9 dicembre 1942, il prefetto di Aosta inviava al Gabinetto del ministero dell’Interno una nota nella quale riferiva che la presenza di ebrei stranieri, per lo più jugoslavi provenienti dai territori occupati dalle truppe italiane e internati in vari comuni della provincia, aveva provocato del “malumore”nella popolazione: la gente del luogo, secondo il prefetto, denunciava il fatto che gli ebrei erano ricchi, avevano occupato i migliori alloggi, lasciando ai locali solo cascine o stalle, e praticavano il mercato nero.

divieti per gli ebrei

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Chiedeva dunque di inviarli in campi di concentramento. Dopo aver riferito tali considerazioni, il capo gabinetto domandava determinazioni alla Direzione generale di Pubblica Sicurezza, che confermò in linea di massima il trasferimento. A partire da gennaio 1943 iniziarono dunque le pratiche per l’invio al campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia del centinaio di ebrei internati nel comune di San Vincenzo della Fonte (nome italianizzato del paese oggi conosciuto come Saint-Vincent).

Questa misura non fu collegata soltanto alle proteste accennate in precedenza, ma fu giustificata dal bisogno di locali da adibire ad abitazione per gli impiegati negli uffici militari, trasferiti in seguito ai bombardamenti su Torino. Per scongiurare il trasferimento al campo di  concentramento  in  Calabria,  gli  ebrei  di  San  Vincenzo  della  Fonte  si  rivolsero all’arcivescovo di Torino, Cardinale Maurilio Fossati, affinché questi si interessasse alla vicenda e sollecitasse il loro spostamento in altri comuni anziché in un campo (3 febbraio 1943).

Pietro Tacchi Venturi

Pietro Tacchi Venturi

Il Cardinale si indirizzò allora al Segretario di Stato Vaticano, Cardinale Maglione, per inoltrare la richiesta a Pietro Tacchi Venturi (il padre gesuita che faceva da tramite tra la segreteria di Stato e il ministero dell’Interno), il quale a sua volta, il 12 febbraio, giorno   in cui era previsto il trasferimento a Ferramonti, chiese la “grazia” al capo della polizia Carmine Senise. Questi rispose due giorni dopo a Tacchi Venturi:

Reverendo padre,

fino a che si è potuto questo ufficio ha destinato nei vari comuni gli ebrei stranieri che per sfuggire ai campi di concentramento in Germania ed in Croazia si sono presentati alle nostre frontiere, dichiarandosi disposti a farsi internare nei nostri campi pur di non essere respinti nei paesi di provenienza.

Ma ora, a seguito delle incursioni aeree nemiche i posti disponibili nei comuni dovranno essere occupati dagli sfollati e, perciò detti ebrei saranno inviati ai campi di concentramento.

Naturalmente saranno presi in speciale considerazione gli ammalati ed i vecchi ed in tale senso si è telegrafato alla Prefettura di Aosta per quelli tra gli internati di S. Vincenzo della Fonte che si trovano in tali condizioni sospendendo nei loro confronti il trasferimento a Ferramonti.

Sono però spiacente  di  non  potere  dare  uguali  disposizioni  anche  in  confronto  degli  altri,  i  quali dovranno invece raggiungere il campo. Con ossequio.

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I toni di questa lettera erano modellati naturalmente in base al destinatario, ovvero un esponente del Vaticano. Il capo della polizia metteva infatti in evidenza gli aspetti umanitari della vicenda e delle misure prese per questi ebrei: l’accoglienza dei profughi fuggiti da altri paesi, l’esigenza di un trasferimento a causa del pericolo dei bombardamenti, l’accortezza nei confronti delle persone anziane e degli ammalati.

Durante il mese di febbraio furono trasferiti 73 ebrei stranieri a Ferramonti, mentre restarono internati nei comuni della provincia il resto dei 101 ebrei, in quanto malati, vecchi o impossibilitati a muoversi, insieme alle persone addette al loro sostegno.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre, due telegrammi del 14 e del 16 settembre 1943 della R. Prefettura di Aosta, infine, comunicarono che, per timore di rappresaglie tedesche, gli ebrei stranieri internati nei comuni di Cuorgné e Castellamonte si erano allontanati improvvisamente per luoghi ignoti, «ma si ritiene che essi ritorneranno nel luogo d’internamento non appena sarà chiarita la situazione essendo presumibile che abbiano trovato temporaneo rifugio sulle montagne vicine».

Questa era dunque la situazione degli ebrei stranieri presenti già nella penisola o trasferiti durante il conflitto in Italia per motivi d’ordine militare.

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Gli ebrei italiani, da parte loro, non subirono in blocco i provvedimenti di internamento, ma furono colpiti solo quelli segnalati come pericolosi (in tutto 400).

Come abbiamo detto, erano persone che avevano già subito misure di polizia in precedenza, addirittura prima delle leggi razziali, o che erano sospettate dalla polizia di antifascismo, disfattismo e spionaggio.

Sebbene il governo, in generale, non fomentasse atti di violenza nei confronti degli ebrei, le spinte verso una soluzione radicale della questione ebraica erano però molteplici e provenivano da più parti.

La stampa denunciava la scarsa applicazione della normativa a livello locale, con toni che chiamavano a raccolta il paese per contrastare il temuto pericolo ebraico internazionale.

Questi appelli erano lanciati dai soliti nomi noti, quali Preziosi e Interlandi, ma erano stimolati anche dal basso, dallo zelo degli amministratori periferici, di personaggi locali o gruppi di persone, spesso elementi provenienti dagli ambienti del PNF.

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Due esempi possono essere utili per illustrare le dinamiche sopra accennate. Nel settembre del 1940 furono distribuiti nelle province di Ferrara e Bologna volantini violentemente antisemiti, nei quali si accusavano gli ebrei di essere spie inglesi e bolsceviche, e si invitava a «combattere gli ebrei con ogni mezzo», fossero essi “discriminati” o non.

È interessante notare che le prefetture di entrambe le città coinvolte indagarono per trovare i responsabili dell’accaduto, impegnandosi, almeno nelle intenzioni, affinché simili episodi non si ripetessero in futuro.

Un anno dopo, nell’estate del 1941, il direttore del giornale «Il Tevere» pubblicava e inviava al ministero dell’Interno una lettera in cui dava sfogo al suo malumore – e a quello, a suo dire, della popolazione locale – per la presenza degli ebrei nella provincia de L’Aquila. Il testo era infarcito di stereotipi antisemiti:

Quando si farà questo famoso ripulisti del Ghetto di tutta Italia? È mai possibile che gli ebrei debbano essere lasciati ad ingrassare, a sfotterci, a governarci? Non sapete che tutti i negozi di generi di abbigliamento sono di ebrei? Che tutti i grossisti di tessuti e maglierie sono ebrei? Che tutti gli agenti di commercio sono ebrei? Che tutte le nuove anonime ariane sono controllate dagli ebrei?

E ancora:

Se volete trovare un ferito di guerra, un mutilato, un morto, un rovinato materialmente per richiamo dovete cercarlo tra gli ariani. Se volete un arricchito della guerra, un grasso borghese, uno che ha la casa piena di roba  da mangiare dovete cercarlo tra i bottegai ebrei. Naturalmente in Italia.

Infine, si lanciava in un confronto con gli altri paesi europei: in Germania, in Francia, in Belgio, in Olanda e nell’Europa dell’Est «il giudeo è stato eliminato ma in Italia è conservato e ingrassato», visto che «anche la Polizia, al solito, dopo il zelo dei primi giorni dorme sonni beati».

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Di fronte a simili episodi, il governo adottò una linea contraddittoria: da una parte, infatti, fin dalla promulgazione delle leggi razziali, aveva scoraggiato episodi di violenza, verbale e fisica (come le scritte antisemite sui muri o le aggressioni isolate); dall’altra però continuò nella sua politica ufficiale iniziata nel 1938, promuovendo iniziative antisemite quali la proiezione del film Süss l’ebreo (di produzione tedesca), organizzata dal ministero della Cultura Popolare.

E non a caso, isolate spedizioni squadriste antiebraiche, come quelle del settembre/ottobre 1941 dirette contro le sinagoghe di alcune città italiane, trovarono un punto d’appoggio anche in queste manifestazioni ufficiali: le azioni contro la sinagoga di Trieste presero il via, ad esempio, in occasione della proiezione del citato film antisemita.

Durante il 1942, in occasione del ventennale del Regime mussoliniano, il Duce concesse un atto di clemenza agli internati italiani per motivi politici, ma nessun ebreo fu liberato.

Da un documento del ministero dell’Interno del 19 ottobre 1942 risultavano internati 233 ebrei italiani (40 in campo di concentramento e 193 in comuni dell’Italia), lo stesso numero  riportato nella lista di coloro che, in quanto internati, non avevano però goduto della clemenza concessa da Mussolini quell’anno.

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Sempre nel 1942 il governo prese in considerazione l’idea di utilizzare la forza lavoro degli ebrei per lo sforzo bellico, un’iniziativa tra l’altro in contrasto con quanto stabilito in precedenza (il divieto di lavoro secondo la normativa razziale).

La prima disposizione per la chiamata al lavoro obbligatorio fu presa nel mese di maggio da parte della Demorazza: secondo questa circolare gli appartenenti alla razza ebraica, anche se discriminati, di età dai 18 ai 55 anni, erano sottoposti a precettazione.

L’avvio al lavoro era effettuato dai prefetti, tenendo conto di alcune prescrizioni legate alle disposizioni razziali in vigore, come il fatto che gli ebrei dovevano lavorare separati dagli ariani e non avere lavoratori ariani alle loro dipendenze.

La circolare ministeriale del 5 agosto 1942 specificava ulteriori norme per la precettazione: gli ebrei dovevano essere destinati a lavori manuali («previo accertamento – in casi dubbi – della loro idoneità fisica»); la precedenza era data a quegli ebrei appartenenti alle classi di leva tra il 1910 e il 1922 «che avrebbero avuti obblighi militari se non fossero intervenute le disposizioni razziali»; per primi sarebbero stati precettati gli ebrei addetti già a lavori manuali e coloro che in quel momento non erano occupati, successivamente si sarebbe proceduto all’utilizzazione di persone impiegate nel commercio e di studenti per lavori anche diversi («fermo restando le esclusioni professionali e di attività previste dalle leggi razziali»).

Aspetto molto importante era la sospensione dalla precettazione per gli stranieri e i medici, nonché la esenzione delle donne con figli e mansioni domestiche e degli ebrei facenti parte di famiglie miste («a tale effetto si intende per famiglia mista quella nella quale uno dei coniugi è ebreo e l’altro e i figli sono ariani»).

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Si confermava in questa circolare che bisognava evitare la promiscuità tra ebrei e non ebrei, che erano soggetti al provvedimento anche i discriminati e coloro che allo stato civile risultavano appartenenti alla razza ebraica, nonostante fossero in corso le pratiche di accertamento. Le modalità relative al lavoro (compensi, alloggiamenti ecc.) erano di competenza del   ministero delle Corporazioni.

Gli ebrei erano destinati dunque a lavori manuali molto pesanti, come bonifiche o riparazioni di argini, lavori agricoli o di manutenzione: gli uomini erano impiegati in lavori edili, di taglio della legna, scarico merci e nei campi agricoli; le donne nella fabbricazione, ad esempio, di divise militari.

Nella pratica, la precettazione al lavoro dell’estate 1942 non portò grandi risultati: gli ebrei soggetti erano invitati a presentarsi agli uffici comunali e le prefetture avevano poi il compito di provvedere alla loro assegnazione a un posto di lavoro, in base a queste registrazioni.

Osserva Collotti che, dato lo scarso esito della precettazione, questa nuova operazione di registrazione servì essenzialmente ad aggiornare le liste sulla presenza degli ebrei nell’Italia e fu un’ulteriore misura di controllo sociale. Inoltre, vi era una concreta difficoltà nel trovare posti dove impiegare gli ebrei, perché nell’Italia mobilitata per la guerra la manodopera non mancava.

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Dopo un anno, il governo ritornò su queste misure per procedere alla precettazione al lavoro obbligatorio in maniera più severa.

Questa decisione fu collegata probabilmente all’intensificarsi del conflitto e alle prime pesanti sconfitte dell’Italia, che avevano determinato una radicalizzazione della politica fascista interna.

In questo contesto l’impiego degli ebrei nella mobilitazione di guerra aveva anche scopi propagandistici e di profilassi sociale per un regime sempre più alla ricerca di un capro espiatorio.

Il motivo ricorrente  con cui si giustificavano queste misure era infatti quello della inattività degli ebrei durante la guerra, dalla quale questi avevano tratto vantaggio a discapito dei combattenti italiani.

Si effettuava qui un capovolgimento della situazione, secondo ormai consolidati luoghi comuni: in seguito alle leggi razziali, si diceva, e alla conseguente esenzione dal servizio militare, gli ebrei avevano potuto continuare a svolgere indisturbati le loro attività professionali e con maggiore larghezza e lucro, dato lo stato di guerra che importa, è ovvio, un più facile ed esteso sviluppo di affari; hanno la possibilità di intensificare la loro invadenza in ogni campo della attività produttiva nazionale, mascherandosi sotto prestanomi ben retribuiti.

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Pertanto si ravvisava l’urgenza di provvedere all’utilizzazione almeno degli ebrei giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni, adatti alla leva e da inquadrare in formazioni con scopi ausiliari nelle truppe, per realizzare ad esempio opere di difesa o ricostruire strade, ponti e linee ferroviarie.

Un tale provvedimento sarebbe accolto molto favorevolmente nella opinione pubblica e in particolare dalle famiglie dei caduti in guerra dei combattenti, nonché dai combattenti stessi, che mal vedono questo stato di cose.

Nel maggio 1943 il ministero delle Corporazioni aveva già avviato le pratiche di elaborazione di un provvedimento legislativo che distinguesse gli ebrei in una categoria a parte in vista della generale chiamata al lavoro di varie fasce della popolazione.

In linea con questo progetto, il ministero dell’Interno inviò il 17 giugno alle prefetture le disposizioni per la «mobilitazione totale servizio lavoro ebrei fisicamente idonei ambo i sessi» compresi i “discriminati”, gli ebrei di famiglia mista e gli stranieri, tra i 18 e i 30 anni, «avviandoli poi centri raccolta che vi saranno indicati da ministero Corporazioni». Erano escluse dal provvedimento le donne incinte o con figli a carico, come già previsto nella precedente circolare del 5 agosto 1943.

Gli ebrei mobilitati al lavoro dovevano essere concentrati in «tre o quattro zone di assorbimento», secondo quanto stabilito dal ministro delle Corporazioni Tullio Cianetti.

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Qualche giorno dopo, veniva discusso all’interno degli uffici del ministero dell’Interno la questione se includere nel provvedimento anche gli internati e i confinati, italiani o stranieri, in risposta a un quesito sollevato a questo proposito dalle prefetture.

Il capo della polizia inviò all’ufficio della Demorazza la proposta di escludere dalla mobilitazione i confinati e di comprendere invece tutti gli internati di nazionalità italiana.

Per quanto riguardava gli stranieri, i sudditi di Stati nemici non potevano essere obbligati al lavoro secondo la legislazione di guerra, mentre si riteneva opportuna l’estensione della misura agli ebrei di Stati amici o neutrali.

Il chiarimento alle disposizioni ministeriali di giugno, comunicato alle prefetture il 15 luglio 1943, rappresenta un momento importante di passaggio verso una decisa radicalizzazione delle misure contro gli ebrei: in particolare, la conseguenza più evidente fu il maggiore coinvolgimento degli ebrei italiani, fino ad ora rimasti ai margini dei provvedimenti di guerra (ad eccezione di quelli relativi a una loro pericolosità).

La comunicazione di luglio del ministero dell’Interno escluse dalla mobilitazione i confinati e gli internati, nonché coloro che erano occupati in lavori utili alla guerra o già precettati.

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Le donne appartenenti alle classi dal 1907 al 1925 erano comprese, a eccezione di quelle «in istato di avanzata gravidanza o che abbiano prole minorile», solo però nel caso in cui i figli non avessero superato i 14 anni. Gli ebrei sfollati erano inclusi nella mobilitazione.

Era però l’ultima parte del documento che inaspriva il provvedimento e ritornava tra l’altro sulla definizione degli ebrei appartenenti a famiglia mista.

Per questi si intendeva innanzitutto coloro che «abbiano coniuge ariano e figli misti, anche se questi siano stati dichiarati non appartenenti alla razza ebraica». Di conseguenza, contrariamente a quanto stabilito per la precettazione dell’estate precedente:

I misti saranno considerati come ebrei e quindi compresi nella mobilitazione sino a quando non sia intervenuta una formale dichiarazione ministeriale sull’eventuale non appartenenza alla razza ebraica.

Anche gli ebrei stranieri si ritrovarono tutti mobilitati, ad eccezione di quelli esentati dal ministero. L’ultimo punto della circolare rappresenta un ulteriore salto di qualità nei toni utilizzati generalmente nelle comunicazioni ministeriali. Nell’includere i rabbini e i medici, esclusi anch’essi come gli stranieri e i misti dalla precettazione del 1942, si diceva:

Nella mobilitazione totale dei rabbini e dei medici appartenenti alle classi suindicate, occorrerà tener conto, nei limiti dello stretto necessario, anche delle esigenze di culto e di assistenza delle residue comunità ebraiche in sede.

La mobilitazione totale degli ebrei non ebbe successo a causa del precipitare degli eventi nell’estate del 1943, che portarono alla caduta di Mussolini.

Va però sottolineato che questa misura colpiva, per la prima volta rispetto agli anni precedenti, una parte degli ebrei fino ad allora risparmiati da provvedimenti eccezionali: non più solo  famiglia mista e “puri”. L’unica limitazione era determinata dalla fascia di età molto stretta.

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L’utilizzo dell’aggettivo «residue» in riferimento alle comunità ebraiche, presente nel documento appena citato, metteva in evidenza come vi fosse un’attenzione particolare alla soluzione della questione ebraica in Italia da parte delle autorità competenti. E rappresentava, forse, anche un primo bilancio delle misure prese durante questi anni.

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