LE ATROCITÀ DELLA “BANDA CARITÀ” – 5

a cura di Cornelio Galas

Propongo da oggi una serie di testimonianze di sopravvissuti alle atrocità, alle torture, alle esecuzioni sommarie della “Banda Carità”. Comincio con Egidio Meneghetti (Verona, 14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961) medico, farmacologo e accademico italiano.

Dopo gli studi secondari a Verona, Egidio Meneghetti si laureò in medicina all’Università di Padova. Dedicatosi alla farmacologia, fu allievo del prof. Luigi Sabbatani. Nel 1926 ottenne la cattedra di farmacologia all’Università di Camerino e l’anno successivo passò alla direzione dell’istituto di farmacologia dell’Università di Palermo.

Nel 1932, infine divenne direttore dell’istituto di farmacologia all’Università di Padova, dove rimase fino alla morte.

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Il 16 dicembre 1943 perse la moglie e la figlia (Maria e Lina), morte nel bombardamento aereo della città di Padova. Entrambe si erano rifiutate di sfollare, nonostante il pericolo, per continuare ad aiutare Egidio nel lavoro segreto che aveva intrapreso. Fra le altre cose, proprio la sera precedente avevano distribuito manifesti clandestini in un quartiere di Padova chiamato “Arcella”. A loro dedicò il libro Scritti clandestini.

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Rettore dell’Università di Padova nel periodo 1945 – 1947, socialista, fu un convinto e precoce antifascista. Esponente del movimento di Giustizia e Libertà del Veneto, dopo l’Armistizio di Cassibile assieme Concetto Marchesi comunista, Mario Saggin democristiano e Silvio Trentin azionista fonda il CLN veneto, uno dei suoi allievi Luigi Antonio Tami, lo seguirà nella Resistenza e gli verrà concessa la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

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Il 7 gennaio 1945 fu arrestato assieme a Attilio Canilli, Giovanni Ponti, Angiolo Tursi, Luigi Martignoni e a don Giovanni Apolloni dai fascisti della Banda Carità, torturato e consegnato alla SS che lo portarono prigioniero dapprima a Verona presso il loro quartier generale e successivamente a Bolzano per l’invio ai lager di eliminazione in Germania.

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Contemporaneamente erano presenti nelle celle di Verona altri partigiani fra cui il Prof. Ferruccio Parri, la signora Lidia Martini, il maggiore inglese Mc Donald e un giovane friulano studente di medicina presso l’Università di Bologna Ettore Savonitto, che diventò suo compagno di cella, fino alla loro liberazione avvenuta il 30 aprile 1945 presso il Campo di concentramento di Bolzano dove erano entrambi stati trasferiti.

Il lager di Bolzano

Il lager di Bolzano

A causa dell’interruzione delle linee ferroviarie fu loro fortunosamente risparmiato il trasferimento verso i campi di sterminio tedeschi e polacchi.

A Ettore Savonitto ed altri due compagni di cella (il tipografo Mario e il fornaio Massimo) è dedicato il libro Lager-Bortolo e l’ebreeta, che descrive in dialetto veronese le brutalità del campo e del suo aguzzino Michael Seifert detto Misha.

LA PARTIGIANA NUDA

di Egidio Meneghetti

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Qui si narra un episodio della Resistenza. Accadeva a Palazzo Giusti di Padova, nell’inverno tra il 1944 e il 1945, che la «Banda Carità» talvolta costringesse le partigiane più coraggiose a denudarsi tra scherni e insulti. In quella atmosfera di incubo taluna rasentò la follia. E la follia, con il suo grande mistero, seppe incutere rispetto o, almeno, imporre ritegno.

Le parole usate sono semplici e disadorne: chi le ha scritte, più volte, spontaneamente, si è richiamato a espressioni e ad atteggiamenti dei cantastorie, che da secoli, specialmente nelle campagne, ripetono la tragedia della «Donna lombarda» e altre leggende.

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Soprattutto per mantenere aderenza con la più schietta anima popolare – che è stata anche l’anima della Resistenza veneta – si è usato il dialetto: il quale, per tale scopo, è davvero insostituibile.

Dal Santo do batude longhe, fonde,
rompe la note carga de paura,
e da Palasso Giusti ghe risponde
un sigo spasimado de creatura.

Al fredo, drio dei scuri,
i padovani i scolta l’agonia dei partigiani.

El magiór Carità l’è straco morto
de tiràr ostie e de fracàr pestade:
coi oci sbiessi soto ’l ciufo storto
el se varda le onge insaguinade.

El buta ’n’altra simpamina in boca,
el se stravaca in te ’na gran poltrona
e po’l fissa la porta. A ci ghe toca?
La porta se spalanca : vièn ’na dona.

Partigiana te si la me mama,
Partigiana te si me sorela,
Partigiana te mori con mi:
me insenocio davanti de ti.

Ela l’è magra, tuta quanta oci,
coi labri streti sensa più colór,
ela l’è drita anca se i senoci
tremàr la sente e sbatociarghe ’l cor.

« O partigiana se parlerai subito a casa tu tornerai »
« Son operaia siór capitàn e no so gnente dei partigiàn »
« O partigiana se tacerai per la Germania tu partirai »
« Son operaia siòr capitàn e no so gnente dei partigiàn »
« O partigiana te spogliarò e nuda cruda te frustarò »
« El fassa pura quel che ghe par, son partigiana no voi parlàr »

Partigiana te si la me mama,
Partigiana te si me sorela,
Partigiana te mori con mi:
me insenocio davanti de ti.

Spaìsi i oci nela facia bianca
la scruta intorno quela bruta gente:
fiapa la boca, sul sofà, la Franca
la se impitura i labri, indifarente;

longo, desnoselà come Pinocio,
Trentanove el la fissa pién de voia
e Squilloni, sbronsado, el struca d’ocio
nel viso scuro e ransignà da boia.

El carceriér Beneli, bagolón,
el scorla le manete, spirità,
e dindona Goneli el so testón,
cargo de forsa e de stupidità.

Ma Coradeschi, lustro e delicato,
el se còmoda a piàn i bafetini
po’l lissa i cavei, morbidi e fini,
cola man bianca che à copà Renato.

Ghe se strossa el respiro nela gola:
l’è piena de sassini quela stansa;
ela l’è sola, tuta quanta sola,
sensa riparo, sensa più speransa,

e quando man de piombo le se vansa
par spoiarla, ghe vièn la pele d’oca;
con un sguisso de schifo la se scansa:
« Me spoio da par mi, lu no’l me toca ».

Facia brusa, oci sbate, cor tontona,
trema i dei che desliga e desbotona:
so la còtola, via la blusa slisa,
ghe resta le mudande e la camisa.

Camisa da soldà de vecia lana,
mudande taconà de tela grossa…
Ride la Franca dala boca rossa:
«È proprio molto chic la partigiana ».

Carità el rusa: « Avanti verginella ».
El respiro dei masci se fa grosso.
Mentre la cava quel che la g’à indosso
ela la pensa: « Almanco fusse bela …»

Ecola nuda, tuta quanta nuda,
che la querse la pansa cole mane.
Ride la Franca dala lengua cruda:
« Non si lavano mai le partigiane? »

Corpo che no conosse la caressa
e de cipria e de unguento e de parfumo,
pèle che la s’à fato mora e spessa
nel sudór, nela pólvar e nel fumo.

Sgoba operaia, che te perdi el posto!
Cori stafeta, che se no i te ciapa!
rùmega l’ansia che franfugna el sono
e intanto la belessa la te scapa.

La testa la ghe gira, ’na nebieta
ghe cala sora l’ocio spalancado:
l’è tornada ’na pora buteleta
che l’orco nele sgrinfe l’à ciapado.

No la sa dove l’è … forsi la sogna …
la savària con vose de creatura:
« Dame el vestito, mama, g’ò vergogna,
mama g’ò fredo, mama g’ò paura …»

Po’ la ride, coi brassi a pingolón
e co’ na facia stralossà, de mata:
tuti quanti la varda e nissùn fiata,
s’à fato un gran silensio nel salón.

Su da tera la tol le so strassete,
la le spólvara a piàn, la se le mete,
ogni tanto un sangioto… un gran scorlón
e gh’è come un incanto nel salón.

(da Egidio Meneghetti, Cante in piassa, Neri Pozza editore, Venezia, 1955).

LA TESTIMONIANZA

di Egidio Meneghetti

Il 7 gennaio 1945, sul tardo pomeriggio, mentre ero sdraiato sul letto di una stanza della Casa di Cura del professor Palmieri, dove ero nascosto, bruscamente la porta si aperse ed entrò un giovane alto, bruno, pallido, colla rivoltella spianata.

Mi chiese i documenti e io presentai una carta d’identità intestata a Mario Mancini, di Vergato, decoratore. Seppi dopo che il mio interlocutore era Giorgio Dal Prà, veronese, appartenente al gruppo Carità di via San Francesco.

Il salone di Palazzo Giusti

Il salone di Palazzo Giusti

Sembrò trovare il mio documento in perfetta regola; comunque, mi ingiunse di seguirlo fino a presso la porta d’uscita, davanti alla quale si trovava un altro della banda, giovane, torvo, col mitra spianato. Dopo aver dato ordine al giovane di sparare al più piccolo segno di fuga o di rivolta da parte mia, il Dal Prà si allontanò per perquisire altre stanze.

Sono certo che al momento del mio arresto il Dal Prà ignorava chi io fossi realmente. Dopo pochi minuti tuttavia tornò gridando con accento di trionfo: «I miei omaggi, professor Meneghetti; finalmente vi abbiamo preso …”. Evidentemente qualcuno aveva fatto il mio nome o mi aveva riconosciuto. Più tardi ho saputo dalla signorina Maria, direttrice della Casa di Cura, che, da una fessura della porta, Mario Santoro mi aveva veduto.

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Così, come mi trovavo, e cioè senza giacca, senza cappello, senza scarpe, fui caricato sopra un’automobile, con qualche insulto e qualche pedata. Erano con me tre giovani del gruppo Carità, con la rivoltella in pugno. Davanti a Palazzo Giusti mi fecero scendere.

Salii le scale in mezzo ai tre ed entrai in quel salotto di Palazzo Giusti che è subito di fronte alla gradinata Nel momento preciso in cui passavo la porta, due tra quelli che mi accompagnavano mi afferrarono solidamente le braccia.

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Contemporaneamente uno di essi, ad altissima voce, gridò: «Comandante, ho l’onore di presentarvi il professor Meneghetti ». Da un gruppo che si trovava in mezzo alla stanza e intorno a una barella che scorgevo malamente, si staccò un uomo torvo, pallido, robusto, e mi venne subito incontro a braccia aperte, come per abbracciarmi, esclamando: “Finalmente sei venuto! Ti aspettavo da molto tempo».

E improvvisamente mi diede due schiaffi violenti. Tentai di scagliarmi contro di lui, ma ero solidamente trattenuto per le braccia. Tuttavia riuscii ad avvicinarmi e gridai: “Siete dei vigliacchi e dei mascalzoni!». Mi si buttarono subito contro cinque o sei persone, colpendomi con calci e pugni, dovunque, ma specialmente alla testa.

MARIO CARITA' (al centro)

MARIO CARITA’ (al centro)

Tra quelli che mi colpirono vi erano alcuni di cui poi seppi il nome: Gonelli, uno dei figli di Mamma Valli, Jacomanni e qualche altro. Caddi svenuto sopra un divano, sputai del sangue.

Non riuscivo più a vedere con l’occhio sinistro, che era stato duramente colpito. A dire il vero non provavo molto dolore. Sentii Carità dire «Per ora può bastare”, e le percosse cessarono.

Mi portarono in un vicino gabinetto per togliermi il sangue dalla faccia e dalle mani e poi mi ricondussero nella stanza. Distinsi allora chiaramente, sopra una barella, l’ingegnere Pighin. Carità mi disse, con tono trionfante: «Ecco il tuo amico Renato».

Ricostruzione fotografica delle torture inflitte ai prigionieri di Villa Triste. Esempio di una delle legature più comuni.

Ricostruzione fotografica delle torture inflitte ai prigionieri di Villa Triste. Esempio di una delle legature più comuni.

Renato era esangue e morente; aveva gli occhi chiusi; diceva solamente di quando in quando: «Lina, Elena …”. Intorno a lui si vociava, si bestemmiava e soprattutto si esultava.

Carità ordinò subito che mi fossero messe le manette. Il carceriere Gonelli rispose: «Sono tutte occupate». Carità ribatté: «E allora levale a Gino Cerchio: in confronto a questo farabutto anche Gino Cerchio è un gentiluomo”. Così mi furono poste le manette che Gonelli strinse fortemente: dopo circa una mezz’ora le mani erano gonfie, fredde, violacee.

I funerali di Merighetti

I funerali di Merighetti

Le manette mi furono lasciate per circa quindici giorni, notte e giorno; talvolta mi erano tolte mentre mangiavo, talvolta no. Fu questo il tormento maggiore; tutto il resto, in fondo, era sopportabile senza troppo sforzo.

Si persuasero ben presto che le minacce di fucilazione non mi davano alcun turbamento e le smisero. Minacciarono di accendermi una candela sotto i piedi per farmi dire dove si trovava il professor Lanfranco Zancan (e questo lo sapevo) e dove si trovava la radio trasmittente (e questo lo ignoravo).

VIII° Congresso Società italiana di Farmacologia, Roma 26-28 Aprile 1954. Si riconoscono tra gli altri, in alto da sinistra: Mario Ajazzi Mancini, Franca Buffoni, Paolo Preziosi, Alberto Giotti, Tito Berti, Pierantonio Visentini, Lorenzo Cima, Pietro Mascherpa, Antonio Imbesi, Lorenzo Beani; in basso: Egidio Meneghetti, Pietro Di Mattei, Aldo Cestari, Renzo Benigni, Franco Dordoni, Girolamo Orestano; accovacciati: Mario Serembe, Adolfo Porro e seduto a destra Pietro Benigno.

VIII° Congresso Società italiana di Farmacologia, Roma 26-28 Aprile 1954.
Si riconoscono tra gli altri, in alto da sinistra: Mario Ajazzi Mancini, Franca Buffoni, Paolo Preziosi, Alberto Giotti, Tito Berti, Pierantonio Visentini, Lorenzo Cima, Pietro Mascherpa, Antonio Imbesi, Lorenzo Beani; in basso: Egidio Meneghetti, Pietro Di Mattei, Aldo Cestari, Renzo Benigni, Franco Dordoni, Girolamo Orestano; accovacciati: Mario Serembe, Adolfo Porro e seduto a destra Pietro Benigno.

Risposi subito che la cosa non mi turbava, perché essendo malato di cuore, sarei subito motto per il dolore e tutto sarebbe finito. Il maggiore Carità parve, fortunatamente, credere alla mia affermazione (che non rispondeva al vero), e non attuò la minaccia.

L0 stesso avvenne per le scosse elettriche, che, dopo una breve applicazione, furono interrotte. Complessivamente posso sottolineare i seguenti fatti:

(a) fui colpito con molti pugni e molti calci; ne riportai un parziale distacco di rètina all’occhio sinistro, che anche oggi mi serve poco. Ebbi anche una lacerazione nella bocca, con distacco della mucosa, che mi penzolò fra le arcate dentarie per qualche giorno, finché non si necrotizzò. Per questa ragione non potei mangiare durante qualche tempo;

(b) ebbi una breve applicazione di corrente elettrica, facilmente sopportabile;

(c) fui insultato, con molto fervore. Ebbi in permanenza le manette per quindici giorni; .

(d) la mancanza di giacca, di scarpe, di cappello, di coperte mi fece soffrire il freddo in modo assai duro;

(e) mi ammalai in modo preoccupante, disturbi di fegato, con fatti tossici, che produssero una tormentosa forma eritrodermica generalizzata. Non si permise il mio ricovero in ospedale; si vietò anche che andassi nella rudimentale infermeria di Palazzo Giusti, mi si permise solo di fare tre bagni presso la Clinica dermopatica, in presenza di uomini armati della banda. Ero ammalato in tal modo quando mi si trasportò prima a Verona e poi a Bolzano;

(f) mi furono rubati da Giorgio Dal Prà degli oggetti d ‘oro e circa venticinquemila lire;

(g) non soffrii mai la fame, perché quasi tutti i cibi, abbondantemente manda timi dalla generosità degli amici e dei parenti, mi giunsero regolarmente;

(h) dopo i primi giorni, e cioè dopo che si persuasero che da me non avrebbero avuto nomi o notizie, mi lasciarono abbastanza tranquillo, Negli ultimi tempi, e cioè col precipitare degli eventi bellici, e fatta eccezione per Carità, per Gonelli e per qualche altro, sempre a me ostilissimi, molti invece ostentavano dei riguardi verso di me.

Riassumendo: posso dire che il maltrattamento subito fu di media gravità. Se vi fu indubbiamente chi è stato trattato meglio di me, vi furono anche molti trattati assai peggio.

Complessivamente l’ambiente era di stupida brutalità e di meschina depravazione. Negli interrogatori non vi era acume; nelle indagini non vi era metodo. Il sistema seguito era poco faticoso e crudele: con le percosse, le minacce, gli insulti, si cercava di far «crollare» la resistenza e di far «cantare».

Per quanto riguarda i diversi tipi da me incontrati penso che si possa dividerli in tre gruppi:

(a) gruppo dei dirigenti e cioè dei maggiori responsabili:

maggiore Carità: torvo, violento, mediocremente intelligente, fanatico, avido di denaro, consapevole di giocare una partita mortale, coraggioso;

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tenente Castaldelli: pallido, mingherlino, con una faccia asimmetrica, lo sguardo sfuggente; si diceva che fosse un prete spretato; non torturava personalmente, ma dava ordini di torturare; interrogava abbastanza abilmente; godeva la piena fiducia di Carità; non molto coraggioso, era considerato l'”intellettuale» della compagnia e aveva certamente molta autorità; quando il maggiore era assente, il comando spettava a lui, e non si può certamente dire che i sistemi mutassero;

Ricostruzione fotografica del metodo di tortura con scosse elettriche

Ricostruzione fotografica del metodo di tortura con scosse elettriche

sottotenente Corradeschi: bel giovane dagli occhi vivacissimi e falsi ; furbo piu che intelligente; era il « don Giovanni» del gruppo; faceva o tentava di fare il seduttore con le recluse; qualche volta ci riusciva e in tal modo strappava nomi e notizie a qualche sciagurata; senza il più piccolo scrupolo, in ogni campo; tutti dicevano che era stato Corradeschi a uccidere Pighin;

sottotenente Trentanove: assai giovane, snello; camminava con passo leggero e aggraziato; vestiva con l’eleganza di un gagà giovanetto; fatuo, crudele, pauroso: il suo terrore durante i bombardamenti era buffo; quando gli era possibile, rubava: fu lui a rubare l’orologio d’oro dell’ingegnere Casilli; era il «fidanzato» della figlia minore di Carità;

maresciallo Squilloni: alto, robusto, dalla faccia asimmetrica, bieca. Carità si vantava di dare dei pugni piu forti dello Squilloni; lo Squilloni, in compenso, si vantava d’essere piu crudele di Carità; dopo Castaldelli era il meno astuto; interrogava, picchiava e torturava di notte; nel frattempo beveva cognac; verso il mattino, sonnolento per l’alcool e per la stanchezza, compiangeva se stesso, si commuoveva, parlando della scarsità della sua paga e dell’incerto avvenire suo e della famiglia; considerava molto probabile il crollo dei tedeschi e si studiava di trovare un modo di suicidio non doloroso.

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(b) gruppo degli esecutori volonterosi:

il carceriere GoneIli: erculeo, torvo, crudele, stupido, un vero bruto; era capocarceriere e, fra tutti i carcerieri e i bastonatori, il peggiore;

il maresciallo Linari: un bue occhialuto e ottuso, tronco pettoruto, pieno di se stesso; dava il segnale per !’inizio delle percosse e per la fine; giocava d’azzardo alla notte con il barbiere e con altri; tentava in ogni modo di conquistare il cuore delle detenute, con insuccesso costante;

il capitano Gentili: Carità lo stimava assai per la «purezza della sua fede fascista»; non picchiava, ma assisteva tranquillamente alle torture come fossero di ordinaria amministrazione; spesso sorrideva, soddisfatto, ammicçando dietro gli occhiali;

la figlia maggiore di Carità: assomigliava al padre nel fisico e nel temperamento; pallida, bieca, impassibile, assisteva fumando, indifferente e talvolta interessata alle crudeltà; il padre le aveva affidato i denari dei reclusi, e tutti affermavano che vi attingesse largamente (Jacomanni lo disse piu volte);

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il barbiere: figura non chiara, siciliano, misterioso e isolato; giocatore; si faceva pagare bene le sue barbe, quando poteva; forse non cattivo;

il carceriere Benelli: chiacchierone, esasperante: tipo di paranoide politico; anarchico, antifascista, mussoliniano e repubblicano, ateo, rivoluzionario, desideroso di ozio, presuntuoso, ruminatore di letture non digerite, sconclusionato; in quel cervello si trovava un vero reparto manicomiale di terza classe; non cattivo; il suo disordine mentale permetteva qualche vantaggio ai detenuti; non stringeva le manette; partecipava abbastanza volentieri ai rastrellamenti e si eccitava allora in modo pericoloso;

(c) gruppo di quelli che vivevano con gli altri senza entusiasmo ma senza ripugnanza: (non partecipavano e neppure assistevano alle crudeltà, ma si adattavano all’ambiente agevolmente, staccandosi dagli altri, talvolta, per una certa gentilezza d’animo):

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mamma Valli: si occupava dei viveri e degli indumenti mandati da fuori ai reclusi; non ha fatto male a nessuno e talvolta ha fatto del bene: tuttavia, lei, il marito e due figli (uno dei quali picchiatore e torturatore) guadagnavano assai, senza dubbio volentieri, senza mostrare di soffrire per le caratteristiche dell’ambiente dove vivevano; il medico, che spesso cercava di giovare ai detenuti, si faceva accompagnare dalla Valli, ma non si fidava;

il marito di mamma Valli: essere insignificante, tipo di meschino impiegato; poco diverso dalla moglie, meno intelligente e meno cortese di essa;

la figlia minore di Carità: cortese, non antipatica, abbastanza ben voluta da tutti anche perché abbastanza graziosa;

uno studente universitario toscano, che si occupava di amministrazione e di rapporti con le famiglie dei detenuti e che molto si preoccupava di scindere le sue responsabilità da quelle degli altri: sembrava anzi di ritenere che il suo ufficio fosse assistenziale e pertanto senza nessuna colpa;

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Jacomanni: ex pugile e picchiatore; dopo la morte del figlio nella prima quindicina di gennaio, divenne cortese; negli ultimi tempi fece molti favori al detenuti; forse era meno stupido degli altri e nulla più;

il vecchio Perfetti: piu buono di tutti; ancora imbevuto di fascismo, ma sgomento, sperduto, solitario, malinconico; era un contadino pisano bonario, e dolente del male altrui, capitato chissà come in quella bolgia.

Complessivamente un ambiente di miseria morale, di meschinità mentale, di delitto e di tolleranza al delitto, di vizio e di tolleranza al vizio. Nessuno può essere esonerato da qualche colpa. Nessuno, o forse, uno solo di cui non seppi il nome, anche perché l’ho veduto poche volte e soltanto nei primi giorni.

Ero, con molti altri, nel gelido salone di Palazzo Giusti; fuori nevicava, e attraverso le finestre senza vetri entrava un vento gelido. Nella sera triste, giungevano dalle stanze vicine, distinte, le grida dei torturati. Per scaldarmi, camminavo nel salone: per le manette le mani erano gonfie, violacee, gelate.

Uno della banda mi venne vicino: era piccolo, pallido. Mi offerse un pane. Risposi che non potevo mangiare perché avevo la bocca lacerata e, temendo che il rifiuto sembrasse mosso da sdegno o da orgoglio, mostrai il pezzo di mucosa che mi penzolava fra i denti.

Vidi l’uomo stravolto, angosciato. Disse: «Signore Iddio … lo questo non posso sopportarlo; io sono cristiano, sono cristiano … ». C’era della disperazione nelle sue parole, c’era una precisa rivolta morale. L’unica che ho incontrato tra quella miserabile umanità.

(Testimonianza resa durante l’istruttoria del processo a Padova, 6.8.1945)

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