Cari amici di Televignole, in questa seconda puntata sugli Imi, gli internati militari italiani dal ’43 alla Liberazione, parleremo ancora della situazioni in cui vennero a trovarsi questi soldati, questi ufficiali, definiti da molti anche, genericamente, come “sbandati” se non addirittura “traditori”, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943.
a cura di Cornelio Galas
“Germania! Terra senza sole”
Le coperte per la notte erano insufficienti per tutti gli internati, spesso ne utilizzavano una ogni due persone. Questo era un grande problema viste le basse temperature. I soldati erano costretti a lavorare all’aperto «con un freddo che tagliava gli orecchi e il naso» in questa situazione una camicia di flanella, una coperta o un pigiama significavano molto. Gli IMI dovevano uscire all’aperto per spostarsi da un locale ad un altro e in questi casi il ghiaccio rendeva il cammino difficoltoso; i tragitti da percorrere a piedi vedevano protagonisti numerosi soldati stremati, infreddoliti, impauriti per le malvagità cui avevano assistito o che avevano subito. Molti cadevano a terra, non riuscivano a camminare perché deboli, altri cercavano di sorreggersi a vicenda con il timore di essere visti dai tedeschi che attuavano la violenza per impedire che i soldati si aiutassero tra loro. Nelle camerate, a volte, c’era una stufa che, una volta accesa con del carbone e della legna rimediata, riscaldava in poco tempo tutta la stanza, permettendo così un caldo, lieto riposo agli IMI.
Il vestiario
“Giunti in Germania, spogliati delle nostre divise, che furono bruciate, energicamente ripuliti e disinfestati, indossammo i panni dei prigionieri. La sigla ‘P.I.’ (prigioniero italiano), applicata sulla schiena, ci rendeva immediatamente riconoscibili”. La procedura in ciascun campo era generalmente la medesima: la privazione della libertà, nella sua realtà, offriva rari spiragli di speranza per un trattamento rispettoso della loro personalità. Giunti nel campo gli internati erano sottoposti alla schedatura, una procedura che prevedeva la consegna, da parte degli IMI, di tutti gli oggetti in loro possesso, dal vestiario ai documenti personali, fino ad arrivare ai libri di lettura. Gli IMI dovevano firmare delle schede su cui erano segnati gli oggetti medesimi, ma, in realtà, i tedeschi ne registravano soltanto una piccola parte. Venivano poi denudati delle proprie uniformi militari e consegnate le uniformi da detenuti, quasi mai della giusta misura. A tutti venivano tagliati i capelli corti. In tal modo, ciascuno veniva privato anche della propria identità, erano considerati semplicemente dei numeri: questa era una delle umiliazioni più forti che dovettero subire. Il campo di Flossenbürg in merito a ciò costituisce un’eccezione: il generale Giangreco racconta infatti che gli venivano fatti indossare indumenti racimolati, nel suo caso specifico «un paio di mutande a brandelli, una camicia da donna, un pantalone eccessivamente lungo pieno di toppe, una giacca che aveva la manica destra corta e la sinistra che oltrepassava le dita di 15 centimetri». Per quel che concerneva le scarpe, agli internati venivano consegnati degli zoccoli di legno, o scarpe con suola di legno, che non agevolavano di certo il movimento, anzi costituivano un’ulteriore sofferenza.
Gli zoccoli venivano spesso barattati, si offriva del cibo o altro in cambio di scarpe più comode da indossare. Gli indumenti venivano lavati nell’autoclave ma spesso, dopo il lavaggio, erano ancora sporchi di escrementi o sangue essiccato: infatti il vestiario proveniva da prigionieri di altri campi di concentramento tedeschi. Non di rado tra gli indumenti gli internati trovavano oggetti utili di cui si impossessavano furtivamente, sfidando i controlli degli ispettori delle SS, oggetti che poi venivano utilizzati per il baratto.
L’igiene
Il sovraffollamento, le condizioni igieniche precarie, la sporcizia rappresentavano per molti IMI un grande disagio capace di influire negativamente sulla propria psiche, senza differenza tra generali e soldati. Nel campo di Schokken gli internati avevano a disposizione acqua calda a sufficienza per lavarsi, non di rado si utilizzavano dei rimedi di fortuna quando ciò di cui si necessitava era carente: ad esempio il generale Steiner scrive che «un ottimo ripiego era l’utilizzo dell’acqua calda della locomotiva per lavarsi il viso al mattino». Le condizioni delle stanze ove gli internati dormivano spesso erano disastrose, poiché infestate da zanzare ed insetti, soprattutto cimici, loro vero tormento.
La disinfestazione del campo era disposta a piacere della direzione del campo, spesso effettuata con petrolio o cemento quando non con insetticidi talmente maleodoranti che per molti giorni era impossibile accedere alle baracche. Non migliori erano le condizioni igienico-sanitarie degli ospedali dei campi, quando c’erano: i medicinali si tenevano a contatto con materiali non sterili, ad esempio si mettevano su dei vassoi, spesso avvolti in carta di giornale. I luoghi erano sporchi, vi era acqua stagnante ed erano presenti soluzioni provvisorie a questo, come delle passerelle di tavole sulle quali camminare. Gli internati, durante tutta la durata della permanenza nel campo, subivano continue umiliazioni: le condizioni igieniche erano decisamente carenti, non avendo utensili da utilizzare dovevano mangiare con le mani e provvedere alla propria igiene con ciò che avevano, ad esempio con utilizzando i propri, scarsi, indumenti.
Rispetto al campo di Schokken, nel campo di Flossenbürg «le docce consistevano in violente gettate d’acqua fredda, emanate da una pompa». Quando i “nostri” IMI avevano il «“piacere” di lavarsi con l’acqua calda, tale “piacere” terminava subito vista la mancanza degli asciugatoi e le finestre sempre aperte”.
Le condizioni di salute
Viste le condizioni in cui si trovavano, si può facilmente intuire che il loro stato di salute non era affatto positivo. I corpi sia di ufficiali che di soldati semplici erano segnati dalla guerra: «Scheletri rivestiti di pelle». Piaghe, pustole, ulcerazioni “decoravano” le loro membra, posto che la malattia era spesso una conseguenza delle dure condizioni di vita. Le patologie principali erano la tubercolosi, polmonite, pleurite e disturbi gastrointestinali, e in alcuni lager scoppiarono anche epidemie di tifo. Le malattie avevano negli italiani per lo più un brutto decorso. Tra i morti italiani, infatti, vi furono casi di suicidio.
I medici a volte non riscontravano alcuna malattia in queste persone sfinite dalla fame e così le rimandavano al lavoro, dove il giorno seguente spesso cadevano a terra prive di sensi e morivano. Ad esempio il generale Steiner narra nel suo diario della possibilità di cure nell’ospedale di Karkow: egli scrive persino di aver ricevuto una pulizia dei denti durante un controllo dentistico. Il soldato Busolli racconta i diversi giorni passati in ospedale a causa di una dissenteria: per un banale virus gastro-intestinale incontrò una serie di difficoltà, come quella di coabitare in baracca con i compagni, lo spostamento di baracca in baracca, il trasferimento in ospedale. Perché anche piccoli malanni, come una semplice dissenteria, all’ interno del campo risultavano essere gravi problemi da affrontare.
La comunicazione con le famiglie
“Dimoro in una terra che si ammanta di una storia tristemente accentuata, povertà che rivedo seminata nella spenta, livida pianura. Il fumo che dilegua oltre le sbarre, colorato come cielo senza macchia, l’attesa mia ti recherà amorosa se nel lungo ed impervio cammino fugherà la nebbia dei rancori”. Uno dei momenti più entusiasmanti nel campo era l’arrivo dei pacchi, fornitori di prodotti alimentari, di sigarette, libri e delle lettere da casa. Questi elementi sono una componente fondamentale per la sopravvivenza degli IMI. La posta era presente in tutto il periodo della prigionia, subito dopo l’annuncio dell’armistizio la principale preoccupazione dei militari fu quella di avvisare le famiglie della loro situazione: alcune notizie arrivarono alle famiglie persino da alcuni biglietti lanciati dai treni contenenti nome, indirizzo e la preghiera di avvertire i propri parenti. Le prime notizie arrivarono ai parenti nelle settimane seguenti, generalmente da parte della Croce Rossa; solo in un secondo momento arrivarono gli scritti telegrafici da parte degli IMI con indicazioni circa i pacchi da spedire.
Gli ufficiali potevano inviare tre lettere e quattro cartoline al mese, i sottoufficiali e i soldati semplici due lettere e quattro cartoline. L’ esigenza di comunicare era talmente importante da diventare moneta di scambio al mercato nero: più biglietti si possedevano più aumentavano le probabilità di ricevere informazioni e aiuti alimentari da casa. Sono proprio queste lettere che, rinvenute, spesso ci aiutano a ricostruire la storia avvenuta in quel triste periodo. Attraverso alcune di esse è stato possibile infatti ricostruire le vicende di quel momento storico e la vita nel campo: un esempio sono quelle scritte dal generale Alberto durante la prigionia, che dopo un periodo di forzato silenzio riuscì a stabilire dal gennaio 1944 un contatto epistolare con la famiglia. La figlia del generale, Maria, entrata in possesso della documentazione parzialmente deteriorata attraverso alcuni ufficiali liberati, è riuscita infatti a ricostruire i mesi di prigionia del padre nel campo “64/Z” .
L’appello
“Ogni mattino stiamo qui per l’appello Ogni giorno, con la pioggia o con il sole Sui nostri volti sono dipinti Dolore, disperazione, tormento …”. Generalmente era il suono di una campana a richiamare l’attenzione dei militari all’interno del campo per uno dei momenti più importanti: le adunate di controllo. L’eco di questi rintocchi attivava gli ufficiali e i soldati semplici a prendere posizione e mettersi in riga. Sistemati gli ufficiali nei ranghi iniziava l’appello diretto da un sottoufficiale tedesco: si effettuavano due o tre appelli giornalieri, uno il primo mattino, il secondo verso l’imbrunire, e uno la sera nelle baracche. Era raro che i conti tornassero velocemente ed essi venivano fatti e rifatti più volte, baracca per baracca. L’ufficiale Giangreco ricorda appelli dalla durata di non più di un’ora e l’umiliazione legata al fatto che gli appelli dei generali venissero effettuati contemporaneamente a quelli della truppa. Tutti ricordano che potevano esserci ulteriori perquisizioni e ritiro di oggetti e la cosa più sconcertante era che si doveva stare all’aperto a lungo con qualunque tempo, sotto la pioggia come sotto la neve, con parecchi gradi sotto zero, gelando.
Al termine dell’appello si sentiva spesso la tipica frase: «Mein Herr, ich zählte von mir, daß es 200 Stücke ist», cioè «Signore, ho contato che da me sono 200 pezzi». Pezzi! Non prigionieri. Tanto meno persone. Furono considerati “stücke”. E non tanto gli ufficiali, ma i soldati spesso durante l’appello potevano anche subire percosse e torture.
I “piaceri” del campo
Negli Oflag gli ufficiali correvano il rischio, non essendo obbligati a lavorare, di sprofondare nell’inazione e nella mancanza di volontà. Fortunatamente, al contrario, gran parte di essi riuscirono a reagire sul piano morale e intellettuale: i loro lager produssero un corpus notevolissimo di espressioni artistiche. C’era chi suonava, chi disegnava come Nereo Laureni, disegnatore e grafico triestino internato insieme allo scrittore Giovannino Guareschi e all’attore Gianrico Tedeschi nello Stalag X B a Sandbostel, in Germania; o ancora chi dava vita al giornale parlato, chi organizzava una mostra d’arte, rappresentazioni teatrali come Steiner, un’assemblea, delle conferenze, una funzione religiosa. Si parlava di tutto e si professava di tutto: scienze, matematica, storia, filosofia, diritto, teologia, pedagogia, viticoltura, arboricoltura, geografia etc. Busolli, ad esempio, ebbe l’occasione di parlare di religione cattolica con un compagno della Val di Susa, protestante evangelicano valdese, e racconta che quella fu uno dei suoi migliori confronti intellettuali . Gli Oflag divennero incredibili luoghi di attività culturali, nei quali, scrisse Guareschi, «la cultura rivendicò i suoi diritti e cominciarono le conferenze storiche, letterarie, scientifiche, artistiche, le lecturae Dantis, le serate di poesia moderna.
Furono istituiti corsi di lingue, corsi di diritto, corsi di agraria, corsi di ingegneria, ed ecco l’università con docenti e programmi quasi regolari. Indi si organizzarono serate di musica, di canto, di arte varia ed ecco il teatro, che quando fu possibile ebbe orchestre, orchestrine e compagnie di prosa e rivista». Gli ufficiali italiani furono in grado di arrangiarsi in tale situazione facendo risaltare la propria creatività e l’arte: la sua massima espressione fu radio Caterina, costruita dagli italiani proprio nell’Oflag X di Sandbostel. Diverse altre furono le radio introdotte segretamente nei campi dei soldati e utilizzate per ricevere: Radio Londra, Radio Berlino e Radio Bari, e alcune vennero scoperte nel corso delle perquisizioni. Ma la “Caterina” fu speciale, sia perché non venne mai catturata, riuscendo persino a evadere da Sandbostel per ricomparire a Fallingbostel, sia in quanto venne costruita con materiali di fortuna . Negli Stalag la vita dei soldati non era la stessa di quella degli ufficiali: alcuni militari di truppa testimoniano che potevano sì leggere, ma di nascosto, nella baracca con la luce fioca di una candela qualche libro segretamente nascosto dalla vista dei Tedeschi, altri, invece, ricordano passeggiate, letture in cortile e orchestre serali . Generalmente, però negli Stalag non esisteva lo stesso clima che vivevano gli ufficiali, perché qui occorreva fare molta più attenzione ai sequestri e alle spogliazioni da parte dei Tedeschi.
Memorie di prigionia
Le notizie sulla guerra e il percorso interiore Lo stato d’animo nel presente, le attese e i desideri per il futuro vissute nei campi di detenzione si intrecciano costantemente nei diari dei “nostri” generali e dei soldati con le notizie che riuscivano a carpire sulla guerra, su quello che succedeva in Italia e conseguentemente su quella che sarebbe stata la loro sorte. Le fonti di tali notizie non erano molto variegate: principalmente i giornali tedeschi che circolavano nel campo e che venivano tradotti dagli interpreti tedeschi o dai prigionieri che conoscevano la lingua; i bollettini di guerra germanici, che però presentavano spesso scarsi elementi; ancora giornaletti quali “Voce d’Italia” e “La voce della Patria”, circolanti nel campo, che però il generale Trionfi giudica come perfidi e nauseanti, le cui notizie venivano strumentalizzate dai tedeschi; a Schokken c’era “radio campo”, mentre nel campo ucraino di Karkow una che a mezzogiorno trasmetteva il notiziario, come racconta il generale Steiner; oppure radio scarpa, di cui parla Busolli, radio Caterina e altre.
Ma le informazioni più “fresche” venivano dai soldati: quelli «che avevano contatti col comando tedesco o perché lavoravano nell’orto o perché aiutavano in altri servizi, si prestavano spontaneamente a raccogliere le notizie che diramava radio Londra, sfruttando con italica scaltrezza le stesse radio dei locali tedeschi». Altra fonte di informazione erano le missioni inviate nei campi, in cui varie personalità annunciavano le novità ai prigionieri; è da notare poi che, in un contesto di forte incertezza per l’avvenire, a notizie più o meno certe derivanti da queste fonti si affiancavano quelle che gli internati potevano cogliere dal comportamento dei tedeschi e dal “clima” del campo. Come accennato prima, il modo in cui veniva vissuto tutto ciò e quindi il rapporto che gli internati instauravano con il trascorrere del tempo e con il futuro cambiava in base alle notizie che ricevevano sugli sviluppi della guerra, ma anche e soprattutto a seconda del temperamento di ciascuno: e ciò si può rintracciare facilmente nello stile di scrittura dei vari diari. Colpisce a tal proposito quello del generale Steiner, che conserva sempre un’indole ironica nel descrivere aspetti che, a ben riflettere, non sono per niente piacevoli; di tutt’altro tenore è invece l’atteggiamento del generale Trionfi: leggendo le sue lettere ci si immedesima nell’amarezza infinita che ha provato durante l’internamento: più volte scrive di avere «crisi di pianto e di dolore, immenso», ciò che lo sorregge è solo il pensiero che un giorno rivedrà i suoi cari. Ma questa sofferenza che emerge è dovuta forse al fatto che le lettere sono state scritte proprio durante la prigionia, mentre gli altri diari esaminati subito dopo. Egli si fa portavoce comunque della lacerazione con cui gli ufficiali affrontavano la vita del campo, mentre «tra i soldati e i sottoufficiali [era] prevalente il senso di sconfitta, la stanchezza e il rifiuto della guerra».
Nelle memorie dei militari di truppa, infatti, affiora tale atteggiamento: addirittura Busolli scrive ai suoi che un giorno ha pensato di togliersi la vita, stremato dalla prigionia, e che «non aveva più nessuna volontà: se in una prima parte di questa prigionia [fu] tanto sensibile e filosofo ora [si] trovav[a] del tutto insensibile e irragionevole; non funzionava né la mente, né le membra, né il cuore sentiva nessun impulso». In un presente monotono e un futuro incerto gli internati si facevano forza a vicenda, cercavano di darsi reciproco sostegno; e quello che sosteneva tutti era la costante speranza per l’avvenire, la certezza che nonostante tutto per loro vi sarebbe stata una felice conclusione, anche se per molti non è stato così. La prigionia ha comunque cambiato gli internati, e in molti lo ha fatto in meglio: hanno imparato ad adattarsi alle più avverse condizioni, a fare del bene pur potendo fare del male. A tal proposito è toccante e significativa la testimonianza del soldato Arturo Cortiana: “Il cervello mio comincia a svolgere una lunga pellicola sulla quale vedo tutte le fasi della mia vita passata “[…]. Sapete qual è la cosa più spaventosa e la più bella? La più orribile fase è la prigionia la più bella è la prigionia. Non si direbbe ma è così: la prigionia mi ha fatto conoscere Dio, mi ha fatto conoscere e imparare tutto quello che nessuno potrà imparare se non con il provare” “A me quello che mi ha salvato è la fede […] Se io sono qua oggi è per la fede. Io ho avuto tanta fiducia nella fede e ce l’ho sempre. A me è stata la fede che mi ha salvato […]. Solo la fede può fare quello che ricordo io negli occhi, nel cuore, nella mente”. Un tratto che accomuna gli internati militari italiani è il conforto della fede: soldati e ufficiali, prima di ricominciare la vita di ogni giorno, rivolgevano un rapido saluto a Dio e ai propri cari, un pensiero nostalgico alla propria terra lontana. Forte era questo sentimento sul quale i nostri uomini si poggiavano per sopravvivere, perché affidarsi alla fede era l’unica ancora di salvezza nell’inferno che stavano vivendo.
C’era chi, a causa delle sofferenze, la perdeva in momenti particolarmente drammatici, o comunque la metteva in discussione: con la fame crescente, i dolori, la sensazione di essere abbandonati a se stessi, prevalevano non solo le debolezze fisiche, ma anche quelle morali e spirituali. Anche se, successivamente, la fede era più forte, o comunque la necessità di aggrapparsi a qualcosa, e si tornava a confidare nella misericordia di Dio, come accadde a Busolli, che a causa delle sofferenze fisiche fu tentato dal rivolgersi al Diavolo. Ogni aspetto della religione era importante: infatti gli internati tenevano molto a frequentare la Santa Messa e a ricevere la comunione, così come a rispettare i morti, sentimento invece spesso ignorato e calpestato dai tedeschi: «In quest’atmosfera, cupa com’era cupo in quei giorni il cielo, la cerimonia toccò tutti profondamente. Il piccolo sacerdote ci parlò dei morti e del dovere di onorarli… Pensate a quello che hanno fatto per noi e che non potremo mai rendere… Disse poche semplici cose con […] chiarezza e forza di persuasione […] Anche i più indifferenti ne furono commossi e la commozione portò quasi tutti un po’ per volta a comunicarsi».
Il rapporto con i tedeschi
“Raccolti da barbari infami, trattati da cani, noi siamo quassù” . Il rapporto con i soldati tedeschi, come si può immaginare, era piuttosto difficile, frequenti erano gli atti di violenza specialmente nel campo di Flossenbürg, che eccelleva per crudeltà. Gli internati da subito avevano avvertito la durezza di trattamento che avrebbero riservato loro i tedeschi “grazie” alle modalità di trasporto da un campo di concentramento ad un altro, che erano molto pesanti. Tale trattamento lo subivano indistintamente gli ufficiali e i soldati.
Nel campo di Flossenbürg accadeva, ad esempio, che gli ordini venissero impartiti e fatti eseguire non dai soldati tedeschi, ma da altri internati più feroci delle SS; questi internati, addetti alle varie operazioni, erano muniti di scudisci, con i quali inveivano contro i nuovi venuti, senza risparmio. I colpi fioccavano in continuazione e generalmente senza motivo, molti venivano feriti a morte. I corpi senza vita venivano spogliati dei pochi cenci che indossavano, e su di essi veniva scritto il numero di matricola ed in seguito portati via. Non mancavano però dei Lagerführer più magnanimi, come racconta Roncarolo, i quali cercavano di rendere la prigionia il meno dura possibile, distribuendo sigarette agli internati, controllando che ci fosse acqua calda nei bagni.
Le torture
“C’era uno sgabello a quattro piedi, una sedia senza spalliera, ci mettevano con la pancia lì sopra, uno prendeva le braccia e le torceva e la testa in mezzo alle gambe sue, un altro i piedi e uno batteva di qua, uno batteva di là, come quando una volta ferravano gli asini, fino a che il cristiano doveva svenire. Quella è stata la paura più grande che ho passato nella mia vita, la tortura. Avevo paura! Se mi sparavano non avevo paura, venti minuti, un quarto d’ora e finisce. Ma con la tortura campavi sette, otto giorni, poi morivi. Perché c’erano rotture interne, venivano emorragie di sangue nel corpo e campavano gridando soltanto: Aiuto! Aiuto! e chi dava aiuto?” Nei campi di internamento oltre alla fame, alla paura e alle «palate che non sono mancate mai!», si trovano appunto le torture perpetrate dalle milizie tedesche, che portavano ad una morte orrenda, una morte priva di difese, lenta e dolorosa.
Essa spaventava tutti, ma ciò che terrorizzava ulteriormente era il come si moriva, la paura di farlo provando dolore e implorando aiuto, senza poterne ricevere da nessuno. Neanche ai generali venivano risparmiate le «indicibili» torture: “Basti dire che il medico capo del campo visitava i convalescenti due volte la settimana, cioè li sottoponeva due volte la settimana a crudelissima tortura. Erano quasi tutti dei moribondi, delle larve, che spesso morivano d’inedia […] i convalescenti erano costretti ad uscire all’aperto completamente nudi […] attraversavano i cortili sulla neve, spossati e cadenti, sostenendosi l’un l’altro, tremando dal freddo, in lugubre processione: processione di cadaveri”.
La ferocia dei tedeschi si abbatteva sia sui soldati che sui generali e bastava un nonnulla per scatenarla, come ricorda Calzà di un loro amico, che venne ucciso con un colpo di moschetto per aver tentato di oltrepassare il reticolato del campo per prendere delle patate. L’angoscia, la paura, il terrore di essere massacrati, di essere uccisi crudelmente albergavano nell’animo di tutti e dominavano la mente stanca e impaurita. Vittime senza difese, private della capacità di reagire alla violenza e alla crudeltà, vittime senza scampo e umiliate come larve umane: “Pugni, calci, frustate. Un poveretto, all’inizio dell’adunata, stava arrancando verso l’uscita, traballando e minacciando a ogni istante di perdere l’equilibrio. Quel giovane […] vedendo che tardava, gli andò incontro, gli urlò non so che frase, ed infine gli mollò un violento ceffone. Quell’infelice cadde riverso sull’impiantito, vi batté l’occipite e rimase lì stecchito. Immediatamente due “piccoli capi” lo spogliarono e lo portarono nella latrina”.