“EL REBALTON” IN TRENTINO – 4

LE BOMBE UCCIDONO ANCHE DOPO LA GUERRA

a cura di Cornelio Galas

Già al momento del crollo italiano nel settembre 1943, la popolazione era entrata in possesso di ingenti quantità di armi, munizioni e materiali, abbandonati o ricevuti direttamente dai soldati che volevano disfarsene. Una parte consistente di queste, poi, arrivò ai nuclei partigiani in via di formazione. Al «rebaltòn» dell’8 settembre, seguiva poco meno di due anni dopo la resa delle forze germaniche in Italia del maggio 1945. La cessazione delle ostilità aveva sorpreso soldati e reparti germanici mentre si ritiravano attraverso le province di Trento e Bolzano. «Ancora bene armate ed equipaggiate», le truppe erano rimaste poi stanziate nelle due regioni «per qualche settimana». Nel corso della permanenza, i soldati avevano cominciato a disfarsi «delle armi modernissime di cui erano in possesso», «abbandonandole sulla strada» o «vendendole alla popolazione». La situazione creatasi alla fine del conflitto contribuiva ad incrementare ulteriormente il numero di armi da fuoco – più moderne ed efficienti – e la disponibilità di munizioni da parte dei civili.

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A volte l’intervento dei partigiani fu provvidenziale nel disarmare le unità militari di passaggio sul territorio. Tra i reparti tedeschi in ripiegamento, erano mescolate anche formazioni fasciste. Da Vermiglio, il 23 maggio 1945, si segnalava il transito, avvenuto nelle giornate insurrezionali, di un reparto della GNR proveniente dalla Valtellina (Era il luogo dove i fascisti avrebbero dovuto organizzare la difesa finale della Repubblica sociale italiana. Il progetto era stato discusso intorno alla metà di aprile del 1945 in una riunione nella residenza di Mussolini a Gargnano tra i rappresentanti tedeschi e i massimi dirigenti di Salò. Tale incontro fu l’ultimo ad alto livello. Erano presenti, oltre allo stesso Mussolini, il capo delle Brigate nere, Alessandro Pavolini (Firenze, 27 settembre 1903-Dongo, 28 aprile 1945), il maresciallo d’Italia, Rodolfo Graziani (Filettino, 11 agosto 1882-Roma, 11 gennaio 1955), l’ambasciatore tedesco in Italia, Rudolf Rahn (Ulma, 13 marzo 1900-Düsseldorf, 7 gennaio 1975), il generale delle SS, Karl Wolff (Darmstadt, 13 maggio 1900-Rosenheim, 17 luglio 1984), ed il colonnello Friedrich Dollmann. È ipotizzabile che l’unità della GNR o delle Brigate nere passata in Trentino fosse uno dei reparti su cui Mussolini faceva affidamento per l’estrema resistenza fascista)  dal passo del Tonale. Dopo aver pernottato in paese, i militari repubblicani ripartirono il mattino successivo, ma non riuscirono a raggiungere la loro meta che, quasi certamente, era l’Alto Adige. A Revò, in val di Non, i soldati furono definitivamente bloccati e disarmati. «Dopo un’ora di trattative», l’unità fu privata completamente dell’equipaggiamento ed i militari furono rispediti verso il Tonale. I partigiani riuscirono così ad entrare in possesso di un considerevole bottino in armi e munizioni: «10 mitragliatrici pesanti, 30 mitragliatrici leggere, 50 fucili mitragliatori, 150 fucili, 1.000 bombe a mano, quattro armi anticarro, 10 pistole Beretta, quattro autocarri». Purtroppo, non sempre l’attività di recupero fu condotta a termine senza conseguenze per la popolazione. Sempre a Revò, «un membro del CVL durante il mese di maggio rastrellò 87 bombe a mano gettate dai tedeschi lungo la strada […] Tonale-Mendola». Una pesante eredità visto che, pochi giorni dopo, «nella prima quindicina di maggio due bombe scoppiarono per l’imprudenza di un ragazzo e di un giovane; il ragazzo fu ferito […]; il giovane rimase ucciso sul colpo».

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Armi, munizioni e ordigni esplosivi rappresentavano un evidente pericolo per giovani incoscienti che, spinti dalla curiosità, li maneggiavano imprudentemente. Il 3 maggio 1945, nel giro di poche ore e in località diverse, morirono a causa dell’incauto utilizzo di granate a mano e ordigni bellici inesplosi nove persone mentre due rimasero ferite. A Pilcante, vicino Ala, «in seguito allo scoppio di un deposito di munizioni delle FFAA [Forze armate] germaniche», persero la vita Dante Pasqualini, di 15 anni, e Silvio Abbondi di 17. Nereo Cavagna, di 15 anni, e Renato Peroni, di 16, rimasero feriti. Nei pressi di Dorsino, la fine del conflitto provocò la morte di un altro ragazzo. Informati che i soldati tedeschi avevano abbandonato armi ed equipaggiamenti, un gruppo di ragazzi era andato a recuperarli. Lungo la strada, Americo Fallagiarda (o Falagiarda) – Dorsino di S. Lorenzo in Banale, 17 gennaio 1926-3 maggio 1945 – «trovò nelle acque del torrente Ambies un ordigno di ferro della lunghezza di circa un metro e del diametro di circa sei cm. Ritenendo trattarsi di un pezzo di ferro qualunque, lo raccolse per portarlo a casa, ma avendo premuto inavvertitamente una molla, l’ordigno esplodeva violentemente, uccidendolo». Ad Andalo, altre sei persone, non tutte minorenni, rimasero vittime di un’improvvisa esplosione mentre curiosavano nell’ex edificio adibito a sede della Gioventù italiana del littorio GIL (Organizzazione erede dell’ONB che si occupava dell’inquadramento ideologico della gioventù italiana) locale. Persero così la vita Emilio e Ludovico Bottamedi, di 18 anni, Angelo Pittigher, Secondo Osti e Leo Bottamedi, di 16 anni, Secondo Melchiori, di 32. I ragazzi erano entrati nell’edificio «ov’erano state depositate [sic!] materiali esplodenti da un comando militare germanico, colà di stanza, ritiensi allo scopo di asportare qualche oggetto». Accidentalmente, qualcuno doveva «aver toccato o manomesso qualche mina od altro ordigno esplosivo».

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Sempre nel maggio 1945, a Frate, sul monte Finonchio, quattro ragazzini (Le vittime erano Valerio Senter (21 anni), Giuseppe Senter (16 anni), Irma (18 anni), Cornelio e Pierino Senter (14 anni), che, sebbene ferito, sopravvisse. Si confronti «Raccapricciante disgrazia sul monte Finonchio». Liberazione nazionale. Trento, 19 maggio 1945) rimasero dilaniati dallo scoppio di una bomba a farfalla (Prodotte e utilizzate dai tedeschi nel corso del secondo conflitto mondiale, rappresentavano la prima versione delle odierne cluster bombs, le cosiddette «bombe a grappolo». Prima di toccare il suolo, l’ordigno rilascia decine di mini-bombe che, in teoria, dovrebbero esplodere all’impatto col terreno. In pratica, restano in agguato sul terreno per anni, pronte ad uccidere al minimo contatto, provocando l’amputazione di arti e terribili infezioni. Entrate nell’arsenale bellico delle principali potenze mondiali, ancora oggi rappresentano una pesante eredità per le comunità e per i territori teatro di conflitti bellici). La curiosità, l’imprudenza e l’incoscienza giovanile potevano avere drammatiche conseguenze per l’incolumità di altre persone. Nel giugno 1945, in val di Non, la deflagrazione di un ordigno non provocò né vittime né feriti, ma riportò alla memoria il terrore dei bombardamenti aerei. L’esplosione, provocata ancora una volta da «alcuni ragazzi», aveva scatenato «pericolose manifestazioni di panico». La presenza sul territorio di depositi e polveriere militari contribuiva a mantenere in uno stato di continua apprensione le comunità residenti. Ne erano pienamente coscienti le autorità militari che, sin dalla fine di maggio del 1945, avevano informato direttamente i CLN provinciali. L’esistenza d’«ingenti quantitativi di materiali esplosivi, detonanti e chimici in parte abbandonati e incustoditi» costituivano «serio pericolo per la popolazione civile». Tuttavia, le difficoltà oggettive in cui s’imbattevano amministrazioni civili e militari non permettevano un’azione tempestiva ed efficace nella rimozione degli ordigni. La complessità di compiti e soprattutto l’«estensione di territorio, in relazione agli scarsi mezzi a disposizione», ostacolavano «alla Direzione di Artiglieria […] l’assolvimento […] del compito affidatole».

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Sfortunatamente, anche nel caso in cui si fosse riuscito a rastrellare e conservare in appositi locali e magazzini il materiale esplosivo recuperato, l’imperizia o l’inosservanza delle norme di sicurezza potevano risultare fatali. Nel luglio 1945, l’incendio di «un deposito provvisorio di materiale esplosivo, già appartenente all’esercito germanico […] in località Cirè di Pergine», causò la morte di tre militari ed il ferimento di altri due soldati e di un civile. Ancora nel luglio 1948, saltò in aria la polveriera di Caldaro in Alto Adige provocando «dieci morti e miliardi di danni» («Saltata in aria la polveriera di Caldaro». Corriere tridentino. Trento, 27 luglio 1948; «Dieci morti e miliardi di danni». Corriere tridentino. Trento, 28 luglio 1948) I quotidiani locali tentarono d’informare più volte la cittadinanza circa il pericolo rappresentato dalle bombe. Numerosi furono gli inviti a denunciarne l’esistenza e, contemporaneamente, si resero noti anche gli ingenti ritrovamenti e sequestri di esplosivo sul territorio. Tuttavia, i continui avvertimenti non riuscirono ad impedire incidenti e disgrazie. Numerosi civili – soprattutto ragazzi e bambini, ma anche militari e vigili del fuoco addetti alla sicurezza – persero la vita in seguito all’esplosione di munizioni, proiettili d’artiglieria, mine anticarro e ordigni esplosivi. Nell’aprile 1946, un anonimo autore denunciava ancora le frequenti sciagure ponendo anche un’interessante analisi geografica e localizzando le aree più colpite dal fenomeno ed i motivi.

A intermittenze sempre più brevi la cronaca registra casi di morti accidentali, di mutilazioni, ferite – in gran maggioranza avvenuti nei luoghi più lontani della provincia o lungo le grandi strade di comunicazione, ove i tedeschi in ritirata hanno seminate bombe e armi ed esplosivi di qualsiasi genere. Seminate un po’ intenzionalmente […], un po’ necessariamente, come casse sventrate di munizioni o mitragliatrici od altro. Sui monti attorno a Trento, vicino ai centri più battuti dalle incursioni come Ala, Avio ed i paesi della linea di Verona o di Bolzano, le gigantesche bombe alleate dormono il loro gracilissimo sonno sui verdi campi o sui coltivati o sotto le crode delle montagne, in compagnia con le sorelline minori, tipo bombe a farfalla o da cacciabombardiere. Basta un minimo spostamento per determinarne la deflagrazione. La gente vuole – e ne ha diritto – camminare tranquilla, senza la prospettiva di saltare in aria o di mutilarsi.

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Il breve ma significativo articolo tratteggiava un quadro complessivo del Trentino uscito dal conflitto dove le vittime di guerra erano sì il tragico risultato dell’occupazione tedesca – si noti l’accusa ai tedeschi di aver «intenzionalmente» abbandonato bombe e granate a mano innescate – ma anche dei bombardamenti aerei alleati. A partire dal settembre 1943, le linee ferroviarie e stradali dirette al Brennero – e quindi paesi, città e comunità civili limitrofe – erano state sottoposte ad intense incursioni aeree dirette ad interrompere le comunicazioni ed il traffico di mezzi, truppe e rifornimenti tedeschi. La critica, più o meno velata, alle autorità era invece rivolta ad ottenere una spiegazione sul perché dei continui decessi, delle mutilazioni e dei ferimenti.

Il giorno successivo, i redattori di Liberazione nazionale descrissero quanto era stato fatto fino a quel momento e quanto restava ancora da fare nell’opera di ripulitura del territorio. Inoltre, non tralasciarono di sottolineare le responsabilità soggettive, di ogni cittadino nel maneggio imprudente degli esplosivi e la necessità di farne immediata denuncia alle autorità competenti. «Fin dal giugno 1945», aveva operato in provincia «una sezione di rastrellamento dell’esercito» dalla quale dipendeva «una squadra di rastrellatori specializzati» che si era preoccupata di rastrellare «ben 113 comuni della nostra provincia, sui 127 esistenti». L’esercito tedesco aveva lasciato dietro di sé «migliaia di tonnellate di proiettili, bombe ed esplosivi di ogni genere». Inoltre, «molte bombe aeree ed altri ordigni bellici giacevano conficcati nelle zone bombardate dagli aerei». Solo nei pressi della stazione ferroviaria del capoluogo, erano state recuperate «oltre 100 tonnellate di bombe inesplose». Causa delle frequenti esplosioni era l’imprudenza dei ragazzi che non solo stuzzicavano i micidiali ordigni, ma spesso li portavano addirittura a casa con grave pericolo per l’incolumità delle famiglie.

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Quante volte furono pubblicati ordini di consegna! Ma purtroppo pochi vi hanno ottemperato. Ricordiamo poi che è dovere di tutti segnalare l’esistenza di ordigni bellici ai carabinieri affinché le squadre di rastrellamento possano rimuoverli. E gli agricoltori, quando si recano in campagna presso località bombardate, devono stare attenti di non urtare ordigni bellici che potrebbero essere nascosti tra le piante o sotterrati.

I primi anni del dopoguerra avrebbero ampiamente dimostrato la riluttanza, quando non l’avversione, della popolazione a consegnare materiali, armi e munizioni di guerra. Nel dicembre 1945, Mario Z. ( S. Bonifacio, 18 luglio 1919) fu condannato a due anni di prigione per il possesso di granate a mano. L’aggravante – per un reato punibile al massimo con una multa – era data dall’aver «fatto esplodere una di queste bombe» nel centro abitato di Valdagno il 7 ottobre 1945. Spesso il ritrovamento di materiali bellici presso privati cittadini era dovuto alla naturale preoccupazione degli stessi che si erano autonomamente incaricati di ripulire il terreno adiacente gli edifici abitati. I fratelli Angelo (Riva del Garda, 17 dicembre 1909. Elettricista/commerciante) e Bruno (Riva del Garda, 30 settembre 1922. Elettricista/telefonista) P. di Riva del Garda furono denunciati per «detenzione abusiva di materiali» militari. I carabinieri, durante la perquisizione, recuperarono una cassa contenente tre bombe a mano, un caricatore per mitra, diverse pallottole per armi automatiche e saponette esplosive. Il materiale proveniva dalle forze armate germaniche. I due imputati confessarono di aver raccolto munizioni ed esplosivi «per ovviare a pericoli di esplosioni e di incidenti e di averli tenuti per successivamente distruggerli o consegnarli». I giudici del Tribunale di Rovereto accettarono la loro spiegazione e li assolsero da ogni accusa per avere agito «in istato di necessità».

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Più frequentemente, la raccolta di munizioni ed ordigni bellici era condotta dai cosiddetti «recuperanti» (Si ripeteva, di fatto, una consuetudine già verificatasi all’indomani del primo conflitto mondiale, quando la popolazione, al fine di alleviare le proprie condizioni economiche, si era recata sulle montagne circostanti in cerca di rottami e residuati bellici dal cui commercio sarebbe stato possibile ricavare rilevanti somme in denaro) per ragioni molto materiali. La polvere da sparo poteva essere riutilizzata per produrre cartucce per fucili da caccia regolarmente posseduti; parti e componenti in metallo potevano essere rivendute. Il 15 gennaio 1947, Romeo M. (Villa Lagarina, 27 giugno 1924. Contadino) fu trovato in possesso di munizioni per armi da fuoco. «Raccolte durante il ripiegamento dell’esercito germanico», l’uomo recuperava la polvere a sparo «per servirsene per il fucile da caccia». Nel dicembre successivo, Aldo S. fu fermato dai carabinieri di Mori.

Il 13 corrente, noi maresciallo Compagnino, incontravamo nei pressi del ponte di ferro sull’Adige, lo straccivendolo S. Aldo […] il quale trasportava su un carretto tre grosse bombe da aeroplano. Constatavamo che si trattava di bombe inesplose vuote. Trattandosi di materiale residuato di guerra chiedemmo allo S. dove le aveva prese. Ci rispose che le aveva acquistate da contadini per ferro vecchio e le portava dal fabbro di Mori, Marchiori Germano. Chiedemmo allora se aveva l’autorizzazione dal Comando militare territoriale per la raccolta e ci rispose negativamente, dicendo che lui rottami ne aveva comprato sempre e che nessuno gli aveva mai detto nulla.

Ancora nel gennaio 1948, i carabinieri di Rovereto ritrovarono presso l’abitazione di Francesco F. (Lizzana di Rovereto, 24 maggio 1902. Meccanico/autista. Sfollato durante la guerra a San Colombano vicino Rovereto) 30 kg di tritolo, due fucili da guerra tedeschi modificati in fucili da caccia, una maschera antigas tedesca, un apparecchio telefonico da campo tedesco e 13 cartucce per fucili automatici tedeschi. Alle domande dei militari dell’Arma, Francesco rispose «che i tedeschi, che occuparono la sua casa, lasciarono moltissimo materiale, che questo venne depositato sotto il ponte di S. Colombano e che fu portato via dai partigiani, ad eccezione dell’esplosivo».

Qualsiasi fosse il motivo per cui i civili conservavano armi, munizioni, esplosivi e materiali in precedenza appartenenti all’esercito tedesco, il pericolo per l’incolumità personale rappresentava un dato evidente. Tra il maggio 1945 e il dicembre 1948, in totale, morirono 48 persone mentre 50 rimasero ferite. A più di sessant’anni dalla sua conclusione, bombe ed ordigni esplosivi risalenti al secondo conflitto mondiale – quando non alla Grande guerra – rappresentano ancora una pesante eredità («Artificieri in Gardesana. Brillato l’ordigno abbandonato, strada riaperta». L’Adige. Trento, 30 luglio 2008) con i relativi «strascichi» – fortunatamente non più luttuosi – che questa comporta: blocco della viabilità, messa in allerta delle comunità e sgombero d’interi quartieri cittadini.

Un altro doloroso elenco era rappresentato dalle persone decedute e rimaste ferite in seguito a «colpi d’arma da fuoco accidentali». Già nei giorni successivi alla resa tedesca, si ebbero le prime vittime. Il 10 maggio 1945, Mario Torboli rimase ucciso per un colpo d’arma da fuoco partito accidentalmente mentre un altro ragazzo, Luigi Luciano (Riva del Garda, 15 maggio 1931. Studente), fu ferito. I due facevano parte di una comitiva di studenti che, diretti verso l’Istituto di previdenza di Arco, rinvennero lungo la strada «una pistola automatica carica, abbandonata […] da militari tedeschi durante la ritirata da questa zona». Mentre i sacerdoti che li guidavano stavano accertando che l’arma fosse realmente scarica, partì il colpo che ferì i due giovani.

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L’uso inesperto ed imprudente delle armi da fuoco, tra il 1945 e il 1948, causò la morte di otto persone ed il ferimento di altre dieci (Queste cifre e quelle riportate sopra risultano dall’incrocio tra le informazioni desunte dalle pagine dei quotidiani Liberazione nazionale e Corriere tridentino (1945-1948) con quelle emerse dall’analisi dei procedimenti penali condotti presso i Tribunali di Rovereto e di Trento (1945-1948). Questo calcolo non considera i decessi e le lesioni provocate volontariamente, aspetto questo che sarà affrontato successivamente in un altro capitolo. Ciò che conta rilevare sono i notevoli quantitativi di armi e munizioni a disposizione della popolazione e di singoli individui che né i bandi di consegna – notificati periodicamente dalle autorità italiane ed alleate – né i frequenti ritrovamenti e sequestri di depositi clandestini riuscivano ad intimorire. Nel giugno 1945, la prefettura di Trento invitò a denunciare il possesso di materiale militare di proprietà dell’Esercito italiano.

Chiunque sia in possesso non legittimo di materiale di qualsiasi genere e specie di proprietà delle FFAA Italiane dovrà denunciarlo alla Prefettura di Trento entro 15 giorni dalla data di pubblicazione della presente ordinanza. Alla denuncia sono tenuti non solo i privati cittadini ma anche gli Enti pubblici, i Comitati di liberazione nazionale e i Comandi delle formazioni partigiane.

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Pochi giorni dopo, il Governo militare alleato, a mezzo stampa, elencò i Corpi autorizzati a portare armi da fuoco: i carabinieri, gli agenti della Guardia di finanza, i militari dell’Esercito italiano in servizio regolare sul territorio ed il personale della Polizia civile, cioè la Polizia partigiana. Come in gran parte dell’Italia post-bellica, la disponibilità di armi e munizioni mostrò le sue nefaste conseguenze ancora per molto tempo contribuendo a generare anche in Trentino episodi di violenza individuale e di criminalità comune, un vero e proprio «banditismo».

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