a cura di Cornelio Galas
Chiedo subito scusa agli amici di Televignole per l’eccessiva lunghezza di questa sorta di “numero unico”. Ma c’è chi si è lamentato per la “dispersione” – per altri servizi – in troppe puntate. Che non sempre poi si trovano nel Web. Prometto in ogni caso che quanto prima – tempo per le ricerche permettendo – metterò mano al design de www.televignole.it. Per renderlo più moderno e razionale.
Detto questo oggi vi propongo la ritirata dei tedeschi (e l’inseguimento da parte degli alleati) nella tarda primavera 1945. Con particolare attenzione a quanto successe in Trentino e Veneto. Ma con riferimenti anche alle vicende belliche oltre la linea Gotica.
Aprile 1945: la Linea Gotica viene sfondata dal 15° Gruppo d’Armate e le truppe alleate dilagano nella pianura Padana. 22 aprile: a Recoaro Terme, nel Vicentino, i maggiori esponenti politici e militari tedeschi operanti in Italia decidono, all’insaputa di Hitler, la resa del Gruppo d’Armate C e l’invio di plenipotenziari a Caserta per la firma della capitolazione. 2 maggio: la 10ª e la 14ª Armata tedesche depongono le armi di fronte alla 5ª Armata americana e all’8ª Armata britannica.
Nel mezzo, dieci giorni di combattimenti accaniti vedono agitarsi sul suolo del Veneto, tra ritirate disperate e avanzate rabbiose, tra imboscate dei partigiani e feroci rappresaglie sulla popolazione civile, un groviglio di centinaia di migliaia di uomini, mezzi, armi, animali, feriti, cadaveri.
“Dieci giorni di guerra”, di Luca Valente (2006, 552 p. Cierre Edizioni – Collana Nord est) è soprattutto – scrive Enzo Antonio Cicchino fondatore e direttore dell’Associazione Italiana Autori Scrittori Artisti “L’ARCHIVIO” – una storia vista dal basso: attraverso gli occhi dei carristi che liberano Verona e Vicenza o delle truppe da montagna americane che combattono sul lago di Garda, nei racconti dei fanti neozelandesi che irrompono nel Padovano e Veneziano.
O ancora, in quelli dei marò italiani che difendono accanitamente ogni guado, nelle cronache dei granatieri tedeschi che si aprono la strada combattendo nel Trevigiano e Bellunese o dei paracadutisti che passano a nuoto il Po e l’Adige e tentano di raccogliersi a Schio, ultima meta prima del miraggio salvifico delle Alpi innevate, si delinea un affresco gigantesco e drammatico, carico di orrori ed eroismi, di regole spietate e sprazzi di umanità”.
“Gli ultimi giorni della seconda guerra Mondiale in Italia – conclude la sua recensione Enzo Antonio Cicchino – come non erano mai stati raccontati. Ne proponiamo alcuni stralci”.
Sul fronte appenninico
Nell’aprile del 1945 la guerra in Italia ed in Europa stava volgendo verso il suo epilogo. La Wehrmacht, costretta da tempo sulla difensiva, era prossima al collasso su tutti i fronti. Nei mesi precedenti, mentre ad est l’avanzata sovietica era penetrata fino ai confini della Germania, lo sforzo militare alleato, dopo gli sbarchi in Normandia ed in Provenza, si era concentrato sul fronte occidentale.
La campagna italiana, iniziata quasi due anni prima in Sicilia, aveva conosciuto una lunga stasi invernale, con i tedeschi saldamente ancorati alla Linea Gotica, a cavallo degli Appennini, e gli Alleati in attesa della stagione primaverile e pronti a sferrare l’offensiva risolutiva.
Il fronte del 15° Gruppo d’Armate, al comando del generale americano Mark Clark, correva da Massa Carrara sul Tirreno fino alle Valli di Comacchio sull’Adriatico. Sull’ala sinistra la 5ª Armata americana del generale Lucian Truscott schierava il 4° ed il 2° Corpo d’Armata. Sull’ala destra l’8ª Armata britannica del generale Richard McCreery metteva in linea il 5°, il 10° e 13° Corpo d’Armata ed il 2° Corpo d’Armata polacco.
l’equivalente di 24 divisioni, di cui 5 corazzate, di diversa nazionalità (americana, inglese, neozelandese, indiana, sudafricana, polacca, italiana, ebraica), erano totalmente motorizzate ed al completo dei loro effettivi (un milione e mezzo di uomini) ed equipaggiamenti, e godevano di un efficace appoggio aereo tattico e strategico. Il dominio dei cieli da parte degli Alleati era pressoché assoluto.
Dall’altra parte il Gruppo d’Armate C, al comando del generale Heinrich von Vietinghoff-Scheel, si difendeva con un numero di divisioni e gruppi di combattimento di poco inferiore (l’equivalente di una ventina di divisioni).
La maggior parte delle grandi unità era tedesca; c’erano comunque una divisione turkmena e alcune formazioni italiane, schierate però in maggioranza in retrovia o alla frontiera francese: gli unici italiani in linea appartenevano al 1° Gruppo di combattimento della Decima Mas, dislocato sul fiume Senio, e ad alcuni reparti della Divisione “Monterosa”, in Garfagnana.
L’Armata “Liguria” del maresciallo Rodolfo Graziani difendeva il settore occidentale dell’Alta Italia con il 75° Corpo d’Armata ed il Corpo “Lombardia”. La 14ª Armata del generale Joachim Lemelsen occupava il settore tirrenico dello schieramento con il 51° Corpo da montagna ed il 14° Corpo corazzato.
Sul fronte adriatico la 10ª Armata del generale Traugott Herr metteva in linea il 1° Corpo paracadutisti, il 76° Corpo corazzato ed il 73° Corpo. Gli effettivi delle unità tedesche, comunque, erano estremamente ridotti: il battaglione di fanteria medio poteva contare all’epoca su appena 200 uomini. In totale le truppe italo-tedesche ammontavano a 600 mila uomini. Gli equipaggiamenti erano logori, i rifornimenti scarsi, i veicoli rimpiazzati per lo più dal trasporto animale, il supporto aereo inesistente.
Le migliori unità tedesche schierate a difesa della Gotica erano di gran lunga la 1ª e la 4ª Divisione paracadutisti (Fallschirmjäger Divisionen), inserite nel 1° Corpo paracadutisti al comando del generale Richard Heidrich e schierate nel nevralgico settore centrale dello schieramento germanico. Anch’esse, però, erano indebolite dalle lunghe battaglie.
In marzo, inoltre, ognuno dei loro Reggimenti aveva dovuto cedere un Battaglione completo a favore della 10ª Divisione paracadutisti, che si andava costituendo a Graz, in Austria. Il 1° e il 4° Reggimento (della 1ª) ed il 12° Reggimento (della 4ª) misero a disposizione il loro 3° Battaglione, il 3° Reggimento (della 1ª) e il 10° e 11° Reggimento (della 4ª) misero a disposizione il loro 2° Battaglione. I sei reggimenti delle due divisioni erano divenuti, perciò, di tipo binario, in altre parole potevano contare solamente su due battaglioni.
La sera del 9 aprile 1945, preceduta da massicci bombardamenti aerei e d’artiglieria, iniziava l’operazione “Grapeshot”, l’offensiva finale alleata in Italia. La 5ª e l’8ª Armata mettevano in campo un’enorme superiorità di uomini e materiali, ma i tedeschi, al solito, si difendevano tenacemente.
Gli Alleati sapevano bene che la vittoria sarebbe arrivata solo dopo durissime battaglie ed alte perdite. Scrive un ufficiale neozelandese, Geoffrey Cox, responsabile del Servizio informazioni del generale Bernard Freyberg:
“Noi sapevamo bene che il soldato tedesco in prima linea avrebbe continuato a combattere finché non gli fosse stato detto di smettere. Sapevamo che il soldato tedesco era un buon soldato anche nella ritirata, e le forze della Wehrmacht in Italia erano state trasformate da Kesselring in un’imponente macchina difensiva.
Per quanto turpe potesse essere la causa per cui dovevano combattere – e non mancavano testimonianze di civili massacrati e case incendiate al loro passaggio – i tedeschi della Decima e Quindicesima Armata conoscevano il loro mestiere di soldati. Le loro battaglie difensive in Italia saranno lezioni da manuale per i comandanti del futuro. […]
Sapevamo che gli ufficiali avrebbero tenuto i loro battaglioni schierati all’avanguardia a combattere; sapevamo anche che gli ufficiali superiori avevano ricevuto l’ordine espresso di Hitler di non ritirarsi finché non fossero stati spinti indietro con la forza.
Questa era la decisione del Führer. Avevamo catturato delle copie di tale disposizione a Faenza durante l’inverno: la pena prevista per la ritirata, a meno che non si fosse trattato di una ritirata imposta sotto una pressione schiacciante, era la morte”.
Sir Geoffrey Cox fu uno dei più importanti corrispondenti neozelandesi in Europa negli anni Trenta, svolgendo servizi sulla Guerra Civile in Spagna, sull’Anschluss, sulla crisi di Monaco, sulla guerra russo-finlandese del 1939-40 e sull’invasione tedesca del Belgio e della Francia, trasformati negli anni Settanta in altrettanti libri di successo.
Nel 1940 entrò nell’esercito neozelandese e con esso operò in Grecia, a Creta, in Africa Settentrionale e in Italia, dove fu capo dell’Intelligence Office del generale Freyberg, con il quale entrò a Trieste. Finita la guerra, ritornò al giornalismo e divenne vice-direttore del “News Chronicle”, quotidiano di tendenza liberale.
Nel 1956 passò alla televisione per curare i notiziari della Itn (Indipendent Television News), la nuova rete televisiva commerciale diffusasi in Gran Bretagna. Fu sotto la sua direzione che la Itn introdusse il moderno concetto di telegiornale, non solo nel Regno Unito, ma in tutta l’Europa. Nel 1966 gli venne conferito il titolo di “Sir” per i servizi resi al giornalismo.
Sulle capacità militari del front-soldat, il soldato di prima linea, scrive Gerhard Muhm, comandante della 1ª Compagnia, 1° Battaglione, 15° Reggimento della 29ª Divisione granatieri corazzati:
“Dal mio primo giorno di allievo ufficiale m’è rimasto come un tuono nell’orecchio l’espressione “Auftrag wiederholen!” (“Ripetere il compito”, “Ripetere l’incarico”) con cui i nostri superiori volevano che noi ripetessimo l’incarico che ci era stato assegnato per essere ben sicuri che noi avessimo capito. E dicevamo sempre Auftrag (incarico) e non Befehl (ordine). E così è sempre stato per tutta la campagna d’Italia.
Io ho ricevuto sempre degli “Auftrag”, mai dei “Befehl”. Lo stesso ho fatto con i miei subordinati a cui ho impartito sempre degli “Auftrag” nel solco della “Auftragstaktik” tradizionale dell’esercito tedesco. La concezione tattica seguita dall’esercito tedesco era la “Tattica dell’incarico o compito” (Auftragstaktik) in antitesi alla “Tattica dell’ordine” (Befehlstaktik) in uso presso altri eserciti.
La differenza di concezione e di esecuzione fra queste due tattiche è fondamentale: la prima esalta l’intelligenza e le capacità del soldato, la seconda tende a mortificarlo, rendendolo un passivo esecutore di ordini altrui.
Con la Auftragstaktik si ordina una missione e si lascia all’esecutore libertà di esecuzione del compito affidatogli, per cui egli si sente responsabile delle azioni che gli dettano la sua intelligenza, la sua intraprendenza e le sue capacità.
Con la Befehlstaktik, invece l’esecutore deve adempiere a un ordine impartitogli da altri, nel modo ordinatogli da altri, senza che egli possa ricorrere al suo senso di iniziativa e alla sua destrezza, sia nell’adeguarsi sia nello sfruttare le varie situazioni.
Quest’ultima concezione è naturalmente più facile da seguirsi, basandosi sulla pura disciplina mentre per adottare la Auftragstaktik occorre che gli ufficiali, i sottufficiali e i soldati vengano addestrati nelle scuole militari con continue esercitazioni”.
I piani tedeschi prevedevano una resistenza scaglionata su quattro linee difensive e di logoramento: la linea Irmgard sul fiume Senio, la linea Laura sul fiume Santerno, la linea Paula sul fiume Sillaro e la linea Gengis Khan, a protezione di Bologna, sul fiume Idice.
Nella fase iniziale dell’offensiva i combattimenti più feroci si svolsero proprio sul Senio, in Romagna, obiettivo del 5° Corpo britannico e del 2° Corpo polacco: quest’ultimo l’11 aprile riuscì a raggiungere il successivo corso d’acqua, il Santerno.
Nel frattempo alcuni commando della 56ª Divisione fanteria britannica avevano attraversato le Valli di Comacchio con mezzi corazzati anfibi e attraccato oltre le linee tedesche, cosicché la prima linea difensiva dovette essere precipitosamente arretrata.
La presenza di canali, fiumiciattoli e inondazioni rese però nel complesso più difficili successive irruzioni o sfondamenti veloci da parte degli Alleati. Sull’ala opposta la 91ª Divisione fanteria americana occupò Massa il 10 aprile e Carrara il giorno seguente, ma toccava ai britannici esercitare lo sforzo maggiore, anche perché la 5ª Armata era ostacolata dalle avverse condizioni atmosferiche e poté intervenire efficacemente solo dal 14 aprile in avanti.
La situazione divenne allora decisamente critica per i tedeschi: il 17 aprile gli americani lanciarono un grande attacco a sud-ovest di Bologna con la 10ª Divisione da montagna, la 1ª Divisione corazzata e l’85ª Divisione fanteria, appena entrata in linea, che travolsero la 94ª Divisione fanteria tedesca e parte della 90ª Divisione granatieri corazzati avanzando verso nord-ovest.
In quelle ore von Vietinghoff, che aveva già impiegato gran parte delle sue riserve nel tentativo disperato di tenere le posizioni, chiese ad Hitler l’autorizzazione al ritiro sul Po, ma gli fu brutalmente negata.
Il 17 aprile a Recoaro, nel Vicentino, sede del Comando supremo della Wehrmacht in Italia, si era svolta una riunione per discutere del difficilissimo momento:
“Lo stato maggiore tedesco fece il punto della situazione. L’Oberquartiermeister, colonnello Fähndrich, relazionò sullo stato degli approvvigionamenti. Egli comunicò che le scorte dei materiali erano esaurite e che carri armati e veicoli avevano carburante per non più di 50 Km, “poi li dobbiamo lasciare fermi”.
Aggiunse che le scorte delle munizioni si sarebbero esaurite nei successivi tre/quattro giorni e che molti pezzi dell’artiglieria pesante e molti cannoni antiaerei non potevano essere alimentati perché non c’erano più proiettili. I magazzini di cui la Wehrmacht disponeva intorno a Bologna o erano già caduti in mano al nemico o risultavano inutilizzabili per la mancanza di mezzi di trasporto. Infine era una settimana che non arrivava alcun rifornimento dal Reich e “non è sicuro se possiamo attendere qualcosa nei prossimi giorni”.
Fu poi la volta del generale Schneetz che descrisse la situazione dei trasporti: premesso che le stazioni di Innsbruck e di Salisburgo erano bloccate a causa di un gigantesco ingorgo ferroviario provocato dal materiale che tornava indietro da tutte le parti, ma in particolare dalla zona di Vienna, Schneetz sottolineò il fatto che “in Italia le linee ferroviarie sono diventate praticamente inutilizzabili per gli incessanti bombardamenti degli ultimi giorni”.
A ciò andava aggiunto che “gli italiani che finora avevo impiegato in gran numero, specialmente sulla linea del Brennero per lavori di riparazione, da alcuni giorni semplicemente mi scappano via e non rientrano più al lavoro. Il materiale per locomotive è diminuito, a causa dell’abbattimento giornaliero di mediamente 20 locomotive, in modo tale che non ho praticamente quasi più mezzi ferroviari nella zona dell’Italia settentrionale.
La rete elettrica delle linee aeree sul tratto del Brennero è a pezzi: di conseguenza su un lungo tratto non si può più viaggiare con locomotori elettrici. Il carbone per il funzionamento della ferrovia basta ancora per sole poche macchine e per pochi giorni. In questa situazione non credo che potremo far passare nessun convoglio di rifornimenti proveniente dalla Germania””.
La realtà era dunque talmente disastrosa che il capo di stato maggiore Röttiger, su ordine di Vietinghoff, contattò subito l’Okw a Berlino per chiedere il permesso di ritirata prima dell’imminente annientamento. Il generale Jodl, però, confermò gli ordini di resistenza ad oltranza secondo le direttive di Hitler: la risposta fu messa per iscritto e inviata come messaggio segretissimo a Recoaro il 18 aprile.
Alcune unità erano ridotte ai minimi termini: la 42ª Divisione Jäger (fucilieri) contava tre gruppi di combattimento di appena 200 uomini ciascuno; la 98ª Divisione fanteria era stata ritirata il 15 aprile, praticamente decimata, assieme alla 26ª Divisione corazzata.
La 278ª Divisione fanteria, che aveva sostituito la 98ª sulla linea difensiva, dovette subire l’urto congiunto del 13° Corpo e del 2° Corpo polacco, che già aveva occupato Imola, e cominciò a cedere. La falla fu chiusa per la resistenza tenace dei paracadutisti del 1° Corpo che tuttavia, nonostante uno sforzo disperato, il 17 aprile dovettero cedere Medicina e Castel San Pietro sulla Via Emilia.
La situazione era analoga ovunque lungo la linea difensiva tedesca: il fronte cominciava a sgretolarsi. Il 20 aprile la 5ª Armata superò gli Appennini e il 4° Corpo americano occupò Casalecchio, spingendo in avanti la 92ª Divisione fanteria e la 1ª Divisione brasiliana, che raggiunse Zocca, per tagliare la strada al 51° Corpo da montagna tedesco: la pianura Padana era aperta.
Il 21, mentre il 10° Corpo raggiungeva l’Idice, i polacchi del generale Anders entrarono a Bologna assieme alla 34ª Divisione fanteria americana e ai Gruppi di combattimento “Legnano” e “Friuli”, nonostante la strenua resistenza del 1° Corpo paracadutisti che dovette arretrare per evitare l’accerchiamento.
Da 24 ore von Vietinghoff, ignorando gli ordini di Hitler di resistenza ad oltranza, aveva ordinato l’arretramento oltre il Po. Oramai, però, era troppo tardi per un ripiegamento ordinato. Le armate tedesche, che avevano perso già 70.000 uomini, nell’immensa arena della pianura Padana si trovarono alle calcagna 3.000 corazzati, e 2.000 aerei sopra la testa, che avevano un unico obiettivo: distruggerle.
I paracadutisti di Heidrich
I paracadutisti tedeschi, nonostante le sorti della battaglia e della guerra fossero ampiamente segnate, stavano dando parecchio filo da torcere agli Alleati. Non si trattava di una novità: era stato così fin dall’inizio della campagna italiana.
I Fallschirmjäger erano stati impiegati in operazioni aviotrasportate su vasta scala solamente nella prima metà della guerra, specialmente in Norvegia, Belgio e a Creta: azioni che ne misero in luce l’audacia ed il superbo addestramento, ma che causarono un così elevato numero di perdite che Hitler meditò di sciogliere le unità, ordinando comunque lo stop alle grandi operazioni.
Negli ultimi due anni di guerra, salvo azioni minori, i Fallschirmjäger operarono come truppe di terra, dotate però, rispetto alla fanteria ordinaria, di una superiore flessibilità tattica, di una maggiore dotazione di armi automatiche e di un’eccezionale capacità difensiva. Tali qualità erano sorrette da un fortissimo spirito di corpo, tipico di ogni unità d’élite: fino al 1944 i membri dei Fallschirmjäger erano tutti volontari.
La 1ª Divisione paracadutisti era stata inviata in Italia, con una rapida e ben orchestrata operazione aerotrasportata, il 12 luglio del 1943. Al ponte di Primosole, in Sicilia, gli Alleati fecero un’immediata e spiacevole conoscenza con i suoi uomini. Li avrebbero avuti come durissimi avversari fino alla fine della guerra, assieme a quelli della 4ª Divisione, costituita nell’area di Venezia nel novembre del 1943.
Sulle pendici di Monte Cassino, dall’inizio del 1944, i Fallschirmjäger della 1ª Divisione tennero in scacco per mesi i reggimenti britannici, neozelandesi, indiani, polacchi, che ad ondate continue s’immolarono inutilmente sotto l’antica abbazia ridotta ad un cumulo di macerie.
Sommersi da forze dieci volte superiori, sepolti sotto migliaia di tonnellate di bombe e granate, attaccati con le mitragliatrici, i carri armati, i lanciafiamme, gli uomini del generale Heidrich, racchiusi in poche centinaia di metri quadrati di rovine annerite, non cedettero un palmo.
Tra le macerie di Cassino, nelle buche e nei crateri scavati dalle bombe, la migliore gioventù del mondo occidentale si consumò in una carneficina spaventosa: solo i combattimenti nell’inferno di Stalingrado furono paragonabili alle battaglie sotto l’abbazia.
Gli uomini della 1ª Divisione paracadutisti non abbandonarono le loro posizioni fino a quando, nella seconda metà di maggio, il fronte non cedette in altre parti: in tre mesi di furiose battaglie avevano resistito a forze preponderanti.
Scrive il generale Frido von Senger und Etterlin, responsabile del settore:
“A Cassino il bombardamento investì i combattenti più “duri” delle forze armate tedesche. Un battaglione alla volta, la 1ª Divisione paracadutisti aveva dato lentamente il cambio alla 90ª Divisione granatieri corazzati per consentire alle nuove truppe di ambientarsi nel terreno.
Il comandante della Divisione paracadutisti, generale Heidrich, assunse il 26 febbraio il comando di quel settore. […] Ciò che superò tutte le aspettative fu lo spirito combattivo dei paracadutisti. Questi emersero dopo il bombardamento dai sotterranei e dai ricoveri colmi di terriccio nei quali avevano perso la vita molti dei loro compagni, e opposero un’accanita resistenza all’avversario. Non esistono parole per rendere giustizia al loro eroismo”.
I generali alleati si trovarono in imbarazzo di fronte ai politici, anche perchè l’opinione pubblica angloamericana non si capacitava della resistenza tedesca. Il 20 marzo il generale inglese Alexander scrisse a Winston Churchill:
“La resistenza dei paracadutisti è stata davvero eccezionale, se si considera che sono stati sottoposti al più grande concentramento di fuoco mai attuato prima. […] Dubito che vi siano altre truppe al mondo che avrebbero potuto resistere ad un tale inferno e poi passare all’attacco con altrettanta tenacia come queste”.
Lo stesso primo ministro inglese annotava nelle sue memorie:
“La 1ª Divisione tedesca di paracadutisti, probabilmente la migliore unità di tutto l’esercito germanico, combatté disperatamente tra mucchi di macerie contro neozelandesi e indiani”.
Il generale americano Marshall constatò:
“I decisi tentativi di conquistare la città fallirono di fronte alla fantastica resistenza di reparti tedeschi di prim’ordine, soprattutto della 1ª Divisione paracadutisti, che il generale Alexander considera la migliore divisione di tutti i fronti”.
Mentre i soldati alleati cominciavano a conoscere i loro avversari con il nome di “Grünen Teufel”, “Diavoli Verdi”, la stampa tedesca glorificava i suoi eroi. Anche quella alleata, però, ne riconosceva la straordinaria resistenza. Scriveva il “Times” il 19 marzo: “È difficile prendere prigionieri gli uomini della 1ª Divisione paracadutisti: essi appartengono a quel genere di soldato che preferisce combattere fino all’estremo e poi morire piuttosto che arrendersi”.
Ed ancora il 23 marzo: “Gli uomini che sbucano dai mucchi di macerie hanno una disperata volontà di resistere e sono decisi a difendere Cassino il più possibile. Alcuni emergevano dalle profonde cantine che hanno resistito alle bombe e alle granate, altri si aprivano una via d’uscita attraverso le macerie e la cenere, e quando venivano invitati ad arrendersi si rifiutavano”.
Da cosa derivava tanta tenacia? Secondo Rudolf Böhmler, all’epoca di Cassino comandante del 1° Battaglione del 3° Reggimento della 1ª Divisione, tre parole riassumevano il significato della forza dei paracadutisti: cameratismo, spirito militare e capacità.
Gli ufficiali condividevano ogni cosa con i soldati: si lanciavano insieme dallo stesso apparecchio, rischiavano allo stesso modo di rompersi le ossa o essere uccisi dalla reazione nemica, avevano le stesse razioni e dotazioni. Nelle operazioni di lancio non esistevano retrovie: gli uomini di stato maggiore, della sussistenza, della sanità combattevano come qualsiasi altro soldato, armi in pugno, non appena atterrati.
Si era quindi creato, anche quando si era passati a combattere esclusivamente a terra, un legame indissolubile tra ufficiali e truppa, rafforzato da uno spirito di corpo incrollabile. Ad ogni paracadutista veniva insegnato a sentirsi un eletto dell’esercito germanico, a realizzarsi nella battaglia, ad amare la propria arma, ad essere forte, coraggioso, “veloce come un levriero, resistente come il cuoio, duro come l’acciaio”.
Coloro che diventavano paracadutisti imparavano a conoscere i comandamenti del corpo:
- 1. Tu sei un eletto dell’Esercito tedesco!
- 2. Cercherai la battaglia e ti eserciterai a sopportare qualsiasi tipo di prova.
- 3. Per te la battaglia deve rappresentare la massima realizzazione.
- 4. Cura un sincero cameratismo, perché sarà grazie all’aiuto dei tuoi compagni che vincerai o morirai!
- 5. Guardati dal parlare! Non essere corruttibile! Gli uomini agiscono, mentre le donne chiacchierano. La chiacchiera può condurti alla tomba!
- 6. Sii quieto e prudente, forte e deciso! Il valore e l’entusiasmo di uno spirito aggressivo ti faranno mantenere la superiorità nell’assalto.
- 7. Di fronte al nemico ciò che più vale sono le munizioni. Chi spara inutilmente, solo per tranquillizzarsi, non merita di essere chiamato “Paracadutista”.
- 8. Potrai mietere vittorie solo se le tue armi sono efficienti. Bada di osservare la regola “Prima viene la mia arma e poi vengo io!”
- 9. Devi comprendere pienamente il senso di ogni impresa, affinché tu sia in grado di agire autonomamente anche se il tuo comandante dovesse cadere. Di fronte ad un nemico che si dichiara tale combatti con cavalleria, verso un partigiano non avere pietà! 10.
- Tieni gli occhi aperti! Sii veloce come un levriero, resistente come il cuoio, duro come l’acciaio; solo così sarai l’incarnazione del guerriero tedesco!”
La preparazione militare dei paracadutisti era unica. Sotto la ferrea guida del generale Heidrich, maestro nell’istruzione della fanteria, si formavano soldati scaltri, dotati di spirito d’iniziativa ma perfettamente sincronizzati con i commilitoni; capaci di usare ogni arma, di essere cioè fanti, mitraglieri, mortaisti, genieri, cacciatori di carri, e in grado di guidare ogni mezzo, di cavalcare e sciare, oltre che lanciarsi col paracadute. Nell’addestramento si usavano spesso proiettili veri.
Ma Heidrich non era solo severo, era considerato nell’ambiente il “papà” dei Fallschirmjäger. Aveva creato il “Soccorso per le famiglie”, un’assicurazione per i figli dei paracadutisti, percepita se il padre perdeva la vita, e la “Culla reggimentale”, un dono a favore dei primi nati dei suoi soldati. Aveva istituito due appositi convalescenziari, uno sulle Dolomiti ed uno vicino al fronte, per concedere speciali periodi di riposo quando i suoi soldati non avevano ancora maturato la licenza di diritto.
Richard Heidrich era nato il 28 luglio 1896 a Lewalde, in Sassonia. Combattente della 1ª Guerra Mondiale, a partire dal 1937 aveva scalato le gerarchie militari fino a raggiungere il comando del 1° Corpo paracadutisti nel novembre del 1944. Morì nel 1947 in prigionia.
Nell’Italia settentrionale aveva costituito un negozio chiamato “Diavoli Verdi”, dove ogni paracadutista poteva comprare a prezzi di favore viveri costosi, tessuti e altri articoli altrove introvabili. E donava alla moglie di ogni suo soldato la “Collana della fedeltà”, una catenella in argento con il simbolo divisionale sul ciondolo.
Considerato tutto questo non c’è da stupirsi che i paracadutisti della 1ª e della 4ª Divisione combattessero come nessun altro soldato in Italia: difendevano il loro mondo, prima ancora che la Germania.
I soldati alleati cominciarono a temere questi perfetti militari, ma anche ad odiarli: ai loro occhi erano combattenti che rappresentavano il meglio della tecnica militare tedesca e nello stesso tempo incarnavano la peggiore delle ideologie, il nazismo. Radio Napoli, il 21 marzo 1944, trasmetteva: “Il paracadutista tedesco ha un solo scopo: morire per Adolf Hitler! È un fanatico, oltrepassa raramente i vent’anni. Il paracadutista tedesco, a Cassino, sacrifica la sua vita per l’ideale del Führer”.
Durante il proseguimento della guerra quelli che avevano combattuto a Cassino, specialmente i neozelandesi e i polacchi, cercarono più volte di saldare i conti con i paracadutisti, di estinguere l’odio che provavano nei loro confronti, di eliminarne il più possibile.
Anche le popolazioni impararono a conoscerli e a temerli: non furono rari i casi in cui unità di Fallschirmjäger si distinsero in azioni di rastrellamento e rappresaglia, specie nell’estate del 1944 in Toscana; è provato, anzi, che le unità d’élite della Wehrmacht ebbero un ruolo rilevante nella politica di ritorsione tedesca in Italia. Reparti della 1ª Divisione, ad esempio, parteciparono ai terribili massacri di Cornia, San Pancrazio e Civitella in Val di Chiana.
L’ultima difesa dei Fallschirmjäger
La linea del fronte tenuta dal 1° Corpo paracadutisti fu pesantemente investita il 9 aprile, all’avvio di “Grapeshot”.
Scrive Hans-Martin Stimpel:
“Il mattino seguente fanteria e mezzi corazzati – tra i quali per la prima volta in scontri ravvicinati carri lanciafiamme praticamente inattaccabili – sferrarono un attacco contro le postazioni nel punto di congiunzione tra il 76° Corpo corazzato e il 1° Corpo paracadutisti.
La 4ª Divisione paracadutisti riuscì inizialmente a mantenere gran parte del proprio settore nella zona di Castel Bolognese e della Via Emilia, subendo tuttavia ingenti perdite. Nei giorni successivi i settori del fronte di entrambe le divisioni paracadutisti furono ulteriormente allargati per il fatto che la 278ª Divisione fanteria fu ritirata dalla linea di combattimento e riposizionata altrove”.
Scrive ancora Stimpel:
“La 1ª Divisione paracadutisti combatté a partire dal 18 aprile anche contro la 4ª Brigata corazzata neozelandese. Un rapporto fatto da questa unità alleata descriveva tra l’altro come costrinsero alla resa, soprattutto grazie all’impiego di mezzi corazzati lanciafiamme, una unità di paracadutisti tedeschi sotto il comando di un capitano, dal momento che questi ultimi non potevano opporre nulla a tale arma”.
Geoffrey Cox, responsabile dell’Intelligence Service della 2ª Divisione neozelandese, a proposito dell’utilizzo dei carri lanciafiamme (Crocodile) afferma: “I lanciafiamme non avevano causato né troppi morti, né molti feriti, ma avevano terrorizzato moltissimo i soldati. E, soprattutto, avevano offerto ai comandanti di unità minori una scusa militarmente accettabile per arrendersi. Chi poteva resistere di fronte ad attacchi del genere?”
Con i ranghi sempre più assottigliati le due formazioni ricevettero pochi ed improvvisati rinforzi, ovvero due unità di disciplina, il 4° e il 7° Battaglione della Luftwaffe per impieghi speciali, costituiti da soldati dell’aviazione con più di otto mesi di pena detentiva che avevano dimostrato un miglioramento durante la detenzione.
Veniva loro concessa, in pratica, l’opportunità di riabilitarsi in battaglia, ma si stava raschiando il barile. I “Diavoli Verdi” furono in grado di mantenere le loro posizioni fino a metà mese. Poi dovettero ritirarsi verso nord in parte in direzione di Ferrara e in parte passando per Cento.
Alcune delle formazioni meno mobili – le batterie di artiglieria erano trainate perlopiù da carri tirati da buoi – furono superate e fatte quindi prigioniere da unità corazzate alleate.
Anche gli uomini della “Komet” – la 4ª Divisione aveva per simbolo una cometa – impegnati nei combattimenti presso Faenza e il fiume Senio, riuscirono a conservare le proprie postazioni fino a metà aprile, ritirandosi in seguito mentre tenevano impegnato il nemico con alcune battaglie di temporeggiamento.
Scrive Stimpel:
“Già in precedenza i paracadutisti avevano constatato che da settimane le formazioni americane si sentivano così sicure che di notte illuminavano l’entroterra delle loro postazioni (“come fossero a Broadway”, osservò un ufficiale dei paracadutisti).
Inoltre tra i prigionieri che poterono esser catturati nelle truppe in ricognizione e nelle truppe d’assalto si trovavano, al fianco di soldati britannici, americani e polacchi, anche militari provenienti dall’Asia e dall’Africa (tra gli altri dall’India, dalle Filippine, dalla Nuova Zelanda e dal Marocco)”.
Scrisse a proposito il tenente Dietrich Brehde, comandante negli ultimi giorni di guerra della 13ª Compagnia dell’11° Reggimento, 4ª Divisione paracadutisti:
“Il soldato tedesco combatte ora contro mezzo mondo, contro truppe che provengono dai cinque continenti”. I paracadutisti conobbero anche la derisione da parte degli americani, che erano in condizioni di netta superiorità; questi annunciavano la loro offensiva con volantini tramite i quali illustravano con caricature le carenze di equipaggiamento dei loro avversari: “Paracadutisti, oliate i vostri carri a buoi, si parte!””.
La potenza militare degli Alleati era soverchiante. Il 2° Corpo polacco tagliò fuori già il 16 aprile un troncone della 1ª Divisione paracadutisti in direzione di Medicina. Il maresciallo Ernst Simon descrisse la “ritirata da canale a canale”, durante la quale parti della sua unità finirono per esser fatte prigioniere e, “inclusi i feriti”, uccise a fucilate dai soldati polacchi.
Quando i polacchi, tre giorni dopo, conquistarono Bologna, si impadronirono anche di quello che era stato il Quartier generale della 1ª Divisione paracadutisti: passarono e ripassarono con i carri armati sulle tende e sulle baracche finché non rimase nulla.
Il generale Anders si portò a casa lo stendardo divisionale, fiero ma soprattutto sollevato che fosse finito l’incubo. Poco più ad est i Fallschirmjäger della 4ª Divisione non se la passavano meglio. Il 16 aprile un attacco congiunto dei neozelandesi e dei polacchi travolse il 992° Reggimento granatieri della 278ª Divisione fanteria, e un Kampfgruppe (gruppo di combattimento) della 4a Divisione fu fatto immediatamente accorrere per tappare la falla.
Alle porte di Imola l’avanguardia del gruppo avvistò una colonna di autocarri della 2ª Divisione neozelandese, stipati di truppe, in avvicinamento. Qualche mina sotterrata in fretta e furia lungo la strada ne distrusse un paio: i neozelandesi saltarono giù dagli automezzi per difendersi dall’attacco, ma furono abbattuti dal fuoco incrociato delle mitragliatrici e da una grandinata di bombe di mortaio.
La posizione non poteva comunque essere tenuta a tempo indeterminato: la missione dei paracadutisti consisteva semplicemente nel ritardare l’avanzata del nemico.
Il sergente Heinrich Katzenbach, 26 anni, che prestava servizio nella 4ª Batteria, 1° Battaglione del 4° Reggimento artiglieria paracadutisti (4ª Divisione), fu aggregato alle salmerie e si trovò coinvolto nella ritirata:
“Il fronte veniva illuminato nella notte da molti riflettori dell’esercito inglese e noi ci trovavamo esattamente in una specie di ferro di cavallo. Le nostre 1ª e 2ª Batteria non ricevettero alcun cannone, ma al contrario andarono in postazione come gruppo d’assalto mentre il Comando di batteria rimase presso l’Idice.
Poi le salmerie tornarono indietro; i veicoli furono trasportati su carri trainati da buoi e mi capitò la dubbia fortuna di condurre uno di questi carri. La meta del nostro viaggio era Minerbio: alle 3 del mattino del 16 aprile partimmo da Mezzolara.
Dopo il sorgere del sole dovemmo interrompere il viaggio, dal momento che i cacciabombardieri si dimostravano assai zelanti. Verso mezzogiorno potemmo proseguire e dopo due ore eravamo a destinazione, dove venimmo a sapere che la sera avremmo dovuto riprendere la marcia in direzione Ferrara.
Allo scendere dell’oscurità ci mettemmo in cammino. Dopo 15 km, tuttavia, fummo costretti a fermarci nuovamente: era arrivato il momento in cui l’aviazione notturna alleata entrava in azione. Il 17 aprile gli uomini della batteria furono impiegati in combattimento con la fanteria, ma io rimasi indietro con le salmerie poiché avevo il carro da condurre.
Passammo per Minerbio. Nelle ore attorno a mezzogiorno procedemmo con brevi interruzioni, perché dovevamo ripararci dai soliti cacciabombardieri. Verso sera arrivammo al fiume Reno. Appena iniziammo a passare il ponte i primi velivoli cominciarono a lanciare una bomba illuminante dopo l’altra. Ciononostante riuscimmo a passare abbastanza agevolmente dall’altra parte.
Oltre Poggio Renatico ci concedemmo nuovamente una pausa fino a mezzogiorno del giorno successivo. Alle 16 del 19 aprile arrivammo al Comando del reparto d’istruzione, dal quale partimmo la sera verso la batteria che si trovava a un chilometro e mezzo da lì. Nel frattempo subimmo ancora un attacco che provocò alcune vittime fra i membri del Comando.
Alla sera arrivammo sani e salvi alle salmerie della batteria, dove comunque non potemmo fermarci a lungo. Gli incroci erano battuti dal fuoco dell’artiglieria e 40 mezzi corazzati nemici avevano sfondato e si trovavano a circa 5-6 km dal villaggio: ci fu un cambio di postazione e le salmerie si trasferirono ad Isola della Scala. Io però dovetti rimanere al posto di comando locale e aspettare un veicolo dei nostri.
Dapprima me ne volevo rimanere da quelle parti, ma poi mi dissi che dovevo assolutamente oltrepassare il Po e sfuggire così, forse, alla prigionia. Che la guerra fosse ormai persa mi era già ben chiaro. Così percorsi la strada sulla quale sarebbe dovuto arrivare il carro trainato con il camerata e attesi ancora per lungo tempo ad un incrocio. Ma inutilmente. Verso mezzanotte mi misi in marcia in direzione del Po”.
Heinrich Katzenbach, (11.7.1918 – 8.10.1996), arruolato nella Flak (contraerea) allo scoppio della guerra, aveva partecipato alla campagna di Belgio e Francia nel 1940 con il 1° Battaglione del 13° Flakregiment. Successivamente aveva prestato servizio in Germania nel Luftgau VI (Essen/Ruhr) nello Schwere Flakabteilung 233/4ª Batteria e poi nel Flakgruppe Halle-Leuna (o Halle-Merseburg) nello Schwere Flakabteilung 406/7ª Batteria.
Nel febbraio del 1945 venne temporaneamente trasferito nella 1ª Batteria, 1° Battaglione dell’11° Reggimento artiglieria paracadutisti e quindi il mese successivo inviato in Italia.
Nel diario trascritto dal figlio racconta il trasferimento del suo reparto, un’unità ancora in formazione incaricata di raggiungere il 1° Corpo paracadutisti nelle immediate retrovie del fronte nei pressi di Budrio:
“Il 10 marzo 1945 a Büsum (Schleswig-Holstein) fui distaccato dall’11° Reggimento artiglieria paracadutisti al quale, a quel tempo, appartenevo. Dovevamo andare in Italia. Durante il viaggio passammo per Neumünster, Stendal, Magdeburg, Halle, Weißenfels, in direzione Bayreuth.
Ci avevano condotto in una direzione sbagliata e pertanto dovemmo ritornare indietro per un tratto. Procedemmo passando per Bamberg, verso Fürth, passando ai margini di Monaco e Rosenheim fino a Kufstein. Là ci fermammo per circa un giorno e mezzo.
Potemmo proseguire per circa 30 km e fummo trasbordati per la prima volta, dal momento che un ponte ferroviario era stato distrutto dai cacciabombardieri. Quindi proseguimmo fino al Brennero, dove c’era moltissima neve. Poi continuammo fino a Vipiteno dove ricevemmo l’ordine di cambiare treno. Qui era già primavera.
Rimanemmo due giorni in un accampamento di baracche e quindi proseguimmo per Bolzano. Qui qualcuno riuscì a liberarsi delle sue Lire. Mele, vino e ogni ben di Dio per qualche soldo. Dopo due giorni ce ne andammo in auto fino a Trento: il servizio consisteva nel mettersi in marcia presto per uscire dalla città e godersi il sole. In ogni momento c’erano allarmi aerei. Anche da qui si procedette dopo due giorni.
Andammo in treno quasi fino a Verona. Si procedette immediatamente allo scarico dell’equipaggiamento e ci separammo iniziando la marcia per la nostra destinazione, mentre già iniziava a far giorno. Dopo pochissimo tempo i primi cacciabombardieri erano già sul posto. A circa 500 metri di distanza fu attaccato un deposito di munizioni e per tutto il giorno continuò allo stesso modo.
Alla sera arrivammo marciando fino a Villafranca. Il pomeriggio seguente, sempre a piedi, marciammo fino alla meta, solo temporanea, di Massimbona, circa 30 km a sud del lago di Garda. Qui doveva trovarsi l’appostamento definitivo. Il giorno del Sabato Santo, tuttavia, riprendemmo la marcia verso sud. Io rimasi indietro con l’equipaggiamento della fureria presso il Comando e con quattro camerati costituimmo la retroguardia mentre il reparto d’istruzione marciava.
Credevamo di poter festeggiare un giorno di Pasqua tranquillo, ma la sera arrivò il camion che ci doveva portare a destinazione. Caricammo il mezzo in tutta velocità e proseguimmo quindi in direzione sud. Passando per Mantova arrivammo ad Ostiglia dove attraversammo il Po.
Ciò comportò non poche difficoltà, poiché i bombardieri notturni erano piuttosto attivi e dovevamo correre spesso da una parte all’altra degli argini. Dopo circa tre ore arrivammo finalmente all’altra sponda, e pensammo di essere sani e salvi con tutte le ossa intere. Alle prime luci dell’alba purtroppo fummo costretti a fare tappa poco prima di Cento. Ci procurammo del latte e preparammo un buon budino.
Quello fu il nostro pranzo pasquale. Alla sera partimmo per la nostra dislocazione definitiva a Mezzolara passando per Cento, Bologna e Budrio. Arrivammo sul posto il mattino del secondo giorno dopo la Pasqua verso le 3 e potemmo trascorrere un po’ di tempo impigrendoci fino a quando non arrivò il capitano Lammersdorf.
Dopodichè l’ordine fu quello di allestire gli alloggiamenti e preparare tutto per l’arrivo del reparto d’istruzione. L’attività degli aerei nemici continuava giorno e notte. Alcuni giorni più tardi arrivò il reparto d’istruzione. Fummo aggregati al 1° Battaglione del 4° Reggimento artiglieria paracadutisti e dovevamo costituire un’unità pronta al combattimento.
C’erano a disposizione alcuni veicoli, ma privi di carburante, e anche delle armi. Il fronte in quel momento era ancora a circa 20 km, ma iniziavano già le ritirate”.
Lo sfondamento nel settore della 4ª Divisione era stato inevitabile: la sera del 18 aprile l’artiglieria alleata aveva scatenato un fuoco di annientamento durato quasi sette ore, che aveva trasformato la linea delle postazioni tedesche “in una specie di fine del mondo”: si era creata una falla tra il 1° Battaglione dell’11° Reggimento e il 2° Battaglione del 12° Reggimento, che poté essere temporaneamente arginata il mattino del 19 aprile e solamente a costo di gravissime perdite.
L’ufficiale Geoffrey Cox usò queste parole per descrivere quel migliaio di paracadutisti del 12° Reggimento, saldamente attestato sulla sponda del canale Gaiana, in cui la 2ª Divisione neozelandese si era imbattuta il 18 aprile:
“Erano uomini forti, brutali, con una prontezza quasi masochistica a morire”. Cox si recò dal suo generale, che gli diede carta bianca per l’azione commentando poi durante il fuoco di sbarramento: “Odio quei paracadutisti! Rappresentano il peggio del sistema nazista!”.
Il primo “incontro” coi paracadutisti sulla linea del fronte era avvenuto qualche giorno prima:
“Trovammo nella nostra rete un pesce ben più grosso della 278ª Divisione. Di fronte all’ala sinistra catturammo 60 prigionieri con i piatti elmetti d’acciaio e le inconfondibili tute dei paracadutisti. Appartenevano al 111° Battaglione Paracadutisti di Ricognizione, ed avevano combattuto come belve prima di lasciarsi prendere.
La loro storia ci fece capire che gli spostamenti incalzanti della battaglia stavano riversando sul nostro fronte i paracadutisti che prima avevano affrontato i polacchi. Dunque ci trovavamo di nuovo davanti ai nostri nemici di Cassino e Firenze.
Le nostre speranze di sfondamento sul Sillaro, la nostra illusione di preparare l’ultimo attacco organizzato erano ormai infrante. Sapevamo, infatti, che quei paracadutisti avrebbero resistito e combattuto; come in effetti fecero. Dopo due giorni di avanzata relativamente facile, ci trovammo il 17 aprile davanti ad una massiccia fila di paracadutisti schierati sul fiume Gaiana, ad Ovest di Medicina.
Il loro fuoco da terra, regolare e ben mirato, la loro artiglieria pesante ed i loro micidiali Nebelwerfer ci fecero capire all’istante che dovevamo prepararci a combattere ancora”.
Commenta ancora l’ufficiale neozelandese riguardo a quell’azione:
“Lungo gli argini, nel fiume, nelle trincee, nelle case, in ogni fosso si ammucchiavano i morti. Pochi campi di battaglia videro, in questa guerra, lo spettacolo di una simile carneficina.
Quel giorno il Gaiana ci mostrò i nostri nemici massacrati dal fuoco di sbarramento, o sorpresi dai lancia-fiamme, o mentre si rannicchiavano nei loro buchi o trucidati in mille altri modi. Raramente sul fronte occidentale in questa guerra si vide una simile concentrazione di caduti.
Furono uccisi uomini a migliaia, a decine di migliaia, ma caddero su campi sterminati, di cui il singolo spettatore poteva cogliere solo una visione limitata e parziale, risparmiandosi così l’impressione terrificante della strage. Sul Gaiana, invece, non fu così.
Se mai un giorno si vorrà organizzare una mostra contro la guerra, io raccomando le fotografie del massacro sul Gaiana. […] E noi, che avevamo organizzato la morte di tutti quegli uomini? Quali erano i nostri sentimenti, lì, al sole? Penso che la mia reazione fosse analoga a quella di molti altri.
Fu un senso di paura misto a rispettoso timore di fronte a questa manifestazione della morte che avrebbe potuto abbattersi su chiunque. Erano stati colpiti loro, ma se il fato l’avesse voluto saremmo stati colpiti noi. E quei ragazzi, pur essendo individualmente morti, non riuscivamo a concepirli come individui.
I loro corpi altro non erano che una parte di un ente generalizzato, il “nemico”, che si deve colpire prima che abbia tempo di colpirci. Erano oggetti da rimuovere dal nostro passaggio, non esseri umani che avevano conosciuto speranze e timori, che erano vissuti ed avevano desiderato vivere ancora.
Con tutta onestà, devo riconoscere che in quel momento mi accorsi di provare ben poca compassione; piuttosto disgusto di fronte a quella devastazione”.
I “Kiwis” scaricarono su di loro 100.000 granate, li investirono con i lanciafiamme, quindi li attaccarono con la fanteria d’assalto. La mattina seguente gli argini, il corso d’acqua, le trincee ed i fossi rigurgitavano di cadaveri orrendamente massacrati:
“I caduti, il fiore della gioventù, l’orgoglio del nazismo, giacevano su quel campo in tutto il loro orrore spettrale, erano la materializzazione della morte improvvisa e brutale. […]
Nelle acque fetide di quello squallido canale vedevo fluttuare i capelli biondi e lisci di quei ragazzi: mi apparivano come il simbolo di una generazione che in un paese, ed in tutta Europa, stava distruggendo la propria esistenza. […]
Erano la devastazione assoluta: marci e pericolosi quando erano vivi, marci più che mai ora, dopo morti, suprema ricompensa per Hitler e le forze che lo avevano partorito”.
Erano questi uomini, i peggiori avversari che gli Alleati si trovarono ad affrontare in Italia, i soldati che avrebbero tentato di passare il Po con più determinazione e che ben presto si sarebbero riversati per le strade del Veneto, diretti verso le Alpi.
La 10ª e l’85ª entrano a Verona
Nonostante il disastro provocato dagli ordini di Hitler a von Vietinghoff di resistere ad oltranza, dai vertici della Wehrmacht continuano ad arrivare disposizioni insensate. Questo il commento del generale Warlimont, membro del Comando Supremo della Wehrmacht, sulla situazione creatasi nel corso della ritirata verso nord:
“L’intero Gruppo di Armate, che ormai non aveva più carburante ed era praticamente immobilizzato, si disintegrò. L’OKW emanò ordini per una ritirata verso le pendici meridionali delle Alpi, ma ormai era troppo tardi.
Il Comando supremo si era diviso, e il 26 aprile diramava appelli invocanti “una fanatica determinazione al combattimento” e “una resistenza fanatica”, ma ormai non c’era più nessuno ad ascoltarli. Anche le esortazioni a concentrarsi sul bastione della “Ridotta alpina” non avevano ormai più legame alcuno con la realtà”.
I sentimenti del soldato tedesco a riguardo sono ben rappresentati dalle parole del berlinese Kurt Baden, caporale nel 2° Battaglione granatieri, 9° Reggimento, della 26ª Divisione corazzata:
“Sebbene ad un’analisi obiettiva della situazione militare generale e delle condizioni sul fronte italiano non sia possibile trarre alcun vantaggio né da un’ulteriore difesa contro agli angloamericani né da una ritirata, tutti i comandanti continuano a dirigere verso nord i resti dei loro reparti, nonostante la resa incondizionata sia ormai cosa fatta.
Nessuno riesce a decidersi, nessuno riesce a compiere quel gesto drastico che permetterebbe di porre fine al continuo logoramento delle masse che fluiscono continuamente verso il Brennero. Solo Dio sa se ciò dipenda dalla scarsa informazione dei responsabili, o dalla loro incapacità di agire autonomamente dopo che la loro libertà di scelta è stata così a lungo soffocata dal comando superiore, o se invece continuano a credere nella possibilità di proseguire la guerra in Italia; ad ogni modo qui non si muove niente.
E intanto i fanti vengono continuamente soppressi da bande partigiane”. Dalle parole del giovane caporale emerge chiaramente quanto i combattimenti dei giorni precedenti e la ritirata abbiano logorato la truppa. “Secondo il nostro comandante una capitolazione del 9° Reggimento granatieri corazzati è fuori da ogni questione.
A tal proposito tuttavia si deve considerare che per un soldato scelto che si trovi in un reparto di una compagnia leggera che ha subito continuamente pesanti perdite, carico di MG e relative munizioni, che ha marciato combattendo dal Senio fin oltre il Po, spesso senza dormire, spesso senza sufficienti rifornimenti, stremato fisicamente e psicologicamente, non basta una vecchia e gloriosa tradizione militare a far sì che alla fine non collassi”.
Mentre i tedeschi si ritirano disperatamente, gli Alleati hanno ormai raggiunto l’Adige: il 13° Corpo dell’8ª Armata britannica supera il fiume ad ovest di Badia Polesine, il 4° e il 2° Corpo della 5ª Armata americana lo oltrepassano nella zona di Legnago e Verona.
Le avanguardie corazzate del 351° Reggimento dell’88ª Divisione fanteria sono già penetrate nella città scaligera la sera precedente: a quel punto il 350° Reggimento svolta verso est sull’asse Verona-Vicenza.
A muoversi per primo è il 1° Battaglione che, dopo aver sostato a Raldon, varca il fiume Adige in direzione di S. Martino Buon Albergo utilizzando come trasporto un vecchio barcone. Lo seguono il 2° Battaglione, che da Nogara procede fino alla zona di Musella, ed il 3°, che ingaggia uno scontro a fuoco coi tedeschi oltre S. Martino.
L’avanzata della fanteria è agevolata dal contributo delle formazioni partigiane, gradito agli americani che non dispongono ancora di gran parte delle loro forze corazzate, rimaste dietro l’Adige.
Per muoversi il 2° Battaglione, fatto insolito nella condotta di guerra americana basata fortemente sul trasporto meccanizzato, cerca di arrangiarsi utilizzando un gran numero di biciclette requisite, poi abbandonate nei pressi di S. Martino per ordine superiore.
Quando il colonnello Fry, assistente del comandante dell’88ª Divisione, raggiunge la fanteria in movimento, lancia un messaggio d’incitamento al maggiore Woodbury, comandante del 752° Battaglione carri: “Fai attraversare i carri, se puoi, e dopo spingiti verso est lungo la Strada nazionale 11 finché non ci prendi”.
Verona viene raggiunta nel primo mattino anche dall’85ª Divisione fanteria e dalla 10ª Divisione da montagna. L’85ª, che nelle ore precedenti è transitata per diversi paesi del Mantovano e Veronese (Nosedele, Gazzo, Castel D’Ario, Castelbelforte, Erbè, Trevenzuolo, Fagnano, Vigasio), punta infine sul capoluogo scaligero con il compito di attraversarlo e rendere sicura la zona a nord dell’abitato.
Il 1° Battaglione del 339° Reggimento fanteria penetra nei sobborghi della città alle 8.15 dopo aver tagliato due strade importanti, la n° 62 e la n° 11, che portano a Verona da sudest e da ovest. I “Custermen” riescono a passare sopra il ponte ferroviario sull’Adige, pesantemente danneggiato dall’aviazione alleata, attraversandolo a piedi sulle traversine incurvate ma non ancora crollate.
La ricerca di qualche altro ponte sull’Adige dà un parziale risultato a Settimo, nelle vicinanze di Pescantina, dove viene rinvenuto un piccolo traghetto, grande abbastanza per sostenere una Jeep, che viene portato lungo il fiume dalla forza della corrente con il controllo di un cavo: assieme a qualche barca italiana e ai pochi mezzi d’assalto disponibili consente al Reggimento di passare l’Adige senza troppo ritardo sulla tabella di marcia.
Nel pomeriggio anche elementi del 338° e 337° Reggimento (2° Battaglione) fanno il loro ingresso in città, posizionandosi con il 339° lungo un arco di difesa che va dalla periferia ovest a quella di nordest. Anche alcuni elementi della 1ª Divisione corazzata e della 91ª Divisione fanteria transitano per la città in quelle ore.
Nel corso della notte le truppe si spostarono verso le colline e le fortificazioni della Linea Veneta abbandonate dai tedeschi a nord dell’Adige. Nei giorni seguenti pattuglie e piccole Task Force furono inviate a perlustrare l’area, trovandosi ben presto a camminare su montagne innevate.
Gli uomini dell’85ª incontrarono raramente forze nemiche durante queste puntate: in compenso si imbattevano di frequente nei partigiani, definiti dei “duri”, che continuavano a portare loro gruppi di tedeschi prigionieri e che consegnarono agli americani un’intera stazione radio catturata sul monte Castelberto.
Nelle mani dei “Custermen” caddero inoltre centinaia di lavoratori militarizzati: cechi, jugoslavi, turchi, polacchi, russi, austriaci e italiani che nei mesi precedenti erano stati impegnati nel fortificare le montagne a nord della città.
Praticamente nello stesso momento dell’azione dell’85ª, alle 8.20 del mattino, entra a Verona il 2° Battaglione dell’86° Reggimento da montagna, rastrellando con decisione alcuni quartieri cittadini.
Anche i “Mountaineers” si trovano di fronte ad una città dove ampie zone mostrano i segni dei bombardamenti: colpiscono gli americani le scritte che si vedono sui muri di alcuni edifici distrutti, “Opera dei liberatori”.
Rapidamente i genieri individuano il ponte meno danneggiato fra quelli sull’Adige e si mettono al lavoro per ripristinarlo, mentre alle finestre vengono issate decine di bandiere italiane e i partigiani prendono prigionieri fascisti e tedeschi sbandati, che portano agli americani:
“Un gruppo condusse alla Compagnia K un uomo vestito con abiti italiani sospettato di essere tedesco. Il sergente Edward Melvin disse “Alzati!” in tedesco. L’uomo obbedì, e fu portato immediatamente all’accantonamento per i prigionieri di guerra”.
Nelle stesse ore al 1° Battaglione dell’86° Reggimento viene affidata la missione di passare l’Adige con i carri, i cacciacarri e l’artiglieria, installare una testa di ponte sulla sponda opposta e prendere Bussolengo.
Il passaggio del fiume inizia alle 11, sotto il comando del maggiore Green: una volta ricomposta la colonna corazzata si lancia verso l’obiettivo, dove vengono catturati diversi prigionieri. Quando il Battaglione si accampa, per la prima volta dopo settimane non vengono scavate delle buche difensive.
Il 3° Battaglione dell’86° Reggimento è stato ancora più rapido dei colleghi del 1° e 2°: lanciato sulla direttrice di Verona in una rapida corsa durata tutta la notte, ne ha raggiunto la periferia alle 6 del mattino. Racconta David Brower:
“A quell’ora diversi ponti di Verona furono fatti saltare dai tedeschi in fuga, in un’esplosione così tremenda che si potevano vedere le onde d’urto che si allargavano in cerchi concentrici e si espandevano velocemente sulle nuvole, dopodichè una colonna di polvere e fumo a forma di fungo comparve nel cielo. Quando raggiungemmo lo scalo di smistamento della ferrovia ci si presentò una visione macabra.
All’incrocio principale un certo numero di autocarri nemici erano sparsi in disordine. Un autocarro, carico di munizioni ed esplosivi, stava bruciando incontrollatamente con una bellissima “esibizione” di razzi segnaletici e fumi colorati. Sulla strada vicino agli autocarri c’erano dei corpi; alcuni erano smembrati malamente, altri erano carbonizzati e immobili, e pochi si stavano ancora lamentando e contorcendo.
Un ufficiale tedesco, accecato dal sangue, era disteso sulle macerie con le mani su una ferita pulsante sul suo torace. Dei tetri tedeschi del soccorso – perlomeno indossavano la croce rossa – non l’avrebbero toccato se non gli fosse stato ordinato dal capitano Meincke, il medico del Battaglione, che quando arrivò sulla scena proruppe in un’efficace invettiva in tedesco.
Evidentemente gli sfortunati crucchi erano rimasti intrappolati in città quando i loro genieri avevano demolito i ponti sul fiume Adige, ed ebbero quindi la sventura di essere sorpresi da alcuni cacciacarri dell’88ª Divisione, che si era fermata alla periferia della città. Sulla parte opposta della strada i nostri veicoli furono fermati ad un sottopassaggio bloccato e fummo obbligati a deviare attraverso i campi, che le bombe avevano trasformato in una distesa di veicoli accartocciati e binari attorcigliati.
Frattanto gli elementi appiedati della Compagnia L erano entrati nella città e avevano fatto un inventario dei ponti (un ponte traballante fu escluso). Presto l’intero Battaglione era all’interno delle mura cittadine, dove stava cacciando i pochi crucchi rimasti. Alcuni erano camuffati da civili, ma i partigiani armati vigilavano”.
Brower e compagni fanno diretta conoscenza dell’entusiasmo della popolazione:
“Gli italiani, nelle vie e nelle piazze millenarie, ci accolsero con un entusiasmo quasi imbarazzante. Ad ogni stop momentaneo i veicoli venivano sommersi da civili che ridevano, piangevano e cantavano.
Le strade erano ricoperte di fiori e sui palazzi erano appese bandiere colorate; le terrazze quasi cedevano sotto il peso delle persone. Una signora anziana, piangendo con gioia, stava cantando “America” rivolta verso una Jeep carica di uomini; non conosceva altro in inglese. Le campane delle chiese suonavano incessantemente.
I muri dei palazzi furono coperti da scritte come “Liberate” , e “Vive Americani” [testuale]. Ovunque si potevano vedere i danni dovuti alle esplosioni. Le finestre erano rotte e gli edifici lungo il fiume erano crollati per gli spostamenti d’aria. Le strade entro mezzo miglio dal fiume erano ricoperte dalla polvere dei ponti distrutti.
Il momento più emozionante della giornata arrivò quando il sindaco di Verona uscì sul balcone del municipio per proclamare che la guerra era finita. Era così, pensavamo. Tutti impazzirono, compresi i soldati. Le armi sparavano in aria e la gente ballava per le strade, bevendo vino o qualsiasi cosa fosse disponibile. Il festeggiamento dei GI cessò presto quando si scoprì che il sindaco si stava riferendo solo alla guerra di Verona.
Comunque, non ci sentimmo demoralizzati. Verona era una bella città, piena di vino e di ragazze amichevoli, alcune delle quali erano ben vestite e abbastanza pulite, al contrario delle ragazze contadine del lontano sud. C’erano poche truppe che non si erano organizzate per dormire in case private” .
I soldati del 3° Battaglione da montagna non ebbero però il tempo di godersi le piacevolezze cittadine:
“Sentimmo che l’88ª Divisione, del 2° Corpo d’Armata, aveva preso Verona, ma a causa di una confusione nelle linee di confine delle avanzate sulle mappe dei Quartier generali dei Corpi, ci era stato affidato il lavoro. Comunque l’errore era stato trovato e poteva essere corretto.
Loro erano dispiaciuti. Noi fummo fatti sloggiare e l’88ª fu fatta entrare. Assieme agli alloggi – e al bottino, diciamo, di guerra – si presero gli onori per la liberazione della città.
Alle 18 caricammo i nostri equipaggiamenti, lasciammo la città sui nostri veicoli e arrivammo in un’area bivacco nei campi appena fuori Bussolengo, a poche miglia da Verona, dove a mezzanotte finalmente ci coricammo sotto il cielo aperto. Pioveva”.
Nel frattempo da Villafranca, dove ancora non sono cessate le esplosioni dei depositi di munizioni fatti saltare dai tedeschi, si mette in moto il 2° Plotone della Compagnia C, 1° Battaglione, 85° Reggimento da montagna: il reparto, autocarrato, deve andare in missione verso nord per controllare l’ennesimo ponte sull’Adige, a nord-ovest di Verona.
Il sergente Kenyon Cooke, entrato in città al mattino presto per procurarsi del pane dopo la presa dell’aeroporto il giorno prima, assiste alla partenza dei compagni, festeggiati calorosamente dagli abitanti di Villafranca.
“Chiedemmo ad una donna sull’uscio di una casa dove potevamo trovare del pane. Si tuffò dentro e uscì con una mezza dozzina di pezzi di pane per noi. Di lì a poco altre donne lungo la strada ci notarono e arrivarono correndo con altro pane. Volevano tutte che ne prendessimo. Furono molto sorprese quando demmo in cambio sigarette e dolci.
Il marito della prima signora ci invitò dentro a mangiare qualcosa. Quindi facemmo una colazione deliziosa con vino, salame e pane. Più tardi visitammo la chiesa e controllammo un piccolo deposito di munizioni.
Quando ritornammo ci dissero che la città era off limit. Il resto del giorno lo passammo riposando in giro e parlando. […] Prima del giorno in cui prendemmo Villafranca avevamo potuto dormire solo 12 ore in 4 giorni, per cui il riposo fu molto ben accetto”
Più tardi ha modo di sapere che la sortita non ha avuto successo:
“Nel pomeriggio arrivarono i rapporti del 2° Plotone. I crucchi gli avevano fatto saltare in faccia il ponte, ma i ragazzi avevano falciato una colonna in ritirata e presi prigionieri tutti quelli che potevano. Purtroppo un Panzerfaust tedesco aveva ucciso il soldato scelto Francis Kellogg e ferito il sergente Kristen Jacobsen e i soldati scelti John Dann e Robert Wilson. Kellogg era sposato, ma non credo avesse dei figli. Sembrò così inutile che morisse quando la fine era così vicina”.
Lo stato d’animo degli americani, a quel punto della campagna, è ben rappresentato dalle parole conclusive di quella giornata: “Quella notte pioveva. Bruce ci venne a trovare, Eric Willson si ubriacò con il Kümmel e tutti ci sentivamo bene, tranne quando guardavamo alle Alpi innevate non così distanti verso nord. Ora la domanda ricorrente era: “Perchè quei bastardi non si arrendono?””.
Le acque del Brenta
Anche una parte del 1° Fallschirmkorps, nelle primissime ore del 29 aprile, sta attraversando il nord-ovest della provincia di Padova, divenuto un crocevia di tedeschi, americani e partigiani: si tratta soprattutto di gruppi del 4° Reggimento della 1ª Divisione.
Il 1° Battaglione, comandato dal maggiore Gerhard Pade, oltrepassa la rotabile che unisce Vicenza e Padova e si ferma circa 4 km prima di Villafranca Padovana, in cerca di un passaggio dove attraversare il fiume Brenta.
Gli esploratori rilevano che il ponte di Curtarolo è fortemente presidiato da partigiani, i quali hanno in appoggio anche armamento pesante, e che tutti i militari tedeschi in transito vengono bloccati e disarmati sull’argine occidentale.
I paracadutisti si allontanano e cercano un varco più a sud, trovandolo a Limena. Il fiume viene attraversato alle 6 del mattino grazie anche a due “banditen” che sono stati presi in ostaggio e messi in testa alla colonna, quindi la marcia prosegue fino a S. Giorgio in Bosco, dove viene effettuata una sosta.
La strada da Cittadella a Padova è percorsa da forti contingenti di truppe e mezzi corazzati nemici: verso sera il 1° Battaglione, appreso che anche “Cittadella pullula di partigiani”, riprende la marcia in direzione di Resana, nel Trevigiano.
Così recita la Cronaca della 3ª Compagnia del 4° Reggimento sull’attraversamento di una sconosciuta località della zona durante le ore notturne: “Rumore di combattimenti, ingorghi creati dai veicoli e soldati che ritornano indietro lasciano intendere che il paese è occupato dai partigiani. Il 1° Battaglione si prepara all’avanzata”.
Un cannoncino antiaereo quadrinato mette sotto tiro un campanile distante circa 400 metri nel quale si sono stabiliti i partigiani. Una campana colpita da un proiettile si lamenta spettralmente nella notte. Il “Kamfgruppe Pade” monta sui veicoli e marcia equipaggiato e pronto al combattimento, con le armi pronte a fare fuoco, attraverso il paese.
Ancora una volta si tratta di un modello esemplare di come procedere che si ripeté innumerevoli volte in quei giorni: un’azione determinata e impavida sotto una guida severa ed un agire comune permettono che possa aver successo la marcia attraverso quei luoghi, cosa che sarebbe invece una fine sicura per il singolo soldato o per i manipoli privi di guida”.
Nel frattempo i resti del 2° Battaglione del 4° Reggimento, che hanno aggirato Vicenza passando ad est, raggiungono il Brenta nei pressi di Cittadella; le compagnie sono state fuse assieme sotto il comando del sottotenente Vitali.
Il punto di attraversamento del fiume è occupato da ingenti forze nemiche: veicoli in fiamme o distrutti da colpi di arma da fuoco chiudono la strada della ritirata, mentre una violenta sparatoria proviene dalla sponda orientale.
Constatato che non è possibile riuscire a passare senza l’appoggio di armi pesanti, il “Kampfgruppe Vitali” ripiega lungo il Brenta verso nord in direzione di Bassano: anch’essa però è nelle mani dei partigiani, tanto che si è formata una colonna di riflusso in uscita dalla città.
Si tenta allora di aggirare il blocco conquistando l’altra sponda: un cannone antiaereo quadrinato su un affusto semovente, caduto in mani nemiche, viene messo a tacere, mentre i partigiani ripiegano coperti dal fuoco delle proprie mitragliatrici.
Il colpo di mano fa sì che al Kampfgruppe si unisca un notevole numero di soldati sbandati. Dopo aver guadato il Brenta i Fallschirmjäger devono affrontare nei sobborghi di Bassano scontri casa per casa contro tiratori partigiani appostati alle finestre e sui tetti.
A nord della città il Kampfgruppe può fare una pausa: gli uomini, esausti, riposano dopo aver messo in sicurezza i fianchi. Altri attacchi partigiani vengono respinti .
Racconta il maresciallo Simon, della 13ª Compagnia del 4° Reggimento paracadutisti:
“Si procedette verso Legnago e Vicenza. A Cittadella ci fu intimata la resa da parte dei partigiani che avevano occupato la cittadina. Poiché questi signori erano piuttosto vigliacchi, riuscimmo a cavarci d’impiccio sani e salvi.
Poi presso Bassano attraversammo il Brenta con l’acqua che ci raggiungeva il torace e procedemmo verso Primolano, a bordo soprattutto di piccole carrozze mentre i mezzi corazzati americani sull’altra sponda del fiume tentavano di colpirci”.
Nella stessa zona transitano grossi nuclei della 26ª Divisione corazzata, che ha per obiettivo Montebelluna e Feltre. Frazioni disperse del 9° Reggimento granatieri corazzati proseguono lungo diverse direttrici a sud-ovest di Cittadella.
Il comandante, il tenente colonnello von Hohenhausen, si trova a condurre i resti del 1° Battaglione e della Compagnia di Stato maggiore, ma ha perso ogni collegamento col Comando tattico della Divisione, dal quale giunge in quelle ore l’ordine del generale von Graffen di spostarsi nella zona a nord di Trento per bloccare l’avanzata delle forze corazzate nemiche spintesi nell’area del Comando della 14ª Armata.
Von Graffen non sa che il Comando della 10ª Armata ha ordinato l’impiego della 26ª Divisione per rendere sicuro il passaggio ai valichi del Bellunese: il fraintendimento complica ulteriormente la caotica marcia verso nord della Divisione, che prosegue dunque su due direttrici principali. Scrive il caporale Kurt Baden del 2° Battaglione:
“I più fortunati viaggiano su qualche veicolo, fino a quando la benzina non è esaurita. E quindi si prosegue a piedi o con una bicicletta sgraffignata a qualcuno. Si marcia a migliaia giorno e notte sulle strade sovraffollate.
Ognuno cerca di restare unito ad un gruppo consistente, perché da soli si è per lo più spacciati. Quasi tutti hanno fame, dal momento che solo di rado si trova qualcosa di commestibile, anche perché il ritmo di marcia è frenetico e le veloci unità nemiche ci stanno continuamente alle calcagna”.
Baden ha ripreso per l’ennesima volta la ritirata all’una del mattino.
“Heinz Härtel viaggia di nuovo in testa. Kurt Gerhard ha riempito velocemente la sua borraccia di vino rosso. Siede alla mia destra sulla panca del barroccio. Trangugiamo entrambi un altro discreto sorso dalla bottiglia e poi gli cedo le briglie e il frustino. Viaggiamo al centro del convoglio.
Alla nostra sinistra vedo Preuß e Alt che sgambettano sulle biciclette che hanno sgraffignato; poi mi addormento. Dal momento che dormo non mi accorgo che questo viaggio notturno si svolge per ore su strade solitarie.
A parte la nostra colonna, non c’è nessun altro per strada in questo tratto. Attraversiamo paesi che sembrano disabitati. Non si muovono né automobili né camion, tutti evitano di passare di notte attraverso zone infestate dai partigiani. In lontananza si vede il contorno delle montagne che si innalzano verso il cielo.
Ogni tanto si vede nelle immediate vicinanze qualche raggio di luce. Tutto è avvolto in una quiete quasi spettrale. Nei fossati lungo le strade giacciono camioncini bruciati e ai bordi delle strade vi sono veicoli abbandonati dai conducenti. Non dobbiamo ormai essere ancora molto lontani dal Brenta quando la colonna si ferma improvvisamente.
A circa 150 metri da noi un veicolo è in fiamme. Il comandante del nostro convoglio e i portaordini Weber e Männel vanno avanti per vedere se la strada è libera”.
Baden si addormenta ben presto sul carro dove ha trovato posto, che finisce dritto in un’imboscata nei pressi di Gazzo:
“Mi sveglio solamente con il fuoco delle mitragliatrici e le urla dei feriti. Kurt Gerhard mi mostra la sua mano che è stata colpita da un proiettile e poi se la svigna. E io, nato con la camicia, ho avuto una fortuna sfacciata ancora una volta; sebbene gli sedessi davanti, non sono stato colpito. A circa 500 metri da noi si trova un veicolo in fiamme.
Nel bagliore del fuoco vedo che tutti i nostri uomini se la danno a gambe senza preoccuparsi dei feriti. Riconosco la figura del nostro comandante che mi corre davanti, pistola in pugno; l’elmetto gli è scivolato sulla nuca. Scendo dal barroccio – il cavallo non è stato ferito – giro il carro e con la mano aperta batto sul fianco dell’animale che trotta verso la strada.
A 300 metri a sinistra della strada, verso nord, c’è una muraglia. Da là continuano a sparare sulla nostra colonna le due mitragliatrici. I proiettili traccianti mi fischiano nelle orecchie. Alcuni cavalli, che apparentemente sono stati colpiti, giacciono al suolo davanti ai carri abbandonati.
A destra della strada c’è un fossato e dietro una siepe ad altezza d’uomo. Vado in copertura nel fosso; là vi sono già cinque uomini del nostro convoglio. Sull’altro lato della strada, a circa venti metri da noi, i feriti giacciono urlanti su un campo sotto il fuoco delle mitragliatrici. Li chiamo. Sono Preuß e Alt, i nostri due ciclisti.
Chiedo loro dove sono stati colpiti. Preuß grida: “Alla gamba!”. Alla mia domanda: “E Alt ?”, mi giunge una risposta, ma nello stesso momento la mitragliatrice crepita lassù un’altra volta e non riesco a capire esattamente se abbia gridato “anche” o “pancia” [anche = Auch, pancia = Bauch]. Dico che li andrò a prendere.
Sebbene la mitragliatrice continui a sparare, faccio rialzare un cavallo e metto le briglie in mano ad uno degli uomini che giacciono nel fosso con l’ordine di far star fermo il cavallo. Voglio infatti riportare indietro i feriti con il carro. Non gli può accadere nulla, poiché nel profondo fossato è al sicuro dal fuoco delle mitragliatrici. E poi corro fuori.
Mi sento troppo allegro ed euforico per aver paura. E inoltre sono fermamente convinto che il buon Dio stenda la sua mano protettrice sopra di me se sto andando a recuperare un ferito. Intanto acchiappo Preuß che è più vicino.
Dei compagni che erano nel fossato non mi ha seguito nessuno, come in fondo c’era da aspettarsi. Ma che intanto il cavallo se ne sia scappato, perché il tipo che avevo lasciato nel fossato ha abbandonato la briglia quando le mitragliatrici avevano ripreso a sparare e io me ne correvo indietro con Preuß sulla groppa, questo mi fa uscire dai gangheri.
Appoggio il ferito nel fossato e mollo un cazzotto in faccia a quel cane codardo. Quindi impartisco ad Halusa l’ordine di andare a recuperare Paul Alt assieme ad un altro uomo, mi prendo nuovamente Preuß sulle spalle e corro verso il fossato.
Sta soffrendo e ha anche un po’ di paura di beccarsi una delle pallottole che prima l’avevano mancato, visto che ora la mitragliatrice ha ripreso a sparare. Arriviamo comunque sani e salvi fino alla casa più vicina”.
Continua la testimonianza di Kurt Baden:
“Quelli che erano al riparo nel fossato mi sono corsi dietro. In un fienile mi occupo finalmente di Preuß. È ancora buio ma per fortuna qualcuno ha una lampada da tasca a dinamo con sé. Tutto il polpaccio è strappato, l’arteria è stata colpita e tutta la gamba del pantalone è intrisa del sangue traboccante e viscido che si sta coagulando.
Ma Willi, già mentre era steso sul campo, aveva stretto la coscia con la sua cintura. Ho appena finito di fasciarlo quando arriva Horst Halusa dicendo che vuol lasciare Paul Alt là sul campo perché ormai è destinato a morire [Paul Alt non ha fatto ritorno a casa]. “Fesserie”, dico, e mi preparo.
I ragazzetti non sono duri a sufficienza per questo tipo di situazioni. È già successo che un ferito abbia urlato mentre lo si recuperava, ma poi è sopravvissuto”
Il caporale dei granatieri ritorna subito dopo sul luogo dell’agguato assieme ad un compagno: c’è ancora un ferito da recuperare. Lì scopre che l’attacco non è opera di truppe regolari, ma di partigiani:
“Halusa è un ragazzo fantastico, mi segue spontaneamente quando vado a prendere Alt. Su mia indicazione prende in prestito il mitra da un paracadutista sbandato che si è trovato tra di noi. Quindi corriamo, sempre lungo il fossato, fino al punto in cui il nostro convoglio si è trovato sotto il fuoco nemico.
È ancora piuttosto buio, ma al bagliore del camioncino in fiamme vediamo il nostro carro. Alcune figure si muovono tra i veicoli. Non sono soldati. Ora siamo a circa 25 metri di distanza. Voglio sparare col mitra nel mucchio per poi andare a recuperare il ferito.
Penso che Halusa percepirà quando sarà il momento giusto. Poiché non avevo calcolato di entrare in contatto diretto col nemico, sono corso fuori senza caricare il mio mitra. E ora questo mi costa caro. Proprio nel momento in cui voglio tirare indietro la molla del caricatore, ad un metro da me, dietro la siepe, sento il rumore secco del caricatore di un altro mitra.
Se ora carico la mia arma, è garantito che il tipo dietro la siepe mi caccia tutto il caricatore in pancia visto che ad una distanza così ravvicinata non è possibile sbagliare. Eccoci caduti due volte nello stesso tranello. Non mi sono mai trovato nei guai fino al collo come questa volta. Se vogliamo uscirne incolumi dobbiamo fare estrema attenzione.
Halusa è, vicinissimo, dietro di me. Gli faccio un cenno e ce ne torniamo con cautela indietro. Che da dietro la siepe non abbiano iniziato a sparare è veramente un miracolo. Siamo afflitti per non aver potuto recuperare Paul Alt, ma allo stesso tempo dovremmo essere contenti di essere riusciti a toglierci dai guai”.
Ancora il caporale Baden:
“Quando facciamo ritorno al nostro gruppo si sta ormai facendo giorno. Willi Preuß dice che lo dobbiamo lasciare lì e che di sicuro sarebbe arrivato qualcuno che si sarebbe occupato di lui. In nessun modo possiamo portarlo con noi, non reggerebbe, e chissà quando avremmo trovato un posto di medicazione.
Ritroviamo il nostro carro che se n’era andato per conto suo. Poi salta fuori un italiano con una fascia della croce rossa sulla manica della sua giacca da civile. Molto probabilmente è un sanitario dei partigiani. Ma questo non ha più nessuna importanza, ora.
Gli regalo il carretto in cambio della promessa di portare Willi Preuß da un medico [Nel luglio del 1955 ricevetti una lettera da Preuß. L’uomo mantenne la sua parola e lo portò in un posto di medicazione degli americani]. Ci fa la proposta di deporre le armi e di consegnarci prigionieri ai partigiani. Rifiutiamo.
Il posto si chiama Gazzo e si trova ad ovest del Brenta, circa 25 km a sud di Bassano del Grappa. Poi arriva una squadra di paracadutisti. Hanno con sé il mio piccolo ronzino fumante con il barroccino, ma hanno gettato via le mie cose già da un po’ e per questo non mi sforzo neanche tanto per riavere il cavallo e la piccola carrozza. Ci congediamo da Willi Preuß. Gli prometto di avvisare i suoi famigliari. Quindi proseguiamo la nostra marcia verso il Brenta”.
Il giovane caporale riprende il cammino verso il Brenta, raggiunto e attraversato qualche ora dopo in una località non precisata. Durante la marcia Baden si imbatté in alcuni camerati che apparentemente erano sul punto di arrendersi:
“Sono ancora con me Hugo Jürs, Horst Halusa, Paul Klement, Erich Rupp, Albert Köbler, Martin Stein, Oswin Männel, Josef Karger, Konrad Przybilla, Will Hoffmann e Gustav Siel che si sono uniti a me nel corso della mattina.
Questi uomini provengono da diversi gruppi di mortaisti e possiedono solo ciò che avevano con sé al momento dell’attacco. Solo Klement si porta ancora dietro lo zaino con la radio, che comunque fa affondare ben presto in un ruscello.
È nostra intenzione raggiungere quanto prima la nostra Compagnia, se possibile indipendentemente da altre unità. Quando ripassiamo il luogo dell’attacco notturno, i cavalli e i carri sono spariti dalla strada e anche Paul Alt non giace più sul campo.
Incontriamo un gruppo di genieri che a quanto pare sta facendo l’appello delle armi sotto il controllo di un sottotenente anziano. Fucili, pistole e mitra sono ben allineati su un tavolo all’aria aperta. Sono tutti uomini di una certa età. Chiedo al sottotenente se ci può dare un MG, qualche fucile e delle munizioni.
Dapprima risponde di sì, ma poi diventa improvvisamente contrario all’idea. Noi proseguiamo. Per strada Klement mi fa notare che la “squadra dei vecchi signori” aveva con sé una bandiera bianca e che le armi erano state messe in così bell’ordine per cederle ai partigiani, affinché questi potessero far fuori ancor più facilmente i nostri camerati”
“Proseguendo nella marcia vediamo più volte dei fanti tedeschi, impiccati a degli alberi dai partigiani. Quindi arriva il sottotenente Böer con una Croce di Ferro di 1ª Classe nuova di zecca sulla sua giacca.
Per un tratto marciamo assieme agli uomini del 67° Reggimento granatieri [sempre della 26ª Panzerdivision], dai quali veniamo a sapere che la Divisione si raduna a Belluno. Davanti al Brenta si trova un camion del nostro Battaglione sul quale sono stati caricati tre fusti di burro. Halusa è un tipo in gamba e riempie le sue stoviglie di burro.
Il ponte sul Brenta è stato distrutto. La parte centrale della costruzione in metallo è immersa in acqua. Centinaia di fanti raggiungono l’altra sponda del fiume strisciando come formiche sui travi che pendono di traverso. Tutto questo tuttavia è faticoso e fa perdere molto tempo.
E poiché i primi cacciabombardieri già compaiono all’orizzonte, seguiamo l’esempio della maggior parte dei nostri compagni e guadiamo il fiume, che in questo punto è molto largo e così impetuoso che dobbiamo tenerci stretti l’un l’altro per non cadere.
In mezzo al fiume l’acqua ci arriva fin sopra la pancia. Raggiunta l’altra riva del fiume, strizziamo calzini e pantaloni e proseguiamo la marcia con gli uomini della 4ª Divisione paracadutisti” .
Anche un altro gruppo di camerati di Baden, appartenente alla colonna e sbandato dal violento agguato notturno dei partigiani, riuscì a raggiungere l’altra sponda:
“Quando il convoglio fu attaccato di notte e i proiettili traccianti fischiavano sopra e sotto il suo carretto, il caporale Anton Reichhold sente che non sarebbe uscito vivo da quell’incantesimo di fuoco.
I feriti urlano, tutti gli uomini scappano via dai carri, alcuni verso i campi. I cavalli – alcuni feriti in brutto modo – corrono all’impazzata. Albert Köbler, che sedeva a cassetta a fianco a Reichhold, è sparito. Nonostante il fuoco furioso di mitragliatrice, Toni torna indietro al galoppo e, una volta al riparo, aspetta di vedere cosa accade.
Dopo un po’ tornano anche il sergente Krauter e Dönicke con un carretto, e poi, con un barroccino, il caporale Schneider, Leonhard, Bogdanski, Ludewig e l’uomo che abbiamo catturato dai partigiani e al quale erano state restituite le armi per ordine del sottotenente Hoffmann. Infine arrivano con un altro carretto anche Pietsch e Schmandzich.
Reichhold vorrebbe andare a recuperare i feriti perché teme che il suo amico Köbler sia stato colpito. Mentre i mitra continuano a sparare, non trova nessuno disposto ad andare con lui. Qualcuno propone di andare a prendere i feriti con un mezzo corazzato.
Quindi tornano indietro e incontrano le salmerie del 2° Battaglione, dove trovano il sottotenente Hoffmann e il maresciallo capo Schwarz. Non è possibile tuttavia procurarsi un mezzo corazzato per il recupero dei feriti.
Tutti sono sgomenti. Intanto tra di loro si fa strada l’idea che i feriti e quelli che sono rimasti con loro siano già caduti nelle mani dei partigiani. Proseguono quindi verso il Brenta, dapprima con i loro barrocci e poi con un veicolo.
Su una trave del ponte di legno distrutto scivolano attraverso il fiume che scorre profondo sotto di loro e che molti fanti, immersi nell’acqua fino al collo, stanno guadando. Carretti impantanati e cavalli morti sono sparsi nel Brenta, mentre in alto volano in circolo i cacciabombardieri.
Reichhold è contento quando raggiunge l’altra riva. Il gruppo al quale appartengono il sergente Krauter, Reichhold, Dönicke, Leonhard, Bogdanski, Harlak, Pietsch, Schmandzich e Schneider si unisce ai paracadutisti nella marcia verso nord, ma verrà poi frammentato”.
Più tardi Baden aggiunge che il gruppo si trovò circondato dai partigiani e che molti, mentre il tenente Kuhlmann stava trattando la resa, se la svignarono. Alla fine, comunque, diversi furono catturati e alcuni uccisi o feriti.
Tra i feriti del 9° Reggimento granatieri Baden nomina anche il sottotenente Horst-Eckard Bärenwald della 7ª Compagnia, colpito da fuoco partigiano il 1° maggio 1945 all’uscita da Trento: un segno della grande dispersione della 26ª Divisione corazzata.