TRENTINO, DAL 1945 ALLA NUOVA AUTONOMIA – 8

a cura di Cornelio Galas

Ecco all’ultima puntata sul periodo che va dall’immediato dopoguerra al “Pacchetto” dell’autonomia del Trentino Alto Adige. Ancora un sincero grazie a chi ci ha inviato preziosi contributi. Per quanto riguarda il “terrorismo altoatesino” degli anni ’60 (ed anche gli attentati più recenti) rimandiamo i lettori alla serie di articoli dal titolo “Alto Adige, bombe e segreti” che apriamo oggi. Questo perché il materiale relativo a quel periodo di alta tensione è decisamente notevole.

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Ma soprattutto c’è bisogno, crediamo, di un’analisi a 360 gradi, comprensiva di tutti i punti di vista. Anche storiografici. Per non parlare di documenti (desecretati solo da alcuni anni) sul ruolo dei servizi segreti italiani. Infine, in quest’ottava e ultima puntata, abbiamo inserito i link per letture “diverse” dell’autonomia trentina.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, il mondo occidentale, che aveva attraversato una fase di grande sviluppo e di diffuso benessere, sembrò quasi avviarsi verso un periodo di “frana”, come la definisce Hobsbawm, dovuto all’inasprimento della guerra del Vietnam, allo scoppio di altre guerre come quella dei “sei giorni” tra paesi arabi ed Israele (1967), alla cosiddetta “contestazione studentesca” e alla “primavera di Praga” repressa nel sangue (1968).

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Erich Hobsbawm

E ancora: alla protesta operaia dell’autunno caldo (1969), al dopoconcilio e all’inizio della “strategia della tensione” (1969): tutti fenomeni legati al processo di trasformazione sociale e di mutamento culturale che aveva coinvolto soprattutto il mondo a capitalismo avanzato dell’Occidente.

Per alcuni di questi cambiamenti, Trento si trovò in prima linea. La scelta dell’industrializzazione aveva provocato gravi dissesti nell’economia agricola della provincia. Nel febbraio 1964 c’era stata anche una clamorosa protesta di quattro mila contadini per il crollo del prezzo delle patate.

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Scesi dalle valli, erano sfilati per le vie di Trento scagliandosi contro la Regione, accusata di scarsa sensibilità nei confronti dei problemi del mondo agricolo. Ma anche gli operai trentini non potevano dichiararsi soddisfatti. La crisi economica del 1965 e l’inflazione avevano fatto svanire poco per volta il loro sogno di benessere, mentre i sindacati organizzavano le prime massicce mobilitazioni di piazza e lo sciopero generale.

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A Trento furono gli operai della SLOI (una fabbrica a nord della città che produceva il tossico piombo tetraetile) a muoversi per primi, seguiti dai colleghi della Michelin e poi via via dagli operai delle fabbriche di Rovereto.

Ma la società trentina esprimeva inquietudini non solo per le difficoltà economiche. Il Concilio Vaticano II si era concluso da poco tempo e, assieme al fervore del rinnovamento, aveva provocato anche episodi di contestazione all’interno della Chiesa.

Lo stabilimento Sloi di Trento

Lo stabilimento Sloi di Trento

A Trento un gruppo di questi “cattolici del dissenso” aveva dato vita nel 1966 alla rivista “Dopoconcilio”, dove si andava definendo la nuova figura del “laico-cristiano”, impegnato soprattutto ad affrontare e a discutere i problemi concreti della società, in una prospettiva secolarizzata della religione.

Poco per volta sorsero altri gruppi spontanei e comitati di quartiere, animati da giovani cattolici che assumevano posizioni sempre più critiche nei confronti della Chiesa.

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Luigi Gui

Ma l’ambiente più scosso dai fermenti e dalle tensioni di quegli anni fu senza dubbio quello dell’università e della scuola. Le proteste innescate contro la legge 2314 della riforma universitaria proposta dal ministro Luigi Gui (nei loro volantini gli studenti ironicamente scrivevano: “Siamo in un mare di gui!”), ben presto si trasformarono in contestazione verso l’istituzione scolastica nella sua globalità, considerata uno strumento di dominio nelle mani del potere “borghese”.

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A Trento si iniziò nel gennaio 1966 ad occupare la facoltà di Sociologia, chiedendo riforme per quanto riguardava il piano degli studi. Negli anni successivi, altre occupazioni si svolsero in maniera più radicale, fino al gennaio 1968, quando l’università trentina rimase occupata per 67 giorni, coinvolgendo anche qualche scuola superiore della città.

I trentini, dapprima quasi disinteressati al fenomeno, si risentirono bruscamente soltanto quando il 26 marzo uno studente intervenne platealmente nella cattedrale di Trento per interrompere l’omelia quaresimale del padre predicatore (si parlò allora di “controquaresimale”).

Controquaresimale

Controquaresimale

Questo episodio scatenò la reazione dei trentini, che qualche giorno dopo assediarono l’università, obbligando gli studenti a porre fine all’occupazione.

Da allora però la facoltà di Sociologia venne trasformata dagli studenti in “università critica”, nel senso che essa doveva diventare fucina di studio del marxismo in tutte le sue versioni storiche, quasi un laboratorio di pensiero per il cambiamento rivoluzionario della società, svolgendo una “funzione utopica di cervello sociale delle classi subalterne”, come scrivevano con il loro inconfondibile linguaggio gli studenti in un loro documento.

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In altre parole, la contestazione dalle aule di Sociologia passava sulle strade, entrando nelle aule delle scuole superiori o nei capannoni delle aziende industriali e diventando anche lotta armata. Iniziava il periodo più caotico della storia italiana e trentina fino al termine del secolo.

Sembra strano, ma corrisponde alla verità, il fatto che per la questione dell’autonomia regionale quegli anni siano stati invece di grande fervore, pieni di iniziative febbrili, sia sul piano politico che su quello istituzionale.

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Dopo l’approvazione del governo italiano, il Pacchetto venne sottoposto all’attenzione dei rappresentanti sudtirolesi. La Volkspartei il 22 novembre 1969 tenne un Congresso provinciale straordinario a Merano, al termine del quale una maggioranza piuttosto risicata (52,8%) approvò le norme del Pacchetto, anche grazie all’appassionata difesa del leader Magnago, che sudò le proverbiali sette camicie per convincere i suoi ad accettare la proposta del governo italiano. “È vero – ricorderà poi in un’intervista – al Congresso ho chiesto di votare sì. Ma ho anche aggiunto che un sì eterno non esiste”.

Silvius Magnago

Silvius Magnago

Qualche giorno dopo, anche il Parlamento italiano approvò a larga maggioranza le norme del Pacchetto, mentre il 16 dicembre la stessa cosa fece il Parlamento austriaco, sebbene con una maggioranza appena sufficiente.

In maniera sempre più incalzante e tempestiva nel tradurre gli accordi in leggi e decreti, nel gennaio 1970 il governo italiano formò un comitato di nove esperti con il compito di preparare il secondo statuto, in armonia con i princìpi che avevano ispirato il Pacchetto.

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Queste decisioni del governo si inquadravano anche nel fervore per i problemi del decentramento e delle autonomie regionali che allora avevano interessato gli ambienti politici italiani. Si pensi ad esempio al fatto che il 16 maggio 1970 era stata approvata una legge sul finanziamento delle regioni e che il successivo 7 giugno si sarebbero tenute le prime elezioni regionali nella storia della Repubblica italiana, ottemperando così al dettato dell’art. 5 della Costituzione.

Nel luglio e agosto 1971 il Parlamento italiano approvò a grande maggioranza la legge che modificava il vecchio statuto di autonomia del 1948. Dallo schieramento favorevole si astennero solo i liberali, mentre i missini votarono contro.

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Finalmente, con decreto del Presidente della Repubblica in data 31 agosto 1972, venne promulgato il nuovo statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol, composto di 115 articoli.

L’aspetto più significativo e nuovo era il fatto che l’autonomia regionale veniva ufficialmente divisa in due autonomie provinciali, nel senso che la maggior parte delle competenze passava dalla Regione alle due Province autonome di Trento e di Bolzano, pur rimanendo alla Regione funzioni e compiti di raccordo tra le due Province.

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Per la Regione autonoma, ma ancora di più per le due Province di Trento e di Bolzano, si apriva in questo modo un periodo nuovo che schematicamente si può riassumere ricordando i passaggi più importanti.

La definizione delle norme di attuazione dello statuto richiese un lungo lavoro da parte di due commissioni (dei sei e dei dodici), che si concluse solo nel 1992, quando il Parlamento italiano, il 30 gennaio, approvò l’ultima norma prevista dallo statuto.

Qualche mese dopo, il 22 aprile, il governo italiano consegnò all’ambasciatore austriaco a Roma una nota diplomatica in cui si trasmetteva il resoconto della seduta della Camera dei deputati del 30 gennaio sulla chiusura della vertenza sudtirolese.

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Superate le diffidenze della controparte, che chiedeva anche un “ancoraggio internazionale”, finalmente il 19 giugno l’Austria rilasciò la “quietanza liberatoria” sulla questione del Sudtirolo e i due governi di Vienna e di Roma notificarono al Segretario generale dell’ONU la chiusura della controversia.

Il 27 gennaio 1993 il Presidente della Repubblica italiana, Oscar Luigi Scalfaro, si recò a Vienna in visita ufficiale. Era la prima volta in questo secolo che ciò avveniva e quel gesto, almeno sul piano diplomatico e storico, significava la fine di un lungo periodo di “inimicizia ereditaria” e l’inizio di una collaborazione tra i due Paesi, con ricadute positive per la provincia di Bolzano.

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Oscar Luigi Scalfaro

Per quanto riguarda, invece, la provincia di Trento, l’importante riforma istituzionale del 1971-72 ebbe riflessi non del tutto positivi sotto il profilo politico, poiché il Trentino si trovò nella situazione piuttosto scomoda di dover, per così dire, “giustificare” la propria situazione di provincia dotata di autonomia speciale, come se ciò costituisse un privilegio.

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D’altra parte nel decennio successivo la società trentina, a differenza di quella sudtirolese, si andò sempre più uniformando ai mutamenti di costume e di mentalità che avevano interessato tutta la società italiana e anche quella occidentale a largo raggio, per cui le radici della propria identità culturale e storica sono andate a poco a poco perdendo di vigore, malgrado gli sforzi da varie parti attuati per far conoscere alle generazioni più giovani la storia, le tradizioni, la cultura e tutti gli altri valori di una comunità un tempo caratterizzata da un forte senso di appartenenza.

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Certamente tutto ciò è comprensibile in una fase storica di mercato globale e di intensi scambi multietnici. Eppure, se rimane ancora qualche possibilità di evitare gli aspetti più degradanti del processo di omologazione culturale e di massificazione, questa forse può essere offerta anche da una riappropriazione cosciente e appassionata della storia della propria “piccola patria”, rifuggendo tuttavia da ogni forma di chiusura nei particolarismi e nel localismo.

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