AUSCHWITZ, MEMORIA E NEGAZIONISMO – 2

a cura di Cornelio Galas

Non dico che le camere a gas non siano esistite. Io non le ho potute vedere. Non ho studiato specificamente la questione, ma credo che sia solo un dettaglio nella storia della seconda guerra mondiale.

 Jean-Marie Le Pen, intervista radiofonica del 1987.

Valentina Pisanty (Milano, 1969) ha conseguito il dottorato di ricerca in Semiotica  presso l’Università di Bologna

Milioni di ebrei furono sterminati nei lager nazisti. Sembra un fatto inconfutabile. Ma c’è chi non la pensa così : qualcuno ha sostenuto che i milioni di ebrei uccisi nei campi di concentramento non sono sei, come solitamente si crede, ma cinque, quattro, due, o forse “solo uno”; altri ritengono che le camere a gas siano solo un dettaglio della storia della seconda guerra mondiale e che quindi, a meno di non essere storici di professione, non bisognerebbe preoccuparsene troppo.

Addirittura, c’è chi afferma che il genocidio è un’invenzione della propaganda alleata, sostenuta dall’internazionale ebraica, e che “ad Auschwitz sono state gassate solo le pulci”. Tali sono le questioni aperte dai negazionisti.

Di fronte agli scritti dei negazionisti, ci si può comportare in due modi diversi: si può scegliere di relegarli, non analizzati, nella categoria delle aberrazioni di cui è capace la psiche umana; oppure si può decidere — come fa l’autrice di questo libro — di soffermarsi sulle strategie argomentative da essi adottate per sostenere e divulgare la loro tesi.

Solo se si analizza da vicino il meccanismo del diniego storico, si possono smascherare le tecniche comunicative impiegate da chi vorrebbe rimuovere una volta per tutte “l’irritante questione” delle camere a gas.

L’obiettivo principale di questo libro – scrive Valentina Pisanty nella prefazione -non è di confutare l’ipotesi cosiddetta revisionista con argomentazioni di tipo storico e con il supporto dei numerosissimi documenti a disposizione di chiunque li voglia consultare.

Valentina Pisanty

Ritengo che una simile operazione di smontaggio storico sia già stata effettuata con successo da vari autori, tra cui Pierre Vidal-Naquet i quali hanno a più riprese dimostrato l’infondatezza delle ipotesi interpretative di Rassinier e compagni se messe alla prova dell’evidenza documentaria.

Lo scopo che mi pongo è piuttosto di portare alla luce le strategie persuasive messe in atto dai negazionisti, analizzandone il metodo interpretativo adottato nella lettura dei documenti storici. Bisogna cioè identificare i percorsi attraverso cui un certo testo viene letto dalla storiografia ufficiale in un modo, e da autori come Rassinier in modo diametralmente opposto. Dopo aver cercato di comprendere il metodo adottato da questi particolari lettori, occorre capire come essi costruiscano il loro edificio teorico — su quali basi e con quali tecniche — per poi valutarne la solidità strutturale.

A questo scopo si rivela assai utile il concetto di Lettore Modello, ovvero del lettore-tipo che un testo prevede come proprio interlocutore ideale e che al contempo cerca di plasmare fornendogli le conoscenze necessarie per una adeguata comprensione del testo stesso.

Il lettore empirico (il lettore “in carne ed ossa”) può tranquillamente rifiutarsi di calarsi nei panni del Lettore Modello, ignorando le indicazioni che il testo gli fornisce circa il modo in cui desidera essere interpretato: ma, in questo caso, egli sta rinunciando a leggere il testo secondo le intenzioni che esso manifesta, e all’interpretazione subentra l’uso incontrollato del testo.

Nulla impedisce al lettore empirico di cercare segreti iniziatici tra le pagine di Topolino. Solo che, cosi facendo, egli sta trascurando le istruzioni per la lettura che il testo offre al proprio Lettore Modello.

Sulla scorta dei princìpi appena esposti, questo studio si propone di capire:

(a) come i negazionisti leggano i documenti storici risalenti alla seconda guerra mondiale, proponendo chiavi di lettura in netto antagonismo rispetto a quelle incoraggiate dalla storiografia ufficiale (le strategie interpretative);

(b) come essi espongano i risultati delle loro ricerche, costruendo, all’interno dei propri stessi testi, ritratti di Lettori Modello dotati di particolari caratteristiche ideologiche e cognitive (le strategie discorsive).

Prima di tutto è indispensabile sospendere temporaneamente, per quanto ciò sia possibile, ogni giudizio sull’effettivo contenuto degli scritti negazionisti. Questo studio deve essere incentrato sul metodo interpretativo e persuasivo applicato dagli autori in questione, e non sulla verità o meno delle loro affermazioni (la quale deve essere provvisoriamente messa tra parentesi).

La mia intenzione dunque non è tanto di intervenire nelle singole controversie agitate dai negatori della Shoah, quanto di mostrare la struttura paralogistica delle loro argomentazioni Con ciò non intendo negare l’inevitabile parzìalità del punto di vista da me prescelto: è chiaro che, se fossi partita da una posizione favorevole all’opera di Faurisson, Rassinier, Butz, ecc, non mi sarebbe venuto nemmeno in mente di dìmostrare le contraddizioni interne dei loro discorsi e il cattivo metodo interpretativo da essi impiegato.

Tuttavia, una volta presa coscienza della naturale soggettività del proprio orizzonte di partenza, è sempre possibile imporsi di rispettare quelle condizioni di corretta interpretazione che esigiamo dai testi presi in esame. C’è, insomma, un terreno comune (costituito dalle regole di non contraddizione, di economia, di rilevanza, ecc., delle ipotesi scientifiche) su cui posizioni anche opposte possono confrontarsi e che consente di decidere se un’ipotesi risponda o meno ai criteri di verifica comunemente accettati.

É su questo terreno che intendo muovermi per dimostrare la debolezza della tesi dell’inesistenza della Shoah, la quale — come vedremo — per colmare le proprie lacune si sorregge sulla secolare teoria della cospirazione ebraica.

Questo libro prende origine da una tesi di dottorato svolta sotto la supervisione di Umberto Eco, Patrizia Violi e Mauro Wolf. Nel corso delle mie ricerche, varie altre persone mi hanno fornito preziosi spunti teorici e utili indicazioni bibliografiche.

In particolare, ringrazio Furio Colombo, Arthur Hertzberg, Nadine Fresco, Maurice Olender, Liliana Picciotto Fargion, Adriana Goldstaub e Marcello Pezzetti del Centro Documentazione Ebraica Contemporanea, Sarah Halperyn del Centre Documentation Juive Contemporaine, Jamie McCarthy e Kenneth McVay del Nizkor Group, i bibliotecari dell’YIVO Center (New York), Jeffrey Ross dell’Anti-Defamation League, Alastair McEwen, Stefano Traini e gli amici dottori e dottorandi dell’Istituto di Comunicazione dell’Università di Bologna.

 Revisionismo vs negazionismo

L’uso del termine “revisionismo” esige una prima serie di precisazioni. Di per sé non indicherebbe altro che la naturale tendenza storiografica a rivalutare le opinioni storiche consolidate alla luce delle nuove conoscenze emerse nel corso della ricerca. In questa accezione larga del termine, il vero storico — così come il vero scienziato — non può che essere revisionista, nel senso che, anziché arroccarsi ostinatamente su posizioni ereditate dalla tradizione precedente, è disposto a rimettere in gioco tali acquisizioni nel caso in cui si dimostri necessario.

Lo sviluppo scientifico implica un succedersi di modelli teorici, o paradigmi,  i quali vengono progressivamente sostituiti ogniqualvolta l’attività di ricerca fa emergere anomalie che, dapprima ignorate o integrate con difficoltà nel paradigma dominante, a un certo punto determinano l’insorgere di una rivoluzione scientifica e la conseguente adozione di un nuovo paradigma.

EDUARD BERNSTEIN NEL 1930

Ma il termine ha assunto, a partire dalla fine del secolo scorso, varie altre accezioni più specifiche. Dal 1899 si è cominciato ad applicare questa espressione a quei teorici che, come Bernstein, hanno operato una critica economica alle principali tesi di Marx. Revisionismo significa qui una reinterpretazione dei dogmi e assume, da parte dell’ideologia sovietica ufficiale, connotazioni fortemente negative.

Revisionisti furono anche coloro che, nel 1894, protestarono contro il verdetto del famoso “caso Dreyfus” e richiesero, per l’appunto, una revisione del processo. Altri revisionisti ancora: i discepoli di Vladimir Jabotinskij in rapporto al sionismo tradizionale, gli storici americani che contestano la versione ufficialmente ricevuta delle origini della guerra fredda, il comunismo sovietico valutato dal punto di vista dei maoisti.

Vladimir Jabotinsky

L’espressione può anche essere applicata a tutti quei filoni specifici di critica letteraria (in chiave femminista, afro-americana. ecc.) i quali si pongono l’obiettivo di reinterpretare determinati testi a partire da un punto di vista radicalmente innovativo.

In altre parole, si parla di revisionismo (attribuendo a questo termine connotazioni di volta in volta diverse) per indicare l’emergere di una scuola di pensiero eretica che si contrappone alla corrente di opinione dominante. Nell’ambito degli studi miranti a riscrivere la storia della seconda guerra mondiale — opponendosi in ciò alla storia ufficiale che, si sa, è sempre scritta dai vincitori — è tuttavia indispensabile distinguere tra due filoni differenti.

David Irving

Solo nel primo caso si può legittimamente parlare di revisionismo: si tratta di quelle ricerche storiche che, partendo dal dato inconfutabile dell’avvenuto sterminio degli ebrei, e di varie altre minoranze, nei lager nazisti, tendono a ridistribuire l’onere delle colpe. Così David Irving in Gran Bretagna sostiene che la decisione di annientare sei milioni di ebrei non sia stata presa da Hitler, il quale fino al 1944 era addirittura all’oscuro di quanto stesse accadendo ad Auschwitz, a Treblinka e negli altri campi della morte, bensì da Himmler.

Alcuni studiosi tedeschi, tra cui Nolte, affermano invece che la mostruosa macchina di sterminio messa in moto dai nazisti rientra nella perversa logica del nostro secolo, e non è poi tanto diversa da molti altri episodi che hanno insanguinato il mondo, tra cui i campi di internamento dei prigionieri di guerra negli Stati Uniti, i massacri di Pol Pot in Cambogia o i gulag sovietici.

Ernst Nolte

Nolte ritiene inoltre che i lager nazisti fossero la risposta di Hitler alla minaccia dell’espansione bolscevica e, data la tradizionale equazione tra bolscevismo ed ebraismo, la decisione di sterminare gli ebrei risponderebbe alle esigenze di autodifesa del regime nazionalsocialista.

Per quanto simili prese di posizione possano essere altamente discutibili (il rischio è che la Shoah venga privata della sua specificità storica e dunque banalizzata), ci troviamo di fronte a fenomeni che rientrano legittimamente nell’ambito del revisionismo storico. Spetta alla comunità scientifica di passare al vaglio simili ipotesi interpretative e, se si dimostrano infondate, di scartarle alla luce dell’evidenza documentaria.

Ma c’è anche chi nega la validità di tale evidenza e si rifiuta di giocare secondo le regole storiografiche prestabilite. A questo gruppo, invero piuttosto piccolo, appartengono coloro che di fronte all’enorme massa di documenti storici a testimonianza di ciò che accadeva nei lager nazisti, ritengono che si tratti per lo più di materiale documentario truccato e dichiarano che la Shoah sia “la grande impostura” del nostro secolo.

Come vedremo, la loro argomentazione ruota principalmente attorno al cosiddetto “problema delle camere a gas” che, secondo loro, non sono mai esistite. Nonostante i membri di questo gruppo si definiscano “revisionisti” (in quanto contrapposti alla scuola ufficiale dello “sterminazionismo”), la comunità storica preferisce riferirsi a loro con il termine “negazionisti”.

Auschwitz

Il motivo è chiaro: in questo caso non si tratta affatto di rileggere la storia a partire da un diverso punto di vista teoretico ma di negarla tout court. Assegnare il titolo di revisionisti a questi negatori dell evidenza storica equivarrebbe ad ammettere che la loro posizione, per quanto discutibile, si basi su premesse teoriche e storiografiche legittime, e che la contrapposizione tra le due scuole (revisionista e sterminazionista) implichi la possibilità di scegliere tra due chiavi interpretative alternative di uno stesso fenomeno.

La storia è ricca di episodi di negazionismo di vario genere. Nel 1827 Jean-Baptiste Pérès scrive un pamphlet dal titolo Comme quoi Napoléon n’a jamais existé ou Grand Erratum source d’un nombre infini d’errata à noter dans l’histoire du XIXe siècle, in cui sostiene — con intenzioni parodistiche — che l’Imperatore francese non sia stato altro che una figura allegorica (un mito solare).

Pérès in effetti vuol dimostrare che qualsiasi testo puo essere piegato alle esigenze di una interpretazione settaria: si pensi alle numerose letture in chiave esoterica dell opera dantesca che sono state proposte nel corso dei secoli.

Sembra che la tentazione di negare l’esistenza di un fenomeno sia proporzionale alla grandezza del fenomeno stesso. Naturalmente la reazione istintiva di fronte a simili episodi di interpretazione paranoica è di relegarli, non analizzati nella categoria delle aberrazioni di cui e capace la psiche umana o delle curiosità storiche da Trivial Pursuit. Ma può darsi che valga la pena, per una volta, soffermarsi maggiormente sul meccanismo che soggiace a tali operazioni.

Storia del negazionismo

I primi negazionisti in Francia: Bardèche e Rassinier

Fin dal periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale vi furono voci isolate che si levarono per denunciare le presunte distorsioni alle quali la storiografia dei vincitori aveva sottoposto la storia della guerra, e in particolare quella dei lager nazisti (di gran lunga l’aspetto più sconvolgente del programma politico di Hitler).

Maurice Bardèche

Ad esempio, Maurice Bardèche — cognato di Robert Brasillach, collaborazionista fucilato nel 1945, ed egli stesso internato per qualche mese tra il 1944 e il 1945 — è un autore dichiaratamente fascista che già nel 1948 pubblica un testo revisionista dal titolo Nuremberg ou la terre promise.

In esso, Bardèche asserisce che la responsabilita del conflitto non va accollata ai tedeschi, i quali non hanno commesso quelle atrocità di cui comunemente li si accusa, bensì agli Alleati e agli ebrei stessi. I campi di sterminio sono per lui un espediente ideato dalla propaganda alleata per distrarre l’attenzione dai crimini commessi dai vincitori della guerra (bombardamento di Dresda, Hiroshima, ecc.), e il materiale documentario sui lager è truccato.

I decessi nei campi sono attribuibili per lo più alle cattive condizioni igieniche e alimentari mentre, se di aguzzini si può parlare, questi sono stati quei prigionieri ai quali era stato assegnato un qualche potere sugli altri (i Kapò). Bardèche è dunque il primo a mettere in dubbio l’esistenza dei campi di sterminio, anche se la sua posizione in proposito è, nel 1948, ancora piuttosto ambigua e contraddittoria, come si vede dalla ammissione espressa nella seguente citazione:

“Vi era una volontà di sterminare gli ebrei (sulla quale le prove sono numerose).” (Bardèche, 1948,)

In altri punti, tuttavia, egli sembra suggerire che una simile volontà di sterminio non ci fosse, per lo meno a livello delle alte gerarchie naziste, e che l’originario progetto hitleriano fosse di raggruppare gli ebrei europei in una “riserva” situata nell’Est-Europa.

Nonostante venga denunciato e condannato a un anno ,di prigione (di cui sconterà solo qualche giorno), Bardèche non demorde e nel 1950 pubblica Nuremberg II ou les faux monnayeurs in cui riprende le tesi del primo libro, rafforzandole con alcune “testimonianze”, e cercando di assumere un tono oggettivo e pacato.

Ora Bardèche può contare sull’appoggio di un testimone di prima mano che conferisce alla sua tesi una maggiore autorevolezza; nel 1948 Paul Rassinier, anziano deportato a Dora e a Buchenwald per motivi politici, pubblica il suo Passage de la ligne che, primo di una serie di libri analoghi (1950: Le Mensonge d’Ulysse, 1961: Ulysse trabi par les siens; 1962: Le véritable procès Eichmann ou les vainqueurs incorrigibles; 1964: Le Drame des juifs européens), parte dalla sua esperienza dei campi di concentramento (ma non di sterminio) per denunciare la “menzogna storica” che costituisce ai suoi occhi l’evocazione della Shoah.

Rassinier

A questo punto è indispensabile una precisazione: non tutti i lager nazisti erano votati alla causa della “pulizia etnica” per mezzo delle camere a gas. Al contrario queste ultime si trovavano solo in un numero ridotto di campi, tutti situati in Polonia, che rappresentarono l’ultima meta di molti deportati per lo più ebrei, tzigani, omosessuali ed est-europei.

La logica dello sterminio su base industriale — e quindi l’uso delle camere a gas — vigeva solo in questi centri della morte, mentre negli altri campi le esecuzioni erano più “artigianali”. Senza poi contare che non tutti i prigionieri subivano lo stesso trattamento: ad esempio, i detenuti politici godevano di una posizione privilegiata rispetto ai membri delle minoranze etniche.

In origine uomo di sinistra dichiaratamente pacifista, Rassinier fornisce una facciata rispettabile a quei teorici dell’estrema destra che, mossi da un forte antisemitismo mascherato da antisionismo, dedicano la loro esistenza al tentativo di dimostrare l’inesistenza della Shoah e a delegittimare di riflesso lo Stato di Israele. Tuttavia, non è sempre possibile separare chiaramente i due estremismi politici (destra e sinistra) i quali finiscono talvolta per essere accomunati dalle medesime finalità ideologiche.

Secondo Vidal-Naquet, alla base di ogni negazionismo è sempre possibile scorgere un terreno comune di antisemitismo. La storia editoriale di Rassinier è sintomatica. Dal 1962 i suoi libri vengono pubblicati dalla casa editrice neofascista Les Sept Couleurs diretta per l’appunto da Bardèche, con la scusa che nessun editore di sinistra avrebbe rese pubbliche le sue tesi eretiche.

 Negli anni Settanta, Rassinier viene tuttavia ripubblicato dalla casa editrice (ex libreria) di estrema sinistra La Vieille Taupe di Pierre Guillaume, che già nel 1970 aveva trattato l’argomento del genocidio riproponendo un articolo del 1960 dal titolo rivelatore, Auschwitz ou le Grand Alibi. Nel 1960 le future vecchie talpe non mettevano ancora in discussione la verità dello sterminio, ma si limitavano a sostenere che il genocidio fosse il comodo alibi adottato dai vincitori del conflitto mondiale per confondere il proletariato circa le reali responsabilità della guerra.

L’antisemitismo nazista veniva letto come la reazione della piccola borghesia tedesca alla crisi economica del primo dopoguerra, crisi che portò alla decisione di sacrificare una parte della popolazione (la piccola borghesia ebraica) in favore del sistema complessivo. Gli ebrei sono stati uccisi “non perché ebrei ma perché scarti del processo di produzione, inutili alla produzione [e] gli orrori della morte capitalista debbono far dimenticare al proletariato gli orrori della vita capitalista”. (“Auschwitz ou le Grand Alibi”, in Programme communiste n. 11, 1960: 49-53)

Anche nel caso di Rassinier, la negazione dell’esistenza delle camere a gas non è immediata. Nel suo primo libro (1948), egli è mosso soprattutto da uno spiccato anticomunismo, e individua nel regime staliniano, e nel comunismo in genere, i maggiori responsabili per lo scoppio e per gli esiti disastrosi della seconda guerra mondiale.

Sottolineando l’interesse politico dei comunisti a esagerare le colpe dei nazisti per distogliere l’attenzione internazionale dai numerosi crimini sovietici, Rassinier compie il primo passo verso un “ridimensionamento” dello sterminio ebraico.

Nel 1950 scrive: “la mia opinione sulle camere a gas? Ce ne sono state: non tante quanto si crede”. Man mano che procede nella sua opera di riscrittura della storia, la sua posizione si fa più estremista. Nella seconda edizione di Passage de la ligne si riferisce all”‘irritante questione” delle camere a gas.

Successivamente si avventura in una serie di complessi calcoli pseudodemografici per dimostrare che il numero di ebrei morti durante la guerra non supera il milione, ed è per lo più dovuto ai bombardamenti alleati sui campi di internamento nazisti, agli stenti e alle epidemie di tifo, nonché alle crudeltà commesse dai Kapò.

Da un certo punto in poi, Rassinier comincia a essere ossessionato dall idea di un complotto giudaico e a parlare esplicitamente del genocidio come della “più tragica e più macabra impostura di tutti i tempi”. Nel 1964 pubblica, presso Les Sept Couleurs, Le Drame des juifs européens, libro dal titolo ingannevole in quanto il vero dramma, secondo l’autore, non è la morte di sei milioni di ebrei, bensì il fatto che gli ebrei stessi abbiano voluto farci credere alla Shoah.

Non sorprende dunque che in Les Responsables de la seconde guerre mondiale (1967) Rassinier si scagli contro gli ebrei in quanto responsabili dell’esplosione del conflitto. Rassinier muore quello stesso anno, privando il mondo accademico della stesura completa della sua Histoire de l’État d’Israël.

L’opera di Rassinier viene accolta calorosamente da alcuni gruppi di estremismo politico. È grazie all’incontro con le sue idee, ad esempio, che Guillaume e gli altri redattori della Vieille Taupe si convertono dall’iniziale revisionismo al negazionismo vero e proprio.

Louis Darquier

Il cambiamento di rotta avviene verso la fine degli anni Settanta, in concomitanza con alcuni fatti molto rilevanti che, tutti insieme, contribuiscono a rendere il negazionismo un fenomeno sociale dalla portata ben più ampia di quanta non ne avesse in precedenza: nel novembre 1978 esce sull’Express un’intervista all’ex vichyista Louis Darquier (de Pellepoix), in cui quest’ultimo sostiene che “ad Auschwitz sono state gassate solo le pulci”.

Pochi giorni dopo scoppia il “caso Faurisson”. Fin dall’inizio della sua carriera come critico letterario e professore di letteratura francese all’Università di Lione, Faurisson dimostra una spiccata propensione per l’interpretazione sospettosa, autoassegnandosi il ruolo di demistificatore dei luoghi comuni della storia letteraria. In uno dei prossimi capitoli ci soffermeremo con maggiori dettagli sull’attività critica di Faurisson, che per molti versi rivela gli stessi tratti che caratterizzeranno i suoi scritti successivi.

Per adesso è sufficiente ricordare alcuni titoli delle sue prime pubblicazioni, i quali attestano la sua inclinazione per il revisionismo: A-t-on lu Rimbaud?(1961); A-t-on lu Lautréamont? (1972); À quand la libération de Céline? (1973); Le Journal d’Anne Frank est-il authentique? (1975); La Clé des Chimères et Autres Chimères de Nerval (1977). In ognuno di questi scritti Faurisson si pone la missione di smascherare i presunti pregiudizi ereditati passivamente dalla tradizione critica ufficiale.

Verso la metà degli anni Settanta la sua affannosa ricerca di verità tenute nascoste subisce una svolta decisiva nella direzione della riscrittura della storia della seconda guerra mondiale, grazie anche all’incontro con l’opera di alcuni negazionisti americani, tra cui A. R. Butz, autore di The Hoax of the XXth Century (1975). Con Faurisson assistiamo alla fusione del filone francese del negazionismo (Rassinier, Bardèche) con quello statunitense di Butz, Barnes, Hoggan, App e Carto.

Hoggan

 Nel 1937 lo stesso Darquier, fondatore del “rassemblement antijuif de France”, aveva proposto un modo per “risolvere la questione ebraica: che tutti gli ebrei siano espulsi o che vengano massacrati” (cfr. La Lumière, Paris, 22.5 1937, cit. in Cohn, 1967, tr. fr.: 241).

I negazionisti americani e inglesi

In effetti, questi ultimi — assieme a una serie di epigoni e di autori minori, provenienti per lo più da ambienti neonazisti americani e, meno spesso, britannici — forniscono il ponte di collegamento tra la prima fase francese del negazionismo, e il ritorno nella patria d’origine di questo fenomeno, con Faurisson.

Già nel 1948 Francis Parker Yockey sosteneva nel suo libro Imperium (dedicato a Hitler) che il genocidio fosse una menzogna inventata dagli ebrei allo scopo di generare una guerra totale contro la civilizzazione occidentale. Secondo Yockey, “l’Ebreo è spiritualmente logorato. Non può più evolversi. Non è in grado di produrre nulla nella sfera del pensiero o della ricerca. Vive esclusivamente per vendicarsi contro le nazioni della razza bianca europeo-americana”.

Francis Parker Yockey

Viene qui riproposta l’antica idea della cospirazione giudaica mondiale, compiuta attraverso la falsificazione dei documenti (compreso tutto il materiale fotografico relativo al genocidio). Simili rigurgiti del più rozzo antisemitismo (nei quali riecheggiano i toni apocalittici dei Protocolli) si fondono con le tradizionali argomentazioni dei primi negazionisti francesi nell’opera di Harry Elmer Barnes e di David L. Hoggan.

Il primo, revisionista recidivo (negli anni Venti aveva tentato di invertire le responsabilità della prima guerra mondiale riabilitando i tedeschi), nel 1947 pubblica un pamphlet dal titolo The Struggle against Historical Blackout, in cui sostiene che è in atto una censura nei confronti di chiunque voglia rimettere in discussione la questione della responsabilità dei tedeschi per quanto riguarda la seconda guerra mondiale.

Nel 1962 esce Blasting the Historical Blackout, in cui l’autore mette in dubbio la verità di alcuni dei “presunti crimini di guerra” nazisti. Infine, Revisionism: A Key to Peace (1966) è un’opera schiettamente negazionista che avvicina Barnes alle idee divulgate da Rassinier.

Hoggan raccoglie l’eredità di Barnes, morto nel 1967, e comincia ad affiancare le tesi astratte dei primi negazionisti con una lettura dettagliata delle fonti storiche. Ad esempio, in The Myth of the Six Million (1969) vengono rifiutate le testimonianze di Rudolf Höss (comandante SS ad Auschwitz) e di Kurt Gerstein (esperto di camere a gas) in quanto ritenute estorte dagli inquisitori di Norimberga e quindi inquinate dalla propaganda alleata.

Viene così inaugurato negli Stati Uniti tutto un filone di esegesi alternativa dei testi classici della testimonianza sulla Shoah, attraverso l’applicazione di un metodo ermeneutico del tutto particolare, del quale mi occuperò più avanti.

Per adesso mi limito a osservare che i negazionisti operano una preliminare selezione del materiale storico, delegittimando e scartando ogni documento che confermi l’esistenza dei campi di sterminio e, contemporaneamente, valorizzando le poche testimonianze che confortano le loro tesi.

Ad esempio, nel 1973 viene tradotta in inglese l’opera di Thies Christophersen, citata invariabilmente da tutti i negazionisti in quanto l’autore fornisce una testimonianza diretta del suo soggiorno ad Auschwitz nel 1944 (nel ruolo di tecnico addetto alla fabbricazione del caucciù), fornendo un quadro idilliaco del lager come di una specie di villaggio turistico in cui gli ebrei venivano trattati magnificamente, vestivano bene e scherzavano insieme agli ufficiali SS.

Secondo Hoggan, Hitler non ha mai voluto la guerra, mentre i veri responsabili della conflagrazione del conflitto mondiale furono i britannici e i polacchi. Per quanto riguarda la questione della persecuzione degli ebrei, Hoggan sostiene che il regime nazista non abbia assunto un atteggiamento discriminatorio nei confronti della popolazione ebraica del Reich almeno fino al 1938, mentre ciò che accadde dopo fu il risultato dell’antisemitismo polacco.

Il testo di Hoggan viene pubblicato dalla Noontide Press, una casa editrice di estrema destra che nasce dalla costola del Liberty Lobby fondato dal razzista Willis Carto. Carto, che tra l’altro è membro del Ku Klux Klan, crede fermamente nella necessità di proteggere l’eredità razziale degli Stati Uniti (quale?) e ritiene che sia in atto una cospirazione ai danni del mondo ad opera dei soliti ebrei onnipotenti, additati come il “Nemico Pubblico n. 1”.

Un altro negazionista statunitense della prima generazione è Austin J. App che, già verso la fine degli anni Cinquanta, è un acceso sostenitore della tesi secondo la quale lo sterminio ebraico non è che una enorme menzogna perpetrata dagli ambienti sionisti, bolscevichi e talmudisti ai danni della Germania sconfitta. Fin dal 1942 App bombarda riviste e giornali con lettere dall’evidente contenuto razzista e antisemita.

La scarsa sottigliezza delle sue argomentazioni lo renderebbe un personaggio di scarso rilievo perfino nella storia del negazionismo, se non fosse ch’egli è l’autore degli otto assiomi (formulati nel 1973) che tuttora fungono da princìpi-guida di Pisanty .

Gli assiomi sono:

  • 1. La soluzione finale consisteva nell’emigrazione e non nello sterminio;
  • 2. Non ci furono gassazioni;
  • 3. La maggior parte degli ebrei scomparsi emigrarono in America e in Unione Sovietica facendo perdere le loro tracce;
  • 4. I pochi ebrei giustiziati dai nazisti erano criminali sovversivi;
  • 5.La comunità ebraica mondiale perseguita chiunque voglia svolgere un lavoro di ricerca storica onesta attorno alla seconda guerra mondiale per timore che emerga la verità dei fatti;
  • 6. Non vi sono prove del genocidio;
  • 7. L’onere della prova sta dalla parte degli sterminazionisti”;
  • 8.Le contraddizioni presenti nei calcoli demografici della storiografia ufficiale dimostrano con certezza il carattere menzognero della loro tesi.

Uno degli argomenti preferiti da App è che, se i nazisti avessero veramente voluto sterminare gli ebrei, oggi non vi sarebbe più nessun ebreo sopravvissuto: ogni ebreo vivente è la prova della falsità del genocidio. Altro tema ricorrente è il legame posto tra la comunità ebraica e il controllo dei media, un classico della tradizione antisemita.

In Inghilterra esce nel 1974 un pamphlet di ventotto pagine dal titolo Did Six Million Really Die ? in cui l’autore, “Richard Harwood” (pseudonimo di Richard Verrall, esponente dell’estrema destra inglese), riprende il libro di Hoggan per resuscitare l’antico tema del complotto giudaico, sostenendo che (a) gli ebrei hanno dichiarato guerra a Hitler nel 1939, e (b) lo sterminio programmato non ha mai avuto luogo.

Nel 1978 Verrall si riallaccia al discorso di Hoggan e descrive Norimberga come un processo truccato, sotto il controllo occulto della cospirazione giudaica mondiale. Lo stesso tipo di accusa si ritrova nelI’articolo di Michael McLaughlin (1979: For Those Who Cannot Speak).

Come si vede chiaramente da questa veloce panoramica, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna il negazionismo nasce e si sviluppa come un fenomeno di estrema destra che mira esclusivamente a relativizzare i crimini nazisti per riabilitare la Germania di Hitler. Di per sé si tratta dunque di un movimento marginale che rientra a pieno titolo nel filone dell’antisemitismo tradizionale e interessa solo chi già condivide un’ideologia di stampo nazista.

Rispetto ai loro colleghi francesi, i negazionisti americani impiegano argomentazioni più rozze e non aggiungono pressoché nulla al corpus delle obiezioni-standard con cui i negazionisti di tutto il mondo tentano di smantellare il paradigma storiografico ufficiale. Il negazionismo acquisterà un pubblico più significativo solo quando perderà le tracce più evidenti della sua eredità razzista per mascherarsi da paradigma storiografico obiettivo e scientifico.

In questo processo di ripulitura dell’immagine del negazionismo giocherà un ruolo centrale Robert Faurisson.

Faurisson. il catalizzatore del movimento

Dalla somma di questi contributi sparsi si delinea negli anni Settanta un gruppuscolo internazionale a base anglo-americana, ispirato all’opera di Rassinier e al quale nel 1978 si congiungerà Faurisson, l’uomo che ben presto diventerà il maggior portavoce del movimento.

L’opera di quest’ultimo contribuisce in maniera decisiva a trasformare quella che in passato veniva percepita come una trascurabile setta eretica e delirante, priva come tale del diritto a un’udienza allargata, in un vero e proprio caso internazionale. Atteggiandosi a vittima dell’ortodossia storica, gelosa dei propri assiomi, Faurisson si guadagna, tra l’altro, il supporto di molti intellettuali di sinistra i quali — ribadendo con veemenza il famoso detto apocrifo di Voltaire (“odio quel che dici, ma morirei per garantirti il diritto di dirlo”) — combattono strenuamente per la libertà di parola di chiunque abbia da proporre una tesi eterodossa, Faurisson incluso.

Tra i più accaniti difensori dei diritti di Faurisson spicca il nome di Noam Chomsky, il quale cura la prefazione di uno dei suoi libri. Segue una breve cronologia della prima fase del “caso Faurisson”: 17.7.1974: la rivista Le Canard enchaîné pubblica una lettera inviata quattro mesi prima da Faurisson al direttore del Centro di documentazione ebraica di Tel Aviv, Kubovy. In essa il mittente chiedeva se, secondo Kubovy, le camere a gas andassero considerate come “un mito o [come] una realtà”. La lettera era già stata pubblicata dal quotidiano israeliano Yedioth Aharonoth (26.5.1974) e dal Tribune Juive-Hebdo (14.6.1974).

20.6.1975: Faurisson invia una lettera a Jacques Fauvet (pubblicata nel volume del 1980 curato da Thion) in cui chiede che gli venga concessa un’intervista su Le Monde affinché egli possa esprimere la sua opinione in merito alla storia del nazismo. La lettera non ha l’esito desiderato. Settembre 1975: Faurisson continua a spedire lettere a vari esponenti della cosiddetta storiografia ufficiale e a ex detenuti dei lager nazisti nel tentativo di farsi pubblicare. Questa volta il destinatario è Jean-Marc Théolleyre, deportato a Buchenwald durante la guerra e autore di un articolo (Le Monde, 19.5.1975) che tratta del libro di Langbein su Auschwitz.

Nella lettera, Faurisson mette in dubbio l’autenticità del documento Gerstein, del libro di Myklos Nyiszli e del diario di Anne Frank, erroneamente attribuito allo sceneggiatore Meyer Levin. Luglio 1977: in risposta a un articolo di Pierre Viansson-Ponté (17-18 luglio 1977, Le Monde), in cui l’autore commentava la traduzione in francese del pamphlet di “Harwood”, Faurisson scrive “Come lavora il giornalista Pierre Viansson-Ponté”. Sempre in questo periodo egli redige “Il problema delle camere a gas” ed è alla ricerca di un editore che glielo pubblichi.

1.11.1978: quattro giorni dopo la pubblicazione della già citata intervista a Darquier sull’Express, esce su Le Matin un estratto di una lettera di Faurisson. 16.12.1978: prima lettera di Faurisson pubblicata da Le Monde. Dopo un lungo preambolo in cui si duole dei maltrattamenti di cui ritiene di essere stato vittima nei mesi precedenti, Faurisson chiede che venga aperto un dibattito pubblico sulla “diceria di Auschwitz”. 28 (29.?) 12.1978: lettera di Faurisson a Le Monde. Il testo integrale di questo documento circola già dal giugno dello stesso anno sulle pagine della rivista di Bardèche, Défense de l’Occident, con il titolo di “Il «problema delle camere a gas» o «la diceria di Auschwitz»“.

Sulla stessa pagina appare un articolo firmato da Georges Wellers intitolato “Abbondanza di prove”. La “tesi tradizionale”, come la definisce Serge Thion, viene ribadita l’indomani dalla storica Olga Wormser-Migot (“La soluzione finale”, Le Monde). Il presidente dell’Università di Lione sospende Faurisson dal suo incarico come docente. 16.1.1979: nuova lettera a Le Monde in cui Faurisson parla della sua conversione al “revisionismo” e
della sua attuale persecuzione:

“Dopo quattordici anni di riflessione personale, poi quattro anni di un inchiesta accanita, ho acquisito la certezza, come venti altri autori revisionisti, che mi trovavo di fronte ad una menzogna storica. […] E dopo ho trovato il silenzio, l’imbarazzo, l’ostilità e, per finire, le calunnie, gli insulti, i colpi”. (in Thion, 1980)

15.2.1979: Faurisson riceve un ordine di comparizione. È accusato di avere “volontariamente mutilato alcune testimonianze, come quella di J. P. Kremer”. Nyiszli era un medico ebreo che lavorò per Josef Mengele come patologo e, nel dopoguerra, scrisse un libro di memorie dal titolo Medico ad Auschwitz.

21.2.1979: 34 storici firmano un testo in cui Faurisson viene accusato di “oltraggiare la verità”. 29.3.1979: Faurisson risponde alle accuse con un articolo intitolato “Pour un vrai débat sur les «chambres à gaz“, pubblicato da Le Monde. Maggio 1979 viene fatto circolare uno scritto in difesa della libertà d’opinione di Faurisson in cui si dice che “il professor Faurisson è un uomo solo”.

L’Institute for Historical Review

A dispetto di questi patetici riferimenti all’isolamento in cui sarebbe stato costretto Faurisson, nel settembre 1979 viene organizzato a Los Angeles (Northrop University) il primo convegno mondiale di studi revisionisti, diretto da Willis A. Carto (fondatore dell‘lnstitute for Historical Review), nel corso del quale Faurisson viene accolto come un eroe. Tra gli altri partecipanti, ricordiamo App, Butz, Bennett (negazionista australiano, filopalestinese e antisionista), Verrall, Christophersen e Udo Walendy (il quale si occupa della presunta falsificazione del materiale fotografico da parte degli Alleati).

L’anno seguente esce il primo numero del . Dalla data della sua fondazione, l’Institute of Historical Review (d’ora in avanti IHR) è stato il principale polo di attrazione per tutti i negazionisti, i quali si sono trovati a convergere in un’unica organizzazione e a elaborare strategie comuni. L’istituto si occupa dell’organizzazione dei convegni annuali, della pubblicazione della rivista portavoce del movimento e della vendita e distribuzione di videocassette e libri di argomenti negazionisti, antisionisti e antisemiti (nel catalogo generale appaiono anche i Protocolli).

Recentemente, all’interno dell’IHR è avvenuta una scissione il cui esito più evidente è stata
l’estromissione dell’ex direttore Willis A. Carto dalle fila del movimento nel settembre 1993. Nell’ottobre dello stesso anno, Carto tenta di riprendere fisicamente possesso dell’edificio dell’IHR, ma viene trascinato via urlante dalle forze dell’ordine. Il caso è successivamente trasferito nelle aule dei tribunali.

I motivi dell’ammutinamento sono essenzialmente di due tipi: da un lato, Carto viene accusato dai suoi ex collaboratori di aver preso decisioni avventate sul piano economico e di aver fatto errori strategici, ad esempio riguardo all’affare Mermelstein; dall’altro, il conflitto riguarda le diverse posizioni circa l’immagine che l’istituto desidera proiettare di sé all’opinione pubblica.

Come abbiamo già visto, Carto è un razzista dichiarato, un uomo di estrema destra che fa della sua intolleranza un vanto; per lui il negazionismo non è che uno dei tanti aspetti della sua base ideologica, e infatti subito prima di venire estromesso dal gruppo tenta di modificare la linea editoriale del Journal of Historical Review, ridimensionando lo spazio dedicato alla negazione della Shoah in favore di altri argomenti di sapore apertamente razzista.

Al contrario, gli altri membri della redazione (Thomas Marcellus, Mark Weber, Ted O’Keefe e Greg Raven) sono maggiormente consapevoli della necessità di ripulire l’immagine dell’istituto dal proprio passato neonazista per tentare di conferirgli una patina di rispettabilità scientifica.

Carto

Questa volontà si riflette, ad esempio, nel diverso formato della rivista che, dal 1993 in poi, comincia ad affiancare ai tradizionali scritti negazionisti sulla seconda guerra mondiale anche altri saggi storici di argomento diverso (dalle origini del cristianesimo ad Alessandro Magno, dal Sud-Africa alla questione palestinese), i quali dovrebbero dare un’impressione di maggior rigore e obiettività storica.

Altro elemento degno di nota è il tentativo di avvicinarsi e di trovare legami di parentela con la nuova destra europea in modo. Nel 1981 I’lnstitute of Historical Review annuncia che pagherà una ricompensa di 50.000 dollari a chiunque possa dimostrare inequivocabilmente l’esistenza delle camere a gas. Naturalmente si tratta di una mossa pubblicitaria, basata sull’assunto che, se le uniche testimonianze irrefutabili sono quelle dirette, è improbabile che chi abbia avuto l’esperienza diretta della camera a gas possa essere vivo per raccontarla.

La commissione è composta da Faurisson, Butz, Felderer, ecc. Mel Mermelstein, ex detenuto di Auschwitz la cui famiglia è stata massacrata dai nazisti, manda un plico di documenti che l’IHR rifiuta come non validi. Mermelstein fa ricorso legale, e nel 1985 la Corte Suprema di Los Angeles ordina all’istituto di pagare 90.000 dollari a Mermelstein. [Pisenty néglige de raconter la fin de l’histoire et comment Mermelstein a finalement perdu son procès, par une défait misérable.]

La propaganda nelle università

Pur non aggiungendo pressoché nulla alle argomentazioni impiegate dai negazionisti europei per appoggiare la loro tesi comune, la grande innovazione apportata dai negazionisti statunitensi a sostegno della diffusione della propria posizione ideologica riguarda la politica di propaganda condotta nelle università attraverso i giornali e le riviste redatte dagli studenti.

Robert Faurisson

Diversamente dai grandi quotidiani nazionali, che solitamente non accettano di dedicare spazio alle pubblicità che i negazionisti inviano alle redazioni, le pubblicazioni curate dagli studenti dei vari college americani hanno ripetutamente accettato di divulgare i pamphlet dei negazionisti, in ossequio a una lettura superficiale e ingenua del principio della libertà di opinione asserito nel Primo Emendamento della Costituzione.

I negazionisti, capeggiati in questo settore da Bradley Smith, giocano sull’idealismo dei giovani redattori i quali ritengono che per garantire il pluralismo e l’apertura del dibattito
storiografico sia indispensabile concedere spazio a ogni opinione, indipendentemente dai contenuti che essa veicola o dalle intenzioni ideologiche che la muovono. Paradossalmente, è stato osservato che le riviste che si sono dimostrate più disponibili a pubblicare i pamphlet dei negazionisti americani sono state in genere quelle le cui redazioni comprendevano il maggior numero di ebrei.

Bradley Smith

Ogni pubblicazione di questo genere tende successivamente a suscitare un grande clamore
all’interno dell’università interessata, clamore la cui eco finisce per superare i confini ristretti del campus fino a raggiungere le pagine dei principali quotidiani e gli schermi delle emittenti televisive. È così che, con una spesa iniziale irrisoria (quella necessaria per pagare lo spazio pubblicitario sulla rivista universitaria), se non addirittura nulla (conseguentemente allo scandalo suscitato, le redazioni spesso rinunciano a incassare gli assegni), Bradley Smith e i suoi seguaci si assicurano spazi pari a migliaia di dollari sulla stampa e sulla televisione nazionale, riuscendo a ritagliarsi una posizione importante nell’agenda di gran parte dei cittadini americani.

L’obiettivo finale dei negazionisti è così raggiunto appieno: non si aspira tanto a convincere i cittadini americani che la Shoah non sia mai avvenuta, quanto piuttosto a dare loro l’impressione del tutto erronea che sia oggi in corso un serio dibattito storiografico che vede contrapposti due schieramenti di pari spessore scientifico: i revisionisti e gli sterminazionisti.

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