a cura di Cornelio Galas
Lo scalpore sollevato dall’azione alla caserma Cst di Castello Tesino (ne abbiamo ampiamente riferito nella puntata precedente) fu tale che la reazione nazista non si fece attendere: c’era da lavare l’onta dell’umiliazione subita.
Oltre a radio Londra, avevano dato comunicazione del fatto i bollettini 70 e 80 della Resistenza, cosicché la notizia si sparse ovunque, riempiendo di entusiasmo e di coraggio molti giovani, che nei giorni successivi si aggregarono alla formazione partigiana da poco insediatasi nella zona.
Verso le sei del 15 settembre, Ottorino Postal, dipendente della Sit alla centrale elettrica di Sorgazza e collaboratore dei partigiani, telefonò al comando presso la diga per avvertire che molte truppe si stavano avvicinando. Al primo posto di blocco della centrale c’erano anche, a turno, “Coclite” o “Caligaris”.
Un’altra comunicazione dell’imminente attacco giunse da “Leda”, che telefonò dal bacino sul Grigno, in località Lissa a Castello Tesino.
“Fumo” dispiegò immediatamente le diverse squadre nei posti prestabiliti: disponeva di circa settanta uomini. “La mattina di quel fatidico giorno si era presentata bellissima, cielo azzurro e temperatura amena”, ricorda “Vittoria” in una memoria in cui narra come si svolsero i fatti.
A “Nina” fu ordinato di accompagnare il comandante tedesco del Cst, catturato il giorno precedente, al “Forzellin” e di indicargli la via per Bieno attraverso il Cimon Rava.
“Quando gli restituii le scarpe”, racconta Albino Sordo, “mi accorsi che il maresciallo era senza calzetti: levi i miei e glieli diedi, lo salutai e partì”. Le scarpe venivano sequestrate ai prigionieri: sarebbe stato difficile fuggire tra quelle pietraie a piedi nudi.
Presso la diga rimase parte della squadra comando: “Valasco” con i denari e i buoni e “Katiuscia” con documenti vari e la macchina da scrivere, pronti in caso di emergenza a portarsi alla forcella che immette in Val Vendrame.
Qualcuno aveva in precedenza azzardato la proposta di minare la diga in caso di assalto dei tedeschi. Il suggerimento fu subito rifiutato dl comandante: l’enorme massa di quasi tre milioni e mezzo di metri cubi di acqua avrebbe travolto gran parte dell’abitato di Grigno.
Improvvisamente si levarono folate di nebbia fittissima che impedivano di vedere a un metro di distanza. Invece di tornare a vantaggio dei partigiani, ciò fu di grave danno perché permise agli assalitori di uscire dal bosco e salire sulla radura senza essere visti.
Tutto stava volgendo al peggio: anche le circa seicento bombe a mano, prese nella caserma del Cst il giorno precedente, risultarono inutilizzabili perché senza detonatore. Se non ci fosse stata la nebbia, nessuno avrebbe potuto uscire dalla “spessina” di abeti e avventurarsi sui pascoli verso la Malga Val del Lago, allora in attività, senza essere immediatamente colpito.
I tedeschi, con gli uomini della dodicesima compagnia del Cst, i mongoli del Turkestan di stanza a Strigno e altri corpi, erano oltre trecento ed erano già a qualche centinaio di metri dalla diga. Dal tintinnio delle gavette i partigiani si accorsero che gli assalitori avevano oltrepassato la linea considerata invalicabile.
Dopo una lunga sparatoria “Fumo”, che nella sua squadra aveva “Nina”, “Portafortuna” e altri tre o quattro elementi, pensò che non ci fosse altra via d’uscita per evitare il massacro dei suoi uomini che la ritirata.
“Nina” suggerì al comandante di mandare “Portafortuna” dall’altra parte della valle ad avvisare le altre postazioni di ritirarsi. “Partì “Fumo” stesso, sparendo nella nebbia.
I partigiani si ritirarono in alto, sopra il lago, e durante la notte rimasero tra le guglie ad attendere il mattino: mancava il comandante “Fumo” e non sapevano se fosse riuscito a riparare oltre i picchi ai lati della radura o fosse stato catturato.
Al mattino scesero alla diga e trovarono tutto sottosopra: anche il forno per il pane era stato distrutto. Recuperarono solo qualche coperta e poco altro. Si divisero in varie squadre alla ricerca del comandante.
Fu il gruppo di “Nina”, “Renata”, “Marco”, “Menefrego” e “Portafortuna” a trovarlo poco sotto la diga con una ferita mortale alla nuca. Gli avevano portato via l’orologio e le scarpe. “Nina” dichiarò in seguito che sul corpo non c’erano segni di arma da fuoco. La sua convinzione era che “Fumo” fosse stato sorpreso di spalle e colpito col calcio del fucile, ma è anche possibile che sia stato raggiunto da una raffica. Il comandante fu l’unico tra i partigiani a perire durante la battaglia.
A valle, nascosti sotto rami di pino, trovarono anche i corpi crivellati dei due Gap Luigi Parer “Pronto”, nato a Lamon nel 1924, e Dario Zampiero “Mosca”, nato a Castello Tesino nel 1925. Erano stati sorpresi da due sconosciuti, che si erano dichiarati partigiani, la sera precedente all’albergo Nazionale di Bieno.
Quei “partigiani” erano elementi del Cst in borghese che prestavano servizio nelle SS o Nella Gestapo. A Roncegno “Mosca” e “Pronto” erano stati interrogati e torturati. Al mattino i tedeschi avevano messo sulle loro spalle uno zaino di esplosivo e durante l’assalto a Costabrunella erano stati costretti, quali scudi umani, a camminare in testa. Al ritorno furono uccisi.
Quel giorno fu sorpreso a valle anche Antonio Orazio Bee “Coclite”. Fu “Tosca”, dipendente della Sit e custode del magazzino viveri del “Gherlenda” a salvarlo dalla fucilazione facendolo passare per commerciante di legname. “Coclite” però finirà nel Lager di Bolzano e ritornerà sano e salvo a Lamon solo alla fine della guerra.
“Le perdite tedesche ammontarono a tredici uomini, compreso un ufficiale. I corpi di questi furono raccolti e portati a valle sui camion della colonna germanica”. Il pomeriggio dello stesso giorno, 16 settembre, il parroco di Pieve Tesino, don Lino Tamanini, fu chiamato dai partigiani per celebrare il funerale di “Fumo”.
Salì a Costabrunella con la teleferica. Lo stesso giorno fu data sepoltura anche a “Mosca” e “Pronto” in due fosse scavate nell’ex cimitero militare della prima guerra presso malga Sorgazza.
Gli uomini del “Gherlenda” passarono la notte a malga Cima d’Asta, poi stabilirono la sede del comando a malga Tolvà. Il comando fu assunto provvisoriamente dal vice comandante “Nazzari”. Poi, il 26 settembre, i partigiani eleggeranno nuovo responsabile “Marco”, ex maresciallo di artiglieria, mentre “Nazzari” diventerà Capo di stato maggiore. Le nomine verranno in seguito ratificate dal Comando di brigata a Pietena.
Era quanto mai difficile per i seicentocinquantamila militari italiani, internati dopo l’armistizio dell’8 settembre in Germania o chissà dove, poter rientrare a casa. Un esempio illuminante a questo proposito è la lettera di risposta inviata dal Commissario Prefetto de Bertolini all’arciprete di Borgo Valsugana, monsignor Vigilio Grandi, datata 13 gennaio 1944. Nella lettera il parroco chiedeva di ottenere il rimpatrio per suo nipote e omonimo, don Vigilio Grandi, tenente cappellano.
Lo faceva a nome di Eugenio, suo fratello, residente a Flavon. Il nipote era partito da Nave San Rocco, dove era in cura d’anime, per la guerra in Africa. Qui era stato ferito due volte, decorato, e appena guarito era rientrato in servizio.
“Ora – scriveva monsignor Grandi – si trova internato a Leopoli, Stammlager 328 F.P. n. 21917”. La risposta di de Bertolini fu quanto mai tempestiva ed esauriente, anche se ebbe il sapore di vera e propria beffa: una persona già ferita due volte in guerra, per “ottenere la liberazione” avrebbe dovuto ritornare a combattere.
“A preg. Vostra 11 corr. mi spiace doverVi informare che abbiamo avuto istruzioni dal Commissario Supremo di Bolzano, che sono da presentarsi soltanto domande dirette ad ottenere la liberazione di persona che venga adibita al servizio bellico, mentre per tutti gli altri pubblici interessi non possiamo nemmeno inoltrare le domande.
Bisognerebbe quindi che il Vostro raccomandato chiedesse di ritornare al fronte, ciò che egli può sempre far dal luogo del suo internamento, ma in tal caso egli non potrebbe rimpatriare che per breve tempo”.
Non era previsto il rientro neppure in caso di malattia. Per evitare che altri dovessero per forza sostituire i nostri militari non collaborazionisti, i partigiani del “Gherlenda” preferirono risolvere alla radice il problema distruggendo le cartoline precetto dei coscritti, se possibile prima che arrivassero a destinazione.
Di trenta cartoline precetto fatte sparire dai ribelli dà comunicazione il colonnello comandante del Gruppo autonomo dei Carabinieri di Trento, Michele de Finis, al comandante della Gendarmeria, all’Ufficio leva e al Capo della Provincia.
Il 26 settembre, inoltre, de Bertolini scrisse con urgenza all’Ufficio leva di Trento e, per conoscenza, al dott. Kurt Heinricher, una lettera allarmata, auspicando addirittura che dopo la visita i coscritti non venissero rimandati a casa.
“Dal Comune di Casteltesino dovrebbero presentarsi, il giorno 30 settembre 1944, i giovani del 1922 e 1923 per la visita di leva. Dal Comune di Pieve Tesino i giovani degli stessi anni dovrebbero presentarsi il 2 ottobre 1944. Luogo della visita: Borgo.
Orbene, vengo informato dal rappresentante del Comune di Pieve che i banditi, sia a Casteltesino che a Pieve e Strigno, hanno sequestrato, in parte presso l’ufficio comunale, in parte presso il domicilio dei coscritti, le cartoline-precetto e proibito ai giovani di leva di presentarsi alla visita.
Il Commissario Prefettizio teme che nei giorni previsti per le visite di leva venga impedito ai giovani di recarsi a Borgo. Egli prega che si intervenga. La situazione è molto seria: i giovani vorrebbero presentarsi, ma vengono impediti a farlo.
Per dare loro questa possibilità, si dovrebbe fare in modo che nei giorni della visita di leva siano presenti gendarmi o Cst in numero sufficiente da proteggere i giovani convocati; inoltre bisognerebbe fare in modo che coloro che hanno superato la visita di leva, non vengano rimandati a casa, perché altrimenti i banditi impedirebbero il loro arruolamento.
Se ciò non fosse possibile, non rimarrebbe altro da fare che rinviare la visita di leva per questi Comuni, finché l’autorità non potrà assicurare l’accompagnamento al luogo della visita”.
In una precedente circolare, inviata nel maggio 1944 a tutti i podestà e commissari prefettizi dei comuni della provincia, de Bertolini aveva segnalato la presenza di qualche appartenente a bande armate o a reparti di partigiani e fatto presente che chi avesse portato un qualche aiuto a detti elementi sarebbe incorso nelle pene comminate dal Tribunale Speciale.
Come se non bastasse, il 14 giugno successivo chiese praticamente un censimento dei malgari e pastori provenienti da province limitrofe. Il 14 luglio il Commissario Prefettizio di Castello Tesino inviò i dati richiesti pregiandosi di “comunicare i nominativi dei malgari, casari, pastori provenienti da province limitrofe siti entro il territorio di questo Comune.
Detto personale (di cui all’allegato elenco) è strettamente necessario per il periodo 10 giugno – 30 settembre, assicurando che la maggior parte è conosciuto da vari anni e lo stesso gode buona condotta morale e politica”.
Che si dovesse intervenire su malghe e malghesi per far mancare ogni appoggio alla Resistenza era convinzione di de Bertolini, tanto che l’11 settembre 1944 scrisse allo stesso Commissario Supremo, Franz Hofer, una preoccupata lettera, chiedendo un suo intervento:
“Al Commissario Supremo della Zona di Operazione delle Prealpi – Ufficio I Bolzano – Gries. Oggetto: Comune di Molina di Fiemme – Servizio di Sicurezza (Sd). A Molina di Fiemme, dopo il delittuoso assassinio da parte dei banditi del maresciallo dei carabinieri e dopo il ritiro della gendarmeria e della Stazione carabinieri, regna una grande confusione.
I banditi girano qua e là, giorno e notte, saccheggiando nelle malghe e hanno cercato di farlo perfino nel magazzino della ferrovia Ora-Predazzo. Il Comune avrebbe perciò richiesto che rimanesse una compagnia del Cst o una sostitutiva unità militare stabile a Molina, dove ci sono a disposizione locali adatti.
Sta di fatto che fino a quando i banditi dimoranti non vengono sradicati, gli abitanti di Molina non danno seguito agli ordini dell’autorità. E succederà presto anche qui ciò che accadde in Val Calamento presso Telve e cioè che io stesso non fui in grado di operare l’arresto di due malghesi perché la zona è controllata dai banditi e uno o due Carabinieri non osano entrarvi da soli perché altrimenti verrebbero facilmente fatti prigionieri dai banditi. Spero che presto ci sia qualche cambiamento”.
Lo stesso de Bertolini, il 21 settembre 1944, inviò ai Comuni della Provincia la circolare urgente n. 10691 Gab., avente come oggetto il censimento della popolazione e degli edifici in provincia di Trento. I dati dovevano essere inviati a stretto giro di posta e comunque non oltre il 10 ottobre.
Il cerchio per i prossimi rastrellamenti si stringeva sempre di più, perché adesso servivano notizie sul numero degli abitanti prima del 1939 e alla fine di settembre 1944, compresi gli sfollati.
I dati richiesti riguardo agli edifici comprendevano fienili, “baiti” e stalle con annesse abitazioni rustiche. De Bertolini non spiegava lo scopo di tale censimento, ma si presume che non fossero certo in arrivo contributi per ristrutturazioni di vario tipo.
La risposta del Comune di Castello Tesino fu quanto mai precisa e dettagliata e presentava uno spaccato della situazione di tutto il territorio. In provincia di Belluno venne applicata, alla lettera, la politica di fare terra bruciata nelle zone frequentate dai partigiani, o solo sospettate di esserlo, con risultati disastrosi e centinaia di possibili rifugi e interi villaggi dati alle fiamme.