a cura di Cornelio Galas
di Valentina Pisanty
I processi canadesi
Un capitoletto piuttosto rilevante nella storia del negazionismo d’Oltreoceano è costituito dalle vicende legali di due negazionisti canadesi, Ernst Zündel (neonazista di Toronto) e James Keegstra (insegnante ed ex sindaco di Eckville, Alberta).
Dopo aver pubblicato per più di vent’anni scritti dal sapore apertamente antisemita e filonazista sotto lo pseudonimo di Christof Friederich (si veda The Hitler We Loved and Why), nel 1978 Zündel rivela la sua identità anagrafica durante un’intervista radiofonica. Ciò nonostante la sua attività propagandistica rimane pressoché indisturbata fino al 1985, quando viene accusato di diffondere consapevolmente notizie false sullo sterminio ebraico e conseguentemente condannato a una pena detentiva di quindici mesi, nonché diffidato dal pubblicare materiale sull’argomento della Shoah per almeno tre anni.
Nel gennaio 1987 la Corte d’Appello di Ontario annulla la sentenza sulla base di errori procedurali avvenuti durante il primo processo. Nel giugno dello stesso anno viene avviato un nuovo processo durante il quale, in difesa di Zündel, intervengono testimoni eccellenti del calibro di David Irving, Robert Faurisson, Fred Leuchter, Ditlieb Felderer e Bradley Smith.
Questo spiegamento di forze non salva Zündel da una seconda condanna detentiva, questa volta di nove mesi, di cui l’accusato sconta una settimana prima di essere rilasciato sotto una cauzione di 10.000 dollari. Tuttavia, nell’agosto 1992 la Corte Suprema canadese dichiara incostituzionale la legge che proibisce la diffusione di notizie false, prosciogliendo definitivamente Ernst Zündel.
La storia di James Keegstra ha alcuni punti in comune con quella di Zündel. Insegnante liceale, per quattordici anni Keegstra racconta ai suoi allievi che tutte le rivoluzioni e i misfatti avvenuti nel mondo occidentale dal 1700 in poi possono essere fatti risalire all’attività di un gruppo di ebrei noti come gli “Illuminati”, che l’ebraismo è una religione malvagia e che lo sterminio ebraico è un’invenzione sionista.
Nel 1985 viene condannato per istigazione all’odio, ma la sentenza è annullata tre anni dopo, quando la Corte d’Appello di Alberta determina l’incostituzionalità della legge che proibisce l’istigazione all’odio razziale. Il caso viene riaperto dalla Corte Suprema canadese nel 1990, e nel 1992 Keegstra è condannato a una multa di 2.640 dollari.
Il negazionismo degli estremisti islamici afro-americani
Un altro sbocco, davvero insolito, che è stato offerto alle tesi dei negazionisti statunitensi negli ultimi anni è costituito dall’attività propagandistica di alcuni gruppi neri militanti che, per affermare le proprie tesi separatiste, si rifanno ai peggiori eccessi della teoria della cospirazione giudaica mondiale. Già nel 1961, durante un incontro con alcuni esponenti di spicco del Ku Klux Klan, Malcolm X affermava che “l’Ebreo sta dietro al movimento per l’integrazione razziale, e usa il Negro come suo burattino”.
Da allora, la comunità ebraica è stata accusata da vari membri dei movimenti separatisti afro-americani di avere causato volontariamente pressoché tutte le disgrazie registrate nel corso della storia moderna (e in certi casi anche antica), compreso lo spargimento del virus dell’AIDS presso le comunità nere da parte dei medici ebrei (tesi sostenuta da Steve Cokely).
Addirittura, Adeeb Ahmad Shabazz denuncia la comunità ebraica per avere boicottato, tramite il monopolio dei media, la musica rap politicamente impegnata in favore della più violenta forma di “gangsta rap”.
Secondo la Nation of Islam (NOI), diretta da Louis Farrakhan, il commercio degli schiavi africani dal Cinquecento in poi è stato principalmente opera dei ricchi commercianti ebrei (NOI 1991), mentre l’impegno dimostrato dagli ebrei nel processo di integrazione razziale negli Stati Uniti in realtà nasconde una precisa volontà di annullare la purezza dell’identità e la supremazia della comunità nera americana.
Si realizza così un’improbabile alleanza tra alcune frange del Ku Klux Klan e l’estremismo afro-americano di ispirazione islamica e separatista. Al fine di delegittimare la comunità ebraica, entrambi i gruppi operano una rilettura della storia della persecuzione nazista degli ebrei in senso revisionista (ridimensionamento e banalizzazione della Shoah) e negazionista.
Il Black African Holocaust Council (BAHC, fondato da Eric Muhammad nel 1991 ) si è appropriato di termini quali “pogrom’, “campi di concentramento” e “Olocausto” per riferirsi alle persecuzioni razziali subite dai neri d’America, sostenendo che l’Olocausto nero conta non sei , ma decine di milioni di vittime dello schiavismo.
Inoltre, l’organo principale del movimento — The Holocaust Journal — segnala l’avvenuta conferenza sponsorizzata dal BAHC nell’aprile 1994 sul tema “Il mito dell’Olocausto ebraico”, durante la quale i partecipanti avevano potuto assistere a una “speciale intervista videoregistrata con Franciszek Piper, Direttore degli Archivi di Auschwitz ad Auschwitz, Germania [sic , si sa che è in Polonia]” (ADL, 1994).
Il video in questione è prodotto e distribuito dall’Institute of Historical Review, che ha intrattenuto rapporti con i gruppi di estremismo nero islamico almeno fin dal 1984, data in cui Arthur Butz partecipò a un incontro organizzato dal NOI per divulgare le sue tesi negazioniste.
La propaganda su Internet
Negli ultimi anni, i negazionisti (soprattutto statunitensi e canadesi) hanno cominciato a usare Internet come strumento di proselitismo. I principali siti negazionisti includono lo Zündelsite (che fa capo al neonazista canadese Ernst Zündel), il Committee for Open Debate on the Holocaust (Bradley Smith), i siti di Greg Raven, di Fred Leuchter, di Radio Islam (gestito dallo svedese Ahmed Rami, il cui obiettivo dichiarato è di “combattere il razzismo ebraico e l’ideologia sionista”), dell’Association des Anciens Amateurs de Récits de Guerre et d’Holocauste (AAARGH) e dell’Adelaide Institute.
Quest’ultimo tenta di smorzare i toni ideologicamente accesi di altri siti negazionisti per promuovere l’immagine di un centro di studi storici votato alla ricerca spassionata della verità. Tra le curiosità, troviamo un’organizzazione austriaca chiamata BS-ORG che, dal suo sito, sostiene che il mondo è controllato dagli ebrei e che l’Aspartame (Nutrasweet) è lo strumento di un genocidio presumibilmente architettato da una qualche setta ebraico-massonica.
Chi invece fosse interessato all’acquisto di gadget neonazisti, o volesse tenersi informato sulle ultime novità editoriali in campo negazionista, può visitare il sito del Fenix Shopping Mall, mentre un aggiornamento sul giudaismo talmudico e sul suo presunto disegno di distruzione del cristianesimo per creare un nuovo ordine mondiale si trova nel sito chiamato Be Wise as Serpents.
Il canale informatico si rivela un’ottima soluzione contro la censura che, in alcuni paesi europei, colpisce gli scritti dei negazionisti. Come si sa, infatti, lo spazio informatico è aperto a tutti e, anche se si decidesse di rifiutare l’accesso alla rete a un sito ritenuto ideologicamente pernicioso, esistono innumerevoli modi per aggirare il divieto.
Ad esempio, nel gennaio 1995 un provider tedesco decide di bloccare l’accesso al materiale proveniente dallo Zündelsite: a questo scopo, viene oscurato il numero di IP (International Protocol) del sito — numero che peraltro è condiviso da altri 1500 siti, i quali vengono a loro volta bloccati. Nel giro di 24 ore, diversi utenti americani cominciano a scaricare il materiale censurato sul proprio computer, per poi rilanciarlo in rete (con la tecnica detta di mirroring): si tratta di un’operazione del tutto legale, in quanto è protetta dal Primo Emendamento della Costituzione.
Per bloccare queste copie, il provider tedesco dovrebbe oscurare tutti i siti mirror, tra cui quelli di parecchie università. Invece, decide (ragionevolmente) di desistere, e dopo appena una settimana, lo Zündelsite è di nuovo in rete in Germania.
Incidentalmente, si noti che solo un paio dei mirrorers condividono la politica di Zündel: tutti gli altri agiscono esclusivamente in nome del principio della libertà di espressione. L’estrema facilità con cui i negazionisti accedono all’autostrada informatica ha importanti conseguenze sulle strategie con cui i sostenitori della storiografia ufficiale cercano di combattere il fenomeno della negazione della Shoah.
Se con le vecchie tecnologie comunicative (carta stampata e video) era ancora possibile pensare di reprimere il movimento tramite la censura, con l’avvento e la diffusione di Internet questo obiettivo è divenuto impossibile da realizzare. Al di là del complesso dibattito sull’opportunità o meno di censurare i testi degli autori in questione (dibattito che travalica i confini di questo studio), è innegabile che un simile proposito si rivela oramai anacronistico, e al divieto di pubblicazione devono subentrare altre strategie più articolate e al passo coi tempi.
È da queste premesse che muove il progetto Nizkor (in ebraico “noi ricorderemo”) che dal 1992 si è assunto il compito di smascherare gli obiettivi di Zündel e dei gruppi analoghi attraverso un meticoloso monitoraggio dei siti negazionisti, facendo proprio il motto “il modo per combattere le idee perniciose è attraverso altre idee”.
Le tesi di fondo dei negazionisti
Vi sono diversi temi ricorrenti negli scritti dei negazionisti, sebbene in alcuni casi tali motivi si dimostrino reciprocamente contraddittori. Ricordiamone qualcuno, in attesa di esaminare più dettagliatamente le argomentazioni avanzate dai singoli autori.
(a) Non vi è stato alcun genocidio programmato e le camere a gas non sono mai esistite (il gas Zyklon B serviva alla disinfestazione dai parassiti). Questo è l’assunto principale del negazionismo nella sua fase “matura”. Si tratta di una verità posta come indiscutibile, per cui ogni tentativo di dimostrarne l’infondatezza viene rifiutato a scatola chiusa, in quanto inquinato dalla volontà “sterminazionista” di mantenere in vita la menzogna della Shoah.
(b) La “soluzione finale” di cui parlano molti documenti nazisti non era che l’espulsione degli ebrei verso l’Est, dove erano state previste riserve in cui potessero vivere le minoranze etniche. Vedremo come gli autori negazionisti tendano a interpretare il linguaggio burocratico e spesso vagamente cifrato dei nazisti secondo il suo senso letterale, mentre, quando le dichiarazioni sui campi di sterminio si fanno esplicite (ad esempio, in alcuni documenti firmati da Himmler e da Goebbels), essi passano all’interpretazione metaforica (o alla semplice omissione).
(c) Il numero di ebrei uccisi dai nazisti è di gran lunga inferiore a quello ufficialmente dichiarato. Secondo Rassinier, esso non supera il milione, mentre Manfred Roeder parla addirittura di una cifra che si aggira attorno alle 200.000 vittime: come osserva Vidal-Naquet, ciò implicherebbe che il tasso di mortalità tra gli ebrei europei durante il periodo della guerra sia stato eccezionalmente basso, visto che i negazionisti includono nella cifra dei morti anche i decessi per cause naturali. Inoltre, molte delle vittime sarebbero state uccise durante le incursioni aeree degli Alleati sui campi di concentramento. Sebbene la manipolazione delle cifre sia una costante delle strategie interpretative impiegate dai negazionisti, nel corso di questo studio non mi soffermerò specificamente sull’aspetto statistico delle loro argomentazioni.
Ciò è dovuto in primo luogo al fatto che la stessa storiografia ufficiale non è giunta a una stima definitiva del numero delle vittime della Shoah, data la molteplicità dei metodi di calcolo demografico adottati dai diversi storici per colmare le lacune documentarie (i nazisti distrussero buona parte dei documenti di campo necessari per quantificare esattamente le vittime). Ma il motivo principale per cui mi astengo dall’esaminare il trattamento che i negazionisti riservano alle statistiche è che non è nel ridimensionamento della cifra dei morti, bensì nella negazione dell’avvenuto sterminio nazista, che risiede il nocciolo dell’operazione negazionista. I calcoli pseudodemografici con cui i negazionisti tentano di decurtare il numero delle vittime costituiscono una strategia puramente retorica chiamata a sostegno della loro tesi principale (vedi punto (a)).
(d) La Germania hitleriana non è la maggiore responsabile per lo scoppio del conflitto. Talvolta i negazionisti sostengono che la responsabilità debba essere per lo meno condivisa con altri, inclusi gli ebrei. In altri casi la cospirazione giudaica mondiale, con i suoi complici (URSS e USA), viene additata quale unica vera responsabile della guerra. In genere, i negazionisti si riferiscono a una presunta dichiarazione di guerra rivolta alla Germania nel 1939 dal portavoce dell’organizzazione sionista, Chaim Weizmann, a nome della popolazione ebraica mondiale.
La guerra doveva assumere la forma di un boicottaggio economico su scala mondiale, per cui la decisione presa da Hitler di considerare gli ebrei tedeschi ed europei alla stregua di stranieri di nazionalità nemica è da considerare come un atto di legittima difesa. In realtà, la lettera in questione era stata inviata da Weizmann al primo ministro britannico per esprimere il supporto della comunità israelitica americana alla decisione della Gran Bretagna di entrare in guerra con la Germania.
(e) Il genocidio è un’invenzione della propaganda alleata, principalmente ebraica e particolarmente sionista. I motivi che hanno spinto molti dei sopravvissuti ai lager nazisti a mentire sono molteplici, ma quello principale è da ricercare nell’enorme truffa compiuta dal movimento sionista ai danni della Germania, la quale è costretta a pagare le riparazioni di guerra allo Stato di Israele. C’è poi chi sostiene che l’organizzazione stessa dei lager nazisti fosse sotto il controllo degli ebrei e sia da considerare come un ennesimo capitolo del secolare complotto giudaico mirato alla conquista del mondo.
Le banche ebraiche avrebbero infatti favorito l’arrivo al potere di Hitler, prevedendo fin dall’inizio l’esito che avrebbe avuto la guerra. Secondo Percy L. Greaves, anche Roosevelt era un agente sionista, mentre la rivista New Solidarity individua nessi occulti tra il movimento sionista, la monarchia britannica, i servizi segreti inglesi e le varie organizzazioni segrete, quali il “Culto di Iside” e i “Cavalieri di Malta”. Senza poi contare il fatto, citato da quasi tutti gli autori negazionisti, che i mezzi di informazione sono esclusivamente in mano agli ebrei. Da tutto ciò deriva l’idea di un sionismo tentacolare, onnipresente e onnipotente, che si riaggancia evidentemente alla tradizione dei Protocolli.
LE STRATEGIE INTERPRETATIVE
I documenti storiografici sono testimoni variamente affidabili che gli storici interrogano per ricostruire gli eventi passati. Ciascuno storico imposta l’interrogatorio secondo metodi che gli sono propri: c’è chi assume un atteggiamento accomodante e benevolo nei confronti del testimone e chi, al contrario, diffida per principio di ogni dichiarazione emessa dal soggetto interrogato, conducendo un vero e proprio interrogatorio di terzo grado.
Le strategie interpretative di cui mi occupo in questa sezione sono, per l’appunto, i diversi stili di conduzione dell’inchiesta storiografica adottati dagli storici ufficiali, da un lato, e dai negazionisti, dall’altro. Cercherò di capire se vi siano delle costanti nel modo in cui i negazionisti si apprestano a leggere i documenti, estorcendo loro dichiarazioni che sono l’esatto opposto di ciò che essi sembrano dire (e che la storiografia ufficiale attribuisce loro).
Prima di identificare le strategie interpretative specificamente impiegate dai negazionisti nella lettura dei documenti storici, occorre capire quali siano i criteri normalmente applicati in storiografia per decidere quale — tra le possibili chiavi di lettura applicabili a un certo documento — sia quella più adatta. Si tratta di un problema epistemologico fondamentale, al quale è dedicato il seguente capitolo.
Il metodo storiografico
La storiografia nasce dal momento in cui il metodo dell’osservazione diretta (quale si trova, ad esempio, in Erodoto) viene sostituito con l’interpretazione dei resti del passato, che per definizione sono frammentari e incompleti. Lo storico — nel senso moderno del termine — è colui che tenta di ricostruire un certo corso di eventi senza esserne stato testimone oculare.
In questo senso, il lavoro dello storico non è dissimile da quello del cacciatore, che scruta le tracce lasciate nel fango da un animale per risalire alla classe dei possibili impressori, o da quello del detective, che tenta di scoprire l’identità dell’omicida a partire dagli indizi che quest’ultimo ha involontariamente disseminato sulla scena del delitto. In tutti e tre i casi, tra i fatti trascorsi e la loro ricostruzione si apre uno spazio all’interno del quale si esercita l’attività interpretativa del ricercatore.
Così come il cacciatore e il detective, anche lo storico è chiamato a formulare ipotesi per stabilire un legame di causalità tra i frammenti che gli pervengono dal passato e il passato stesso. Di fronte a un utensile risalente a un’età remota, egli tenterà perciò di immaginare quale funzione (pratica o simbolica) tale oggetto svolgesse nell’ambito del suo contesto d’origine.
Analogamente, di fronte a un documento scritto (diciamo, gli atti di un processo dell’Inquisizione) egli si costruirà un’immagine di come gli eventi citati dal documento si siano effettivamente svolti.
Naturalmente, non c’è alcuna garanzia a priori che la ricostruzione proposta dal singolo storico sia quella giusta: può sempre darsi che il frammento analizzato si presti a più di una chiave di lettura, o che a un certo punto venga ritrovato un nuovo documento che metta in crisi l’interpretazione precedentemente accettata.
Il ragionamento congetturale comporta sempre un certo margine di errore possibile, e lo storico onesto è colui che si dimostra disposto, qualora le sue inferenze si rivelino incompatibili coi dati documentari , a riformulare le proprie ipotesi di lavoro (o a lasciare che qualcun altro lo faccia).
Ma vediamo ora quali sono i materiali di partenza sui quali si esercita l’interpretazione storica. Questi si suddividono in due categorie principali: i monumenti, che si ereditano dal passato, e i documenti, scelti dallo storico per la sua pratica analitica di ricerca di informazioni sul passato. Nel primo caso è riscontrabile un elemento di intenzionalità commemorativa che invece è assente nel secondo.
I monumenti infatti sono i resti del passato che vogliono essere una testimonianza di un determinato fatto e che lo rappresentano. Appartengono a questa categoria le lapidi, le medaglie, i documenti legali e le sculture funebri.
I documenti, al contrario, sono privi di questa intenzionalità commemorativa: essi vengono estrapolati dal loro contesto originario dallo storico, il quale li tratta alla stregua di indizi involontariamente emessi. Già attraverso la selezione dei documenti da analizzare lo storico è guidato da un’ipotesi interpretativa di partenza, da una scelta di pertinenza che costringe i residui del passato a parlare nonostante la loro originaria reticenza.
In questo senso, sarebbe ingenuo vedere nei documenti dei fatti innocenti, del tutto autonomi rispetto all’attività dello storico: il documento è un testimone del passato che non parla fino al momento in cui non lo si interroga.
Ciò nonostante, è necessario che venga mantenuto un certo grado di indipendenza reciproca tra oggetto d’analisi (il documento) e interpretazione affinché quest’ultima non si riduca alla semplice ricerca di conferme delle idee preconcette dell’interprete. La distinzione tra monumenti e documenti può essere applicata alle testimonianze, le quali possono essere volontarie (monumenti) o involontarie (documenti).
Come ogni buon giudice istruttore sa bene, le testimonianze volontarie possono facilmente essere inquinate dalla volontà, da parte del testimone, di proporre una certa versione dei fatti che vada a suo vantaggio. Infatti, in questo caso subentra la preoccupazione di influenzare l’opinione dei contemporanei o degli storici futuri.
È per questo motivo che le testimonianze volontarie devono essere integrate con le testimonianze loro malgrado, che equivalgono ai lapsus linguistici in psicoanalisi o alle impronte digitali lasciate inavvertitamente dal colpevole sul luogo del delitto. Ma anche queste testimonianze apparentemente involontarie sono falsificabili e soggette al dubbio scientifico.
Rimane dunque da capire in che modo lo storico può farsi largo tra le varie voci che gli giungono dal passato, discernendo efficacemente tra quelle che gli mentono volontariamente, quelle che lo fanno inconsapevolmente (appartengono a questa categoria le contraddizioni e le inesattezze riscontrabili in qualunque testimonianza umana) e, infine, quelle a cui egli può accordare la sua fiducia.
Chiaramente lo storico accorto non può permettersi di essere un credulone. Ma nemmeno lo scetticismo programmatico è un atteggiamento intellettuale auspicabile, in quanto esso comporta un eccessivo dispendio di energie interpretative che alla lunga conduce alla paralisi della ricerca.
Allo scopo di trovare un soddisfacente equilibrio tra il dubbio programmatico e la credenza cieca, lo storico deve imparare a far dialogare tra loro le varie testimonianze a sua disposizione, un po’ come accade nei confronti processuali. In assenza di un parametro assolutamente affidabile a partire dal quale valutare la veracità di ciascuna deposizione (in quanto la verità dei fatti è proprio l’elemento assente che si tenta di ricostruire congetturalmente), il giudice applica una serie di criteri più o meno formalizzati per determinare il peso da attribuire a ciascuna testimonianza in rapporto alle altre.
Ad esempio, è ovvio che quanto maggiore sarà il numero di testimonianze reciprocamente indipendenti in favore di una certa ipotesi, tanto più tale ipotesi risulterà corroborata. Ciò significa che non è il semplice peso dell’opinione pubblica a far pendere l’ago della bilancia da una parte piuttosto che dall’altra, ma è la presenza di più voci autonome che fanno sistema tra di loro a convincere il giudice della probabile validità di una certa ricostruzione degli avvenimenti.
In altre parole: il fatto che nel Cinquecento una buona parte della popolazione europea fosse probabilmente disposta a giurare che esistessero i lupi mannari, e che addirittura alcune persone dichiarassero di averne incontrato uno, di per sé non dimostra affatto che tale asserzione fosse vera.
Semplicemente, si potrebbe dire che — collocandosi all’interno del sistema di conoscenze accettate all’epoca, secondo cui i lupi mannari andavano considerati come entità reali e non come figure fantasiose — i testimoni fossero predisposti a riconoscere di fronte a qualcosa che avevano intravisto, magari di notte, un lupo mannaro. Ciò significa che il pregiudizio culturalmente codificato circa l’esistenza dei lupi mannari precedeva (e determinava) le presunte esperienze percettive dirette descritte dai testimoni.
Diverso è il caso in cui da più fonti indipendenti (nel senso di non facenti capo a un unico vertice) giunga notizia di un certo awenimento storico, il quale viene descritto in modo diverso da ciascun testimone, a seconda del punto di vista a partire dal quale egli ha potuto partecipare parzialmente all’evento stesso.
Lo storico potrà decidere di applicare una certa cautela nell’interpretazione delle singole testimonianze (le quali sono sempre parziali, falsificabili ed eminentemente fallibili), ma dalla polifonia delle varie voci che arrivano al suo orecchio, magari anche contraddicendosi a vicenda, non potrà che concludere che alla base di tutte vi sia un qualche residuo di verità comune.
La verità di cui parlo qui non è altro che il riconoscimento dell’esistenza passata dell’avvenimento in questione, qualunque sia stato il suo effettivo svolgimento e qualunque siano state le motivazioni di fondo che abbiano spinto i vari protagonisti dell’evento ad agire in un certo modo piuttosto che in un altro.
Ad esempio, l’assassinio di Giulio Cesare è un dato storiografico che nessuno storico serio si preoccupa di mettere in discussione. La sua notizia ci giunge da più fonti dell’epoca. L’aspetto essenziale della nostra conoscenza di questo evento è che le informazioni a noi note non provengono tutte dalla medesima matrice, o da più testimoni appartenenti alla stessa fazione politica. Oltre alle testimonianze dell’epoca, abbiamo poi una serie di altri dati storici che si dimostrano coerenti con la versione ricevuta della morte di Cesare.
Ad esempio, il fatto che nell’aprile del 44 a.C. Bruto e Cassio furono costretti a lasciare Roma per sfuggire all’ira del popolo romano “fa sistema” con l’ipotesi della loro responsabilità per quanto riguarda la morte di Cesare, avvenuta un mese prima.
A questo punto noi potremmo avvertire l’esigenza di riesaminare l’esatto corso degli eventi di quel 15 marzo del 44 a.C. magari ridimensionando il peso che la storiografia dell’epoca ha attribuito ad alcuni aspetti per noi secondari quali i cattivi presagi che precedettero l’assassinio, oppure potremmo decidere di rivalutare le reali motivazioni che spinsero Bruto e gli altri cospiratori a compiere il loro gesto, magari ridistribuendo l’onere delle colpe tra i vari protagonisti della vicenda.
Ma non ci verrà in mente di negare il fatto stesso che i cospiratori abbiano ucciso Cesare, qualunque fosse il loro obiettivo politico finale. C’è inoltre un ottimo motivo per credere che questo evento sia avvenuto: il fatto che nessuno all’epoca, nemmeno gli artefici dell’omicidio o i loro seguaci, si sia preoccupato di negarlo.
L’unico modo per giustificare un nostro eventuale dubbio circa la realtà della morte di Cesare così come oggi la conosciamo sarebbe di avanzare il sospetto che le varie testimonianze siano state in qualche modo controllate dall’alto, che qualche istanza occulta abbia manipolato le diverse fazioni in gioco, convincendole a fornire una versione omogenea dei fatti che tuttavia non corrispondesse alla realtà. Ma in questo caso sarebbe necessario chiamare in causa una qualche variante della teoria sociale della cospirazione.
La teoria della cospirazione è una versione aggiornata del teismo che si ritrova, ad esempio, in Omero. Questo approccio interpretativo rifiuta il concetto di casualità come fattore preponderante nell’esperienza umana, e tende a far risalire ogni evento a una volontà precisa da parte di un artefice nascosto. Dietro ogni evento si intravede il frammento di un piano più vasto, architettato con cura da un qualche gruppo di pressione, che va dagli dèi dell’Olimpo in Omero al gruppo dei saggi di Sion nei falsi Protocolli.
Sebbene questa teoria sia molto diffusa, essa contiene pochissima verità. In realtà, anche laddove vi fosse una precisa volontà di cospirazione da parte di un certo gruppo di pressione, interverrebbero nel piano prestabilito tutta una serie di fattori imprevisti e imponderabili che impedirebbero all’effettivo corso degli eventi di seguire accuratamente il progetto iniziale.
Ogni nostra azione infatti genera una molteplicità di conseguenze indesiderate che fanno sì che nella vita sociale nulla riesca mai nel modo prestabilito. Un qualche riferimento alla teoria del complotto è la condizione indispensabile per delegittimare o invalidare un corpus di testimonianze che, sebbene provengano da fonti diverse e fino a un certo punto autonome, concordino su una certa ricostruzione storica di eventi passati.
Infatti, mentre l’autenticità di ogni testimonianza presa isolatamente è suscettibile di essere messa in dubbio, in quanto non vi è alcuna garanzia che essa rifletta accuratamente la realtà degli eventi descritti, risulta molto più difficile scardinare una rete di testimonianze che sia internamente coerente. Per farlo, occorre sostenere che l’apparente concordanza tra le varie voci in gioco sia dovuta o al caso fortuito (ipotesi inverosimile e scarsamente convincente), oppure a una determinazione precisa (che assume la forma canonica del complotto).
Una terza possibilità consiste nel sottolineare le divergenze riscontrabili tra le diverse testimonianze per sostenere che, in effetti, esse non formano un insieme coerente. Ma una simile strategia non tiene conto del fatto che le inevitabili discrepanze tra le testimonianze fino a un certo punto rafforzano, anziché compromettere, una certa versione dei fatti — se non altro perché allontana no il sospetto che esse emanino tutte da un unico soggetto storico.
Che cosa succederebbe se due presunti testimoni di un grande evento come può essere la battaglia di Waterloo descrivessero la loro esperienza impiegando esattamente lo stesso linguaggio, o evidenziassero esattamente gli stessi particolari? In quanto sanzionatori dell’autenticità delle testimonianze, saremmo costretti a concludere che uno dei due testimoni ha copiato l’altro, o che entrambi si siano rifatti a una fonte comune.
Ciò è dovuto al fatto che è assai improbabile che, collocandosi in punti diversi nello spazio ed essendo provvisti di strutture cognitive diverse, entrambi abbiano osservato esattamente le stesse cose. In breve, lo storico è perennemente chiamato a discernere tra “la somiglianza che giustifica e quella che discredita”.
Concludendo, la domanda che percorre ogni riflessione sul metodo storiografico è: in quali casi il dubbio costituisce un atteggiamento produttivo e quando invece esso rappresenta un ostacolo al progresso della nostra conoscenza sul passato? Questo interrogativo non si presta a facili soluzioni perché chiama in causa tutta una serie di questioni filosofiche fondamentali, non ultima quella concernente lo statuto della verità nelle ricostruzioni storiche, che nessuno può pretendere di risolvere definitivamente con una semplice formula.
L’analisi delle strategie interpretative impiegate dagli autori negazionisti per rifiutare l’evidenza storica accettata dalla comunità scientifica può dimostrarsi utile per gettare luce su alcuni degli aspetti più controversi della discussione attorno al metodo storiografico. Infatti, è proprio l’esempio delle aberrazioni interpretative più evidenti a illuminarci sul funzionamento abituale dei nostri ragionamenti.
Faurisson critico letterario
Curiosamente, si può constatare un forte legame di continuità tra l’attività di Faurisson come critico letterario, specializzato nella “ricerca del senso e del controsenso, del vero e del falso” (così è scritto in un libretto pubblicato nel 1978 dall’Università di Lione), e la sua più recente vocazione negazionista. In questo capitolo mi soffermerò sulle dichiarazioni di metodo interpretativo di cui Faurisson è prodigo nelle pagine che egli dedica alla lettura delle opere di Rimbaud, di Lautréamont, di Céline e di Nerval.
È interessante che tali esplicitazioni dei criteri impiegati nella “decifrazione” dei testi si facciano molto più rare con il passaggio dall’analisi delle opere letterarie a quella dei documenti storiografici. Tuttavia, cercherò di dimostrare l’esistenza di un unico metodo interpretativo (implicito o esplicito) operante in tutte le letture dei testi esaminati da Faurisson.
Ogni volta che si accinge ad affrontare un nuovo testo, Faurisson si pone come colui che infrange le idee ricevute, i pregiudizi supinamente accettati e il conformismo della comunità degli interpreti, ingannati dai mistificatori e dai falsari di vario genere. Mentre tutto ciò che ha a che fare con la tradizione e con l’ortodossia critica viene connotato negativamente per essere poi scartato, in questa visione fortemente polemica dell’attività dell’interprete i concetti di buonsenso, di demistificazione e di détection ricevono una valenza positiva.
All’interno del sistema di valori attivato da Faurisson, l’interprete-eretico viene investito della missione di strappare i veli a una realtà tenuta celata per troppo tempo in passato. Implicita in queste pagine è la strisciante accusa – alimentata dall’impiego di termini quali “soperchieria”, “mito”, “allocchi”, ecc. – che la mistificazione identificata non sia casuale, ma che sia il frutto di una consapevole falsificazione.
I titoli che Faurisson antepone ai suoi articoli presentano una struttura costante e hanno l’obiettivo di scuotere le certezze del lettore ingenuo. Dapprima domina la forma interrogativa (A-ton lu Rimbaud ? A-t-on lu Lautréamont ? À quand la libération de Céline ?), ma poi il nostro smascheratore opta per una formula più affermativa: La Clé des Chimères et Autres Chimères de Nerval.
Già nella successione cronologica dei titoli intravediamo quella che sarà la strategia generale impiegata da Faurisson in tutti i suoi scritti: insinuazione del dubbio e rottura del consenso, seguita dalla proposta perentoria della chiave di lettura alternativa (la – non una – chiave).
La lettura di Voyelles
Nel 1961 la rivista Bizarre (n. 21-22) pubblica l’articolo con il quale Faurisson esordisce come critico: “A-t-on lu Rimbaud ?”. In esso, l’autore propone di leggere Voyelles in chiave sessuale, facendo corrispondere a ciascuna vocale rimbaudiana una parte del corpo femminile secondo uno schema riassumibile come segue:
A capovolto —> V Sotto l’egida del sesso, il “punto di partenza”
e coricato —> _ Sotto l’egida dei seni, lo sbocciare progressivo
I coricato —> I orizzontale. Sotto l’egida delle labbra, il momento dell’ebbrezza
U capovolto —> Sotto l’egida della chioma, l’acquetamento passeggero
O —> O Sotto l’egida degli occhi, l’estasi finale
Secondo Faurisson, l’evocazione anatomica viene fatta in coitu, a partire dal sesso femminile, attraverso seni, labbra e capelli per giungere infine al culmine del rapporto, il quale si legge nella pupilla dilatata della donna. Sebbene l’ordine della sequenza proposta non appaia immediatamente intuitivo, Faurisson afferma con certezza che questa poesia “non ha alcun senso se (essa) non ha un senso erotico”. A sostegno della sua tesi egli porta l’inversione che Rimbaud fa tra la U e la O:
“Non è né per risparmiarsi lo iato “O blu, U verde”, né per andare dall’alfa all’omega, bensì perché, leggendosi qui l’orgasmo nella pupilla dilatata della Donna, si è reso necessario terminare con il simbolo dell’occhio.”
Un’ulteriore conferma gli deriverebbe dal fatto che nel manoscritto originale di Rimbaud, la E è scritta come un’epsilon che – se fatta girare su se stessa di 90 gradi – assume l’aspetto inconfondibile di un paio di seni. Sarebbe interessante a questo proposito controllare come Rimbaud riproduceva le E nei suoi altri manoscritti, ma Faurisson si astiene dal compiere una simile indagine filologica che rischierebbe di portarlo lontano dalla sua strada.
Infine, secondo questa lettura della poesia di Rimbaud l’omega starebbe per O-mega (= grande occhio), mentre il titolo stesso della poesia è interpretato come un anagramma fonetico per “vois-elles” (gioco di parole intraducibile).
Fin qui, l’articolo di Faurisson potrebbe apparire come una parodia di certa critica che oggi si chiamerebbe “decostruzionista”. Ma in realtà la chiave che egli propone non è intesa come un modo come un altro per far dire al testo quello che l’interprete vuole sentire. Infatti, Faurisson è nemico giurato di ogni teorizzazione sulla polisemia dell’opera letteraria e vuole dimostrare di essere arrivato alla “elucidazione semplice e completa di un enigma che oggi data ottantanove anni”.
Anche in poesia, il senso è univoco e va scoperto così come un detective scopre l’autore di un delitto. La lettura proposta presenta qualche problema di coerenza interna che è stato rilevato da alcuni critici. Ad esempio, Rimbaud associa a ciascuna vocale un colore — A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu — e, secondo Faurisson, vi è un forte legame tra i campi semantici collegati ai diversi colori e gli oggetti simboleggiati da ogni lettera.
Qualcuno ha osservato che vi è una certa dissonanza tra il colore verde della U e i capelli della donna amata, ma naturalmente, secondo Faurisson, vi è una risposta anche a questo quesito: arrivato alla U, Rimbaud ha già impiegato il nero, il bianco e il rosso e gli mancano perciò pochi dei colori principali, in particolare il verde e il giallo. Ora, “il giallo ha potuto essere eliminato per motivi facili da immaginare” (ma non ci viene detto quali), mentre il verde dei capelli ha per Rimbaud degli echi mitologici che riflettono i suoi studi classici.
Come si vede, nel caso dell’interpretazione delle opere letterarie, vi è un ampio spazio di manovra per giustificare l’uso che si fa dei testi costruendo un piano di coerenza interna del discorso. Finché tale coerenza resiste ai colpi della verifica testuale, allora la lettura proposta sta in qualche modo in piedi. Semmai si potrebbe obiettare che non tutte le chiavi di lettura sono altrettanto interessanti o stimolanti, e che quella avanzata da Faurisson è particolarmente pedestre.
Tuttavia, si può tranquillamente accettare di far figurare anche la lettura di Faurisson tra il numero indefinito di interpretazioni/usi che la poesia di Rimbaud ha suscitato nel corso dei decenni se si ammette che il contenuto di un’opera poetica non è qualcosa di compiuto ma si incrosta man mano delle letture che ne vengono fatte.
Il fondamentalismo di Faurisson
I problemi non riguardano dunque la maggiore o minore eccentricità della tesi sostenuta, bensì il fatto che Faurisson pretenda di avere rivelato l’unica lettura corretta, della poesia in questione. Il testo poetico viene trattato alla stregua di un crittogramma da decifrare, mentre al lettore non viene concesso alcun margine di libertà interpretativa. Una simile credenza nell’univocità del senso di ogni testo o documento viene chiaramente esplicitata in questo articolo del 1962:
“L’umile realtà dei testi è totalmente differente dall’idea sublime che piace farsene. Versi o prosa, tutto deve essere letto da vicino. Per non cercare un unico significato in ciò che si legge, sia che si tratti di prosa o di poesia, di alta o bassa letteratura, dovrebbero esserci ragioni gravi, che non sono ancora state scoperte. Non rimane, dunque, nell’attesa, che cercare, come è d’uso, un significato, e uno solo, in ciò che si legge”.
Vengono qui poste le basi di quello che, alla luce dell’effettiva pratica interpretativa di Faurisson, appare come una dichiarazione di metodo quantomeno paradossale: da un lato, vi è la teorizzazione del fondamentalismo estremo (ogni testo ha un unico possibile percorso di senso corretto), ma, dall’altro, viene avanzata una chiave di lettura completamente deviante rispetto alla tradizione critica accettata, chiave sostenuta solo da un critico isolato e incompreso.
Come cercherò di dimostrare, in Faurisson fondamentalismo ed ermetismo vanno a braccetto. Il senso primario o denotativo che Faurisson pretende di estrarre dai testi non coincide con il significato voluto dall’autore. Faurisson infatti si oppone ai tentativi di giungere alla comprensione delle intenzioni profonde dell’autore, che sono oscure e perciò insondabili. Il suo obiettivo è invece di isolare il contenuto dell’opera dai vari sensi che vi possono scorgere i diversi lettori.
Tuttavia, la sua concezione del contenuto vero dell ‘opera è estremamente ristretta e limitativa, e finisce per coincidere con la sua personale lettura del testo, ipostatizzata al ruolo di significato oggettivo dell’opera. Questa mossa di generalizzazione indebita di una lettura particolare è caratteristica del metodo interpretativo impiegato da Faurisson, del tutto impermeabile a qualunque argomentazione circa la relatività delle interpretazioni individuali.
Ma che cosa garantisce la validità dell’interpretazione proposta? Generalmente, chi sostiene l’esistenza di un senso unico, o almeno di una matrice unica di sensi possibili, è anche sostenitore dell’intersoggettività come criterio per determinare l’accettabilità delle ipotesi interpretative. Forse non si può afferrare una volta per tutte il vero significato di un testo, ma quantomeno si possono definire quei criteri che creano coesione entro una data comunità interpretativa circa i parametri atti a distinguere le letture adeguate da quelle più o meno aberranti.
In Faurisson, al contrario, la Verità del testo (intesa in senso assoluto) è sempre in antagonismo con la tradizione accettata. In assenza di criteri comuni per determinare la validità di un’ipotesi interpretativa, non rimane altro che l’autorità indiscutibile di un interprete eletto come portavoce della comunità per imporre un’interpretazione piuttosto che un’altra.
È la sindrome del profeta eretico che tenta di aprire gli occhi delle moltitudini ignare e che deve combattere contro l’ottusità dei pregiudizi. Naturalmente è Faurisson stesso ad autoeleggersi al ruolo di detentore della lettura preferenziale e a stabilire un singolare circolo ermeneutico in cui lo stesso attore ricopre contemporaneamente i ruoli di ideatore e di sanzionatore ultimo dell’ipotesi interpretativa.
“È quanto dicevo sopra. C.V.D. Non sono scontento del rigore della mia dimostrazione.” (Faurisson, 1972)
In un’intervista del 1977 pubblicata su Les Nourelles Littéraires e intitolata “Cerco mezzogiorno alle dodici”, Faurisson si augura che in futuro la critica letteraria accetti la “dura legge del senso” così come i fisici accettano “la legge di gravità”. La sua tesi viene riassunta in uno slogan (in aperta polemica con il detto di Valéry per cui non c’è un senso vero di un testo) che verrà ribadito a più riprese:
Si deve cercare la lettera prima di cercare lo spirito. I testi hanno un solo senso oppure non c’è alcun senso. [corsivo mio]
Contrariamente a quei critici che si sforzano di leggere “tra le righe”, Faurisson sostiene di voler cominciare col leggere le righe stesse, ed espone alcuni concetti che egli insegna ai suoi allievi del corso di critica dei testi e dei documenti:
“Se, in un testo reputato storico (ma queste reputazioni non sono assimilabili al pregiudizio?), rilevano i nomi di “Napoleone” o della “Polonia, vieto che la loro analisi parta da ciò che credono di sapere di Napoleone o della Polonia; essi devono accontentarsi di quanto si dice nel testo. Un testo, così esaminato, nudo e crudo, con gli occhi del profano e senza affettazione, assume un rilievo interessante. Eccellente mezzo, d’altronde, per identificare le falsificazioni e le “fabbricazioni” di ogni genere. I miei allievi lo chiamano il “metodo Ajax” perché lucida, scrosta, fa brillare”.
L’ermetismo di Faurisson
Quest’ultima citazione funge da spia per la nevrosi interpretativa che caratterizza il metodo di lettura che Faurisson applica ai testi. Il lettore deve porsi in una condizione di perenne sospetto, non deve dare nulla per scontato, deve fare dello scetticismo una regola. Allo stesso modo, ogni credenza circa eventi, luoghi, personaggi, ecc., non immediatamente percepibili è soggetta al dubbio.
Non si tratta del sano dubbio dello scienziato che cessa di credere solo quando accade qualcosa che contravviene vistosamente alle regole di cui dispone. In Faurisson, ogni minimo episodio che sembri contraddire le proprie aspettative è avvertito come una conferma della validità dei propri sospetti iniziali e determina il crollo di un sistema di credenze mai veramente accettate.
Diffidenza generalizzata e sindrome del complotto tendono a fare coppia tissa: se si ritiene che non vi sia nulla che possa tranquillamente essere dato per scontato, di solito si attribuisce questa incertezza a un qualche agente falsificatore che distorce l’apparenza naturale delle cose. Per chi è soggetto alla nevrosi interpretativa, infatti, il sospetto è uno stato che insorge qualora si ritenga che la realtà sia stata in qualche modo manomessa o adulterata.
Non è necessario individuare con precisione l’autore di una simile falsificazione, sebbene la sua presenza aleggi sinistramente in ogni nicchia del mondo esperito. Faurisson addestra i suoi studenti a non dare per scontate le loro conoscenze attorno a termini quali Polonia o Napoleone perché queste potrebbero rivelarsi errate. Ma, seguendo Faurisson nel suo ragionamento, la stessa diffidenza dovrebbe essere applicabile alla comprensione di tutte le parole che compongono il testo analizzato, con il risultato che il lettore si trova gettato in uno stato di semiparalisi interpretativa.
Portato alle sue estreme conseguenze, il “metodo Ajax” si rivela un derivato dell’ermetismo complottardo e, più che lustrare, cancella. In effetti, però, quando dalla teoria passa alla pratica di lettura dei testi, Faurisson non rimane fedele al principio cartesiano del dubbio generalizzato, bensì seleziona alcuni elementi che fungano da punti fermi sui quali edificare il suo discorso. Ciò è del resto inevitabile: l’arresto momentaneo dello slittamento
del senso è la precondizione necessaria per qualunque atto comunicativo.
È illuminante la pagina, riportata in Thion 1980, in cui Faurisson parodizza i metodi e il lessico delle scuole critiche avversarie per contrapporvi il proprio metodo, identificato con la critica di sempre.
La critica dei testi (tre scuole)
Tre modi di vedere un testo. Tre modi di vedere le cose, la gente, i testi. Tre modi di vedere una penna a sfera e di parlarne.
1. La vecchia critica dichiara: “Questo oggetto è una penna Bic. Serve a scrivere. Ricollochiamolo nel suo contesto storico: riconosciamo in questo oggetto lo ‘stilo’ degli Antichi, qui si presenta in una forma moderna.
Vediamo il quadro socio-economico in cui si colloca: obbedlsce alle esigenze della produzione industriale in serie, costa poco, si usa e si getta (è rimarchevole il fatto che la vecchia critica abbia la tendenza a ritardare questo momento della descrizione che, a rigor di logica, dovrebbe precedere qualsiasi altro momento, si direbbe che non l’affronta che al termine di una specie di movimento rotatorio, di andamento storico, che gli conferisce delle apparenze riflesse) […] Preoccupiamoci di sapere chi è l’autore di quest’opera e di ciò che ha detto della sua
opera […]”.
2 La nuova critica sopraggiunge e dichiara: “la vecchia non interessa più a molti. […] Ecco cosa si deve capire: le cose non dicono né quello che vorrebbero dire né quello che dicono. Si deve cercare attorno sotto, attraverso. Lo sguardo deve vagare distrattamente e, d’improvviso, andare a perforare le cose. Questa ‘penna Bic’ (la denominazione è piatta e bassamente circostanziata) è solo ciò in via accessoria. Essa è… un complesso strutturale. Con quella forma. In tale contesto contemporaneamente (e non: successivamente) storico, economico, sociale, estetico, individuale. Qui tutto sta in tutto, e reciprocamente”. […]
3. La critica di sempre Si stupisce di tanta scienza e di così poco buon senso. Essa va dritto all’oggetto. È quello il suo primo movimento. Il suo primo movimento non è di girare attorno al vaso. Essa non vuol sapere anzitutto né chi, né che cosa. Non vuole conoscere né l’epoca, né il luogo. Né il nome dell’autore, né le sue dichiarazioni. Niente commenti, niente filosofia. Fatemi vedere. Lo guarda da lontano e da vicino. Vede scritto Reynolds. A priori, l’oggetto sarebbe una penna a sfera di marca Reynolds. Diffidare sempre! La realtà corrisponde al nome e all’apparenza? Bisogna vedere. Nuovo esame dell’oggetto. Che sia una finta penna a sfera? Questa apparenza di penna a sfera potrebbe nascondere, che so? un’arma, un microfono… della polvere per starnutire. Si deve esaminare tutto con cura.
Il risultato dell’esame potrà essere che sono incapace di spiegarmi cosa sia quest’oggetto. Di conseguenza, mi guarderò bene dal fare come se me lo spiegassi. E non pretenderò di spiegarlo agli altri. Non farò commenti. Starò zitto. La critica di sempre ha notevoli esigenze: riflettere prima di parlare, cominciare dal principio; tacere quando, in fin dei conti, non si ha niente da dire. (in Thion, 1980)
Secondo Faurisson, dunque, l’atteggiamento interpretativo quotidiano consiste nella messa in dubbio di ogni apparenza sensibile, ossia nella disposizione costante a rimettere in discussione ciascun asserto che riceviamo circa gli stati del mondo. In altre parole, egli predica la dissoluzione totale di quel tacito consenso che sta alla base dell’interazione sociale e che fa sì che, in assenza di prove contrarie, noi diamo per scontata la buona fede del nostro interlocutore. 24
Con l’esempio della penna a sfera, Faurisson vuole convincerci della validità del suo metodo di lettura. In effetti, egli non fa che mettere a nudo la sua ansia demistificatrice, la sua paranoia interpretativa. Egli ci dice che, di fronte a una penna che reca la scritta “Reynolds”, noi siamo naturalmente portati a dubitare della verità di tale scritta e a domandarci se per caso essa non nasconda un segreto di qualsivoglia natura.
Ma è proprio questo che noi non facciamo; a meno di non trovarci all’interno di un romanzo di Ian Fleming, non ci passa nemmeno per la mente che la penna Reynolds possa essere altro che una penna Reynolds. La ricerca affannosa di un segreto diffuso nelle maglie dell’esperienza, oltre a essere un fenomeno ben noto alla psichiatria, è quanto di meno economico vi sia nella pratica comunicativa quotidiana.
Faurisson attribuisce ai pregiudizi una valenza puramente negativa: ma il pregiudizio contro i pregiudizi non tiene conto del fatto che l’interpretazione parte sempre da una serie di preconcetti e solo nel caso in cui questi urtino contro l’evidenza testuale essi vengono man mano sostituiti con concetti più adeguati.
Non tutti i pregiudizi sono sinonimi di superstizione, così come il riconoscimento dell’autorità altrui non significa necessariamente abdicazione della ragione, ma può essere dettato dalla scelta, estremamente razionale, di lasciarsi guidare in certi settori da qualcuno che si riconosce essere più esperto di noi in quei dati settori.
In questo caso, la razionalità sta nei criteri che determinano la scelta in favore dell’una o dell’altra fonte di informazione, e nella flessibilità con la quale si è disposti a sostituire una fonte a un’altra qualora quest’ultima si riveli immeritevole della nostra fiducia. Nulla impedisce di modificare sia i propri pregiudizi, sia le fonti di autorità alle quali ci rivolgiamo per attingere a quelle conoscenze che non possiamo (o non vogliamo, o non dobbiamo) toccare direttamente con mano.
Ma la volontà di revisione dei propri punti fermi deve seguire, e non precedere, il riconoscimento di una falla negli schemi precedentemente accettati. Altrimenti si esce dalla sfera del comportamento razionale e si entra in quella — del tutto legittima di per sé, ma estranea a quello che la nostra cultura ha decretato essere l’ambito del pensiero scientifico — della fede cieca, di cui lo scetticismo generalizzato non è che l’altra faccia.
Si è solitamente portati a pensare che fondamentalismo ed ermetismo siano due estremismi reciprocamente incompatibili. Ma il caso di Faurisson ci dimostra la validità del vecchio truismo secondo il quale gli estremismi opposti talvolta finiscono per toccarsi.
Solo se si crede nell’esistenza di una Verità unica, universale, trascendente e immutabile, si è portati a interrogarsi spasmodicamente circa la natura ingannevole delle apparenze e ad assumere un atteggiamento interpretativo paranoide. Al contrario, chi non pretenda di agganciare i significati delle parole a una realtà esterna concepita come unica e immutabile, si accontenta del principio di coerenza quale parametro per valutare l’accettabilità o meno delle congetture sul mondo che gli vengono via via presentate.
La spia della menzogna gli si accenderà solo quando si trovi di fronte a un’evidente incongruenza, ovvero quando si verifichi uno scarto irrimediabile tra una regola interpretativa introiettata e un caso particolare al quale tale regola dovrebbe applicarsi.
Inoltre, la constatazione di un “fatto sorprendente” non lo indurrà automaticamente a subodorare un inganno o una trama: consapevole dell’ampio margine di arbitrarietà che regola i processi interpretativi, il pragmatista non avverte il bisogno di riassorbire ogni contraddizione all’interno di un unico schema esplicativo che rifletta la vera natura delle cose, ad esempio attribuendo il disordine percepito all’azione occulta di un soggetto manipolatore.
Mistificazione letteraria e mistificazione storica
I testi di Faurisson sono infarciti di espressioni relative all’inganno, alla menzogna, al segreto, alla truffa, alla contraffazione e agli abbagli collettivi. La cosa interessante è che la predisposizione a snidare congiure di vario tipo è già presente nei primi testi critici di Faurisson, quasi come se l’inclinazione al negazionismo fosse già virtualmente contenuta nei suoi scritti su Rimbaud o su Lautréamont.
La parola che più colpisce nei testi di Faurisson è mistificazione: nel 1961 egli definisce Voyelles una mistificazione letteraria di cui sarebbe responsabile la tradizione critica precedente. In A-t-on lu Lautréamont? ricorre ossessivamente l’espressione mistificazione assieme a tutti i suoi termini derivati. Per fare un esempio, il libro comincia con il seguente paragrafo:
Cent’anni. La mistificazione è durata cent’anni. In un secolo, Isidore Ducasse è giunto a mistificare alcuni fra i più grandi nomi della Letteratura, della Critica e dell’Università, sia in Francia che all’estero. Sembra che non vi siano esempi di una mistificazione letteraria altrettanto grave e altrettanto prolungata. (Faurisson, 1972)
A proposito della mistificazione e delle varie forme di inganno collettivo, Faurisson ricorda che queste possono essere di varia natura: letteraria, scientifica, religiosa, storica e ideologica. In queste pagine Faurisson dimostra di avere una generale vocazione per quella che lui chiama demistificazione e di essere ancora indeciso circa la scelta del campo al quale applicare le sue doti di detective.
Come dire che la volontà di negare in genere precede il negazionismo, e lo scetticismo acuto ne è la condizione preliminare. Ma in queste pagine è già possibile scorgere il germe di quelli che saranno gli interessi successivi di Faurisson.
“In tempo di guerra, la proliferazione delle “bufale” raggiunge proporzioni gigantesche. Queste “bufale” persistono una volta tornata la pace. Vent’anni dopo la Prima Guerra Mondiale, il mito dei bambini con le mani mozzate dai tedeschi durava ancora […]. La Seconda Guerra Mondiale ha suscitato dei miti ancora più stravaganti, ma non è consentito attaccarli […]. Certi miti sono sacri”. (Faurisson, 1972)
La guerra mondiale offre insomma un terreno molto fertile per chi voglia studiare gli effetti della falsificazione storica e della propaganda. Di per sé una simile constatazione non spicca per originalità, e quindi Faurisson dovrà trovare il modo per rendere la sua tesi più eterodossa, ad esempio attraverso un radicale cambiamento di prospettiva (occupandosi dei miti bellici di fabbricazione alleata anziché dei tentativi di riscrittura radicale della storia a opera dei regimi totalitari).
Prima di passare alla vera e propria negazione della Shoah, nella seconda metà degli anni Settanta, Faurisson attraverserà una breve stagione critica intermedia durante la quale, nel tentativo di dimostrare l’inautenticità del diario di Anne Frank, avrà modo di applicare le sue capacità di demistificatore a un argomento che si avvicina a quelli che saranno i suoi interessi successivi.