a cura di Cornelio Galas
“L’attacco politico condotto dalle forze moderate e dalla DC nei confronti dei partiti di sinistra e della Resistenza, almeno in Trentino, ebbe inizio ben prima che si giungesse alla rottura del patto d’unità d’azione tra i partiti antifascisti e quando ancora l’esperienza dei CLN non si era conclusa. Si potrebbe dire, anzi, che l’offensiva diffamatoria contro esponenti e militanti del movimento resistenziale precedette addirittura l’azione giudiziaria intrapresa dalla magistratura”.
E’ quanto scrive Lorenzo Gardumi nel suo saggio storico sull’immediato dopoguerra in Trentino Alto Adige. Ma vediamo quali sono i fatti, i documenti che supportano queste argomentazioni.
Nell’agosto 1945, ci fu chi rese pubbliche le sue preoccupazioni per l’avvio di un’esplicita «campagna di denigrazione contro i partigiani». Lo strumento preferito dalla stampa avversaria – facilmente identificabile in quella democristiana – fu quello d’individuare negli ex patrioti gli autori principali degli episodi di criminalità e banditismo dilaganti in provincia.
Molti non nascondevano la necessità di analizzare i motivi che avevano permesso di gettare «fango e rendere inviso il movimento partigiano all’opinione pubblica». C’era chi riconosceva che, soprattutto nelle giornate insurrezionali, «molti individui di losca provenienza» erano riusciti ad infiltrarsi nelle fila partigiane. Ma si negava, d’altra parte, che il movimento ed i suoi membri fossero stati in qualche modo responsabili o complici di attività criminali dirette «a rapinare i passanti ed a razziare automobili».
Per spuntare l’arma alla stampa «reazionaria e scandalistica», si sollecitava un’analisi più accurata di «tutti i certificati partigiani» affinché si giungesse a «moralizzare ogni partigiano», denunciando e colpendo «coloro che erano indegni di questo nome». In qualche caso, le accuse rivolte a partigiani e movimento di resistenza non furono affatto generiche.
Nel settembre 1948, a pochi mesi di distanza dalle elezioni politiche del 18 aprile, Il Popolo trentino diretto da Flaminio Piccoli, con l’articolo «Autori di efferati delitti identificati dall’Arma … quattro trentini fra i colpevoli», accusò Lamberto Ravagni di aver partecipato ad un omicidio avvenuto a Bussolengo il 28 dicembre 1945 e ad una tentata rapina nel febbraio 1948.
Già partigiano della Brigata Pasubiana, nel dopoguerra, Ravagni era diventato uno degli esponenti di spicco del PCI in Trentino. Purtroppo, gli attacchi alla Resistenza non risparmiarono nessuno, nemmeno i morti. Renato Bandinelli, nell’agosto 1945, fu costretto a difendere pubblicamente la memoria del comandante Germano Baron (Turco) accusato d’essere tra gli autori materiali dell’eccidio di Schio avvenuto nel luglio precedente.
Ancora nel febbraio 1947, l’ANPI trentino protestava per le insinuazioni fatte nei riguardi di Carlo Zanini, «calunnie tendenti a denigrare […] tutto il movimento partigiano». Considerate le condizioni sociali in cui si trovava la provincia all’indomani della liberazione, si deve presumere che la strategia denigratoria adottata sia sulla carta stampata sia attraverso vociferazioni e pettegolezzi cittadini fosse del tutto «strumentale» agli obbiettivi che i partiti moderati e gli apparati repressivi dello Stato si proposero a partire dal 1946.
Prima di giudicare penalmente i partigiani, era necessario criminalizzarli e infangarne i meriti acquisiti durante la guerra di liberazione anche in una provincia che aveva visto un movimento partigiano piuttosto debole e dove il peso elettorale del PCI nel dopoguerra si sarebbe rivelato tutt’altro che una minaccia per la DC.
Alcuni elementi che avevano partecipato alla Resistenza si erano resi effettivamente responsabili nell’immediato periodo postbellico di reati comuni. Tali «devianze», tuttavia, andavano ricondotte ad una situazione critica e difficile globalmente, un contesto in cui qualsiasi individuo in possesso di un’arma – già partigiano, disertore, reduce, prigioniero di guerra, ecc. – era potenzialmente in grado di compiere un crimine.
Quest’azione diffamatoria che cercava di mettere alla berlina i partiti di sinistra e i loro caduti fu presto affiancata dall’opera delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria.
Nel febbraio 1948, un nucleo di carabinieri si presentò alla sede dell’ANPI di Arco perquisendo i locali, «i canali della fognatura» e scavando nel cortile e nell’orto adiacenti. Scopo dell’operazione era «il recupero di armi che per sicura e precisa notizia» i membri dell’associazione avrebbero nascosto clandestinamente.
Probabilmente informati da una soffiata poi non confermata, i militi dell’Arma erano intervenuti comunque. L’eventuale ritrovamento di un deposito di armi e munizioni avrebbe rappresentato un’opportunità per screditare ulteriormente il movimento. Gli episodi accaduti in Trentino erano comunque riconducibili al più ampio panorama politico nazionale.
La repressione partigiana ebbe inizio nel 1946 e raggiunse il suo apice tra le elezioni dell’aprile 1948 e il 1954. Attraverso l’azione della magistratura, i partigiani furono chiamati a rispondere delle azioni commesse non solo nel dopoguerra, ma anche al momento della guerra civile.
Sull’onda della «criminalizzazione» in atto sulla stampa a danno della Resistenza e dei suoi protagonisti, gli organi giudiziari operarono stravolgendo totalmente la realtà dei fatti e giudicando gli ex partigiani non per reati politici compiuti in un contesto bellico e di guerra civile, ma considerandoli atti di delinquenza comune.
Il rapimento di un fascista fu considerato sequestro di persona, le requisizioni di generi alimentari e quant’altro, furti e rapine a mano armata, le esecuzioni di spie e collaborazionisti, semplici omicidi, e via di questo passo.
In tal modo, «la persecuzione antipartigiana» si fondò «su un uso distorto e strumentale della macchina giudiziaria» che condusse all’elaborazione di «ipotesi di reato fingendo di ignorare le cause reali di molte esecuzioni, estrapolandole dal loro contesto storico».
Per di più, mentre per i reati di collaborazionismo furono «predisposti una legislazione speciale e specifici organi giudiziari», (le CAS), nei confronti dei partigiani non si adottò alcun strumento legislativo particolare che legittimasse le azioni compiute durante la guerra civile e alla sua conclusione.
I partigiani furono così giudicati in base al codice penale fascista del 1930 (codice Rocco) e da magistrati propensi a punirli per forma mentis. Consapevole di questo stato di cose, Togliatti comprese nell’amnistia del giugno 1946 anche gli «illeciti» perpetrati dai partigiani.
Nella logica di una rivoluzione vittoriosa, la tecnica legislativa avrebbe dovuto essere opposta. Si sarebbe cioè dovuto dichiarare che non costituivano reato tutte le azioni commesse dai partigiani in occasione della guerra di liberazione, ad eccezione dei casi in cui emergessero elementi per ritenere che il fatto fosse stato realizzato per finalità estranee agli obiettivi della Resistenza.
Nonostante il decreto d’indulto prevedesse l’estinzione o la riduzione della pena per le «illegalità» commesse dai partigiani entro e non oltre il 18 giugno 1946, i giudici si mostrarono riluttanti a scarcerarli mentre, al contrario, i fascisti uscirono dal carcere quasi immediatamente. La magistratura si mostrò così ostile al rilascio dei partigiani che fu necessario concedere altri condoni.
Un decreto del gennaio 1948 concedeva ancora l’amnistia per i «reati connessi a quelli politici compiuti da coloro che appartennero alle formazioni partigiane ed al corpo italiano di liberazione». Il «particolare» trattamento riservato a coloro che avevano contribuito alla liberazione del Paese a rischio della vita non terminava qui.
Altre umiliazioni attendevano gli ex membri della Resistenza. Rispetto ai detenuti per collaborazionismo, i partigiani ritenuti colpevoli di reati comuni furono costretti a subire lunghi periodi di «carcerazione preventiva» con udienze processuali tenute a distanza di anni dagli episodi «criminosi» che li avevano coinvolti.
Ad esempio, Roberto L. e Arturo M., protagonisti di una rapina avvenuta il 3 maggio 1945, al culmine delle giornate insurrezionali, rimasero in prigione per mesi prima di essere giudicati dalla Corte d’assise ordinaria di Trento. Roberto fu arrestato l’11 maggio 1945, Arturo il 4 gennaio 1946. Il processo si tenne il 30 aprile 1947, a quasi due anni di distanza dai fatti.
L’aspetto più odioso fu che la magistratura avviò procedimenti anche nei confronti dei caduti, di coloro che non avevano la possibilità di difendersi. Luigi Cuel, assieme ad altri patrioti rimasti ignoti, fu indagato per aver ucciso il 18 luglio 1944 a Folgaria Fioravante Masotti. Nel dopoguerra, i carabinieri avviarono le indagini sull’assassinio.
Emerse che la vittima, nell’estate del 1944, si era trasferita a Folgaria vivendo «in modo alquanto misterioso». Tale comportamento aveva suscitato in alcuni partigiani il forte sospetto che Fioravante fosse in realtà una «spia repubblicana». Prelevato dall’albergo dove risiedeva, l’uomo era stato condotto così nei pressi di una malga e giustiziato «con un colpo di pistola alla nuca», il suo corpo sepolto in una buca lì vicino.
La relazione dei carabinieri confermò che «lo stesso Masotti si qualificò, effettivamente, prima di morire, di essere una spia repubblicana». Si trattava dunque di un omicidio avvenuto nel contesto della guerra civile, un’uccisione di natura politica che non aveva nulla di criminoso e rientrava nella logica del conflitto e delle violenze scatenate.
Lo scontro fratricida conduceva a vedere nei connazionali un nemico potenziale. L’utilizzo da parte dei tedeschi di spie, delatori e informatori a danno del movimento di resistenza indusse i partigiani a comportamenti di difesa preventivi nello stato d’eccezione provocato dalla guerra civile, ad adottare le contromisure più opportune e valide ad evitare o ridurre al minimo i rischi.
Trascurando questo contesto si chiamò a risponderne i morti. Cuel era stato ucciso dai tedeschi nell’inverno del 1945 durante un’operazione antipartigiana condotta sull’altopiano.
La strategia democristiana sfruttava un’ambiguità di fondo del PCI, la sua cosiddetta «doppiezza». Il Partito era diviso al suo interno tra due orientamenti in parte contrapposti. Da un lato, vi era la dirigenza guidata da Togliatti intenzionata a consolidare il ruolo del Partito all’interno della società inserendolo a pieno titolo e legittimamente nella democrazia parlamentare.
La conferenza di Jalta e gli accordi interalleati stabiliti in quell’occasione avevano già chiarito quali linee avrebbe seguito il futuro assetto politico europeo. Inoltre, la presenza militare angloamericana nel Paese sin dal 1943 aveva escluso «la possibilità di una rivoluzione sociale».
Dall’altro, una base militante/partigiana mostrava di non avere del tutto abbandonato l’opzione rivoluzionaria, la conquista violenta del potere. In determinate aree del Paese, memori della repressione attuata dal fascismo durante il Ventennio e dove le stragi nazifasciste avevano alimentato un ulteriore desiderio di vendetta, le azioni condotte dai partigiani contro ex fascisti, esponenti del capitalismo agrario/industriale e delle gerarchie ecclesiastiche indussero la DC a ritenere che la rivoluzione comunista fosse alle porte.
Si trattava del resto di una preoccupazione strumentale, tesa a delegittimare il Partito comunista e a prefigurare il Partito cattolico agli occhi della società italiana quale garante della stabilità politica ed economica del Paese. La campagna antipartigiana che ne conseguiva nasceva su uno sfondo che la DC non esitò a raffigurare quale «democrazia assediata» dallo spettro comunista.
L’anticomunismo che accompagnava le manifestazioni antipartigiane rappresentava forse l’aspetto esteriore di sentimenti più profondi, di un fallito «esame di coscienza» individuale e collettivo.
Assolvere i fascisti/collaborazionisti restituendoli alla vita civile senza che pagassero per crimini politici e comuni che andavano oltre il trauma della guerra civile e, contemporaneamente, sanzionare penalmente partigiani e resistenti significava, per lo Stato e la società italiana più in generale, evitare di fare i conti con il più recente passato.
Secondo alcuni storici, «chiedersi chi è ‹colpevole› significa chiedersi in realtà qual è stato il rapporto fra italiani e fascismo». La soluzione adottata dal governo, dallo Stato e più in generale da una larga fetta della società italiana fu quella di dimenticare, di assolvere la propria coscienza da ogni responsabilità e dal benché minimo esame introspettivo.
Se i partiti antifascisti trovarono nella Resistenza lo strumento migliore per legittimare sé stessi a governare, se la Resistenza fu «guerra di riscatto» dall’occupazione tedesca e dal passato fascista della nazione, contemporaneamente una parte consistente della società italiana stentò a riconoscersi sia nei valori antifascisti, sia nel carattere liberatorio della Resistenza.
Era l’Italia che Alberto De Bernardi ha definito come «anti-antifascista». Una nazione che, svuotata di una propria identità riconoscibile, ostentava sospetto verso la democrazia parlamentare: aspramente anticomunista, propensa a perdonare i misfatti del fascismo, qualunquista e «incline a derive populiste».
Alcuni partigiani vissero in maniera lacerante la sconfitta delle speranze che avevano riposto in un effettivo rinnovamento della società. Taluni, forse ancora psicologicamente provati dalla detenzione nei campi di concentramento, non furono in grado di affrontare il rientro nella quotidianità, nella normalità di un’esistenza rimasta inalterata nonostante i sacrifici compiuti.
Nerino Serafini morì suicida a Rovereto nel febbraio 1946. Il compagno Tullio Endrizzi lo aveva incontrato poco tempo prima della scomparsa. L’ex partigiano gli era sembrato «demoralizzato» tanto che, al momento di congedarsi, gli aveva confidato che «era più bello l’anno scorso, almeno allora si viveva di speranza; questa adesso non c’è più».
Togliersi la vita rappresentava la soluzione finale ed estrema ad un travaglio interiore, individuale. Il suicidio rappresentava la liberazione ultima dalle sofferenze patite e risultate inutili. Voleva dire riconoscere forse la propria sconfitta ed il fallimento dei valori in cui si era creduto e per cui si era combattuto in una società incapace di dare una degna occupazione lavorativa, di rendere quella dignità che si pensava di aver meritato.
Per di più, si stava lentamente ma inesorabilmente escludendo i partigiani dalla comunità, criminalizzandoli e alla fine dimenticandoli. L’esempio di Nerino rappresenta appunto un caso limite dello sconforto e della delusione in cui i partigiani potevano cadere. La maggior parte preferì il silenzio oppure trovò nuove motivazioni e nuove ragioni per continuare la lotta «legale» in nome della democrazia nell’adesione ai partiti di sinistra, nei sindacati, nelle attività dell’ANPI.
Alcune frange, tuttavia, non esitarono a punire coloro che continuavano a circolare liberamente nei paesi e nelle città. La vendetta/giustizia, popolare e partigiana, ebbe modo di sfogarsi anche in Trentino in alcuni, limitati episodi di violenza a danno di ex fascisti e di personaggi sospettati, a torto o a ragione, d’essere collusi con il passato regime e con l’occupante germanico.
Finite le ostilità, il CLN provinciale presieduto da Giovanni Gozzer si assunse, come in tutte le province italiane liberate, il compito di dare una prima intelaiatura politico – amministrativa al paese: la carica di prefetto venne assegnata al comunista Giuseppe Ottolini, questore divenne Ivo Perini del Partito d’azione, a capo della Deputazione provinciale fu collocato il democristiano Pietro Romani, a sindaco di Trento venne chiamato il socialista Gigino Battisti e tutti gli altri incarichi di responsabilità furono distribuiti tra i rappresentanti dei partiti antifascisti.
Con l’entrata in Trento delle truppe americane, il 4 maggio 1945, l’amministrazione passava nelle mani della Commissione alleata che non fu troppo drastica nel contenere o mutare le nomine effettuate dal CLN.
Solo con il 1° gennaio 1946 all’amministrazione alleata subentrava quella italiana, sia nel Trentino che nell’Alto Adige le cui sorti risultavano però ancora incerte.
L’avvio della vita politica nel nuovo clima di libertà fu contrassegnato dalla riorganizzazione dei partiti ed anche da una richiesta generalizzata e così estesa da assumere il carattere di un pronunciamento popolare: quella della separazione dei comuni aggregati dal fascismo e del ritorno alla loro autonomia. Un percorso inverso a quello che si sta, obtorto collo, facendo adesso, con la fusione (per ridurre le spese) di comuni trentini “omogenei”.
L’urgenza di tale richiesta, precedente addirittura a quella dell’autonomia per l’intero paese, nasceva dalla convinzione che bastasse rimettere in piedi gli ordinamenti cancellati dal regime. Domande di separazione dei comuni cominciarono a giungere fin dal maggio 1945 al CLN provinciale e, successivamente, alla prefettura, in un crescendo senza sosta fino a raggiungere, nella primavera del 1946, la somma di 205, alcune cumulative di più frazioni.
In pratica non vi era sobborgo o minimo aggregato urbano che non chiedesse di costituirsi in comune autonomo azzerando le manipolazioni apportate dal fascismo. Con altrettanta urgenza s’impose la questione dell’autonomia per tutto il paese, posta al vertice dei programmi di ogni partito, tenuta viva nei dibattiti politici, sulla stampa, negli incontri con il pubblico.
Nell’estate 1945 il CLN provinciale costituiva un Centro studi per l’autonomia affidando all’avvocato liberale Francesco Menestrina, persona di grande competenza, l’incarico di stendere un progetto di statuto.
Agli inizi di agosto una delegazione del CLN accompagnata dal prefetto e dal sindaco di Trento presentava a Parri, allora a capo del governo, un ordine del giorno concernente l’autonomia; l’accoglimento della richiesta dava il via ai lavori per la preparazione di uno schema di statuto, reso pubblico il 25 novembre sulle pagine di “Liberazione nazionale”, organo di stampa del CLN.
Accanto a questo progetto presero corpo numerose altre iniziative, proposte e progetti elaborati ad opera di partiti, movimenti, singole personalità; fra i primi si collocavano quelli del Partito d’azione e di Enrico Conci, seguiti da quelli del Movimento autonomista regionale (MAR) e del prefetto di Bolzano, Silvio Innocenti, quest’ultimo steso su incarico del governo.
Iniziava pure la sua attività – ne abbiamo scritto ampiamente nelle puntate del “Rebalton” in Trentino – l’Associazione studi autonomia regionale (ASAR), un movimento nato nell’agosto 1945 e subito fornito di una larghissima base di consenso popolare.
Nella presunzione che l’Alto Adige sarebbe rimasto all’Italia, per tutti i progetti il quadro territoriale dell’autonomia era dato dalla regione all’interno della quale la tutela della comunità sudtirolese veniva affidata ad un impianto giuridico – istituzionale inteso a non creare steccati fra i due gruppi etnici.
I progetti si differenziavano invece per le ideologie in essi riflesse che andavano dall’identificazione tra democrazia ed autogoverno fino al conservatorismo politico e sociale di stampo nostalgico.
Il dibattito sull’autonomia regionale s’intrecciava con quello sulla separazione dei comuni – con particolare incisività presso il consiglio comunale di Trento dove era in gioco il distacco delle frazioni – ed aveva riflessi sull’indizione delle elezioni amministrative, necessarie per normalizzare la vita comunale.
Il timore era infatti che l’andata alle urne costituisse un atto di acquiescenza alla situazione esistente e potesse pregiudicare l’esito positivo delle domande di separazione.
Le assicurazioni date dal ministero dell’interno sull’accoglimento delle richieste, purché suffragate dalla dimostrazione che i ricostituiti comuni potevano contare su una solida base patrimoniale, fecero sì che nelle tornate elettorali amministrative del marzo-aprile e dell’ottobre-dicembre 1946 non vi fossero astensioni in segno di protesta, tranne che nella zona mistilingue intenzionata a staccarsi dalla provincia di Trento.
Le consultazioni del 2 giugno 1946 per il referendum istituzionale e le elezioni per la Costituente registrarono una massiccia partecipazione attestata al 91%. I risultati misero in luce la reale consistenza numerica dei diversi partiti politici: la DC, con 129.321 voti (57,41%) appariva la forza di maggioranza seguita dai socialisti (27,69%), dai comunisti (8,11%) e dagli azionisti-repubblicani (4,87%).
Alla Costituente vennero eletti i democristiani Alcide Degasperi, Luigi Carbonari, Elsa Conci ed il socialista Gigino Battisti. Il referendum vide l’85% dei suffragi favorevoli alla repubblica, la più alta percentuale registrata in Italia dove, a differenza del Trentino, la scelta accordata alle istituzioni repubblicane correva in parallelo con quella per lo schieramento di sinistra. Era il segno evidente delle delusioni provate dalla provincia dopo la sua annessione al regno.