a cura di Cornelio Galas
Siamo arrivati all’ultima puntata. Con altri documenti segreti della Casa Bianca. Relativi in particolare alla Guerra nel Pacifico.
Il 7 luglio 1941, Sumner Welles scrisse a Hopkins questa lettera presaga:
So che vi interessate attivamente per rendere effettivo nel più breve tempo l’aiuto da accordare alla Cina, nell’ambito della legge affitti e prestiti del 11 maggio 1941.
Ma è chiaro che ci sono cause che sfuggono al vostro controllo, comprese forse le stesse necessità di altre parti del mondo, le quali ostacolano continuamente l’invio di rifornimenti alla Cina.
Pure, la situazione in Estremo Oriente è allarmante e mi permetto di suggerire di dare nuovo impulso al programma di produzione e di aiuti perché è attualmente opportuno compiere ogni sforzo per accelerare ed accrescere l’invio dei materiali alla Cina.
Sta di fatto che l’invasione tedesca della Russia può indurre il Giappone a compiere qualche nuovo atto d’aggressione. Fra le varie possibilità possiamo annoverare:
1) una invasione della Siberia;
2) una espansione verso sud;
3) una ripresa di operazioni militari in Cina.
Mi sembra che i successi tedeschi contro la Russia offrano al Giappone un’opportunità che ci deve impegnare seriamente a dare tutto l’aiuto possibile alla Cina, nel più breve termine di tempo.
È essenziale che il nostro Paese faccia di tutto perché la Cina non si trovi indebolita e demoralizzata. Il mezzo più rapido e sicuro a tal fine sta nell’intensificare quanto più è possibile gli aiuti di cui ha enorme necessità e che dobbiamo mandarle senza indugio.
Invio copia della presente al generale Marshall e all’ammiraglio Stark. Sono sicuro che le dedicherete tutta la vostra attenzione e considerazione, poiché si tratta di una delle questioni più importanti nei riguardi della nostra difesa.
(Si noterà che Welles, parlando delle “opportunità” che si offrivano al Giappone, non comprendeva affatto quella di un attacco contro gli Stati Uniti).
I Giapponesi cominciarono presto a dimostrare che Welles aveva visto giusto e non tardarono a far capitale dell’invasione tedesca alla Russia, iniziando una delle loro solite mosse.
Il 23 luglio costrinsero il debole Governo di Vichy a cedere le proprie basi in Indocina, donde potevano lanciare attacchi contro le Filippine o contro le Indie olandesi e la penisola di Malacca.
La situazione in Medio Oriente si fece pertanto molto seria. Roosevelt passò il generale MacArthur e le forze armate filippine alle dirette dipendenze dell’esercito statunitense.
Hopkins condivideva certamente le preoccupazioni di Welles per la Cina, ma non poteva fare molto, poiché distratto dai continui viaggi a Londra, a Mosca e ad Argentia. Quando tornò a Washington lesse un messaggio inviato da Owen Lattimore a Lauchlin Carrie, segretario del Presidente per gli affari orientali.
Lattimore, uno degli Americani più competenti di problemi asiatici, si trovava in quel tempo a Ciungking come consigliere politico di Ciang Kai-shek. E riferiva:
Recente propaganda del Giappone e loro satelliti insinua che la Cina venga impiegata da democrazie occidentali non in qualità di alleata, ma come strumento che farà le spese delle condizioni di pace.
Tale propagande sfrutta una situazione che desta gravi preoccupazioni al Generalissimo, poiché la Cina si sente isolata politicamente e nutre crescente timore di non ricevere, dopo la guerra, un trattamento leale e che le accordi parità di diritti.
Il Generalissimo ritiene che soltanto il Presidente Roosevelt sia in grado di poter oggi prendere l’iniziativa, suggerendo all’Inghilterra e alla Russia di stringere un’alleanza con la Cina tra le potenze anti-Asse, eliminando il segno della sua inferiorità … e rafforzando pertanto l morale del popolo cinese.
Non molto dopo, Hopkins ricevette il primo dettagliato rapporto di Daniel Arnstein, cui aveva raccomandato di sbrogliare la faccenda della via della Birmania. Era un rapporto lunghissimo e senza sottintesi. I primi due paragrafi ne possono rendere un’idea:
La ragione principale del pessimo funzionamento dei servizi lungo la strada birmana sta nell’enorme ignoranza delle più elementari regole del traffico dimostrata da tutti indistintamente gli uomini che sopraintendono attualmente ai vari quartieri generali lungo il percorso.
Gli enti del Governo preposti attualmente all’impiego degli autocarri su detta strada, sono sovraccarichi di personale e di uffici. Nessuno sa che cosa occorra per porre un rimedio alla situazione.
Non ci si sforza neppure di vedere che il traffico inizi di mattina presto per avere davanti a sé tutta la giornata e non si pensa minimamente a regolare i carichi e a predisporre tutte le agevolazioni che richiederebbero la presenza e la cura personale dei capi di ciascuna località.
In ognuna di queste ci sono tre o quattro assistenti e parecchi segretari che non sanno nemmeno cosa succede lungo la strada e sono perfettamente all’oscuro di ogni orario di partenza e di arrivo dei trasporti.
Sono 16 attualmente gli enti che operano lungo la strada della Birmania e tutti retti da personale incompetente: nessuno si prende la briga di spostare i carichi giacenti, che pur dovrebbero trasportarsi se ci fosse un minimo di coordinazione.
Invece non si dislocano che i materiali richiesti dai dipartimenti a cui ciascun ente fa capo. La situazione non migliorerà finché l’organizzazione non sia tolta di mano a tutti questi dipartimenti governativi e non venga affidata a mani competenti investiti da poteri per raddrizzare le cose.
Chiunque sia il nuovo capo, sarà necessario che egli abbia piena facoltà di scegliersi i collaboratori, assumendo e licenziando il personale senza timori o favoritismi di sorta. La situazione di ogni impiegato deve essere regolata dalle sue relazioni personali, ma solo in base alla competenza, all’abilità o alla voglia di lavorare di persona e non attraverso un certo numero di assistenti.
Tutti i privilegi sui trasporti, goduti ora dalle varie organizzazioni, devono essere riuniti sotto la sua direzione.
Questo fu, a quanto mi consta, il primo di una luna serie di documenti scoraggianti che rivelarono a Hopkins la verità della situazione cinese. Roosevelt e Hopkins erano, come la gran maggioranza degli Americani, logicamente e fortemente filo-cinesi.
Avevano avuto spesso delle divergenze con Churchill su questo punto, perché il Primo ministro considerava un’illusione ogni forma di fiducia verso la Cina.
Come si vedrà, c’era però una gran confusione sull’argomento fra gli stessi responsabili americani e il generale Marshall mi disse che la controversia Stilwell-Chennault sulla nostra politica in Cina provocò l’unico vero dissenso che si ebbe fra lui e Hopkins.
C’erano negli Stati Uniti ardenti amici della Cina, i quali erano tutt’altro che di aiuto nel risolvere l’intricata matassa. La loro totale devozione alla causa del popolo cinese li portava a dipingere un quadro tutto di maniera della realtà del Kuomintang (ed è dir poco), procurando terribili delusioni ai molti Americani che andarono in Cina durante la guerra, come soldati o come civili.
Il maggiore McHugh addetto alla fanteria di Marina presso l’Ambasciata americana di Ciungking, informò Currie che il Generalissimo si era compiaciuto del rapporto Arnstein:
Gli sembrava quasi un repertorio di tutti i mali che tormentano il traffico della strada. Credo che ai suoi occhi il rapporto abbia il grande valore di essere un documento assolutamente obbiettivo.
Egli aveva già avuto sentore di molte delle cose dette nel documento, ma da persone in cui non aveva la minima fiducia. Invece il fatto che Arnstein e Co. non siano pagati per la loro inchiesta, diano il loro parere senza riserve e stiano per far ritorno in patria, rende il loro rapporto ineccepibile. Ora i difetti sono chiariti: tocca ai Cinesi porvi rimedio.
La signora Ciang Kai-shek scrisse a Currie: “la prima volta che vederete Mr. Harry Hopkins, fatemi il piacere di ringraziarlo da parte nostra per l’aiuto che ci dà sotto la legge affitti e prestiti. So che, vostro tramite, egli si è preso a cuore i problema cinese e vuole che la Cina abbia presto la quota chele spetta”.
Però, quale fosse questa “quota” viene rivelato da una lettera inviata da T. Soong al colonnello William J. Donovan:
Riassumo la conversazione che ho avuto con voi ieri pomeriggio. La concomitanza di numerosi nuovi avvenimenti ha reso disperatamente necessario l’invio di aeroplani in aiuto alla Cina, anche a costo di differire e dirottare analoghi aiuti alle Filippine, a Singapore e alle Indie olandesi.
Il primo dei suddetti eventi è la nuova tattica di bombardamento aereo adottata dai Giapponesi, un bombardamento continuo, quotidiano che dura ventiquattrore su ventiquattro ed è condotto da grosse formazioni aeree o da poche unità, ma a cui Ciungking è continuamente soggetta, dopo la protesta americana contro i movimenti nipponici nel sud.
Senza aerei per tenere lontani dalle città gli apparecchi giapponesi e per bombardare a nostra volta le loro basi d’appoggio, non abbiamo possibilità di difesa e di rappresaglia.
È evidente che lo scopo di questi bombardamenti è di porre termine “all’incidente cinese” prima di muoversi in altra direzione – mettendo il popolo cinese di fronte a una realtà ben diversa dalle speranze che aveva nutrito negli ultimi quattordici mesi sulla efficacia di un aiuto americano.
L’enorme differenza fra la realtà e le speranze balza agli occhi dei Cinesi anche da due altri avvenimenti.
La larghezza con cui è stata annunciata la consegna degli apparecchi all’Unione Sovietica, dopo le ripetute promesse fatte alla Cina e non mantenute con il pretesto di una assoluta mancanza di aeroplani.
L’evidente piega della politica americana – vi prego di capirmi e di vedere le cose non dal vostro o dal mio punto di vista, ma da quello dei Cinesi che si vedono sottoposti a un bombardamento di ventidue ore al giorno – per cui si tende a rabbonire il Giappone offrendogli materiali da guerra, proprio quei materiali e quella benzina che servono per bombardare Ciungking, pur di distoglierlo dall’attaccare talune vie americane di rifornimento nel sud.
Questi tre avvenimenti, in genere e le loro conseguenze, fanno sì che i Cinesi siano stanchi della politica di resistenza di Ciang Kai-shek, nel quadro delle politica generale delle democrazie e comincino a pensare: “La nostra resistenza non è che una pedina nel gioco delle altre potenze democratiche.
Il Giappone viene fornito di armi per distruggerci, pur di dare respiro agli Inglesi nel sud e forse ai Russi nel nord. Nonostante tutti gli aiuti che ci sono offerti in materiale rotabile e in carri, tutte cose che non servono cioè, per la guerra, non ci viene dato nulla che ci possa permetta di attaccare il Giappone e di restituirgli pan per focaccia.
Ma questi stessi mezzi d’offesa, che per noi sono inesistenti, vengono invece consegnati con immediata prontezza ai nostri amici russi …”.
Se gli aeroplani possono venire consegnati subito alla Russia – che è un’amica e un’alleata – dovete darli subito a Ciungking altrimenti il popolo cinese non ci si raccapezza più.
Sono passati ormai quattordici mesi da che venni negli Stati Uniti a chiedere questo aiuto di aeroplani.
In risposta il Presidente, dopo essersi resoconto del pericolo di una non resistenza all’aggressione, mi promise di interpellare i suoi consiglieri per darci ogni aiuto effettivo.
Da allora io non ho fatto che rilevare l’urgente necessità di aeroplani per difendere le principali vie di riferimento e le maggiori città e per rendere possibili le operazioni delle nostre forze terrestri.
Nei quattordici mesi che sono seguiti, non un solo aeroplano completo d’armi e di munizioni ha raggiunto la Cina, per poter essere usato in operazioni belliche.
Per interessamento del Presidente ci furono spediti l’autunno scorso 100 Curtis P. 40, destinati all’Inghilterra, ma solo ora si sta disponendo per i necessari pezzi di ricambio e le munizioni senza i quali quegli aeroplani non possono servire in combattimento, ma solo per istruzione e allenamento.
L’autunno e l’inverno scorsi ci furono offerti alcuni apparecchi da bombardamento capaci di bombardare il Giappone. L’offerta venne accettata, ma non ebbe seguito.
Una speciale missione aerea americana, con a capo il generale Claggett, visitò a Cina dopo la venuta du Currie e dopo attento studio degli aeroporti, delle forze aeree e delle possibilità, fece una relazione pienamente favorevole alle nostre richieste, perché ci fossero dati 350 caccia e 150 bombardieri. Nulla di tutto ciò è stato fatto.
Alla fine di luglio fu finalmente approvato dall’Ufficio strategico unito, per autorizzazione presidenziale, l’invio di 66 bombardieri e 269 caccia, di cui 24, così si assicurò Ciang Kai-shek, d’immediata consegna.
Il Generalissimo fu al colmo della felicità quando Lauchlin Currie mandò conferma dell’invio. Oggi si dice che le consegne non potranno avere inizio prima di ottobre e saranno rateizzate fino alla primavera del ’42.
Intanto Ciungking è bombardata incessantemente giorno e notte e la Cina entra nel secondo mese del suo quinto anno di guerra, senza che non una delle promesse che io telegrafi per incoraggiarli, s’avveri …
Mi scuserete d’essere stato così franco, ma la situazione russa e la completa dimenticanza in cui è tenuta la Cina in tutti i piani strategici alleati finora resi noti, hanno effettivamente fatto precipitare il problema di questi aeroplani alla Cina, se si vuole rinfrancare il morale della nostra gente …
Abbiamo resistito già cinque anni. Dateci la possibilità di resistere ancora.
Dei sessantasei bombardieri medi ricordati da Soong e promessi con autorizzazione del Presidente, in luglio, non uno era stato ancora consegnato alla fine di ottobre. Ciò si rileva da un promemoria di Soong a Roosevelt, su cui il Presidente segnò a matita: “H.H. – Affrettare! F.D.R.”.
In seguito Hopkins e Soong si posero a lavorare insieme di buone lena e continuarono la collaborazione fino a diventare amicissimi. Non molto dopo, mentre era all’ospedale della Marina, Hopkins ricevette da Soong questa lettera:
Sono molto spiacente di apprendere che siete indisposto e mi faccio scrupolo di turbare la vostra convalescenza. Ricordate che io vidi voi e il Presidente il 31 ottobre, trasmettendo una urgente richiesta del Generalissimo Ciang Kai-shek per affrettare la consegna di aeroplani e di artiglieria in previsione di imminenti attacchi giapponesi contro la strada della Birmania attraverso la Birmania e lo Yennan.
Il Presidente fu così cortese da ordinare che le consegne fossero “affrettate” e voi gentilmente faceste i passi necessari per esaudirne il desiderio. Però sono costretto a riferirvi che finora non sono riuscito ad ottenere nessun risultato concreto.
Voi foste così gentile da promettermi che mi avreste visto di nuovo dopo il ritorno da Hyde Park, ma ve lo ha impedito di certo la malattia. Intanto io non so cosa rispondere al Generalissimo Ciang e vi sarò grato se mi poteste consigliare cosa debba dire in risposta alle sue ripetute e pressanti richieste.
Uno dei primi atti di Hopkins, il giorno di Pearl Harbour, fu la richiesta di un controllo su tutte le navi e gli aeroplani che trasportavano aiuti alla Cina. Era in numero assolutamente esiguo.
Gli aiuti erano solo una goccia in vasto mare e cessarono del tutto per un certo periodo di tempo, poiché i Giapponesi erano riusciti a tagliare ogni via di comunicazione verso la Cina per terra e per mare.
C’era invero una paurosa penuria di armi e di materiali disponibili, se consideriamo le sempre maggiori richieste che venivano dall’Inghilterra e dalla Russia, dalla Cina e in seguito dalle nostre stesse forze armate.
Un esempio: durante il mese di luglio, mentre Hopkins a Londra e a Mosca si rendeva conto della necessità di bombardare la Germania, la produzione dei quadrimotori negli Stati Uniti raggiungeva un totale di appena due la mese. Il preventivo calcolato per i cinque ultimi mesi del 1941 era di soli 213.
Dato che il bisogno d’aeroplani per l’addestramento dei nostri equipaggi e le incessanti e sempre urgenti richieste inglesi e russe, s’intende che la quantità che poteva essere consegnata alla Cina, era veramente irrisoria.
Il 13 novembre Hopkins scrisse al suo amico James Norman Hall, uno degli autori degli Ammutinati del Bounty, che viveva a Tahiti, la seguente lettera:
Qui siamo impegnatissimi con il nostro programma di produzione. Aeroplani, carri armati, munizioni, cannoni si fabbricano a getto continuo e penso che tra pochi mesi faranno sentire tutto il loro peso. Non credo però che il semplice programma affitti e prestiti basti per sconfiggere Hitler. Temo che si dovranno prendere misure di portata ben maggiore.
Nella lettera però non si esprimevano tutti i sentimenti di Hopkins. Perché egli sapeva che non avremmo mai potuto raggiungere un equo livello di produzione finché non vi fossero mobilitate tutte le industrie automobilistiche e del genere, dal piede di pace a quello di guerra e non le si fosse rese atte a soddisfare tutte le richieste di una guerra totale, finché l’intero popolo americano non avesse compreso che la produzione non era solo una questione di aiuti allo straniero, ma una questione di vita o di morte per la nazione.
Si noterà che nella lettera ad Hull, Hopkins parlava ancora di Hitler, senza fare il minimo cenno al Giappone. Quando egli invocava che si dessero alla Cina tutti gli aiuti possibili (molto pochi come si è visto), agiva più sul piano morale che su un vero e proprio piano pratico.
Era più che altro un pagamento in conto – qualcuno potrebbe anche dire: “uno scarico di coscienza” – che poteva avere il suo valore in un lontano futuro, ma non aveva la minima importanza come fattore di vittoria nella guerra in corso.
Uno dei documenti più importanti del periodo anteriore a Pearl Harbour è senza dubbio la cosiddetta: “Stima dell’Ufficio Unito sull’esigenza di una produzione totale americana” (Joint Board Estimate of United States Over-all Production Requirements).
Era datata 11 settembre 1941 e firmata dai capi di Stato maggiore, generale Marshall e ammiraglio Stark. La prima parte, di tre paragrafi, dava le ragioni della stima fatta. La seconda, a cominciare dal paragrafo 4, aveva per titolo: “Grande Strategia Militare”:
4) La Germania e tutti i paesi occupati dalla Germania che le offrono una collaborazione militare: il Giappone e il Manciukuo, l’Italia, la Francia di Vichy e probabilmente la Spagna e il Portogallo, sono da ritenersi nemici in potenza.
I paesi amici e eventuali alleati in una guerra sono: il Commonwealth britannico, le Indie olandesi, la Cina, la Russia, la Francia libera, i popoli dei territori occupati dalla Germania che si possono opporre alla potenza dominante e i paesi dell’Emisfero occidentale.
5) I grandi obbiettivi nazionali degli Stati Uniti, in relazione ad una politica militare, possono essere riassunti nelle linee seguenti:
- a) conservare l’integrità territoriale, economica e ideologica degli Stati Uniti e del resto dell’Emisfero occidentale;
- b) impedire la disgregazione dell’Impero britannico;
- c) impedire un’ulteriore espansione del dominio territoriale giapponese;
- d) stabilire, successivamente, in Europa e in Asia una politica di equilibrio che assicuri in quei paesi una stabilità politica e garantisca la sicurezza futura degli Stati Uniti;
- e) creare dove possibile dei regimi favorevoli alla libertà economica e alla libertà individuale.
- 6) Poiché gli Stati Uniti hanno i loro principali interessi territoriali nell’Emisfero occidentale è fondamentale che gli Stati Uniti costituiscano forze armate tali da poter prevenire, in ogni eventualità e in collaborazione con le forze delle altre potenze americane, l’invasione dell’Emisfero occidentale da parte di una potenza politica o militare dell’Europa o dell’Asia, anche se si verificasse il crollo del Commonwealth britannico.
7) Il conseguimento di questo solo obbiettivo non porterà al successo di tutti gli obbiettivi nazionali menzionati al paragrafo 6). Tali obbiettivi possono essere attuati nella loro integrità soltanto con vittorie militari ottenute fuori dall’Emisfero, dalle forze armate degli Stati Uniti o dalle forze armate delle potenze amiche, o da entrambe.
Sono parole che sottolineano uno degli aspetti principali dell’intera strategia americana nella seconda guerra mondiale, cioè, che le battaglie decisive dovessero combattersi fuori dall’Emisfero occidentale e non, come insistevano gli isolazionisti, entro i confini del nostro territorio.
La “stima” continuava:
8) Se la Germania dovesse riuscire a conquistare tutta l’Europa, desidererebbe stabilire con gli Stati Uniti un certo periodo di pace, per organizzare le sue conquiste, ristorare la propria economia e incrementare la potenza militare, in previsione di una eventuale conquista dell’America del Sud e della sconfitta militare degli Stati Uniti.
Durante questo periodo di “pace”, la Germania cercherebbe logicamente di minare la stabilità economica e politica dei paesi dell’America del Sud, per costruirvi dei regimi favorevoli allo stabilirsi della potenza militare tedesca su questo continente. In tale circostanza, la Germania avrebbe migliori probabilità di battere gli Stati Uniti.
Ma una simile previsione può essere ritenuta come incerta perché la Germania potrebbe anche decidersi di cercarsi subito una base nell’Emisfero occidentale.
9) Se il Giappone dovesse sconfiggere la Cina e la Russia e ottenere il controllo del Siam, della Malesia e delle Indie Olandesi, sarebbe anch’esso probabilmente favorevole a una pace per avere il tempo di organizzare “la sfera di prosperità dell’Asia unita”. Quasi inevitabilmente le isole Filippine passerebbero nella sfera di egemonia giapponese.
Qui di nuovo si presume che il Giappone attacchi a nord la Russia, a ovest la Cina e a sud Malacca e le Indie Olandesi, prendendo in una morsa le Filippine (con le isole orientali sotto mandato). I cinque paragrafi che seguono vanno sotto il titolo di: “Direttive di politica militare”:
10)Non è prevedibile che il regime nazista venga riconosciuto dal popolo tedesco, almeno in un prossimo futuro e ciò avverrà solo nel caso che la Germania si trovi di fronte a una disfatta militare.
Ma, anche se si stabilisse un nuovo regime, non è affatto certo che esso accetterebbe proposte di pace accettabili anche dagli Stati Uniti.
11) Ammesso che quanto suesposto risponda a verità, è opinione di questo Ufficio Unito che la Germania e i suoi satelliti europei non possono essere sconfitti dal presente schieramento delle forze europee.
Perciò, se i nostri nemici europei devono essere sconfitti, è necessario che gl Stati Uniti entrino in guerra e impieghino una parte delle loro forze armate in una offensiva contro l’Europa o l’Africa nell’Atlantico orientale.
12) L’Ufficio Unito ritiene pure che, nelle presenti circostanze, il Giappone potrebbe avanzare contro gli Inglesi nella Malacca e contro gli Olandesi nelle Indie orientali, senza che né gli Inglesi né gli Olandesi vi si possano opporre vittoriosamente con la forza non avendo l’appoggio militare degli Stati Uniti. Non si può prevedere quale sarebbe il risultato di un attacco giapponese contro le Repubbliche sovietiche nella Siberia orientale.
13) Considerato tutto ciò, l’Ufficio Unito raccomanda che la totalità della produzione massima statunitense sia rivolta a soddisfare le necessità degli Stati Uniti in previsione d’essere impegnati simultaneamente in una guerra contro la Germania e il Giappone in una delle forme seguenti:
- a) come belligerante a fianco del Commonwealth britannico, delle Indie orientali Olandesi, della Russia e della Cina;
- b) allenandosi come belligerante con il Canada e con altri paesi dell’America latina, se le altre potenze belligeranti fossero già state sconfitte dalla Germania e dal Giappone.
14) Per la loro scarsa capacità industriale e la povertà delle proprie risorse materiali. Le Potenze amiche chiedono agli Stati Uniti la maggior parte delle munizioni e degli altri materiali occorrenti per vincere la guerra.
Le munizioni e gli altri materiali prodotti o controllati dagli Stati Uniti dovranno essere equamente divisi fra noi e le Potenze amiche, se si vuole raggiungere il successo della strategia militare che è stata adottata dagli Stati Uniti come rispondente alla sconfitta dei nemici comuni.
La parte III ha per titolo: “Probabile carattere delle direttive strategiche del nemico. (A) Strategia tedesca”.
15) L’immediato obbiettivo tedesco nell’attuale fase della guerra è il dominio completo, militare e politico, dell’Europa e probabilmente dell’Africa del Nord e dell’Ovest. Se la Germania riuscisse a raggiungerlo potrebbe desiderare forse un periodo di pace, durante il quale organizzare l’Europa e prepararsi per nuove avventure.
Non si può trascurare però la possibilità che la Germania intenda continuare la propria avanzata vittoriosa verso l’India, l’Africa del Sud e l’America del Sud.
16)Gli obbiettivi strategici della Germania e i mezzi con cui tenta attuarli, sono a nostro parere i seguenti:
- a) conquista della Russia Europea, distruzione degli eserciti russi e abbattimento del regime sovietico. È un compito grave per l’esercito e per l’aviazione tedeschi e assorbirà ancora per parecchi mesi tutte le energie della nazione. Il successo finale non può dirsi affatto certo;
- b) distruzione della capacità di resistenza del Regno Unito, mercé una intensificata azione diretta a logorare e distruggere il naviglio e mediante il continuo bombardamento delle basi e dei cantieri. Si impiegheranno allo scopo navi da corsa, sommergibili e aerei operanti dalle basi della Norvegia, della Francia, del Portogallo e dell’Africa Occidentale francese contro le rotte nord-occidentali ed atlantiche; e incrociatori ausiliari operanti su tutti gli oceani. L’invasione dell’Inghilterra non sarà tentata che in caso di fallimento di tutte le altre misure;
- c) conquista dell’Egitto, della Siria, dell’Irak e dell’Iran. Forse è questa la regione dove si svilupperà la prossima grande offensiva tedesca. Si dovranno impiegare vaste forze di terra e dell’aria tedesche e italiane , appoggiate dalle forze navali italiane nel Mediterraneo Orientale e nel Mar Nero. Il successo dipenderà in massima parte dalla difesa che saranno in grado di opporre le forze concentrate degli Inglesi e dei Russi e della capacità militare dell’Italia, che si è dimostrata finora di entità molto incerta;
- d) occupazione della Spagna, del Portogallo, del Marocco, Dell’Africa occidentale francese, del Senegal e delle isole atlantiche, per intensificare l’offensiva tedesca contro il naviglio britannico, o per impedire l’uso di quelle stesse posizioni ai nemici della Germania. Questa offensiva richiederà notevoli forze di terra, di mare e dell’aria, anche se minori di quelle richieste da una conquista delle terre a oriente del Mediterraneo.
17)Entro il proprio territorio e nei territori circostanti, i Tedeschi possono esercitare uno sforzo imponente. Ma allontanandosi sempre più dalle basi del proprio territorio, lo sforzo militare che potranno esercitare si ridurrà progressivamente in ragione della lunghezza e della sicurezza delle linee di comunicazione e delle difficoltà dei trasporti.
La Germania sta già sperimentando teli difficoltà in Russia e le sperimenterà in più ampio grado in una offensiva condotta contro le regioni orientali del Mediterraneo: il problema dei rifornimenti diverrebbe addirittura enorme in una operazione condotta contro il Marocco o l’Africa Occidentale francese, il Senegal e le Azzorre.
Nella parte orientale della Russia Europea, in Egitto, nell’Irak, nell’Iran e nell’Africa del Nord e dell’Ovest, i Tedeschi non potranno esercitare che una minima parte dello sforzo che hanno potuto sostenere contro la Francia, nei Balcani o in Polonia. Una dura sconfitta della Germania in quelle regioni potrebbe mettere subito in forse la stabilità del regime nazista. È una significativa possibilità che non va scartata nei piani delle Potenze alleate.
L’ultimo paragrafo è particolarmente interessante, perché prevede le linee della strategia alleata con quasi un anno di anticipo sulla battaglia di El Alamein e sullo sbarco in Algeria e nel Marocco.
La seconda parte della sezione III (B) reca: “Strategia Giapponese”:
18)Obbiettivo del Giappone è di stabilire una “sfera di collaborazione dell’Asia Orientale”. Il Giappone ha l’ambizione di includere in questa sfera la Siberia Orientale, la Cina Orientale, l’Indonesia, la Thailandia, la Malacca, le Indie Olandesi, le Filippine e possibilmente la Birmania. Il raggiungimento di questo obbiettivo costerà un grave sforzo ai Giapponesi. Essi stessi ne sono consapevoli.
19) In rapporto allo sviluppo degli eventi in Europa, i Giapponesi possono iniziare questi movimenti:
- a) costituzione e mantenimento di un solido antemurale nelle isole sottoposte a mandato giapponese, mediante impiego di forze navali di piccolo tonnellaggio e di considerevoli forze aeree per la collaborazione della flotta. Questa attività si eserciterebbe con azioni di sommergibili e navi da corsa contro le forze navali degli Stati Uniti e le linee di comunicazioni americane ed inglesi nell’Oceano Pacifico centrale e orientale;
- b) conquista della Siberia orientale, per mezzo di operazioni terrestri ed aeree appoggiate dalla flotta operante ad est del Giappone;
- c) conquista della Thailandia, della Malacca, delle Indie Olandesi e delle Filippine. Il successo richiederà grandi forze aeree, una notevole quantità di naviglio leggero di superficie e molte forze di terra. È improbabile che il Giappone tenti simultaneamente un grande sforzo a nord e a sud, perché manca della necessaria attrezzatura e di materie prime;
- d) offensiva contro lo Yennan, dall’Indocina settentrionale, allo scopo di tagliare la strada della Birmania e di eliminare l’ulteriore resistenza dell’esercito nazionale cinese. La mossa potrà avvenire simultaneamente ad un attacco diretto contro la Birmania. Si richiederanno grandi forze di terra e dell’aria e una grande quantità di naviglio per provvedere l’appoggio necessario.
20) Tutte queste mosse giapponesi previste verrebbero fatte a grande distanza dalla madrepatria. Se il Giappone incontrerà una forte e tenace resistenza, la sua capacità offensiva ne soffrirà in misura maggiore, data la mancanza di adeguate risorse e di una vera attrezzatura industriale. Ma la debolezza o la mancanza di coesione fra i suoi oppositori permetteranno al Giappone di raggiungere tutti gli obbiettivi nel volgere di pochi mesi.
Nel paragrafo 19 a), si può vedere compresa la possibilità di un attacco contro Pearl Harbour, ma parlando di “azioni sommergibili e di navi da corsa contro le forze armate degli Stati Uniti e le linee di comunicazione americane ed inglesi nell’Oceano Pacifico centrale e orientale”, si contemplava piuttosto, un’azione diretta contro il traffico marittimo che un attacco determinato contro le basi di esso.
La parte IV della “stima”, trattava la: “Strategia generale degli Stati Uniti e dei loro alleati”:
21) l’Ufficio Unito è convinto che il primo grande obbiettivo degli Stati Uniti e degli Alleati deve essere la completa disfatta militare della Germania.
Se questa fosse disfatta, il suo intero sistema europeo crollerebbe ed il Giappone rinuncerebbe a gran parte delle conquiste, salvo che non vi abbia posto così stabilmente il piede che Stati Uniti e Alleati non dispongano di forze sufficienti per continuare la guerra contro di esso.
22)Una pace di compromesso fra la Germania e i suoi attuali nemici darebbe alla Germania l’opportunità di riorganizzare l’Europa continentale e di ritemprare le proprie forze. Anche in caso di totale sconfitta del Commonwealth britannico e della Russia, gli stati Uniti si vedrebbero costretti a continuare la guerra contro la Germania, per motivi di vita o di morte, nonostante le aumentate difficoltà di ottenere la vittoria finale.
Ne consegue che il principio strategico di maggior valore per gli Stati Uniti nell’immediato futuro sta nell’appoggio materiale di tutte le operazioni attuali contro la Germania e in un diretto apporto di forze, ottenuto con una attiva partecipazione alla guerra, che tenga in forse il Giappone sugli sviluppi futuri del conflitto.
Per ora soltanto piccoli contingenti di truppe sono ben equipaggiati ed istruiti, per la nostra immediata partecipazione ad operazioni offensive.
23) Salvo l’esercito russo, la forza principale delle Potenze associate sta nella marina e nell’aviazione. Il potere dell’aria e del mare può evitare la sconfitta e dare un grande contributo alla vittoria, indebolendo la resistenza del nemico.
Ma da sole le forze navali ed aeree non possono vincere la guerra. Bisogna riconoscere che sono sempre le forze di terra ad esercitare il compito principale e a vincere le guerre.
24) È fuori discussione che gli Stati Uniti e i loro associati dovranno intraprendere nel prossimo futuro una grande offensiva di terra contro il centro della potenza tedesca.
È ovvio infatti che le potenze alleate non possono sconfiggere la Germania, mantenendo una tattica strettamente difensiva, ma devono adottare particolari metodi strategici, che pur non costituendo una vera e propria offensiva, ne preparino in certo modo il terreno.
Sono, tali metodi, una continuazione del blocco economico; il proseguimento delle offensive terrestri in regioni distanti dove le truppe tedesche non possono esercitare che una minima parte della loro effettiva superiorità; offensive aeree e navali contro le risorse militari, economiche e industriai della Germania; nonché l’appoggio dato alla ribellione nei territori conquistati. Contro il Giappone, invece, se entra in guerra, ci si deve preoccupare di difendere la Siberia e la Malesia, di lanciare un’offensiva economica, mediante un blocco e di ridurre la potenza militare del suo esercito con incursioni aeree e con una forte controffensiva in Cina.
25)Elenchiamo qui sotto i principali obbiettivi strategici che dovrebbero essere perseguiti dagli Stati Uniti e dalle potenze alleate e i mezzi con cui conseguirli. Gli aiuti materiali da fornirsi alle potenze amiche (di cui si farà menzione nei paragrafi seguenti), dovranno essere intonati ai bisogni stessi degli Stati Uniti;
- a) la sicurezza dell’Emisfero occidentale, obbiettivo essenziale della strategia americana, contro ogni dilagare della potenza politica o militare degli Stati europei o asiatici. Per provvedere a questa sicurezza gli Stati Uniti devono predisporre le loro forze navali, aeree e terrestri, in modo da averle pronte sia sull’Atlantico che sul Pacifico, in quantità sufficienti per impedire ogni invasione, nell’eventualità che la Russia e la Gran Bretagna dovessero crollare. È perciò della massima importanza sapere se l’Africa nord-occidentale e le isole atlantiche saranno in mani tedesche o amiche. Uguale importanza strategica hanno per noi, nella zona del Pacifico, l’Alaska, le Hawai e le isole del Pacifico meridionale. Le forze navali statunitensi, sulla base del programma approvato, dovranno bastare fino al 1944 alle necessità difensive. Però, se la Germania vincesse in Europa e il Giappone nell’Estremo Oriente, bisognerà aumentare tali forze, anche a scopo puramente difensivo, in misura eccedente all’attuale programma di costruzioni navali. Quanto alle forze aeree e terrestri statunitensi, il loro intervento in difesa dell’Emisfero occidentale potrà essere richiesto nel volgere di pochi anni ed è necessario che i paesi dell’America latina vengano riforniti di armamenti e prodotti finiti;
- b) la sicurezza del Regno Unito è essenziale al proseguimento delle operazioni militari contro la Germania e il Giappone nel settore interessante l’Emisfero occidentale e dipende in sostanza dall’efficacia della effettiva difesa per terra, per mare e nell’aria. Ciò è vincolato a sua volta dalla sicurezza delle comunicazioni marittime e queste potranno dare un decisivo contributo alla difesa del Regno Unito solo se potranno venire ridotti i danni attualmente subiti dai trasporti britannici, con un progressivo potenziamento del servizio di vigilanza sul mare e delle forze aeree operanti dalle basi britanniche e islandesi o dalle posizioni dell’Atlantico centrale e orientale. Se le perdite inglesi non vengono gradatamente ridotte e la Germania non crolla sotto un collasso interno, quest’Ufficio Unito ritiene che l’Inghilterra non potrà resistere indefinitamente, nonostante tutto lo sforzo industriale che gli Stati Uniti possono fare in suo aiuto. Si richiese perciò, un immediato e forte potenziamento della flotta britannica nell’Atlantico con l’impiego di contingenti navali ed aerei americani e di nuovo e più vasto tonnellaggio mercantile. Questi contingenti dovranno essere armati di equipaggio americano, poiché le riserve di uomini del Regno Unito sono praticamente esaurite. Per mantenere il presente livello, gli Stati Uniti dovranno continuare ad aiutare il Regno Unito con costruzioni navali e nuovo materiale e fornire un considerevole numero di nuovi aeroplani;
- c) la sicurezza delle comunicazioni marittime delle potenze associate è necessaria alla continuazione della guerra. Le potenze associate dovranno avere forze nevali ed aeree sufficienti, sia in Europa sia nei mari vicini, per impedire le scorrerie delle navi da corsa e annullare la minaccia dei sottomarini e degli aeroplani. Inoltre è necessario che queste forze navali siano distribuite su tutti i mari a diretta protezione delle linee marittime e delle rotte essenziali;
- d) l’inasprimento del blocco economico è, per il momento, il miglior metodo offensivo contro la Germania e il Giappone. Si devono mantenere forze navali ed aeree per chiudere tutte le vie d’accesso alla Germania. Perché questo blocco sia mantenuto è necessario continui ad esistere un fronte terrestre in Russia e nel Medio Oriente. In più, si devono porre in atto tutte le misure diplomatiche, economiche e finanziarie che possano aumentare l’efficacia del blocco militare;
- e) il controllo del Mar Rosso, dell’Irak e dell’Iran deve essere mantenuto dalla Gran Bretagna per conservarsi la possibilità di operazioni terrestri decisive contro la Germania. Sono qui molto importanti le forze terrestri ed aeree d’ogni ordine e tipo, una forte aliquota di navi mercantili per i rifornimenti ed una buona flotta per proteggere le comunicazioni verso il Golfo Persico e il Mar Rosso. Ma i mezzi materiali di cui dispongono gli Inglesi non possono essere pienamente sufficienti allo scopo. Son quindi, gli Stati Uniti che devono trovare il modo di rifornire le forze colà dislocate, almeno di una parte delle munizioni e dei materiali necessari, usando parte del proprio naviglio mercantile per il trasporto;
- f) il mantenimento di un fronte attivo in Russia offre la possibilità migliore per una vittoriosa offensiva terrestre contro la Germania, perché solo la Russia possiede il necessario potenziale umano ed in posizione tele da poter minacciare direttamente il centro della potenza militare tedesca. Bisogna che la Russia abbia grandi forze di terra e dell’aria. È prematuro fare previsioni sull’attuale conflitto in Russia. Però, anche se le forze sovietiche dovessero retrocedere fino agli Urali ed oltre, organizzando qui la loro resistenza, rimarrebbe sempre la speranza di una completa sconfitta finale della Germania anche per terra. Le potenze associate si devono preoccupare che le forze armate della Russia possano disporre di un effettivo armamento, sia per aiuti dal di fuori, sia per mezzo della capacità industriale dello stesso bacino del Volga e della Siberia;
- g) è molto importante impedire una penetrazione dell’Asse nel nord-ovest dell’Africa e nelle isole atlantiche, non solo per contribuire alla difesa dell’Emisfero occidentale, ma per la sicurezza delle comunicazioni marittime britanniche e come base di una futura offensiva terrestre. Nell’Africa francese settentrionale e occidentale, ci sono truppe francesi che sono potenzialmente nemiche alla Germania; bisogna che gli stati Uniti provvedano a riarmarle, cercando di stabilire le condizioni politiche favorevoli al loro impiego. Il Commonwealth britannico non ha truppe disponibili, né le relazioni tra gli Inglesi e il regime di Weygand sono amichevoli: in queste condizioni sono gli Stati Uniti che devono fornire in gran parte i contingenti militari per l’impiego in queste regioni;
- h) gli Stati Uniti e i loro associati raggiungerebbero risultati forse decisivi, mantenendo il possesso delle Filippine, della Malacca, delle Indie Orientali, dell’Australasia, della Birmania e della Cina. Gli Stati Uniti non possono aumentare di molto le proprie forze in Estremo Oriente, se devono assolvere tanti importanti compiti in altre regioni; eppure le operazioni della flotta del Pacifico avranno un grande influsso sugli sviluppi della situazione. Gli Stati Uniti dovrebbero quindi fornire munizioni ed aeroplani alla Cina e alle Indie Olandesi. La maggior parte di questo materiale dovrà essere trasportata da naviglio statunitense;
- i) è necessario che la Russia mantenga la Siberia, se si vuole tenere a freno il Giappone. Gli Stati Uniti non possono offrire alla Siberia che un aiuto in materiale. E questo solo per via aerea, perché se il Giappone fosse in guerra con la Russia, le comunicazioni marittime sarebbero facilmente bloccate.
26) I principi seguenti servono come raccomandazione di nuovi aumenti nel potenziale delle forze armate che gli Stati Uniti possono mettere in campo o rafforzare in tutto o in parte:
- a) poiché attualmente la forza principale delle Potenze associate sta nell’aria e nel mare, la Marina reputa che il concetto della nostra strategia debba fondersi sull’effettivo impiego delle forze dell’aria e del mare, limitando l’impiego di quelle terrestri alle regioni dove la Germania non può esprimere tutta la forze delle sue armate di terra. L’Esercito reputa che un piano strategico di questo tipo non potrà portare fino alla totale disfatta della Germana, ma crede necessario il contatto diretto dei nostri eserciti con gli eserciti tedeschi sul continente europeo. L’Esercito raccomanda quindi di curare come parte dell’intero programma di produzione anche l’equipaggiamento che può dimostrarsi necessario alle forze terrestri per condurre a buon termine i loro compiti;
- b) gli Stati Uniti e le altre potenze si lascino guidare dall’esperienza passata nel calcolo delle effettive possibilità americane nel sostenere ed appoggiare uno sforzo bellico, soprattutto nel delicato campo della produzione totale e della varia disponibilità di materiali, che presuppongano un indispensabile equilibrio tra il potenziale umano da impiegare nelle forze armate e la mano d’opera che deve essere impiegata nelle industrie e nei servizi civili di maggiore importanza. L’alto grado di meccanizzazione raggiunto fa sì che la proporzione di mano d’opera da impiegare nelle industrie per la produzione di armi e del relativo equipaggiamento sarà superiore a quella delle guerre precedenti;
- c) il buon uso delle armi diplomatiche, economiche, finanziarie e propagandistiche servirà a ridurre la vastità dei compiti più specificamente militari;
- d) il peso dello sforzo militare dovrà essere sempre tale, anche nel caso di una guerra di lunga durata, da mantenere alto il morale e la volontà di combattere della popolazione civile.
In tale documento è pertanto definito l’indirizzo da seguire dagli Stati Uniti nei futuri anni di una guerra totale in cui esse erano ancora “neutrali”.
Occorre ricordare che questa stima del “Joint Board” era il risultato di due anni di discussioni tra Marshall e Stark e i loro Stati maggiori e di oltre un anno di scambi di notizie e di pareri tra gli Stati maggiore inglese e americano che svolgevano insieme una collaborazione efficacissima, sebbene condotta in segreto e in via non ufficiale.
Il 17 ottobre, il generale Tojo divenne Primo ministro in sostituzione di Konoye e gli estremisti militari di Tokyo salirono al potere formalmente oltre che di fatto. Nello stesso giorno, il capitano E. Schuirmann, dello Stato maggiore dell’ammiraglio Stark, scrisse un promemoria, di cui fu mandata copia a Hopkins:
Penso che siamo troppo inclini a sopravvalutare l’importanza dei mutamenti avvenuti nel Gabinetto giapponese, come se presupponessero un cambiamento sostanziale del pensiero e della prassi nipponici.
Invece è un fatto di normale amministrazione, poiché la politica del Giappone è sempre stata dominata in questi ultimi anni dai militari.
Guerra o pace sono cose che stanno a completa discrezione dei militari, sospese solo al filo della loro maggiore o minore abilità nel creare il momento favorevole o nel cogliere l’occasione propizia e non a discrezione del Gabinetto al potere o della diplomazia.
Il principe Konoye è stato al potere per tutti questi cinque anni, attraverso vari rimpasti ministeriali e più di una volta il Gabinetto ha disapprovato gli atti del militarismo giapponese, ma non è stata presa alcuna iniziativa per limitarne l’audacia.
Del resto, quando il Giappone attaccò la Cina, era Primo ministro Konoye e dichiarò che il Giappone voleva far piegare le ginocchia alla Cina.
Dell’ultimo Gabinetto Konoye non si può dire altro che ha tenuto a freno gli estremisti militari, ma non si è affatto opposto al programma di espansione giapponese. Non appena si presenterà l’occasione favorevole, nei prossimi mesi, i nipponici la coglieranno senza porre tempo in mezzo.
Per il momento l’influenza dei militaristi cresce o decresce a seconda degli sviluppi della situazione in Russia. È lo stesso panorama che si offrì agli Stati Uniti, quando essi tentarono di fare qualche concessione ai “moderati” per opporli agli “estremisti”, all’epoca del segretariato di Stimson e dell’ambasciatore Debuchi.
Gli ultimi rapporti dicono che il nuovo Gabinetto non sarà migliore né peggiore di quello che l’ha preceduto. Il Giappone può attaccare la Russia, può muovere verso sud, ma in ultima analisi ogni sua mossa sarà determinata dall’opportunità o dalla decisione dei militari, indipendentemente dal Gabinetto che è al potere.
Il pensiero del capitano Schuirmann era condiviso dal tenente colonnello Harry L. T. Creswell, addetto militare a Tokyo che il 20 ottobre scriveva:
Poiché l’orientamento del nuovo Gabinetto appare sostanzialmente conservatore, le dimissioni del precedente Gabinetto non vengono considerate qui come segno di un radicale mutamento della politica giapponese, almeno per l’immediato futuro …
Il generale Tojo è in primo luogo uno dei “protagonisti” giapponesi con le ambizioni nazionali ed il benessere del Paese connessi a tale concezione, ma lo si ritiene anche uomo di larghe vedute, ciò che gli impedirà di prendere iniziative radicali e estremiste.
Il 9 novembre il generale Lee telegrafò a Londra:
L’ambasciatore britannico a Tokyo ritiene che le Indie Olandesi siano la zona dove facilmente si svilupperà un attacco giapponese. Non si ritiene che i Giapponesi abbiano l’intenzione di procedere contro l’Indocina e la Thailandia, poiché hanno già il controllo di tutta la regione.
Un attacco contro la Malacca inglese presenterebbe troppe difficoltà e così pure un assalto alla strade della Birmania le Indie Olandesi potrebbero venire attaccate in tutta segretezza dalle isole sotto mandato e darebbero al Giappone il petrolio di cui ha bisogno.
La stessa fonte informa smentendo le precedenti previsioni, che il Giappone non si preoccuperà più di evitare una guerra contro gli Stati Uniti ed è proclive a pensare tale operazione come un fatto compiuto dinanzi a cui porre Inglesi e Americani.
Lo stesso giorno Harold Balfour, sottosegretario di Stato per l’Aviazione inglese, scrisse un promemoria di cui inviò copia a Harry Hopkins. Balfour premeva allora per avere sempre nuovi apparecchi da bombardamento contro la Germania.
Questo brano del colloquio con Roosevelt rivela quale fosse l’atteggiamento del Presidente verso il Giappone, quattro settimane prima di Pearl Harbour:
1) Ho visto oggi il Presidente per i bombardieri pesanti. Era presente anche il Lord del Sigillo Privato (Clement Attlee).
2) Il Presidente non era affatto disposto a fare date e cifre precise di fronte alle nostre insistenza per avere assegnazioni maggiori di quelle proposte.
3) Il Presidente disse di capire perfettamente che noi avremo bisogno di nuove assegnazioni di apparecchi, oltre al centinaio proposto in aggiunta agli ordini britannici in corso, ma non poteva prendere alcun impegno in tal senso, finché non si fosse chiarita la situazione in Estremo Oriente.
4) Col Giappone egli segue attualmente una politica di negoziati e di trattative. Se tra poche settimane egli riuscirà a condurre a buon termine e a firmare con il Giappone una pace che lo garantisca da quella parte, almeno per qualche mese, potrà subito ordinare di procedere a una nuova spedizione di bombardieri pesanti per il Regno Unito.
5) La situazione giapponese è però tale che un conflitto può scoppiare da un momento all’altro e in tal caso sarà necessario che gli Stati Uniti e Regno Unito predispongano conferenze fra i loro Stati maggiori per decidere, secondo i piani di una comune strategia, dove meglio utilizzare i materiali di nuova produzione.
6) Domandai al Presidente quanto avremmo dovuto attendere nel caso di una pacificazione con il Giappone ed egli mi rispose che sperava di poter attuare una diversione prima della fine di marzo, data in cui sarebbe stata disponibile la metà della produzione dei bombardieri pesanti in programma.
7) Il Presidente si dimostra assai condiscendente verso di noi e ci consigliò di continuare a premere per avere nuovi bombardieri pesanti sul fronte occidentale. Anzi ci disse: “Teneteci sotto pressione. Più ci stimolate e meglio è”.
Concluse che si sarebbe affrettato a prendere una decisione sul numero e sulla data di consegna degli apparecchi, ma non appena glielo avesse permesso la situazione dell’Estremo Oriente e ne avrebbe subito data comunicazione al Primo ministro.
Tra parentesi, si può notare che le personalità britanniche, non escluso Churchill, consideravano un preciso dovere il fare queste note e prendere appunti di tutte le conversazioni importanti; e ciò non per soddisfazione personale o per i loro diari intimi, ma per gli archivi ufficiali.
Erano pochi gli Americani che facevano lo stesso e quei pochi erano stati educati alle rigorose abitudini del Foreign Office. Anche Hopkins faceva così quando ne trovava il tempo, ma non Roosevelt, il quale era ben difficile scrivesse o dettasse appunti delle conversazioni e colloqui tenuti.
Il 20 novembre, il Giappone consegnò agli Stati Uniti una nota cui seguì, il 22, un dispaccio segreto del ministro degli Esteri Togo a Nomura, intercettato e decifrato con un procedimento speciale che va sotto il nome di “Magic”. Nel dispaccio, Togo classificava la nota giapponese come un “ultimatum” e “un ultimo sforzo per evitare che accadesse qualcosa”.
Il termine dell’ultimatum era fissato per l 29 novembre e Togo informava Nomura che: “tale termine è da noi inteso come l’estremo limite che non può assolutamente essere mutato; scaduto il termine, gli eventi seguiranno automaticamente il loro corso”.
La risposta americana alla nota del 20 novembre venne consegnata il giorno 26 agli inviati giapponesi da segretario Hull. Tale risposta intitolata: “Schema di proposta d’accordo tra U.S.A. e Giappone”, venne descritta come un ultimatum da quei pochi isolazionisti americani i quali sembravano desiderosi di assolvere i Giapponesi da ogni colpa nella guerra nel Pacifico, riversandola sul Presidente, sul segretario di Stato e i ministri della Guerra e della Marina.
È da notare a riguardo che la forza d’attacco giapponese salpò per Pearl Harbour il 25 novembre, cioè il giorno prima che lo schema di Hull fosse consegnato a Washington e quattro giorni prima dell’ultima scadenza indicata nel dispaccio di Togo a Nomura. Le belve della guerra erano state messe in libertà, mentre ancora si proseguiva nelle trattative diplomatiche tanto vane quanto solenni.
Il 21 novembre, il tenente colonnello S. A. Greenwell, mandò a Londra copia del “Rapporto del sottocomitato di informazioni del Gabinetto di Guerra sulle probabili intenzioni giapponesi”. Era una lunga analisi della situazione, dal punto di vista inglese, di cui si danno qui le conclusioni:
1) Il Giappone farà un ultimo sforzo per trovare un punto d’accordo con gli Stati Uniti. In caso di fallimento si troverà di fronte alla necessità di decidere se tentare o meno un’azione offensiva a rischio di essere trascinato in guerra contro una o un maggior numero di grandi potenze.
2) L’offensiva verrà condotta probabilmente contro la Thailandia, perché qui si ritiene minore il pericolo di una guerra. L’occupazione delle basi della Thailandia e dell’istmo di Kra, costituirebbero una mossa preliminare per successive operazioni contro la Malacca e le Indie Olandesi. I recenti movimenti militari fanno supporre che il prossimo obbiettivo sia la Thailandia.
3) I Giapponesi differiranno con tutta probabilità ogni azione contro la Russia finché non saranno sicuri che la sua posizione in Estremo Oriente sia seriamente indebolita.
4) Non raggiungendosi l’accordo con gli Stati Uniti, le operazioni in Cina proseguiranno regolarmente.
5) Nonostante le recentissime notizie di diversione di nuove forze verso sud, dall’Indocina del Nord e da Canton, non crediamo che esse possano portare a un imminente attacco contro le strade della Birmania.
Il 26 novembre, Nomura e Kurusu telegrafarono al loro Governo in Tokyo:
Non crediamo che la rottura delle presenti trattative significhi inevitabilmente una guerra tra il Giappone e gli Stati Uniti, ma se non occupiamo noi le Indie Olandesi è facile aspettarsi che le occupino l’Inghilterra e gli Stati Uniti. In questo caso noi li dovremmo attaccare e lo scontro diventerebbe inevitabile.
Ciò dimostra che i due ambasciatori – o, almeno uno di essi – erano assolutamente all’oscuro dei veri piani di guerra del proprio Paese e pensavano ancora che il primo scontro sarebbe avvenuto nel Pacifico sud-occidentale e per iniziativa inglese e americana.
Il giorno 27 novembre, si tenne alla Casa Bianca una conferenza fra Roosevelt, Hull, Kurusu e Nomura. Nel promemoria sull’incontro, Hull afferma:
Io dissi senza sottintesi che finché il Governo giapponese non avesse dimostrato in maniera positiva di voler agire e comportarsi in senso pacifico, non si poteva pensare di raggiungere nessun accordo: poiché è noto a tutti che gli slogan giapponesi della cooperazione e della prosperità e dell’ordine nuovo in Asia orientale, non sono che eufemismi per camuffare una politica di forza e di conquista e l’esercizio di un dominio politico, economico, sociale e morale sulle popolazioni conquistate; e tutti sanno che finché i Giapponesi continueranno di questo passo e stringeranno legami culturali, militari e d’altra specie con Hitler, come il Patto Anticomintern e il Tripartito, non ci può essere nessun progresso verso una pacificazione.
Roosevelt, secondo Hull, avrebbe detto da parte sua agli ambasciatori:
Noi restiamo convinti che il Giappone non serve i propri interessi seguendo Hitler e il suo programma d’aggressioni e che sarebbe assai meglio per esso seguire il programma da noi proposto in queste conversazioni.
Se però il Giappone dovesse disgraziatamente perseverare su questa strada, non c’è ombra di dubbio che segnerà la propria fine.
Il rapporto della commissione, presieduta dal giudice Owen J. Roberts, dichiarava in quello stesso giorno:
Il capo delle operazioni navali ha inviato al comandante in capo della flotta del Pacifico un messaggio in cui si dichiara, in sostanza, che il dispaccio doveva considerarsi come un segnale d’allarme: i negoziati con il Giappone per cercare di stabilire delle condizioni di pace nel Pacifico erano cessati; il Giappone era pronto a muovere all’offensiva entro pochi giorni; era prevedibile una spedizione anfibia contro le Filippine, il Siam o la penisola di Kra o forse, l’isola di Borneo. Truppe giapponesi e flotta si stavano concentrando in gran numero.
Il messaggio dava disposizioni per la difesa, in attesa di poter assolvere pienamente i compiti di guerra.
Il documento di Stark fu uno dei pochi che previde in quelle settimane un possibile attacco contro le Filippine. (Avvisi dello stesso genere vennero contemporaneamente trasmessi a tutti i comandanti nel Pacifico e nell’Estremo Oriente).
Il 6 dicembre, 24 ore prima di Pearl Harbour, gli Inglesi segnalavano che grosse formazioni giapponesi si muovevano lungo la costa indocinese verso la Thailandia o forse la Malacca.
L’ambasciatore Winant da Londra mandò un cablogramma personale: “precedenza assoluta su tutte le precedenze” e “segretissimo e personale per il Presidente e il segretario”:
L’Ammiragliato britannico informa che alle ore 3 antimeridiane di Londra, questa mattina, sono state segnalate due formazioni al largo di Punta Cambodia, naviganti lentamente verso ovest, in direzione di Kra, a quattordici ore di distanza l’una dall’altra.
La prima formazione era di 25 trasporti, 6 incrociatori, 10 cacciatorpediniere. La seconda di 10 trasporti, 2 incrociatori, 10 cacciatorpediniere …
Gli Inglesi ritengono per ora di dover prestare il proprio appoggio alla Thailandia, temendo che il Giappone possa costringerla ad accettare l’invasione con il pretesto di una protezione; ma desiderano uniformarsi alle decisioni del Presidente, come dai rapporti di Welles ad Halifax.
La sera di sabato Eden lasciò Londra per Invergordon donde avrebbe proseguito per marre per Arcangelo, per recarsi quindi a Mosca a conferire con Stalin e Molotov. Portava con sé, fra l’altro, un sunto del dispaccio di Roosevelt e Hull che abbiamo già citato e che stabiliva le direttive degli Stati Uniti per il dopoguerra, specie per quanto si riferiva all’opportunità di evitare qualsiasi accordo segreto.
Il fatto stesso che Eden lasciasse allora tranquillamente l’Inghilterra è un indice indicativo dello stato d’animo dominante a Londra e Washington. Eden sarebbe rimasto per mare vari giorni, su una nave da guerra sottoposta alla norma che sospende le comunicazioni radiotelegrafiche durante la navigazione.
In qualità di ministro degli Esteri, direttamente responsabile davanti al Re e di membro del Gabinetto di Guerra, egli occupava un posto eccezionale dal punto di vista della Costituzione, per il disbrigo quotidiano delle pratiche governative.
Pertanto, se si fosse pensato all’eventualità di un’azione giapponese, tale da produrre conseguenze tanto eccezionali dal punto di vista politico quale era l’immediato intervento statunitense, è inconcepibile che Eden lasciasse il Ministero degli Esteri dove non soltanto lavorava, ma viveva, avendo egli un appartamentino in cima al palazzo di Whitehall.
C’era senza dubbio la previsione che i Giapponesi agissero nel Pacifico sud-occidentale, ma esisteva altresì una valutazione, che si rivelò eccessiva, della prudenza del Giappone e dei suoi calcoli di tutte le conseguenze possibili. Si riteneva che, qualunque fosse il prossimo gesto degli astuti Giapponesi, ci sarebbe stato tutto il tempo per adottare adeguate misure difensive.
Nello stesso giorno di sabato 6 dicembre, Harriman telegrafò a Hopkins:
Vi prego di riferire al Presidente che Churchill è disposto, in caso di aggressione giapponese contro le posizioni britanniche, a soprassedere ad ogni azione, anche a costo di compiere qualche sacrificio di carattere militare, finché il Presidente non agisca come ritiene più opportuno nella circostanza.
Il Primo ministro lo seguirà immediatamente “non più entro un’ora, ma senza perdere un minuto”. Lo rivedrò domani. Fatemi sapere se avete qualcosa di particolare da chiedergli.
L’azione da differirsi “anche a costo di compiere qualche sacrificio di carattere militare”, era un’azione aeronavale, che gli Inglesi pensavano di compiere da Singapore contro gli sbarchi giapponesi. Churchill aveva recentemente mandato nuovi rinforzi a Singapore: la nave da battaglia Prince of Wales e l’incrociatore Repulse. Ma pareva che egli non volesse in nessun modo ricorrere alla forza prima di conoscere le intenzioni del Presidente dopo gli eventuali sbarchi giapponesi.
A Londra come a Washington, alla vigilia di Pearl Harbour, i meglio informati si aspettavano da un momento all’altro una nuova aggressione giapponese, ma nel Pacifico sud-occidentale, con l’obbiettivo l’istmo di Kra, che univa il territorio della Thailandia e della Birmania alla penisola di Malacca, seimila miglia lontano da Pearl Harbour.
Non c’è un rapporto o informazione ufficiale della Casa Bianca, fino al 7 dicembre, in cui si sospetti che le isole Hawai potessero essere il primo obbiettivo di un attacco giapponese. E che dire delle informazioni della stessa Pearl Harbour?
Ecco due periodi del rapporto Roberts:
Il generale Short ha avuto numerosi colloqui con l’ammiraglio Kimmel, il 27 novembre, il 1°, il 2 e il 3 dicembre, per cercare di giungere ad una composizione tra i loro opposti punti di vista.
Durante uno di questi colloqui, l’ammiraglio Kimmel chiese al suo ufficiale d’ordinanza, capitano McMorris, se ci fosse qualche probabilità di un attacco di sorpresa contro Oahu. A detta del generale Short, il capitano McMorris avrebbe risposto che non c’era da temere nulla di simile.
McMorris dice invece d’aver risposto che i Giapponesi non sarebbero mai passati all’attacco. Secondo il testimone, l’ammiraglio Kimmel e il generale Short non avrebbero discusso nessuna misura per la difesa delle Hawai in base ai dispacci ricevuti.
Il 27 novembre e dopo, il comando generale del dipartimento delle Hawai e il comandante in capo della flotta del Pacifico, presero le prime misure di difesa, per far fronte alla situazione, ma lo fecero indipendentemente uno dall’altro, secondo quanto ad ognuno sembrava consono alla situazione.
Nessuno informò l’altro delle azioni che intendeva compiere e nessuno chiese se si dovessero prendere provvedimenti e quali, né si consultarono per valutare l’opportunità delle iniziative da ciascuno singolarmente adottate. (Il capitano McMorris divenne poi uno dei più brillanti ammiragli che ebbero un comando nella guerra del Pacifico).
Il 7 dicembre, il Dipartimento della Marina diede la dislocazione di tutte le più grosse unità del Pacifico, inglesi, giapponesi, olandesi e russe. La Commissione del Congresso commentò così il rapporto:
Il grosso della Marina giapponese fu dato presente nelle due maggiori basi navali di Kure e di Sasebo, nelle isole territoriali giapponesi di Honshu e di Kyushu. Incluse fra le navi giapponesi presenti nelle suddette basi quella mattina erano le navi stesse che, come si sa, in quel preciso momento si trovavano già a meno di trecento miglia a nord delle Hawai.
Nel pomeriggio di sabato 6 dicembre, il ministro d’Australia a Washington riferiva al suo Governo:
1) Il Presidente ha deciso di mandare un messaggio all’Imperatore.
2) In caso di mancata risposta entro la sera di lunedì, il Presidente si propone:
- a) di rendere noto al pubblico il suo monito entro la sera di martedì;
- b) di non permettere che Inglesi od altri facciano uguale monito fino al mattino di mercoledì, cioè dopo che il suo non sia stato ripetutamente ritrasmesso a Tokyo e a Washington.
Ciò naturalmente significava che non ci si aspettava che accadesse nulla prima di tre giorni. Il “monito” cui si accennava, era con tutta probabilità un appello disposto da Churchill a nome del Regno Unito e dei Domini: il testo venne consegnato al Presidente il giorno dopo, 7 dicembre.
Terminava con queste parole: “Se il Giappone tenta di stabilire con la forza o con la minaccia di forza una propria influenza sulla Thailandia, lo farà a proprio rischio e pericolo. Il Governo di Sua Maestà adotterà immediate opportune misure. Se ciò portasse purtroppo allo scoppio delle ostilità, ne sarà considerato responsabile il Giappone”.
Non è certo che Roosevelt abbia potuto leggere il messaggio,prima del fattaccio di Pearl Harbour. E non è certo se si sarebbe unito a Churchill in un passo diplomatico di tanta portata o se, come dopo la Conferenza Atlantica, non avrebbe ripiegato su una soluzione meno compromettente.
Il sabato sera venne intercettato e decifrato col solito sistema, un lungo dispaccio del Governo giapponese a Nomura. Venne consegnato al Presidente alle 9,30 di sera dal comandante L. R. Schulz, assistente del capitano Beardall, aiutante navale. Il messaggio constava di tredici parti: una quattordicesima doveva essere trasmessa in seguito.
Hopkins si trovava con Roosevelt nello studio ovale, al momento della consegna. Schulz descrisse poi la scena, quando venne interrogato durante l’inchiesta seguita al disastro di Pearl Harbour, da Seth W. Richardson, consigliere generale del comitato d’inchiesta. Ecco la sua testimonianza:
Richardson. Che cosa accadde quando consegnaste quei fogli al Presidente? Siete rimasto presente?
Comandante Schulz. Sì, signore. Restai nella stanza.
Richardson. Che cosa avvenne?
Comandante Schulz. Il Presidente lesse i fogli e ciò portò via una decina di minuti. Poi li passò al signor Hopkins.
Richardson. Quanto distava dal Presidente in quel momento il signor Hopkins?
Comandante Schulz. Era in piedi e passeggiava avanti e indietro adagio a non più di tre metri.
Richardson. Il Presidente lesse ad alta voce i fogli quando gli furono consegnati?
Comandante Schulz. Non ricordo che l’abbia fatto.
Richardson. Bene. Ora andate avanti a raccontare specificatamente ciò che successe poi, se non vi dispiace, comandante.
Comandante Schulz. Hopkins lesse i fogli e li riconsegnò al Presidente. Allora il Presidente si volse verso Hopkins e disse in sostanza – non ricordo le parole esatte, ma il senso è questo: “Ciò vuol dire la guerra”. Hopkins annuì e poi discussero forse un cinque minuti sulle forze giapponesi, sullo spiegamento di esse e …
Richardson. Ricordate precisamente che cosa abbiano detto rispettivamente?
Comandante Schulz. Credo di sì. Sono poche le parole di cui posso garantire l’esattezza, ma in sostanza credo che Hopkins abbia detto per primo che, data l’imminenza della guerra, i Giapponesi ci avrebbero certamente attaccati quando sarebbero stati pronti e ciò nel momento più opportuno …
Richardson. Opportuno perche?
Comandante Schulz. Per attaccarci. Cioè, quando le loro forze avrebbero potuto essere impiegate vantaggiosamente. Si parlò particolarmente dell’Indocina, perché le forze giapponesi vi erano già sbarcate ed era facile prevedere in che direzione si sarebbero mosse di là. Il Presidente ricordò un messaggio inviato all’Imperatore del Giappone, relativo alla presenza di truppe giapponesi in Indocina e che ne chiedeva il ritiro. Allora il signor Hopkins disse che, poiché la guerra stava per scoppiare e nel modo più opportuno per i Giapponesi,era perfettamente stupido stare ad aspettare l’attacco e non prevenirlo, per evitare ogni sorpresa. Ma il Presidente disse di no e rispose, in sostanza: “Non possiamo farlo. Noi siamo una democrazia e un popolo pacifico”. Poi alzò la voce e questo lo ricordo bene. Disse: “Abbiamo sempre avuto degli ottimo precedenti”. La impressione che ritrassi da queste parole è che avremmo dovuto tenere fede a questi “precedenti” e non potevamo fare il primo passo. Avremmo dovuto aspettare che fosse fatto dagli altri. Durante l’intera discussione il nome di Pearl Harbour non fu mai fatto. L’unica indicazione geografica che io mi ricordi è l’Indocina. Non si parlò affatto del momento in cui poteva scoppiare la guerra ed io certo dal tono della conversazione non ebbi affatto l’impressione che la guerra potesse scoppiare l’indomani. Lo ricordo benissimo perché il giorno dopo fui sorpresissimo quando si ebbe la notizia.
Richardson. Comandante ricordate che abbiamo detto qualcosa circa notizie o note da diramare o da spedire, dopo la lettura di qui fogli?
Comandante Schulz. Nulla che specificasse l’invio di un ultimo appello o di un avviso. Però, conclusa la discussione sull’imminenza della guerra, il Presidente disse che riteneva opportuno parlare con l’ammiraglio Stark. Cercò allora di telefonargli. Non ricordo esattamente, ma credo che il telefonista della Casa Bianca risposto al Presidente che l’ammiraglio Stark era reperibile al Teatro Nazionale.
Richardson. Fu da quanto si disse che abbiate tratto la conclusione che il telefonista della Casa Bianca abbia risposto così?
Comandante Schulz. Sì, signore. Io non sentii quello che diceva il telefonista, ma in mia presenza si nominò il Teatro Nazionale e il Presidente dichiarò, in sostanza, che avrebbe parlato all’ammiraglio più tardi, perché non voleva provocare un pubblico allarme, facendo chiamare l’ammiraglio in teatro, dove suppongo avesse un palco riservato e fosse quindi bene in vista; sicché se avesse lasciato improvvisamente lo spettacolo, la sua partenza avrebbe destato ansietà, data la posizione che occupava; e il Presidente non voleva che ciò avvenisse, tanto più che pensava di potergli parlare al massimo entro mezz’ora.
Le dichiarazioni di Schulz apparivano convincenti e autentiche e furono in molti a rimpiangere, quando le fece, che egli non fosse rimasto più a lungo nello studio ovale per ascoltare il resto della conversazione tra Roosevelt e Hopkins.
Io non pretendo di sapere che cosa si siano detti e non vedo nemmeno la necessità di provarci. Ma una cosa è chiarissima: che Roosevelt si trovava in quel momento davanti al peggior dilemma di tutta la sua carriera.
Dopo la pubblicazione del rapporto Roberts, sei settimane dopo Pearl Harbour, Hopkins scrisse:
Ho pranzato solo con il Presidente questa notte ed egli ha parlato assai di tutta la materia relativa al rapporto Roberts, a Pearl Harbour e ai negoziati con il Giappone prima del 7 dicembre.
Il Presidente mi disse di avere avuto colloqui con Hull sulle crepe della nostra politica in Estremo Oriente e sulle circostanze che avrebbero costretto gli Stai Uniti a entrare in guerra contro il Giappone. Tutte le trattative di Hull, pur rispecchiando in genere il comune desiderio di salvaguardare i nostri interessi in Estremo Oriente, non risolvevano il problema centrale e cioè come avremmo dovuto comportarci nel caso di un attacco giapponese, contro Singapore, per esempio o contro le Indie Olandesi.
Il Presidente comprendeva che questa era una debolezza della nostra politica e mi disse che, per lui, un attacco contro le Indie Olandesi sarebbe stato senz’altro un “casus belli”, ma Hull aveva sempre sorvolato sulla questione.
Ricordo che nel febbraio 1941, quando era in Inghilterra, il ministro degli Esteri Eden mi aveva chiesto ripetutamente che cosa avrebbe fatto il nostro Paese nel caso di un attacco giapponese, contro Singapore o contro l’Olanda, poiché il saperlo era essenziale alla sua politica.
Naturalmente, era chiarissimo che né il Presidente né Hull avrebbero potuto dare allora una risposta sicura su questo punto, perché la dichiarazione di guerra al Congresso e gli isolazionisti, nonché gran parte dello stesso popolo americano, non avrebbe avuto l’interesse a fare una guerra in Estremo Oriente, solo perché venivano attaccati i possedimenti olandesi delle Indie.
Ricordo di averne parlato spesso al Presidente l’anno scorso ed era sempre per lui un argomento imbarazzante, perché credeva che i Giapponesi avrebbero cercato sempre di evitare una guerra con noi; perciò non avrebbe attaccato né le Filippine né le Hawai, ma si sarebbero mossi contro la Thailandia e l’Indonesia francese, facendo nuove incursioni nella stessa Cina e attaccando forse gli Stretti Malesi.
Pensava inoltre che al momento opportuno avrebbero attaccato anche la Russia. Il Presidente si sarebbe trovato allora a dover risolvere parecchi problemi per fronteggiare i nostri interessi.
Aveva l’esatta convinzione che il Giappone ci sarebbe saltato addosso al momento opportuno usando la stessa tattica tedesca del “uno per volta”. Di qui la sua grande soddisfazione per il sistema adottato dal Giappone.
Nonostante il disastro di Pearl Harbour e la guerra-lampo messa in atto dai Giapponesi nelle prime settimane,il popolo americano non si lasciò smontare, anzi ciò rese inevitabile la guerra contro il Giappone.
A proposito del rapporto Roberts, esso afferma che il Dipartimento di Stato aveva rinunciato da tempo ad ogni speranza di giungere ad un accordo con il Giappone, ma ciò quadra assai poco con i fatti.
È vero che Hull disse ai segretari della Guerra e alla Marina che il Giappone ci poteva attaccare da un momento all’altro, ma non è meno vero che, fino all’ultimo, egli sperò di trovare la via per giungere ad un compromesso.
Hull era sempre stato incline a trovare un “modus vivendi” con il Giappone. Per essere franche era un modus vivendi che il Giappone non avrebbe mai accettato, ma anche da parte nostra avremmo dovuto finire pure per rinunciarvi, per ché una eventuale acquiescenza ci avrebbe resi impopolari in tutto l’Estremo Oriente.
Hull voleva soprattutto la pace, perciò aveva a cuore di trovare la via di un compromesso con i Giapponesi e lavorò giorno e notte per settimane intere, pur di riuscirci.
Non c’è dubbio che fino agli ultimi dieci giorni prima dello scoppio della guerra, egli mantenne la speranza di poter trovare una soluzione.
I dieci giorni di cui parla Hopkins in quest’ultimo periodo, cominciarono il 27 novembre quando il capo delle operazioni navali inviò all’ammiraglio Kimmel il messaggio che ordinava: “le misure difensive in attesa di assolvere compiti di guerra”.
Durante quei dieci giorni, subentrò una specie di paralisi a Oahu, nelle Filippine (dove resta un mistero la straordinaria interpretazione a sostenere un attacco a Clark Field) e, peggio che mai, a Washington.
Qui si vide una grande nazione perdere improvvisamente ogni capacità d’iniziativa ed aspettare in uno stato di sconcertante impotenza, che i suoi nemici potenziali decidessero dove, quando e come attaccarla.
Questo era, allora, il dilemma di Roosevelt: i Giapponesi si apprestavano a colpire i possedimenti inglesi o quelli olandesi, forse tutti e due – e lui, che cosa poteva fare? Inglesi e Olandesi erano assolutamente impotenti a difendersi e i Domini dell’Australia e della Nuova Zelanda non stavano meglio. Singapore avrebbe potuto resistere per un certo tempo, ma, come Manila, non avrebbe potuto servire di base, finché i Giapponesi avessero mantenuto il controllo del cielo e del mare.
Senza un formidabile intervento americano, i Giapponesi avrebbero potuto conquistare e formarsi un impero ricco di risorse, che si estendesse dalle isole Aleutine fino all’India e forse al Medio Oriente: ma è inutile dire, e Roosevelt lo sapeva, che non ci sarebbe stato un formidabile intervento americano, senza gettare tutta la nazione nel vortice di una guerra.
E quali ne sarebbero state le possibilità quando i Giapponesi fossero sbarcati nella penisola di Kra? Che cosa avrebbe potuto dire al Congresso, il Presidente, in una simile eventualità?
Il Congresso era lo stesso che solo un mese prima aveva permesso a stento che fossero armate anche le navi mercantili americane; ed era afflitto dalla stessa miopia che aveva spinto il Congresso precedente a rifiutare un’assegnazione di fondi sufficiente per fortificare l’isola di Guam.
Nel 1939, mentre già il tradizionale nemico era in armi alle frontiere della Francia, gli isolazionisti francesi – avevano lanciato il vergognoso grido: “Perché dovremmo morire per Danzica?”.
Perché, dunque, gli americani avrebbero dovuto morire per la Thailandia o per gli avamposti dell’imperialismo britannico, come Singapore e Hong Kong o per l’imperialismo olandese nelle Indie olandesi o per il comunismo a Vladivostok?
Anche se Roosevelt, facendo leva intelligentemente sul partito democratico avesse potuto costringere il Congresso a votare per la guerra, con uno stretto margine di voti e dopo settimane o mesi di avvilenti dibattiti (duranti i quali i Giapponesi avrebbero continuato ad avanzare), quali sarebbero stati il grado di unità e la forza spirituale del popolo americano nel lungo e sanguinoso sforzo che sarebbe stato chiamato a sostenere?
Roosevelt per un anno e più aveva continuato a dire al popolo che il vero nemico era la Germania di Hitler. La sua amministrazione aveva dato tutti gli aiuti possibili ai nemici di Hitler in Europa, mentre tentava sempre di cercare la via dell’accordo con il Giappone.
Il popolo finora aveva tollerato la sua politica, perché gli era stato assicurato che era la più sicura per starsene lontani dal conflitto. Churchill aveva fornito uno slogan fin troppo comodo e gli Americani si sentivano sicuri di non aver altro da fare “che fornire gli Inglesi (o i Russi, o i Cinesi), dei mezzi necessari e lasciare che compissero loro l’opera”.
La stessa morte di marinai americani nell’Atlantico per mano dei Tedeschi, non era riuscita ad accendere negli animi americani un briciolo di bellicosità. Come pensare dunque che questa si sarebbe destata alla notizia che i Giapponesi avevano gettato una testa di ponte a Khota Baru nel golfo del Siam?
E se il Congresso e il popolo avessero rifiutato di entrare in guerra anche dopo quest’ultima provocazione, come pareva, che effetto ciò avrebbe avuto sugli Inglesi, sui Russi e sui Cinesi? Che effetto sui Tedeschi, sugli Italiani e sui Giapponesi?
La verità era uno sola: era imminente il momento in cui gli Stati Uniti sarebbero stati costretti ad usare il cannone o a rinunciare per sempre alla speranza di far valere la propria parola nel consesso internazionale.
Mentre il comandante Schulz si tratteneva nello studio ovale con Roosevelt e Hopkins si era ancora incerti sulla località dove i Giapponesi avrebbero vibrato il primo colpo: il solo punto del globo di cui si fece menzione fu l’Indocina, che era la base più indicato per lanciare all’assalto forti contingenti di truppe.
Può darsi che quando egli lasciò la stanza, la conversazione continuasse, prospettando altre eventualità, ma i due non possono aver preso in considerazione l’inconcepibile e cioè che i Giapponesi, prima di condurre qualsiasi attacco contro i possedimenti inglesi e olandesi, avrebbero preso la precauzione di costringere gli Stati Uniti all’intervento.
Avevano una sola possibilità di liberare Roosevelt dal dilemma che lo tormentava e la colsero, decisamente e in modo così sprezzante e irritante che il popolo americano, fino allora diviso e confuso, si sentì all’istante completamente unanime e sicuro.
Prima di andare a letto, la notte del 7 dicembre, Hopkins trovò il tempo di annotare gli eventi di quel giorno alla Casa Bianca:
Oggi ho fatto colazione con il Presidente, nello studio ovale. Stavamo conversando di cose senza importanza e che non avevano nulla a che fare con la guerra, quando verso le 13,40 si fece annunciare il segretario Knox e disse di aver ricevuto da Honolulu un messaggio radio del Comandante in capo delle nostre forze colà dislocate, che annunciava a tute le nostre stazioni un attacco aereo che “non era un’esercitazione”.
Io dissi che ci doveva essere qualche errore e che i Giapponesi non avrebbero certo attaccato Honolulu. Il Presidente parlò di tutti gli sforzi da lui fatti per tenere il Paese lontano dalla guerra ed espresse il desiderio di finire la sua amministrazione senza guerre; ma se l’azione del Giappone era vera, la cosa mutava aspetto senza che egli potesse farci nulla, perché i Giapponesi avrebbero pensato a decidere per lui.
Il Presidente era del parere che il rapporto fosse vero e che i Giapponesi erano capacissimi di fare simili sorprese. Mentre noi discutevamo ancora di pace nel Pacifico, essi già complottavano di mandare tutto all’aria.
Alle 14,05 il Presidente chiamò Hull e gli disse del rapporto, consigliandolo a ricevere subito Nomura e Kurusu, che avevano chiesto un appuntamento; non mostrare affatto di conoscere le ultime notizie, ma riceverli con freddezza e congedarli.
Sentì più tardi Hull riferire al Presidente il colloquio avuto e credo abbia usato qualche vigorosa locuzione da montanaro del Tennessee parlando dei due inviati giapponesi.
In sostanza deve aver detto di non credere una sola parola di quello che avevano risposto i Giapponesi alla sua nota e che la risposta era falsa dal principio alla fine.
Alle 14,28 l’ammiraglio Stark visitò il Presidente e confermò l’attacco, dichiarando che era molto grave e che si erano già avuti alcuni danni alla flotta e alcuni morti. Discusse brevemente con il Presidente su quel che si doveva fare: il Presidente rispose di dar corso agli ordini che si erano fissati per l’esercito e per la Marina in caso di ostilità Pacifico.
Alle 14,30 il Presidente chiamò Steve Early e gli dettò un comunicato che Steve doveva diramare subito alla stampa. Steve tornò una mezz’ora dopo con il Presidente e gli dettò un nuovo comunicato che gli ordinò di diramare subito come il primo.
Il Presidente fissò alle ore 15,00 una conferenza, cui avrebbero partecipato il segretario Stimson, Hull, Knox, l’ammiraglio Stark e il generale Marshall. La conferenza non si svolse in un’atmosfera di grande tensione, perché in sostanza credo che ci fossimo convinti da gran tempo che presto o tardi avremmo dovuto entrare in guerra perché Hitler non sarebbe mai stato sconfitto senza l’ausilio delle nostre forze; e ora il Giappone ce ne offriva l’occasione.
Ciascuno, però, riconobbe la serietà della situazione e si mostrò persuaso che la guerra sarebbe stata aspra e dura. Durante la conferenza continuarono a giungere notizie che segnalavano sempre maggiori danni alla flotta.
Il Presidente le riceveva personalmente al telefono, no importa chi fosse a comunicargliele. La maggior parte venivano dalla Marina. Fu durante la conferenza che Hull riferì l’intervista avuta con i Giapponesi. Si stabilì di istituire immediatamente un ufficio di censura.
Churchill chiamò dall’Inghilterra. Il Presidente gli disse che ormai eravamo tutti nella stessa barca e che l’indomani si sarebbe presentato al Congresso. Churchill, a quel che pare, rispose che erano stati attaccati gli Stretti malesi e che il mattino seguente sarebbe andato anche lui alla Camera dei Comuni per chiedere una dichiarazione di guerra.
Il Presidente discusse ampiamente con Marshall gli ordini da dare alle truppe e soprattutto all’aviazione; trattò con Hull la necessità di informare di quanto avveniva le repubbliche dell’America meridionale e di ritenerle in linea con noi.
Marshall si dimostrava impaziente di andarsene. Disse che aveva ordinato al generale MacArthur di eseguire “tutti i movimenti fissati in caso di guerra con il Giappone”.
Il presidente ordinò di proteggere l’Ambasciata giapponese e tutti i consolati negli Stati Uniti e dispose che fossero ricercati tutti i cittadini giapponesi e posti sotto attenta sorveglianza. Ne venne dato mandato al Dipartimento della Giustizia il Presidente ordinò anche a Stimson e Knox di disporre una attenta sorveglianza a tutti i nostri arsenali, alle fabbriche private di armi e munizioni e ai ponti.
Marshall annunciò che da ora in poi il Dipartimento della guerra sarebbe stato piantonato dall’esercito. Il Presidente rifiutò di avere una guardia arata intorno alla Casa Bianca.
Molte delle disposizioni date richiedevano la firma del Presidente per diventare esecutive. Ma il Presidente disse di cominciare a fare e d’eseguire gli ordini, poi li avrebbe firmati.
Si discusse brevemente su quanto avrebbe dovuto dire il Presidente al Congresso, perché egli aveva ormai deciso di presentarsi lunedì. Roosevelt disse di voler presentare un messaggio assai scarno; poi ne avrebbe fato un altro più circostanziato.
Hull insisté con calore perché il Presidente analizzasse l’intera storia delle relazioni con il Giappone in un documento che potesse leggersi in mezz’ora. Ma il Presidente si oppose. Penso che il Presidente avesse in mente di parlare per radio a tutto il popolo per metterlo al corrente di come stavano le cose: per ora bastava limitarsi all’attacco alle Hawai.
Gli dissi di tenere altre due riunioni prima della fine della giornata con il Gabinetto (ed egli ordinò a Steve di convocarlo per le ore 20,30 e con i capi del Congresso. Discutemmo tra noi una lista di nomi ed egli decise poi di limitarsi solo ai principali. Aggiunse più tardi anche Hiram Johnson.
Rifiutò di ricevere i presidenti delle commissioni, perché a capo di quella per gli Interni, si trovava Ham Fish che egli non voleva assolutamente vedere alla Casa Bianca.
Finalmente decidemmo che alla riunione avrebbe partecipato: il Vice-Presidente Wallace, lo speaker Rayburn, John McCormack, capo della maggioranza, Joseph Martin, capo della minoranza, Sol Bloom, presidente per gli Affari Esteri, Tom Connally e Charles Eaton, della commissione per gli Affari Esteri, Warren Austin, della commissione per gli Affari militari e Charles McNary.
Nel frattempo il Presidente ricevette varie telefonate da membri del Gabinetto e quelli che si trovavano fuori sede vennero invitati a ritornare subito. La conferenza si aggiornò verso le ore 16,30: il Presidente dettò allora a Grace Tully il primo schema del suo messaggio al Congresso.
Era pronto quando il Presidente, Grace Tully ed io ci disponemmo a cenare nello studio ovale. Il telefono squillava di continuo. Ora chiamava Jimmy (Roosevelt?). Telefonarono anche il procuratore generale e il segretario al Tesoro. Stark continuava a inviare nuove e sempre peggiori notizie sull’attacco delle Hawai.
Noi finimmo presto il discorso, il Presidente vi fece solo poche correzioni e decise di leggerlo ai membri del Gabinetto. Furono tutti puntuali alle ore 20,30. erano tutti presenti, in circolo intorno al Presidente che sedeva alla scrivania.
Il Presidente con molta solennità annunciò ai presenti che questa seduta di Gabinetto era la più seria da quando Lincoln aveva riunito il suo, allo scoppio della guerra civile.
Il Presidente ricordò ai ministri le notizie recentissime e questi si dimostrarono assai impressionati per i danni recati dall’aviazione giapponese. Egli disse di voler presentarsi l’indomani al congresso per leggere il messaggio preparato.
Hull ripeté che il messaggio non gli sembrava del tutto adatto. Però il Presidente non mutò parere e decise di fare al Congresso le sue dichiarazioni, senza colpi ad effetto, ma con l’oratoria pacata e velata. Fatto sta che non si sapeva ancora se il Giappone ci avesse dichiarato guerra o no.
Il messaggio del Presidente non fu però reso noto ai Leaders del Congresso, che attendevano di fuori il momento di entrare. La loro riunione cominciò verso le ore 21,30. Erano presenti: il Vice-Presidente Wallace, il senatore Alben Barkley, il senatore Charles McNary, il senatore Connally, il senatore Warren Austin, il senatore Hiram Johnson, lo speaker Rayburn e i rappresentanti Sol Bloom e Charles Eaton.
Il Presidente parlò a lungo della situazione, facendo la storia dei negoziati con il Giappone e riferendo tutte le notizie pervenutegli intorno all’attacco giapponese contro le Hawai. Non era difficile capire che il nocciolo della conferenza sarebbe stata la richiesta di una dichiarazione di guerra, da farsi l’indomani.
Il Presidente chiese ai capi del Legislativo quando sarebbero stati disposti a riceverlo e venne stabilito che poteva comparire personalmente il giorno dopo alle ore 12,30. Gli chiesero se voleva una dichiarazione di guerra e che cosa contenesse il messaggio. Rispose che non sapeva ancora.
Il Presidente sapeva benissimo, naturalmente, che voleva chiedere una dichiarazione di guerra, ma sapeva altrettanto bene che se avesse annunciata una cosa simile ai convenuti, cinque minuti dopo l’avrebbe saputa tutta la città, perché è perfettamente inutile chiedere a un vasto numero di uomini del Congresso di mantenere il segreto.
I capi del Legislativo se ne andarono. Welles portò un suo progetto per un messaggio di guerra che però non piacque al Presidente, benché Hull lo appoggiasse in pieno. Il messaggio di Hull era una lunga dissertazione sulla storia delle relazioni con il Giappone che avevano portato la colpo di questa mattina. Il Presidente fu molto paziente con i due e, forse per liberarsi della loro presenza, li lasciò sperare che avrebbe esaminato il loro schema.
Vennero poi camerieri a portare birra e panini imbottiti e mezz’ora dopo mezzanotte, il Presidente congedò tutti quanti dicendo che voleva andare a letto.
L’ordine del Presidente all’ammiraglio Stark, a conferma delle notizie da Honolulu, si fondava sulla eventualità prospettata nella “stima” degli Stati maggiore uniti precedentemente citata. Ma dubito assai che si potesse prevedere la circostanza di sette grandi navi statunitensi messe fuori combattimento subito, nella prima ora di ostilità.
Milioni di parole sono state raccolte da almeno otto commissioni ufficiali d’inchiesta e le si possono leggere tutte senza però arrivare a spigarsi chiaramente perché a nostra base principale nel Pacifico con la guerra alle porte, si trovasse in una simile condizione di riposo festivo da tempo di pace e non sul “chi va là?”.
Quando il generale Marshall comparve davanti alla Commissione mista unica del Congresso, gli venne chiesto perché avesse mandato con tanto ritardo, la domenica mattina, al generale Short a Honolulu il telegramma con cui lo avvertiva di tenersi all’erta (il telegramma arrivò dopo l’attacco), mentre avrebbe potuto parlargli subito mezzo del telefono che si trovava sulla sua scrivania. Il rapporto della Commissione dice:
Il generale Marshall afferma che tra i possibili moventi che lo indussero a non fare uso del telefono va annoverata la possibilità che i Giapponesi potessero interpretare un allarme dato così alla guarnigione dell’isola, come un atto di ostilità. (Egli disse): “I Giapponesi avrebbero colto la minima occasione per dimostrare a quella parte del nostro pubblico che dubitava della nostra dirittura, che eravamo stati noi a compiere il gesto che li aveva forzati all’azione”.
I dubbi di Marshall erano gli stessi di Roosevelt quando non aveva voluto far chiamare l’ammiraglio Stark alla rappresentazione del “Principe Studente”, per non provocare un “inutile allarme”.
Marshall e Roosevelt temevano di più gli isolazionisti di casa – “quella parte del nostro pubblico che dubitava della nostra dirittura” – che i nemici stranieri. Avevano paura di essere chiamati “allarmisti”, una parola questa che era praticamente sinonimo di “guerrafondaio”.
Perciò nessuno di loro, tanto meno Stark, si era deciso a impartire il segnale d’allarme generale, perché la misura precauzionale sarebbe stata interpretata come un aperto atto di ostilità. Marshall non poteva dimenticare l’episodio della primavera 1941, che abbiamo già ricordato in queste pagine, quando una commissione del Congresso sollevò tale rumore per aver scoperto che l’esercito aveva ordinato niente meno che dei “caschi d’oltremare” per le truppe americane!
“L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”. Inoltre, si deve pensare che nessuno dei summenzionati poteva immaginare che il Giappone compisse un attacco così folle e quasi omicida, come un attacco a Pearl Harbour. Churchill lo chiamò più di una volta: “un attacco irragionevole”, soprattutto incomprensibile data la grande reputazione che si erano fatti i Giapponesi di gente di diabolica astuzia.
Ma si deve dire che tutte le alte autorità degli Stati Uniti e della Gran Bretagna fecero due errori d’origine nei loro calcoli: sottovalutarono cioè la forza e l’audacia militare del Giappone e ne sopravvalutarono troppo la sagacia politica e diplomatica.
Tutte le spiegazioni e i commenti che si possono fare non sminuiscono affatto la responsabilità di tutti indistintamente gli interessati a cominciare dal comandante in capo, per essersi lasciati cogliere in uno stato di così spaventosa impreparazione. Anni dopo, un funzionario della Marina giapponese doveva dire: “Ci aspettavamo una difesa ben diversa in una base così importante. Ne fummo sconcertati noi per primi”.
Anche Hopkins commentò accuratamente la nuova situazione creatasi e il palleggiamento delle responsabilità, benché non in relazione all’episodio di Pearl Harbour. Quando, più tardi, il transatlantico francese “Normandie” si incendiò nel porto di New York, mentre stava per essere adibito a trasporto di truppe, il segretario Knox produsse una serie di documenti per provare di essersi preoccupato già da mesi di ottenere dal Congresso dei fondi per la protezione del naviglio in porto da eventuali atti di sabotaggio.
Non essendo riuscito ad ottenerli, Knox aveva scritto al presidente della commissione degli stanziamenti alla Camera:
Io non posso che giungere a una conclusione dopo quanto è avvenuto: come segretario della Marina, responsabile della protezione di tutti gli impianti portuali e costieri dai pericoli interni ed esterni, ho fatto tutto quanto era in mio potere per adempiere a questo grava incarico.
In tutti i miei sforzi per stabilire le misure adatte ad ovviare al problema, ho preso sempre in attenta considerazione le obbiezioni costruttive dei membri del Congresso. Ma non posso più ritenermi responsabile di qualsiasi catastrofe possa capitare a impianti portuali della Marina, per attività sovversiva.
Quando Hopkins lesse queste note, scrisse che Knox non avrebbe mai dovuto fare dichiarazioni simili, perché: “se il Congresso sbaglia e non agisce, la responsabilità ricade sempre sul segretario della Marina”.
Le impressionati notizie delle perdite e dei danni inferti alle nostre corazzate si diffusero rapidamente per tutta Washington. Molti giornalisti erano a conoscenza dei particolari, ma si trattennero dal pubblicarli prima che il Governo istituisse la censura.
La condotta di alcune eminenti personalità governative fu invece del tutto inopportuna. Telefonando alla Casa Bianca gridando che il Presidente doveva dire al popolo tutta la vastità del disastro, che la nazione era ritornata ai momenti della disfatta di Valley Forge, che la nostra costa occidentale non era difendibile e che dovevamo prepararci a stabilire le nostre linee di difesa sulle Montagne Rocciose o sulla riva sinistra del Mississipi, o Dio sa dove.
Girare per Washington in quei giorni, era come avere la netta sensazione che avessero ragie decadente; che sapesse pronunciare parole grosse, ma che non sapesse più sopportare le conseguenze.
Nell’interno della Casa Bianca c’era però tutt’altra atmosfera: qui, veramente, si aveva l’impressione di essere agli Stati Uniti d’America. Arrivavano telegrammi e messaggi da tutto il Paese, a centinaia, a migliaia. Li lessi tutti, si può dire, nei primi giorni e se talvolta avevo dubitato, me ne sentii rinfrancato perché quei telegrammi fugarono ogni incertezza ed ogni esitazione.
Erano l’espressione dello spirito e delle tendenze che dominavano nelle stampa e nella radio, erano una valida e incoraggiante promessa per il futuro: la nazione sarebbe stata all’altezza del compito che era stata chiamata ad assolvere.
Lo stesso si può dire di Roosevelt. Quando egli si presentò al Congresso, la mattina del 8 dicembre, prese posizione davanti alla storia e lo sapeva. Come a sottolineare tale senso della storia, aveva voluto che la signora Roosevelt venisse al Congresso ad assistere alla seduta, accompagnata dalla vedova di Woodrow Wilson. Il breve discorso rivelò un Roosevelt aperto e deciso.
Erano le sue, parole schiette e spontanee, tutte, tranne forse la penultima frase che era stata suggerita da Hopkins e che fu la più sciatta del discorso. L’unico accento retorico bisognava cercarlo nella frase che diceva: “una data che vivrà nell’infamia”.
Benché non desse alcun particolare sui risultati dell’attacco – molti di essi erano ancora sconosciuti – Roosevelt non fece alcun tentativo di nascondere l’essenziale, cioè la spaventosa realtà e non pensò affatto di rendere più rosea la situazione. Egli elencò gli avvenimenti straordinari che si erano succeduti nelle ultime ventiquattr’ore:
L’attacco di ieri alla isole Hawai ha causato seri danni alle forze navali e militare americane. Molte vite americane sono andate perdute. Inoltre, sono state silurate altre navi americane in alto mare tra San Francisco e Honolulu.
Ieri il Governo giapponese ha lanciato un attacco contro la Malacca. La notte scorsa forze giapponesi hanno attaccato Hong Kong.
La notte scorsa forze giapponesi hanno attaccato Guam. La notte scorsa forze giapponesi hanno attaccato le Filippine.
La notte scorsa i Giapponesi hanno attaccata l’isola di Wake. Questa mattina i Giapponesi hanno attaccato le Midway.
Il Giappone ha dunque iniziato una offensiva di sorpresa su tutta l’area del Pacifico. I fatti di ieri parlano da soli. Il popolo degli Stati Uniti ha già capito cosa vogliano dire questi fatti per la vita e la salvezza della Nazione …
Le ostilità sono aperte. Non si può restare ciechi di fronte al fatto che il nostro popolo, il nostro territorio, i nostri interessi sono in grave pericolo.
Non c’era nulla in questo discorso che assomigliasse alla spavalda eloquenza di un Churchill. Nessuna traccia delle isteriche grida di un Hitler. Eppure gli Americani non ebbero alcun dubbio della profonda fiducia di Roosevelt. Credo che in vita egli non abbia avuto altra occasione d’essere più rappresentativo del suo popolo.
Se, come scrisse Hopkins, Roosevelt provò quasi un senso di sollievo che i Giapponesi abbiano scelto quella tattica per scogliere il dilemma tra la pace e la guerra, anche il popolo parve respirare più liberamente. Tutti riconobbero che Pearl Harbour era una tragedia e una sciagura, ma ciò fu ben lontano dal deprimere gli spiriti, anzi risvegliò l’orgoglio nazionale che diede luogo alle più alte manifestazioni della nostra storia.
Il giovedì notte, dopo Pearl Harbour, Roosevelt parlò alla radio e disse:
Dobbiamo riconoscere che i nostri nemici hanno compiuto una brillante azione di sorpresa, molto ben preparata ed eseguita con grande perizia.
Fu un’impresa disonorevole, senza dubbio, ma bisogna convincersi che la guerra moderna è condotta alla maniera nazista, cioè come una sporca impresa. Non siamo contrari a tutto ciò, non abbiamo mai voluto e non vogliamo sapere, ma ormai siamo in ballo e dobbiamo combattere con tutti i mezzi ed i modi a nostra disposizione.
Il popolo americano notoriamente indocile, accettò le precise indicazioni del Presidente ed agì di conseguenza. Gettò alle ortiche l’isolazionismo, senza porre tempo in mezzo e in misura totale, seppure, forse, non definitiva.
Gli inveterati isolazionisti rimasero tali e sempre pronti a combattere al loro guerriglia contro l’Amministrazione alla minima occasione favorevole. Cioè, come disse Elmer Davis in una trasmissione per la C.B.S., poco dopo Pearl Harbour: “Ci sono dei patrioti che sperano che l’America vinca la guerra, ma sperano anche chela Russia la perda; altri sperano che l’America vinca la guerra, ma che l’Inghilterra la perda; altri ancora i quali sperano che l’America vinca la guerra, ma che Roosevelt la perda”.
Tuttavia resta il fatto storico che durante i quarantaquattro mesi che seguirono, la nazione americana compì il suo massimo sforzo. Le qualità combattive dei singoli furono almeno pari alle più esaltate e forse esagerate tradizioni del passato la produzione in massa di armi, viveri, materie prime e di tutto ciò che si dimostrò necessario fu ben maggiore del previsto: e così le spese.
Incommensurabile fu lo sviluppo tecnico e scientifico. Ma tutto questo non si sarebbe potuto raggiungere se la nazione non avesse saputo attingere un grado di unità che non ha precedenti, con i suoi alleati e con sé stessa. Cosa strana forse, se si guarda la popolo nel suo complesso, ma il “morale” in tutto ciò ebbe una minima influenza.
Il morale non era né buono né cattivo. Bandiere al vento e parate militari se ne videro pochissime. Fu la prima guerra della storia dell’America in cui il primo colpo di fucile sia stato preceduto da un disincantamento generale. La guerra dal punto di vista americano, fu detta: “la più impopolare della storia”, ma ciò potrebbe essere preso a prova del fatto che il popolo, una volta tanto, non si lasciò illudere sulla natura e vastità dei compiti cui si trovava di fronte.