MORIRE PER NULLA
La cronaca del bombardamento di Sant’Ilario di Rovereto del settembre 1944 raccontata per la prima volta da un testimone oculare che rivela la verità su quel tragico atto di guerra che costò la vita a 18 persone.
di Maurizio Panizza
Valentino Rosi oggi è un tranquillo signore di 86 anni che si dedica alle cose che più ama. Lo fa con moderazione, come è dovuto alla sua veneranda età, occupandosi ancora di orto e di prodotti della terra, ma anche collezionando oggetti più o meno antichi che lo riportano con nostalgia alle molte stagioni della sua vita. Lui abita da solo in una vecchia casa del centro storico di Volano, dove alle pareti molte fotografie parlano in silenzio di tempi lontani, di periodi felici e di persone care che non ci sono più. La memoria non fa difetto a Valentino e neppure la capacità di raccontare. Discorrendo con lui, affiorano vive le tracce del tempo, e assieme alla spensieratezza della gioventù ritorna anche il ricordo di un tragico avvenimento accaduto più di settant’anni fa e mai cancellato.
Valentino mi parla di quel lontano 13 settembre del 1944, quando lui, giovane di quindici anni, da una collina del Brione assistette attonito al bombardamento nei pressi di Sant’Ilario che stroncò la vita di 18 civili, fra cui quattro bambini.
“Non fu, però, un vero bombardamento – precisa – di quelli cioè indirizzati contro una fabbrica, un ponte o una ferrovia. Qui si trattò di un bombardamento in aperta campagna, in un posto assolutamente privo di obbiettivi strategici. Insomma, fu qualcosa d’altro – mi spiega – che se tu vuoi comprendere è necessario partire dall’inizio di quella tragica giornata”.
“Ascolterò molto volentieri” – rispondo. Impugno, quindi, penna e taccuino e sulle sue parole inizio a scrivere.
Valentino mi racconta che in quei mesi di fine ’44, in cui la guerra volgeva ormai al termine, le incursioni degli aerei inglesi e americani sulla Vallagarina si erano intensificate prendendo particolarmente di mira i ponti ferroviari di Rovereto e di Calliano. Pur essendo poco più che un ragazzino, lui già lavorava all’Aero Caproni in via Maffei (futura via Brennero), non molto distante dalla stazione dei treni di Rovereto e più precisamente sull’area dove nel dopoguerra si sarebbero insediate le industrie Radi, Merloni e Ariston. Il suo lavoro? Strettamente collegato al tempo di guerra: vigilare all’esterno dello stabilimento e soprattutto avvisare i lavoratori in caso di allarme aereo.
“Infatti – chiarisce Valentino – i rumori assordanti, direi da far paura, all’interno dell’officina non avrebbero mai permesso al centinaio di operai che vi lavoravano, di udire il suono delle sirene, né tanto meno il rombo dei bombardieri in arrivo.”
Chiedo il perché di tanto rumore.
“Ti spiego subito: a Rovereto i tedeschi costruivano in gran segreto dei sottomarini tascabili. Un giorno io li ho visti di nascosto: erano lunghi 10, forse 15 metri, alti 3 all’incirca, molto panciuti, con una torretta che sporgeva dallo scafo. Seppi da chi vi lavorava che lì, alla Caproni, stavano studiando un nuovo sistema di propulsione senza elica che col vapore a pressione azionava una turbina, per cui a qualsiasi ora venivano fatti i collaudi di questi motori a reazione e allora erano fischi assordanti, da doversi tappare le orecchie.”
“Caspita, i famosi sottomarini nazisti ultra veloci di cui si è molto parlato perché avrebbero potuto rovesciare le sorti della guerra?
“Non lo so” – mi risponde schietto, Valentino. “So solo che eravamo tutti controllati: nessuno poteva entrare o sostare nei paraggi senza un particolare permesso. Di certo doveva trattarsi di un progetto molto avanzato, visto che spesso arrivavano in visita gruppi di numerosi ufficiali, sia tedeschi che giapponesi.”
“Ma torniamo a noi – dice subito dopo – a quel 13 settembre: un giorno di sole, tiepido e fino ad allora tranquillo”.
“Si torniamo a noi” – aggiungo io, impaziente di conoscere il seguito. “Mi pare che l’allarme scattò verso mezzogiorno, o sbaglio?”
“A dire la verità ce ne fu prima un altro, ma era stato breve. Stavolta mancavano pochi minuti alle dodici, quando per prima sentii la sirena della Montecatini, lontana parecchi chilometri in linea d’aria. Subito mi precipitai in fabbrica e diedi l’allarme.”
“E poi?”
“Beh, poi fu tutto un «si salvi chi può», come accaduto anche in altre occasioni del genere. Ci eravamo quasi abituati. Si correva verso il rifugio di via Sticcotta, (oggi a lato del Mart, ndr) oppure ci si disperdeva nei campi, come consigliato dalle autorità locali. Uscito dallo stabilimento, io presi immediatamente la bicicletta e assieme all’amico Pierino Prosser, anche lui di Volano, ci infilammo in una stradina che attraverso orti e campagne portava verso il rifugio. In prossimità del campo sportivo (attuali giardini “Perlasca”, ndr) incontrammo tre ragazze di Villa Lagarina, o di Pomarolo, non ricordo bene, che lavoravano in un vicino colorificio, anche loro in fuga. Assieme, facemmo di corsa le poche centinaia di metri che ancora ci separavano dal rifugio.”
“Ma gli aerei?”
“No, no, ancora non si vedevano aerei: fino a quel momento urlavano solo le sirene di tutta la città” – mi risponde, visibilmente teso nel ricordo di quei momenti. “Fu anche per quel motivo che lì per lì, pensando ad un falso allarme, decidemmo di non andarci a cacciare in un buco sotto la roccia, ma di proseguire verso la montagna, all’incirca sopra l’attuale centrale telefonica del Brione, non molto distante. Eravamo giovani e incoscienti…”
“Allora è per quello che potesti assistere a ciò che accadde dopo?”
“Già, e fu uno spettacolo che non avrei mai voluto vedere. Ci arrampicammo lungo un erto sentiero fino ad arrivare alla sommità di una collinetta, e fu allora che scorgemmo i bombardieri sbucare dalla montagna sopra il paese di Nomi.”
“Accidenti!”
“Dovevano essere sette o nove aerei, così come di solito erano composte le formazioni. Ricordo però, perfettamente, che uno di loro volava molto più basso degli altri e che avanzava più lento lasciandosi dietro una lunga scia di fumo grigio. Appena spuntati dalla montagna, avemmo un sobbalzo: la contraerea che era al bosco della città, quindi a poche centinaia di metri sopra di noi, iniziò a cannoneggiare. L’effetto delle esplosioni viste a distanza, era quello di piccole nuvolette attorno ai bombardieri.”
“E riuscirono a colpirne qualcuno?” – chiedo.
“No. Nonostante il fuoco fosse incessante loro proseguirono senza problemi. L’aereo in avaria, però, si abbassò ancora e si sentiva chiaramente che il motore calava di giri. Fu allora che udimmo uno strano rumore metallico, uno stridìo difficile da spiegare, simile ad un carro che corre su di una strada acciottolata, oppure ad una serranda abbassata con violenza. A quel punto Pierino gridò forte: «Le vegn!» Arrivano cosa? pensai per un attimo. Seppi più tardi che il mio amico era già stato sotto un bombardamento a Bologna. Ma fu proprio questione di secondi il rendersi conto che il bombardiere aveva sganciato le bombe, evidentemente per alleggerirsi nel tentativo di riprendere quota.”
“Mio Dio” – mi viene da sussurrare.
*
“Fu una cosa terribile. Se non ci fossimo appiattiti in una buca, non sarei di certo qui a raccontarti questa storia” – prosegue Valentino. “In un momento fu l’inferno: lo spostamento d’aria piegò le piante del bosco come fuscelli, mentre una nuvola nera avvolse la campagna sottostante sollevando il terreno di molti metri. Sopra le nostre teste fischiavano schegge da tutte le parti.”
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Come riferisce Valentino, la cronaca di quella tragedia confermerà poi che in quella nuvola nera vennero distrutte le vite, straziati e mutilati i corpi (in alcuni casi letteralmente volatilizzati) di 18 persone, uomini, donne, bambini, madri e figli, tutta gente che si era allontana da casa e sparsa nei campi, paradossalmente proprio nel tentativo di stare al sicuro. Insomma, una tragedia nella tragedia. Tuttavia all’epoca vi fu solo un passaparola: nessun giornale e nessuna autorità parlò mai pubblicamente di quella sciagura. Si celebrarono i funerali, si costruì nell’immediato dopoguerra pure un cippo alla memoria, ma forse proprio a causa di quella censura il ricordo del bombardamento di Sant’Ilario finì per perdersi nei mille rivoli dolorosi di una guerra comunque da dimenticare.
La memoria, però, come sappiamo, può essere ritrovata e in tal senso il racconto di Valentino è preciso e determinante.
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Continua così la cronaca di quei momenti: “Dopo il boato, per un attimo ci fu un silenzio assoluto. Alzando frastornato gli occhi da quel nostro rifugio di fortuna, seguii il volo dei bombardieri che si allontanavano e potei sentire che il motore di quello in avaria aveva ripreso giri e si stava ricongiungendo alla formazione, superando le montagne in direzione sud. Poco dopo uscimmo da lì e proseguendo a mezza costa lungo la collina, arrivammo sopra il luogo del bombardamento. Dall’alto si vedeva solo un caos indescrivibile di terra e vegetazione carbonizzata, ancora fumante. Non si poteva distinguere nulla, né in quel frangente avemmo sentore di quanto era successo. Venimmo a saperlo solo più tardi.”
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Infatti, quando le sirene smisero il loro lugubre suono, Valentino e gli altri tornarono al lavoro. La sera, alla fine del suo turno di sorveglianza, lui però volle ritornare sul luogo della tragedia.
“Ripetei lo stesso tragitto del mattino – racconta – e risalendo la collinetta del Brione mi trovai di nuovo a guardare dall’alto la scena del disastro. I corpi, o quello che era rimasto, ovviamente erano stati portati via. C’erano solo alcuni carabinieri che osservavano in silenzio un paesaggio infernale e un religioso che con un bastone frugava qua e là nel terreno, probabilmente alla ricerca di qualche resto. Nessuno poteva vedermi, ma non mi fermai molto a guardare quel triste spettacolo: me ne andai via poco dopo, sgomento.”
LA BRUTALITA’ DEL MALE
Don Antonio Rossaro, l’ideatore della Campana dei Caduti di Rovereto, pochi giorni dopo la tragedia annotò nel suo diario un elenco dettagliato dei morti, assieme ad un crudo resoconto dello stato in cui essi vennero trovati. Nonostante una descrizione talmente brutale da apparire impietosa verso le povere vittime, ho deciso di pubblicarne un estratto, convinto che recuperare la memoria e diffonderla il più possibile, giovi, soprattutto oggi, a rappresentare l’orrore di ogni guerra al di là del luogo e del tempo in cui essa si manifesta. “C’era ancora odore di morte. Fu una vera fatalità: tutte le altre volte salivano pochi passi avanti su un rialzo: sarebbero stati tutti salvi! Spagnolli Alma anni 56 – fu trovata senza una gamba- occhi fuori dell’orbita. Spagnolli Livio anni 37 – figlio – senza piede, mano stroncata – senza cranio. La Spagnolli volle andare, nonostante la nuora la trattenesse. Busetti Maria. Mamma. Fu trovata intera. Di Busetti Giuseppina si trovò solo la mascella. Di Busetti Rosetta nulla affatto! Tonezzer Erlino si trovò solo una parte del fianco. Lo si riconobbe, quell’avanzo, dalla giacca e dalle chiavi. Florio Maria – madre: fu trovata senza testa, senza gambe – colla bimba Maria Rita di 6 mesi tra le braccia con la testa bucherellata. Florio Franco di 2 anni – non si trovò nulla. Giorgina De Luca sorella di Maria Florio, 13 anni. Di lei si trovarono alcuni frammenti sanguinolenti e nulla altro. Il Florio, impietrito dal dolore, era sempre presso i suoi, parlava come loro vivessero, fuori di sé dal dolore.” (m.p.)
***
Ad alcuni giorni dall’intervista avuta con Valentino Rosi, il suo racconto continuava a girarmi ostinatamente in testa. A tal punto che a forza di cercare in rete, riesco a scoprire qualcosa di molto interessante. Nell’«USAAF Combat Chronology of the Us Army Air Forces in Italy» (l’archivio dell’Aviazione americana contenente documenti un tempo top-secret a riguardo delle incursioni aeree sull’Italia) trovo una pagina in cui c’è scritto in inglese: “Settembre 1944. OPERAZIONI STRATEGICHE (quindicesima Air Force) . Il 13 di settembre 1944 in Italia, B-24 Liberator bombardano il viadotto Avisio (il “Pont dei Vodi” ndr) e i ponti ferroviari di Ora e Mezzocorona.”
Un brivido mi corre immediatamente lungo la schiena: quello è lo stesso giorno del bombardamento di Sant’Ilario e le località citate si trovano a poche decine di chilometri a nord di Rovereto! Sento che quegli aerei americani – proprio i B-24 come vennero descritti all’epoca – provenienti in quelle ore dal Sud Italia per colpire i tedeschi in ritirata, potrebbero essere gli stessi visti da Valentino al loro rientro dall’operazione. E mi viene da pensare che quel bombardiere in avaria potrebbe verosimilmente essere stato colpito dalla contraerea di Trento, oppure da quella sul Monte Bondone e per qualche motivo non essere riuscito a scaricare tutte le bombe sull’obbiettivo. Ricostruire la verità, mi viene da pensare, a volte può essere più semplice del previsto.
Un conto, però, è la verità, un altro la memoria. Torno allora con la mente a Valentino, al suo racconto, e non posso che ringraziarlo in cuor mio per avere contribuito, a distanza di settant’anni, a riportare finalmente luce su quella vicenda e pietosa memoria su quei morti innocenti.
E il mio pensiero non può fare a meno di volare anche a quel pilota americano sconosciuto, probabilmente ignaro di essere stato il responsabile di tanta carneficina. Penso a quale fu il suo destino al di là delle montagne e se riuscì a raggiungere la sua base. Chissà, mi chiedo poi, se a guerra finita poté ritornare al suo paese, alla sua famiglia, perché anche lui certamente aveva una madre, una moglie, forse un figlio che lo stava aspettando. Chissà se tornò vivo da loro.
*FOTO (Biblioteca Civica G.Tartarotti – Rovereto)
Il cronista della Storia