“EL REBALTON” IN TRENTINO – 5

LADRI (NON SOLO) DI BICICLETTE

a cura di Cornelio Galas

“Anche in tutto il Nord va dilagando il pericolo nuovo, un pericolo che credevamo confinato nei ricordi dei nostri vecchi, e che invece va assumendo la paurosa diffusione di un’epidemia. La guerra ci ha lasciato quest’ultimo segno del suo passato e, come nei tempi più oscuri della nostra storia, una parola serpeggia con echi di sgomento: Banditi! Nelle vie delle città, sugli stradali, nelle case, di notte e di giorno, la gente è assalita, derubata, violentata in ogni maniera. Il mitra non tace”. (da «Il mitra non tace». Il Popolo trentino. Trento, 16 settembre 1945)

”EREDITÀ” LASCIATA DALLA GUERRA

L’eredità traumatica del conflitto, i suoi costi non solo umani e materiali ma innanzitutto morali apparvero in tutta la loro evidenza a distanza di qualche mese dalla sua conclusione. Già durante le giornate insurrezionali dell’aprile-maggio 1945 si era assistito ad una caduta di moralità e conseguentemente ad una violazione della legalità che profittava del caos generato dagli eventi bellici. In apparenza, sembrò che tutto si fosse risolto con la conclusione di quei giorni di totale «anarchia». In realtà, a distanza di qualche mese, Liberazione nazionale già delineava i tratti di un «brigantaggio» in via di sviluppo. Anche in Trentino, come nel resto d’Italia, l’incremento di forme di criminalità organizzata e di delinquenza comune sull’intero territorio provinciale fu il frutto malsano delle distruzioni belliche, della disoccupazione, del rientro dei reduci, dello spettro della fame e dell’inasprirsi del conflitto politico-sociale. Tutta una serie di fattori che, inequivocabilmente legati alla guerra e al difficile dopoguerra, proiettarono i loro effetti sui mesi e sugli anni seguenti. La notevole diffusione di armi da fuoco e la debolezza delle forze dell’ordine non facevano altro che favorire la diffusione di furti e rapine a mano armata.

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Ad aggravare il confuso contesto contribuiva la possibilità per i criminali di «mimetizzarsi», di «mascherarsi» sotto indumenti militari di diversa foggia e provenienza, che ne impedivano l’identificazione e la riconoscibilità da parte delle vittime. Come rileva Fabrizio Solieri, «nel marasma del dopo liberazione», spiccavano «i casi di malviventi che» approfittavano «di una divisa reperita chissà come per agire indisturbati nei loro furti e nelle loro rapine». A ciò si aggiungeva la presenza di ex militari tedeschi, di disertori italiani o degli eserciti alleati, tutti restii a rientrare nella legalità. Obbiettivi delle azioni delittuose non erano solo le proprietà private, ma anche le amministrazioni pubbliche statali. Massimo Storchi, per il caso modenese, ha evidenziato come «i reati contro le persone e/o il patrimonio pubblico» entrassero «quasi a far parte di una realtà quotidiana che, ancora per  parecchi mesi», sarebbe stata «sull’orlo di un completo collasso sociale». La violenza e la volontà di prevaricazione nei confronti dell’altro attraversarono generi e strati sociali, comunità e famiglie, reduci e disoccupati, partigiani e fascisti, pregiudicati di lungo corso o «giovani» incensurati. Proprio su questi ultimi si sarebbe evidenziato in misura maggiore il «pervertimento etico e morale» indotto dalla guerra. La violenza, non solo quella omicida, si scatenò sin nel nucleo familiare per dilagare poi alle comunità e ai singoli cittadini che si auto-proclamavano «giustizieri» per veri o presunti torti subiti. Non si trattò di una criminalità solo «trentina». Al contrario, essa assunse molto spesso un carattere «extraterritoriale», di confine, con banditi originari di altre regioni e province d’Italia o di altri Paesi europei. A livello nazionale, negli ultimi 15 anni, si è assistito ad una fioritura di studi e ricerche sui diversi dopoguerra locali, provinciali/regionali, che hanno condotto ad analisi complessive più attente e approfondite. Sui temi della criminalità e della violenza postbellica, se si esclude qualche recente contributo giornalistico, la storiografia locale ha posto solo qualche limitato accenno all’«impressionante diffusione della delinquenza». La visione di un Trentino, tutto sommato, «isola felice» all’interno del «marasma» sociale e spirituale prodotto dal conflitto deve allora essere riveduta e, soprattutto, inserita in un contesto nazionale ed europeo drammaticamente scosso e segnato dall’«ombra della guerra».

AL LADRO, AL LADRO !

Il materiale giudiziario conservato presso i Tribunali di Trento e Rovereto assieme a quello della Corte d’appello di Trento ha fornito non solo dati quantitativi significativi sui crimini e le illegalità compiute in provincia tra il 1945 e il 1948, ma ha rappresentato una fonte importante per stabilire le caratteristiche principali del fenomeno. «Chi», «cosa», «come» e «a chi» si rubava. Innanzitutto, si rubava tutto ciò che poteva servire, che poteva essere utilizzato o riutilizzato e quello che poteva essere rivenduto – di qui, molti gli imputati accusati di ricettazione. Si spogliava il prossimo di denaro, naturalmente, di cibo, vestiti, biciclette, pneumatici e automobili, ma anche di legna da ardere e combustibili come benzina e gasolio. Era inevitabile poi che alcuni furti fossero direttamente collegati alle rovine materiali ereditate dal conflitto.

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Nel luglio 1945, Liberazione nazionale denunciò il completo saccheggio delle caserme Battisti che avveniva di giorno e di notte senza che nessuno, a partire dallo Stato, vi ponesse rimedio («Il saccheggio alle caserme Battisti». Liberazione nazionale. Trento, 28 luglio 1945). Il fenomeno dello sciacallaggio si sviluppava proprio in questo ambito e approfittava dei disastri prodotti dalla guerra. Pio P. (Villazzano, 7 settembre 1921. Incensurato), nel settembre 1945, entrò a scopo di furto in un selettificio di Trento «sinistrato a seguito di incursioni aeree». A distanza di qualche giorno, Giulio M. (Rovereto, 19 gennaio 1901. Bracciante) s’impadronì di «quattro ruote da carro del valore di lire 10.000 […] che si trovavano nel cortile dello stabilimento vinicolo Todeschi, distrutto dai bombardamenti e così per necessità esposti alla fede pubblica». Nel gennaio 1946 e nel febbraio 1948, il carcere di Rovereto (Situato nei presi della linea ferroviaria, l’edificio era stato colpito il 31 gennaio 1945 nel corso dei bombardamenti alleati e successivamente evacuato dei partigiani, dei detenuti politici e comuni che ospitava) fu l’obbiettivo preferito degli sciacalli. Il furto e l’appropriazione indebita rappresentavano i reati più comuni e diffusi. Nel dicembre 1945, Bruno T. (Bolognano di Arco, 17 maggio 1901. Falegname, pregiudicato, senza fissa dimora) fu incarcerato per aver rubato una bicicletta di proprietà del Commissariato di Rovereto. Al momento dell’arresto, l’uomo dichiarò d’essere giunto a Rovereto «in cerca di lavoro ma che non avendo trovato occupazione ed essendo privo di mezzi, aveva progettato di impossessarsi di qualche bicicletta per poi offrirla in vendita onde ricavare il necessario per campare il lunario». La maggior parte di coloro che compirono atti illeciti viveva effettivamente in condizioni economiche di estremo disagio. Giovanni T. (Trento, 11 novembre 1904. Venditore di giornali), il 7 luglio 1945, fu sorpreso da un agente della Polizia partigiana di Rovereto mentre stava concludendo la vendita di una bicicletta che lui stesso aveva rubato pochi istanti prima. Nel corso dell’interrogatorio, Giovanni dichiarò «di aver commesso il furto perché […] non sapeva come procurarsi in altra maniera i mezzi necessari per sfamarsi». Guerrino M. (Arco, 11 novembre 1921. Manovale, disoccupato), nel novembre dello stesso anno, s’impossessò di «16 sacchi di tela juta, di un paio di pantaloni usati, di una coperta di lana e di altri indumenti […] ai danni di Aurelio Tarolli». Pochi giorni dopo, Michele F.( Arsiero, 29 dicembre 1919. Meccanico, nullatenente) e Riccardo T.(Lizzana, 8 luglio 1926. Apprendista meccanico, nullatenente) furono arrestati per essersi impadroniti a Rovereto di un numero imprecisato di lenzuola sottraendole da un terrazzo dell’albergo Vittoria. Inoltrando la domanda di libertà provvisoria in favore di Michele, l’avvocato Giuseppe Ferrandi registrò le particolari condizioni del suo assistito: “Egli è un reduce dalla guerra, combattuta con gli eserciti alleati, e si è trovato al suo ritorno a Rovereto senza lavoro e nella necessità di mantenere un figlio di sei anni, mentre la moglie da tempo è stata costretta a recarsi a lavorare a Bolzano”.

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Uno degli obbiettivi preferiti, però, erano i contadini e soprattutto le malghe per gli animali che ospitavano o per i generi alimentari che producevano. Spesso si trattava di azioni organizzate in grande stile. Nel settembre del 1945, alcune malghe sopra Levico furono depredate da «otto malviventi mascherati» che, sotto il tiro dei loro «mitra», minacciarono i malgari di ritorsioni nel caso in cui li avessero denunciati. L’unica possibilità di riconoscere i criminali era data dalla diversa inflessione dialettale – in questo caso, quattro dei rapinatori erano di origine vicentina. Luigi T. (S. Angelo di Piave, 28 novembre 1898) e Francesco T. (Schio, 15 dicembre 1912. Meccanico, nullatenente), nel giugno 1946, rubarono due mucche e una vitella alla malga Posta di Folgaria. I fratelli Marino (Borgo Valsugana, 7 aprile 1924) e Mario M. (Borgo Valsugana, 11 aprile 1923), il primo gennaio 1946, s’impossessarono di una mucca del valore di 50 mila lire da un maso nei pressi di Roncegno. Qualche mese prima, nel giugno 1945, Marino aveva compiuto un furto di burro e formaggio a danno del gestore di una malga in località Sella, sopra Borgo Valsugana. Il semplice furto poteva, in alcuni casi, costare molto caro ai ladri. Nel marzo 1947, Luigi G. (Pavone Mella, 2 dicembre 1911. Manovale, nullatenente, pregiudicato), Rodolfo C. (Brescia, 8 gennaio 1906. Meccanico, pregiudicato) e Alfredo S. (Tredossi, 18 febbraio 1905. Meccanico) tentarono di forzare il deposito di cicli e motocicli di Guerrino Delana a Riva del Garda. Dopo una breve collutazione col proprietario che li aveva sorpresi sul fatto si diedero ad una fuga precipitosa. Due carabinieri di pattuglia nei paraggi, sentite le grida della vittima – «al ladro, al ladro!» – e scorta l’ombra di due fuggitivi, si diedero all’inseguimento. Un vicebrigadiere sparò alcuni colpi di pistola in aria «a scopo intimidatorio», ma, ad un certo punto, incespicò facendo partire un ultimo proiettile che feriva uno dei due ladri «nella regione soprascapolare destra».

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Tra i delinquenti comuni, fecero la comparsa anche individui che le vicende belliche avevano sbattuto in giro per l’Europa e che, una volta giunta la «pace», si trovavano nei luoghi dove la tempesta li aveva fatti naufragare. Taddeo W. (Tredossi, 18 febbraio 1905. Meccanico), fu arrestato dai carabinieri di Trento per il furto di una bicicletta. Francesco C. (Varsavia, 30 settembre 1911. Senza fissa dimora, incensurato) e Giovanni D. (Germania, 7 ottobre 1925) approfittarono dell’ospitalità di alcuni civili per impossessarsi di «capi di vestiario e cinque kg di farina gialla per un valore complessivo di 30.000 lire». Leopold W. (Graz, 2 febbraio 1922. Elettrotecnico, nullatenente, ex soldato tedesco) , ex soldato della Wehrmacht di stanza alla fine della guerra a Riva del Garda, fu incriminato per il furto di un’autovettura e di 14 ruote gommate, avvenuto nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 1946. In alcune occasioni, l’illegalità diffusa aveva per protagonisti gruppi anche consistenti d’individui. La disoccupazione e le precarie condizioni economiche furono i motivi principali che condussero 28 persone – tutte originarie o residenti a Lastebasse, Vicenza – sul banco degli imputati nel luglio 1949. Due anni prima e ripetutamente nell’intero arco del 1947, si erano appropriate di quantitativi di legname a danno della comunità di Folgaria e per tale motivo erano state denunciate. Il contenzioso, come rilevava una nota della prefettura di Trento, aveva avuto inizio nel gennaio dello stesso anno.

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Il 20 corrente (gennaio 1947)] la popolazione di Lastebasse (Vicenza) inscenava una manifestazione di protesta per questioni di proprietà di una zona boschiva contestata fra detto comune e quello di Folgaria (Trento). In questo caso, si trattava di una «guerra fra poveri», un contenzioso che si era sviluppato tra due comunità, l’una gelosa delle proprietà possedute e l’altra spinta a rivendicare il diritto ad utilizzarle. Visto che la manifestazione inscenata in gennaio non aveva sortito effetti, alcuni abitanti di Lastebasse avevano deciso autonomamente d’impadronirsi del legname necessario ad affrontare i rigori dell’inverno alle porte (Il fattore climatico incideva profondamente spingendo la popolazione a tagliare e rubare legname a danno del demanio comunale).

I furti ed i tentati furti non riguardarono solo cittadini comuni, ma si allargarono ben presto ad aziende private, alle amministrazioni pubbliche e statali. Giulio C. (Mori, 23 ottobre 1925. Contadino) e Quinto G. (Mori, 14 novembre 1925. Contadino) furono arrestati nel giugno 1945 per aver sottratto materiale di proprietà della Società elettrica trentina (STET) per un valore pari a 15 mila lire. I due, interrogati dai carabinieri, affermarono di aver creduto che si trattasse di materiale «abbandonato dalle truppe tedesche». Nell’agosto successivo a Levico, quattro individui s’impossessarono di 30 metri di cavo telefonico a danno della Società telefonica veneta (TELVE). La refurtiva ricavata da queste imprese poi poteva essere rivenduta al mercato nero ottenendo così un cospicuo guadagno. La cronaca di quei mesi travagliati annotava scrupolosamente questi atti «vandalici» che frustravano lo sforzo di ricostruzione e rappresentavano un inutile spreco di risorse materiali e umane. Le ruberie compiute a danno del patrimonio pubblico rappresentavano forse il tratto più distintivo di una predisposizione egoistica e del tutto personale indotta certo dalle precarie condizioni economiche e materiali, ma totalmente indifferente al danno che ne derivava per la comunità nel suo complesso.

Nemmeno gli organismi nati dalla Resistenza o coloro che avevano contribuito alla liberazione dal nazifascismo furono immuni da questo saccheggio selvaggio e indiscriminato. Nel giugno 1945, Francesco G. (Rovereto, 19 ottobre 1913. Meccanico) e Luigi G. (Rovereto, 12 giugno 1919. Tipografo) s’impadronirono di una Fiat Topolino di proprietà della commissione giustizia del CLN di Rovereto che le era stata assegnata «per facilitarla nelle operazioni d’indagine». Sempre a Rovereto, Silvio T. (Trambileno, 3 ottobre 1902. Muratore, pregiudicato) e Adriano C. (Rovereto, 2 novembre 1895. Manovale, pregiudicato) rubarono «13 balle di stoffa, sottraendole mediante chiave falsa o grimaldello dal magazzino del CLN di Rovereto in danno e senza il consenso di questo». Ida P. (Riva del Garda, 24 febbraio 1902. Vedova con due figli, casalinga, condizione economica mediocre), nel settembre 1945, riuscì ad entrare in possesso di otto bidoni di benzina sottraendoli agli alleati.

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Il quadro che si delineava in quel secondo dopoguerra non era affatto lineare. Le complicità che molto spesso sorsero tra i vari attori presenti sulla scena furono palesi. Si verificò, in altre parole, una certa connivenza tra i civili, che si adoperavano per trarre qualche vantaggio materiale, e i militari. Tra questi, una quota rilevante era costituita dai prigionieri di guerra tedeschi, impiegati come forza lavoro dall’amministrazione alleata. Giuseppe D. (Nomi, 6 maggio 1906. Contadino, condizioni economiche discrete, condotta buona) e Rino B. (Nomi, 18 ottobre 1918. Contadino, condizioni economiche discrete, condotta buona) furono denunciati per furto di 30 metri di cavo telefonico di proprietà del Comando angloamericano lungo il tratto Nomi-Pomarolo. In realtà, i due avevano «acquistato» il materiale, barattandolo con del vino, da tre soldati germanici addetti ai lavori di attivazione della linea telefonica. Giovanni B. (Vanzo di Trambileno, 6 dicembre 1899. Contadino) ed il figlio (Vanzo di Trambileno, 20 ottobre 1923. Contadino) furono accusati d’essersi impossessati, nella notte del 29 agosto 1945, «di due pezzi di rotaia valenti almeno lire 600 sottraendoli in danno dell’AMG dalla linea ferroviaria dove tale materiale era accatastato per i lavori di riattamento della linea stessa». I due imputati avevano agito con la collaborazione di un «militare germanico di guardia al ponte sul Leno».

La delinquenza comune attinse a piene mani soprattutto dal patrimonio statale italiano. In questo ambito, le vittime preferite furono l’amministrazione delle ferrovie, delle poste e telegrafi e quella militare. I furti di materiali vari a danno delle linee ferroviarie non si contarono e gravi sottrazioni subirono ad esempio in corrispondenza dei paesi di Ala, lungo il tratto Mori-Marco e a Ora. Mario C. (S.Michele all’Adige, 13 giugno 1921. Incensurato), Rodolfo B. (S. Michele all’Adige, 14 novembre 1926. Incensurato), Giuseppe A. (S. Michele all’Adige, 29 gennaio 1924. Incensurato) e Armando S. (S.Michele all’Adige, 3 dicembre 1928. Incensurato), la notte del 28 giugno 1945, entrarono nella stazione ferroviaria di Mezzolombardo rubando e asportando materiali con «violenza sulle cose». A Rovereto, Giuseppe G. (Vallarsa, 19 marzo 1923. Apprendista, nullatenente), Onorio F. (Marco di Rovereto, 10 giugno 1923. Apprendista, nullatenente), Enrico G. (Rovereto, 14 settembre 1923. Falegname, nullatenente) e Fulvio F. (Rovereto, 21 gennaio 1926. Meccanico, nullatenente) furono fermati nell’ottobre 1945 mentre stavano portando via un certo quantitativo di rotaie.

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“Verso le 9 di oggi chiamati dal locale comando militare inglese, ci siamo recati alla linea ferroviaria, nei pressi del ponte sul Leno, dove notammo, nell’interno del campo prigionieri tedeschi, un carro agricolo con un carico di 6 pezzi di rotaie ferroviarie. Il militare inglese ci riferì che la decorsa notte furono sorpresi i nominati F. Onorio, G. Giuseppe, F. Fulvio e G. Enrico, generalizzati in oggetto, mentre asportavano le rotaie in questione”.

Interrogati dai carabinieri, i quattro riferirono «che le rotaie erano loro necessarie per la costruzione di poggioli nelle rispettive abitazioni, danneggiate da incursioni aeree». In alcuni casi si trattò di vere e proprie espropriazioni di massa. Nel dicembre 1945, i militi dell’Arma di Avio riuscirono ad identificare ben 38 persone responsabili di furto e ricettazione di materiale ferroviario. Le frequenti sottrazioni a danno delle Ferrovie preoccuparono seriamente le autorità civili non solo perché mettevano potenzialmente in pericolo l’incolumità dei passeggeri, ma soprattutto perché ritardavano la ripresa dei normali collegamenti. Quest’ultimo aspetto influiva negativamente sul rilancio economico e alimentare della provincia che, al contrario, aveva urgente bisogno di vie di comunicazione attive ed efficienti. Nell’aprile 1948, comparvero dinnanzi al Tribunale di Rovereto dieci persone denunciate per furto aggravato e ricettazione a danno delle Ferrovie dello Stato, reati avvenuti verso la fine di aprile del 1946. Nel rinviare gli imputati a giudizio, il Giudice istruttore, nell’aprile dell’anno successivo, non aveva potuto nascondere il suo biasimo per «reati profondamente antipatici e pericolosi specie nell’attuale momento in cui il Paese» era «largamente depauperato, anche della normale ripresa dei servizi pubblici». Nel 1948, Aliano V. (Trevenzuolo (Verona), 18 maggio 1893. Vedovo con quattro figli, impiegato delle ferrovie, nullatenente), Silvano T. (Volano, 8 ottobre 1923. Contadino, nullatenente), Lodovico T. (Volano, 5 dicembre 1928. Contadino, nullatenente), Mario F. (Volano, 12 aprile 1925. Contadino, nullatenente) e Alberto F. (Nomi, 11 ottobre 1912. Operaio disoccupato, condizioni economiche tristi, pregiudicato) furono fermati da agenti della Polizia ferroviaria di Verona per aver rubato, tra gennaio e marzo, un certo quantitativo di filo elettrico (per l’ammontare però di oltre 2 milioni di lire) «provocando un gravissimo pericolo per il servizio ferroviario».

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Le prede più ambite dai delinquenti erano tuttavia i depositi di materiale bellico, rastrellato o meno all’indomani del conflitto, le caserme e i magazzini custoditi da militari dell’esercito italiano. Anche in questo caso, non furono rari il tacito consenso e le complicità tra gli uni e gli altri. Luigi M. (Riva del Garda, 19 settembre 1926. Apprendista meccanico, nullatenente), Valentino C. (Susà di Pergine, 8 febbraio 1924. Bracciante, nullatenente, condotta mediocre), Lino B. (Villa Lagarina, 4 giugno 1927. Operaio, nullatenente) e Giovanni L. (Noriglio, 13 febbraio 1923. Apprendista meccanico) furono giudicati colpevoli di ricettazione e tentato furto aggravato. La sera del 7 giugno 1945, i carabinieri di Rovereto avevano fermato Luigi e Valentino mentre trasportavano «un sacco contenente una balla di tela tipo militare del peso di Kg. 27, n. 45 pacchetti di filo nero […] e n. tre maglioni grigio verde pesanti di tipo militare nuovi». Alle domande dei militi dell’Arma che intendevano scoprirne la provenienza, i due giovani dichiararono «di aver poco prima acquistato la merce […] da un soldato italiano a loro sconosciuto appartenente alla Divisione Folgore dislocato nella Caserma alpini di Rovereto». Condotti alla stazione dei carabinieri, rimasero detenuti per alcuni giorni. Luigi, rilasciato in libertà provvisoria, tentò un altro colpo assieme a Lino e Giovanni. Questa volta, però, i tre «balordi» furono messi in fuga dai «colpi di fucile della sentinella» che aveva reagito prontamente. Nell’agosto successivo, Marco T. (Caldonazzo, 9 aprile 1924) e Bruno Z. (Aviano, 26 aprile 1922), con la complicità di sette militari della Friuli, riuscirono ad introdursi nel magazzino militare di Caldonazzo asportando materiali di preda bellica. Mario F. (Ravina, 31 agosto 1927. Incensurato) e Mario F. (Trento, 27 gennaio 1924. Incensurato), nel settembre 1945, furono arrestati dopo aver rubato un motorino di proprietà dell’esercito penetrando nella caserma Mas Desert di Trento. Nel luglio 1946, Mario F. (Gardolo, 4 marzo 1920), Italo M. (Ravina, 31 marzo 1926) e Giuseppe R. (Gardolo, 18 dicembre 1923) furono ritenuti colpevoli del furto di un motore d’autocarro presso il campo di Lamar di Gardolo.

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Purtroppo, non si trattava di azioni prive di rischi. Molto spesso i ladri potevano rimanere feriti o uccisi per il grilletto facile delle sentinelle. Proprio nel corso del tentato furto a Lamar, la guardia Cesare T. (Salorno, 26 marzo 1924. Incensurato) sparò un colpo di mitra contro Giuseppe ferendolo gravemente e lasciandolo in pericolo di vita per alcuni giorni. Furono soprattutto i giovani ad essere autori e al contempo vittime dei furti o dei tentati furti che intendevano portare a termine. Nel novembre 1945, Ezio Folgheraiter rimase fulminato mentre cercava di scavalcare il recinto ad alta tensione che circondava il campo di Spini di Gardolo adibito a parco automezzi militari. Alla fine dell’ottobre precedente, Renzo Zuccati di 20 anni, «entrato furtivamente» nello stesso deposito, fu ucciso da una sentinella «malgrado i ripetuti richiami». Identica sorte attendeva qualche giorno dopo il sedicenne Valerio Rizzi che, introdottosi nel magazzino militare di Mori, si stava allontanando con un «quantitativo di tondini di ferro». Il soldato di guardia, «accortosi della presenza del ragazzo, dopo ripetuti richiami ed aver sparato alcune salve in aria, mirava sul Rizzi, colpendolo alla regione cardiaca». Ciò che sorprendeva erano le modalità che, in entrambi gli episodi, furono assolutamente uguali. All’intimazione di fermarsi, i giovani ladri disubbidivano noncuranti del pericolo, forse pensando che i militari non avrebbero aperto il fuoco. La risposta a questi comportamenti al limite del suicidio potrebbe essere ricercata proprio nel contesto postbellico: alla ritrovata libertà non corrispose il ritorno a forme di convivenza civile e pacifica, tutto appariva lecito. Individui che non avevano mai avuto problemi con la giustizia, nel dopoguerra si rendevano responsabili di reati. La fame o la necessità spingevano a delinquere.

LE STATISTICHE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI

Le tabelle che seguono mostrano l’incidenza del reato di furto per gli anni immediatamente successivi alla conclusione del conflitto. I dati ricavati sono stati confrontati con quelli compiuti nel 1938 e nel 1942. Almeno inizialmente lo scoppio del conflitto – come è possibile constatare per il 1942 – fu seguito non da un aumento ma da una riduzione del tasso di violenza.

Si tratta di un fenomeno in parte spiegabile con il fatto che «le tensioni psicologiche […] prodotte dagli eventi bellici» potevano «servire a distogliere dalle tendenze antisociali latenti negli individui». Inoltre, la guerra sottraeva alla comunità civile «le classi più giovani di età», maggiormente disposte a dare il proprio contributo alla criminalità. La prosecuzione drammatica del conflitto, l’occupazione tedesca, lo scatenarsi della guerra civile in Italia e l’immediato dopoguerra, con il ritorno dei giovani che avevano vissuto di persona l’esperienza traumatica del fronte – o dei fronti di guerra – della prigionia e della guerra fratricida, contribuirono all’incremento della criminalità. I dati relativi al Trentino confermano le riflessioni fatte a suo tempo da Dario Melossi per il quadro nazionale. Secondo Melossi, il tasso inferiore di criminalità registrato durante il conflitto andava ricondotto all’«unità e determinatezza di proposito tipici di un paese in guerra». Il drammatico sconvolgimento politico e identitario provocato nella società italiana dall’8 settembre 1943 e dalle lotte intestine della guerra civile aveva influito in maniera determinante soprattutto a partire dal biennio 1945-1946 ad alzare l’indice dei crimini perpetrati (omicidi, rapine, ecc.). L’apporto dei soggetti «più giovani» risulta evidente dalla suddivisione per classi d’età degli imputati comparsi dinnanzi al Tribunale di Rovereto e al Tribunale e alla Corte d’assise di Trento tra il 1945 e il 1948. In altre parole, la guerra corruppe e confuse moralmente il comportamento sociale dei giovani, in particolare di quelli compresi nella prima classe d’età (15-30 anni) e nella seconda (30-45 anni). Secondo Dondi, «la radice della delinquenza giovanile» andava ricercata nelle mancanze del «mondo adulto» che, in quel momento, «non» era «in grado di fornire alcun modello e alcun freno ai giovani». In questo modo, la loro «naturale esuberanza» fu «liberata e male indirizzata dalla condizione bellica e dai suoi strascichi». L’attività criminale e delinquenziale avrebbe contraddistinto il triennio 1945-1948. Seppur con picchi disomogenei e incostanti, la tendenza rilevata era destinata a scendere con il trascorrere degli anni fino a declinare definitivamente a partire dal 1948 e a rientrare in una sostanziale «normalità».

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La relazione del gennaio 1946 compilata dalla Direzione generale di pubblica sicurezza definiva «grave» la situazione della provincia di Trento. Alla fine dello stesso anno, il prefetto di Trento riportava ancora una recrudescenza dell’attività criminosa «seppure lieve rispetto a quella dei periodi precedenti». Nel maggio 1947, si segnalava che il tasso di criminalità si manteneva pressoché stazionario «con lieve tendenza all’aumento». Pochi mesi dopo, nell’ottobre 1947, si affermava che l’attività criminale tendeva invece «alla diminuzione». Nell’aprile 1948, a distanza di pochi giorni dalle elezioni politiche del 18 aprile, il Corriere tridentino evidenziava il generale assestamento della vita civile e la discesa della parabola delinquenziale che si stavano verificando in tutto il Paese anche grazie al miglioramento operativo e organizzativo delle forze dell’ordine. C’è una lenta ma inesorabile inversione di tendenza della criminalità in provincia di Trento che viene confermata dai reati giudicati dal Tribunale di Rovereto competente per il territorio del Trentino meridionale.

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Dal picco degli oltre 230 reati compiuti nel solo mese di agosto 1945 si giunse ai poco più di 40 nel dicembre 1948. Il quadro del Trentino postbellico non solo è in parte assimilabile – qualitativamente se non quantitativamente (Per il solo ambito modenese relativo al 1945, si riportano ad esempio 833 rapine e 2.044 furti ) – a ciò che accadeva nel resto del territorio nazionale, ma anche a ciò che si riproduceva nel più ampio contesto europeo e nelle stesse nazioni uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale.

Come rileva Dondi, «la devianza» criminale riguardò ad esempio la Gran Bretagna con l’aumento di rapine e furti, spesso compiuti da «disertori di guerra». Gli stessi contemporanei erano consapevoli che il dilagare della criminalità comune e del banditismo non rappresentava una «peculiarità» trentina o italiana. Nel dicembre 1945, Liberazione Nazionale accennava ad un’«ondata di delinquenza» che stava contagiando «tutto il mondo». In Canada, «furti e omicidi» erano «all’ordine del giorno e […] in aumento» erano «i delitti passionali e la criminalità giovanile»; Londra era infestata da bande di disertori senza identità mentre il governo sudafricano aveva istituito addirittura «la pena di morte per i crimini più gravi». Allo stesso tempo, Parigi assisteva ad «un gran numero di aggressioni, rapine e furti […] commessi da persone che», si noti bene, vestivano «l’uniforme americana».

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All’indomani del conflitto, Paolo Berlanda aveva sottolineato come il «problema della ricostruzione» fosse un problema di natura «essenzialmente morale». Secondo l’esponente democristiano, si trattava di uno «sbandamento», di uno «smarrimento del senso di onestà, di dignità, di correttezza politica e sociale» verso il prossimo. Una situazione complicata dallo stato d’indigenza in cui versava la società trentina ed italiana più in generale perché «era difficile rimanere o diventare onesti nel più completo significato della parola, quando i figli soffrono la fame e la occasione di approfittare di ciò che non è nostro si presenta facile e allettante». Nel marzo 1946, Egidio Bacchi, rispondendo ad un lettore di Liberazione Nazionale che aveva posto alcune obiezioni ad alcuni suoi articoli apparsi nei giorni precedenti, tentava d’individuare le cause della criminalità «trentina» nella «mala pianta» che aveva prodotto «frutti di tossico» che annebbiavano «gli spiriti» e spegnevano «le vite».

La mala pianta è quella della civiltà capitalistica nella sua espressione più esasperata e delittuosa: il fascismo prima e quindi la guerra, sua naturale conseguenza, con tutte le sue sciagure e orribili perversioni. Su questo piano, a stretto rigore di coscienza, chi si salva anche di una benché minima responsabilità nelle sventure che d’ogni intorno ci circondano? La crisi in cui si inquadra questo triste episodio è una crisi di civiltà […]. Tutti abbiamo colpe da scontare e qualcosa da migliorare in noi stessi […].

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Si trattava di una «crisi di civiltà» che, del resto, attraversava non solo la società trentina o italiana ma, come si è visto, anche le stesse nazioni europee che avevano vinto la guerra. Lo scadimento dei valori etici e morali aveva interessato gran parte dei Paesi europei attraversati dalla guerra e dall’occupazione nazista e, in Italia, era stato ulteriormente aggravato dal Ventennio fascista. Il fascismo e la guerra avevano contribuito ad offuscare il ricordo di una convivenza pacifica e civile. Il primo aveva introdotto nella pratica e nel linguaggio quotidiano una vera e propria «cultura della violenza», politico-ideologica oltre che bellica, che si era drammaticamente aggravata con lo scoppio della seconda. Secondo Storchi, questa cultura della violenza aveva inciso profondamente «su più generazioni formatesi nell’ambito dell’educazione e della prassi fascista», naturalmente fondate sull’esaltazione della forza e incapaci di educare al confronto dialettico. Nel caso italiano, poi, la guerra si era trasformata in un profondo smarrimento identitario da cui era scaturito un conflitto fratricida che aveva infiammato il biennio 1943-1945. «La scarsa visibilità delle istituzioni e dello Stato» aveva di fatto riportato la società italiana ad uno «stato di natura» di hobbesiana memoria dove sembrava «vigere la legge del più forte» con inevitabili strascichi nell’immediato dopoguerra. Ciò di cui il popolo italiano aveva bisogno – come accennava tra le righe lo stesso Bacchi riferendosi al diffondersi della delinquenza in provincia – era un esame di coscienza sulle proprie responsabilità morali poiché «tutti» avevano «colpe da scontare» nell’avvento di quel fascismo che aveva condotto al disastro della guerra e dell’occupazione tedesca. Fare i conti con la propria coscienza avrebbe voluto dire riflettere sul proprio passato più recente, sul fascismo, sulle complicità che lo avevano reso possibile, sulle responsabilità soggettive e oggettive dei singoli che avevano sostenuto il regime in qualsiasi modo e in qualsiasi ambito.

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Per dimostrare che, effettivamente, l’Italia – e con lei, il Trentino – aveva iniziato un nuovo percorso sulla strada della libertà e della democrazia occorreva «epurare» il corpo della società dagli elementi collusi con il Ventennio. Inoltre, pur nell’ambito di una situazione totalmente differente dal resto del panorama nazionale, anche in Trentino si avviarono i procedimenti giudiziari a carico di coloro che avevano attivamente «collaborato» con l’occupante tedesco o sostenuto in qualsiasi modo la Repubblica sociale italiana.

FONTI E BIBLIOGRAFIA: vedi “El Rebaltón” in Trentino – 1

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