“IMI” TRENTINI, INTERNATI, MALMENATI, INGANNATI – 3

LA LBERAZIONE E IL RITORNO A CASA

a cura di Cornelio Galas

Cari amici di Televignole, in questa terza puntata sugli Imi, gli internati militari italiani nei campi di concentramento tedeschi, sempre facendo riferimento alle testimonianze di reduci trentini, parleremo degli ultimi giorni di quell’infernale periodo.

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il rapporto tra gli internati

“Il rapporto tra prigionieri era questo: là c’erano solo patate e fame e il lavoro. Il tempo passava così, tra paure e lavoro che non è mancato mai”. Era dura la vita degli internati, costretti a lavorare troppe ore al giorno in condizioni disumane. Alcuni sostengono che non c’era un vero e proprio rapporto tra internati, poiché si lavorava sempre, troppo, e quel poco tempo a disposizione lo si trascorreva riposando.

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C’era anche chi desiderava stare da solo, passare un po’ di tempo in solitudine, senza dover condividere, in modo forzato, il proprio tempo con gli altri, come faceva il generale Trionfi: «In verità c’erano nella vita del campo […] grossi pesi […] l’impossibilità di star solo, il dover vivere sempre tra le stesse persone». Molti sostengono invece che nelle difficoltà della vita di ogni giorno avevano trovato appoggio e offerto supporto con chi condivideva la propria sorte: nella malinconica condivisione di quella brutta esperienza si trovava un ancoraggio spontaneo e affettuoso nei propri compagni, con i quali si creava una vera e propria famiglia: «Mi destava un po’ di malinconia lasciare tanti colleghi coi quali, in un anno di vita in comune avevo stretto rapporti di amicizia o di viva cordialità, con i quali, comunque, si era determinata una sorte di “spirito di corpo” in ragione delle comuni sofferenze, delle comuni speranze, dei comuni sentimenti».

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Se questo era il rapporto tra italiani, con i quali si passava la maggior parte del tempo, non molto dissimili erano le relazioni con gli internati di altre nazionalità: in genere si legava molto con i francesi, con i russi, con gli americani, con i polacchi. Calzà ad esempio trovò un sincero fratello in Peter, l’autista polacco con il quale lavorava ogni giorno «poiché tutto escogita[va] per aiutarci».  Ai tedeschi invece interessava moltissimo che si creassero ostilità tra generali e soldati, come annota Steiner.

 

 

E anche i rapporti con i civili non furono meno positivi, costituendo essi in molti casi un aiuto provvidenziale per i tanti lavoratori cui non veniva data la quantità sufficiente di cibo per sopportare gli sforzi delle attività che svolgevano. Come in tutte le famiglie c’erano le liti e le incomprensioni, aumentate per di più dalle condizioni di deprivazione fisica che di certo non permetteva una sempre pacifica convivenza.

la “civilizzazione”

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Con gli accordi tra Hitler e Mussolini del 20 luglio 1944, gli internati vengono smilitarizzati d’autorità dalla RSI e gestiti come lavoratori liberi civili. Il cambiamento di status, soprattutto per gli ufficiali, incontra molti rifiuti dovuti alla paura di perdere i propri diritti economici, di mettere in pericolo la vita dei propri familiari che vivevano nelle zone già liberate dagli alleati oppure per il timore che tale gesto potesse essere confuso come una collaborazione. Ma all’inizio dell’autunno la “civilizzazione” viene imposta a tutti, sono esclusi soltanto i generali, i cappellani militari, i medici, i malati cronici. Nel diario del generale Giangreco ritroviamo un’attenta descrizione dei lavoratori e delle loro mansioni all’interno del campo di Flossenbürg.

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Gli operai specializzati (come fabbri, meccanici, sarti) erano impiegati nelle officine o nei laboratori, mentre nelle cave vi si trovavano gli studenti, gli intellettuali, i medici che non essendo abituati a quel tipo di lavoro, nella maggior parte dei casi morivano dopo poche settimane. Nel campo di Flossenbürg gli internati erano divisi in due categorie: “Beschaf”, occupati, e “Unbeschaft”, non occupati. Gli Beschaf erano coloro che avevano un lavoro fisso mentre gli Unbeschaft dovevano essere sempre disponibili per qualsiasi lavoro, solitamente erano addetti a lavori piuttosto pesanti. Ogni giorno venivano rastrellati dei lavoratori tra gli Unbeschaft, questi rastrellamenti provocavano molto spesso degli stati di angoscia poiché in diversi casi essi venivano spostati per lavorare in altri campi.

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Gli Unbeschaft temevano che potessero essere spostati nei campi cosiddetti di eliminazione, come quello polacco di Auschwitz. Solo la protezione del Blockmann poteva evitare lo spostamento. Tutti quindi cercavano di assicurarsi un lavoro fisso e la grazia del Blockmann. Inoltre avere un’occupazione fissa assicurava una razione di viveri supplementare detta “Frustuck”, cioè colazione.

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I posti di lavoro, alloggiati in vastissimi locali, erano dei luoghi spesso umidi e freddi in cui gli internati si ammalavano di polmonite oppure di setticemia, a causa delle cattive condizioni igieniche: «Noi battevamo i denti dal freddo che ci faceva rattrappire le mani e gelare i piedi, mentre dovevamo stare seduti per lavorare, senza poterci muovere un po’ per riscaldarci». Luogo di lavoro, anche peggiore, era poi la cava. Il lavoro durissimo poteva provocare la morte in sole tre settimane, causata anche dall’inadeguatezza delle risorse alimentari che veniva fornito loro: “A uno, a due, a tre alla volta, veniva avanti dal fondo della baracca degli esseri che nulla avevano più di umano: delle larve che a stento si reggevano in piedi, coperte di stracci, con gli occhi spiritati fissi nel vuoto, emaciati fino all’incredibile, dalle facce teree, le occhiaie nere e fonde, i più coperti di piaghe purulente. I disgraziati cercavano di sorreggersi a vicenda; erano tutti con le bocche socchiuse, le labbra sottili dalla quali sporgevano i denti e spesso affioravano dei lamenti.[…] Erano lavoratori addetti ad una cava di pietra, nella quale lavoravano con il fango a mezza gamba, da 16 a 18 ore al giorno, sotto la frusta dei sorveglianti”.

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Non mancavano i maltrattamenti da parte delle SS nel caso in cui qualcuno non eseguisse gli ordini oppure cercasse di rubare qualche oggetto dal posto di lavoro. Si narra nel diario del generale Giangreco delle famose “25 scudisciate” che, a seconda dell’umore del comandante del campo, potevano anche terminare con l’eliminazione dell’internato: «Una volta, per esempio, assistemmo alla impiccagione di ben sei giovani russi, i quali avevano rubato sigarette allo spaccio». I soldati semplici internati che lavoravano, invece, fuori dal campo erano talvolta più fortunati poiché potevano lavorare la terra di qualche proprietario clemente che dava loro anche da mangiare e perfino l’alloggio. In altri casi potevano lavorare nelle fabbriche e godere di qualche momento di libertà dalla sorveglianza: «Ricevo da una famiglia tedesca una buona porzione di carne di maiale e delle uova arrostite con birra e pane». «Li vediamo ritornare alla sera carichi di patate, pomodori e cocomeri, parte comperati e parte grattati come si suol dire»; «Sembra impossibile oggi di poter andare alla fabbrica senza essere accompagnati dalle sentinelle”.

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Il lavoro dei soldati semplici consisteva in molte mansioni: si andava dal trasporto di carbone e di attrezzature varie al lavoro dei campi. L’intera giornata prevedeva numerosi compiti, che i lavoratori dovevano portare a termine. Talvolta la giornata di riposo domenicale veniva negata e i lavoratori erano costretti a lavorare. Potremmo dedurre, quindi, che i soldati semplici abbiano vissuto una realtà meno crudele rispetto a quella degli ufficiali, ma in entrambi i casi la sofferenza albergava nelle loro anime e nei loro corpi. Se da un lato gli ufficiali non erano costretti ai lavori forzati, erano però costretti a stare rinchiusi nei campi di punizione isolati dal mondo. I soldati semplici, invece sebbene fossero costretti ai lavori duri, veniva loro concesso, seppur raramente e in maniera molto limitata, qualche stralcio di libertà. Coloro che resistettero sino alla fine furono denominati “puri” e venivano trattati molto duramente.

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fine delle sofferenze

Occorre evidenziare anzitutto che nei diari in esame si parla compiutamente solo dei rapporti con i russi e non vengono invece mai descritti quelli con gli altri liberatori, quali americani, inglesi o francesi. Soltanto il generale Giangreco accenna al fatto che una volta liberati dal campo di Flossenbürg, il 3 maggio 1945, sono costretti a soffrire ancora «tre settimane di limitazione della […] libertà in un campo di concentramento americano»; Busolli descrive come inizialmente, dopo la liberazione, il rancio era sufficiente, ma più passava il tempo più diminuiva, così come scendeva il morale perché non si partiva, mentre «gli americani pensan solo alle donne».

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Steiner racconta che il trattamento usato dai russi nei confronti degli italiani a Karkow «se si esclude il completo isolamento in cui era[no] tenuti, era molto corretto, non diverso da quello che [aveva] visto usare agli ufficiali inglesi, francesi, americani»  . Gli interrogativi che si ponevano gli internati su come sarebbero stati i loro liberatori erano mossi naturalmente da una grande curiosità, soprattutto per accertare se la descrizione fatta dalla propaganda fascista fosse corrispondente al vero oppure no: il generale Steiner, infatti, afferma che essa aveva descritto la Russia «un paese come assai poco organizzato; […] erano sorte molte altre curiosità, il desiderio vivissimo di sapere qualche cosa in più di questo paese, ed anche quello di vedere se ci potesse essere qualcosa con cui rinnovare o migliorare la nostra forma di vita» . L’immagine che avevano viene solo in parte provata: Steiner racconta infatti che «i primi contatti con i soldati russi […] li mostrarono come persone con le quali non sarebbe stato difficile intendersi»112; Lava scrive che si accontentavano di «offerte “obbligatorie”», come orologi o altri oggetti da loro posseduti, le quali, se consegnate spontaneamente, li rendeva «praticamente a loro ben accetti». In sostanza, a parte queste offerte coatte, i russi erano magnanimi nei confronti degli italiani, e da loro ben visti, almeno inizialmente, anche se non lo erano altrettanto con i contadini ucraini del villaggio di Karkow, così come verso i tedeschi in generale. E infatti Steiner scrive nel diario: «Dopo una settimana di occupazione, concordemente o senza che fosse corsa una parola d’intesa, italiani e americani cercavano di protegger[li]».

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Sottolinea poi come cambiò l’atteggiamento degli italiani nei loro confronti, dove «un po’ per volta a questi sentimenti amichevoli finì col subentrare un freddo distacco». In particolare, «quello che finiva con urtare era la costante presunzione di ritenersi superiori a tutti […]; avvertivamo poi qualche cosa di profondamente diverso in loro. Avevamo visto gli atti di ferocia di cui erano stati capaci in Germania, vedevamo in ogni cosa un disprezzo della vita umana che sconcertava». E se i russi obbligarono gli ex-internati a lavorare, non fecero altrettanto gli americani: infatti nei diari dei soldati viene descritto un recupero abbastanza rapido, grazie al molto cibo di cui si disponeva. Cortiana, ad esempio, annota: «L’arrivo degli americani ha portato ogni cosa […]. Dopo l’arrivo […] ho fatto la cura del latte. […] Però si vive benissimo anche sotto gli inglesi». Trattamento decisamente più duro era invece quello degli Alleati francesi, che avevano un atteggiamento molto ostile nei confronti degli italiani.

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il ritorno a casa

Il rientro in Italia dei “nostri” generali e soldati non è stato semplice, come d’altronde quella della maggior parte degli Imi sopravvissuti ai campi di concentramento, anche perché alla liberazione non seguì l’immediato rientro in patria: il generale Giangreco racconta infatti come dopo la liberazione da Flossenbürg furono costretti a soffrire tre settimane di limitazione in un campo di concentramento americano; anche i soldati Calzà, Busolli e Cortiana attesero il rimpatrio in campi americani. Le modalità scelte per tornare erano varie: chi, come i generali Steiner e Santini e i capitani Ronchi e Lava, “sperimentò” un rimpatrio organizzato in treno, dapprima su vagoni di terza classe «dove la sera si potevano ricavare cuccette [provvisti di] un vagone per la cucina e provviste per 15 giorni» e successivamente in carri bestiame; chi scelse di partire da solo tornando con i propri mezzi pur di non rimanere nei campi liberati in perenne attesa di un intervento esterno, affrontando anche lunghi tragitti a piedi, come fa il professore Renzo Roncarolo, che finita la guerra da Berlino ha dovuto «percorrere circa 500 Km. a piedi». Ma la maggior parte, a causa delle precarie condizioni di salute e dell’assenza di mezzi, scelsero di attendere il rimpatrio nei campi.

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Il percorso dai campi liberati alle proprie case, come detto sopra, fu impervio e incerto, ma non si deve pensare che il vero e proprio rientro in Italia fu più facile: prima di tutto solo ad ottobre vennero predisposti dei punti di ristoro per il gran numero di ex-internati che cominciavano a varcare i confini; Steiner fa parte ad esempio del primo gruppo, e infatti nel suo diario nomina Pescantina, «uno dei centri alloggio più noti», dove arrivò il 6 ottobre e da dove poi partì su un autocarro diretto a Milano. Nonostante le sofferenze patite lungo il viaggio, ciò che sconcertava maggiormente i nostri, ormai ex, internati era l’indifferenza manifestata nei loro confronti da parte di chi rappresentava le istituzioni italiane: Steiner infatti racconta che all’arrivo a Pescantina vennero “accolti” da un «sottosegretario con la barbetta caprina e cinque o sei che gli scodinzolavano attorno, [il quale] non si degnò di guardarci o di parlare col nostro comandante, pur essendo stato avvertito della nostra presenza».

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Un atteggiamento paradossale per essi che già durante la prigionia lamentavano l’inazione della Patria: Trionfi si avvilisce costantemente per la condizione di “prigioniero di guerra” e nel constatare che «nessuno si interessa o può interessarsi di noi», nonostante abbia «32 anni di onorato servizio [e] 3 ferite di guerra» Gli unici punti di riferimento per gli Imi, vista la latenza delle istituzioni italiane, erano la Chiesa e la Croce Rossa, le quali predisposero gli immediati soccorsi nei capannoni dei vari centri, perché di questo si trattava, dove venivano accolti inizialmente gli Imi per essere poi schedati in base ad un trattamento differente per gli ufficiali generali e per i militari di truppa e i sottufficiali . Un rientro difficile, quindi, e ancora più ostile fu il doversi riadattare in un contesto sociale e politico fortemente mutato, in cui ad un sentimento di estraneità si univa la sofferenza nel dover lottare per far riconoscere i propri diritti.

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conclusioni (?!)

La parola fine su queste vicende? No. Più che altro l’avvio di un dibattito. Analizzando e intrecciando i vari racconti dei diversi internati militari italiani emergono analogie e differenze tra coloro che, al momento della cattura, risultano essere soldati semplici o ufficiali: due mondi apparentemente diversi ma, al tempo stesso, accomunati dalla sofferenza, dal dolore, dagli strazi, dagli stenti, dalla paura e soprattutto dalla morte. Quest’ultima caratterizzò le vite di generali e soldati nei modi più indicibili e atroci. Si passa dalle torture narrate dal soldato Luigi Algieri che riducevano gli internati a bestie, alle fucilazioni narrate dal generale Steiner: «Un ufficiale della SS che risaliva la colonna man mano li fece uccidere. Gli altri erano già allineati davanti al muro […] proseguirono tra disagi e maltrattamenti la marcia. Il gen. Ferrero, di complessione delicata e stanchissimo, non ebbe la forza di camminare ancora e sedette su un tronco salutando con la mano e con un sorriso i compagni. Il soldato tedesco […] lo uccise».

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La morte dei soldati e degli ufficiali nella maggior parte dei casi fu cruda e parimenti sofferta: dalle righe di alcuni diari degli ufficiali emerge con chiarezza l’agonia, l’angoscia e l’attesa per una morte terribile: «Uno […] aveva sulla testa una ferita larga dalla fronte all’occipite, larga, profonda, e purulenta: il pus misto a sangue, gli colava dalla fronte, gli aveva riempito un’occhiaia e, lungo il naso gli arrivava alla bocca. L’infelice non aveva più la forza di tergersi e si forbiva le labbra da quel pus, leccandole». Emergono inoltre condizioni simili per quanto riguarda il lungo e straziante viaggio; il mancato cibo; lo scarso igiene; il rifugio nella fede. I soldati e gli ufficiali hanno, inoltre, in comune le umiliazioni e le privazioni, l’essere ridotti a larve umane dai trattamenti loro riservati, anche se per gli ufficiali vi era un maggior occhio di riguardo in quanto ostaggi preziosi.

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Gli IMI furono costretti a viaggiare in condizioni disumane, senza acqua, senza cibo, senza la possibilità di poter soddisfare i propri bisogni. Durante il viaggio e all’arrivo al campo il nutrimento era scarso, troppo misero, tanto da non riuscire a dare loro le forze necessarie, tanto da far scendere anche notevolmente di peso soldati e ufficiali, tanto da portare alla morte molti di loro a causa della inanizione. Le precarie condizioni igieniche hanno rappresentato un significativo elemento di disagio per gli IMI, costretti a vivere nella sporcizia, con pidocchi, senza la possibilità di un riscatto per queste umiliazioni. Talvolta è nella fede, nella preghiera che i nostri internati militari italiani hanno trovato la speranza e la forza per il futuro: sono stati sostenuti da questa immensa fede, che, sostengono in molti, li ha salvati. Questi due mondi, così ravvicinati dall’esperienza del campo, presentano anche degli aspetti divergenti. Per gli ufficiali che, inseguendo i propri ideali, risposero NO alla repubblica di Salò, la vita negli Oflag poteva essere caratterizzata da momenti artistici in cui dare sfogo alla creatività e all’intelletto. Questo fu possibile perché per essi non era previsto il lavoro nel campo. Al contrario quei pochi soldati semplici che rinunciarono alla repubblica di Salò erano destinati, all’interno degli Stalag, al lavoro forzato, con poche possibilità di svago. Le condizioni dei soldati semplici risultano pertanto essere molto più drammatiche di quelle degli ufficiali, anche se dai diari di questi ultimi emerge a tratti un più forte disagio esistenziale. A prescindere dalle differenze proprie delle storie individuali, e dalle differenze emerse tra ufficiali e soldati, la storia dell’internamento è una storia triste, ricca di retroscena orribili, con situazioni, scene, paure impresse nei cuori e nelle anime di coloro i quali l’hanno vissuta.

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Quella degli IMI è una storia sociale complessa e molto profonda, generata da un Armistizio gestito male, dalla mancanza di direttive precise e da un clima di incertezze e titubanze da parte dei militari. Questo clima di generale confusione e mancanza di responsabilità ha generato la tragica storia di morte e sofferenza degli internati militari italiani, non subito venuta alla luce perché «la loro vicenda non si prestava a costituire il fondamento legittimante e unificante della nuova realtà statuale italiana in via di edificazione”.

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