a cura di Cornelio Galas
Faccio sempre riferimento, per l’analisi del tema (“La donna nel fascismo tra segregazione e mobilitazione”) alla tesi di laurea di Francesca Delle Vedove.(Università Ca’ Foscari di Venezia – Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico anno 2000-2001). Con l’aggiunta di video, immagini e alcune mie considerazioni, sempre sulla base di documentazione storica.
IL LAVORO FEMMINILE
NEL SISTEMA CORPORATIVO
Uno degli obiettivi più difficili che il regime tentò di realizzare lungo il ventennio fu senza dubbio l’esclusione delle donne dal mondo lavorativo. Il fascismo lottò soprattutto contro l’idea, particolarmente pericolosa, che il lavoro fosse un diritto universale, valido tanto per gli uomini che per le donne, e che aprisse proprio a queste ultime la porta dell’emancipazione sociale.
Il regime, incapace di frenare i meccanismi dell’industrializzazione che necessitavano anche della manodopera femminile, tentò almeno di regolarne la crescita attraverso una rigida legislazione e la diffusione di una cultura dichiaratamente contraria al lavoro femminile.
Se già Loffredo si era schierato contro l’occupazione delle donne fuori dalle mura domestiche, in quanto riteneva il lavoro colpevole di creare nella donna una mentalità antigenerativa, anche la Chiesa fin dal 1891 aveva riaffermato la sua opposizione al lavoro delle donne, perché esso danneggiava l’allevamento dei figli e minava il buon andamento della vita familiare.
Mussolini raccolse questa fertile eredità per sentenziare che “il lavoro, ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto, […] la donna salva molto spesso una famiglia sbandata o addirittura se stessa, ma il suo lavoro è, nel quadro generale, fonte di amarezze politiche e morali”.
Inoltre la propaganda fascista continuava a sottolineare che l’occupazione femminile doveva avvenire o per imprescindibili necessità familiari o perché nessun uomo avrebbe accettato un posto di quel tipo. Questa affermazione si scontrava però con una ovvia realtà: il lavoro femminile extradomestico era un dato visibile già da molti anni.
Infatti alla vigilia della Grande Guerra le donne rappresentavano un quarto dell’intera popolazione attiva dell’Italia. Dei cinque milioni di lavoratrici, tre erano addette all’agricoltura; molte lavoravano nell’industria rurale domestica o come braccianti nella raccolta dell’uva, delle olive e delle barbabietole da zucchero. Nel settore industriale, le donne costituivano il 28% della manodopera, addette in prevalenza alla produzione tessile, laniera e cotoniera.
Tra i lavori non manuali, solo l’insegnamento, contava un numero significativo di donne, perché era un lavoro sottopagato e a volte scomodo per chi doveva esercitarlo nei paesi sperduti di campagna. Il settore terziario era invece ancora poco sviluppato nel periodo prebellico, tuttavia sia lo Stato che gli imprenditori cominciavano ad assumere donne per servizi telegrafici o per i lavori d’ufficio.
Con il consolidamento della dittatura tutto il mondo del lavoro subì forti cambiamenti. Il corporativismo fascista si rivelò dannoso per tutti i lavoratori italiani, ma non si può negare che furono le lavoratrici ad esserne principalmente colpite.
La distruzione dei sindacati operai – che vide la devastazione delle sedi, l’espropriazione dei fondi delle associazioni e l’iscrizione coatta al sindacato fascista – colpì duramente gli interessi di tutti i lavoratori, uomini e donne, ma queste ultime già poste in una condizione lavorativa di inferiorità, si trovarono ancor più isolate ed esposte ad uno sfruttamento sempre più incontrollato.
Senza il potere di contrattazione dei sindacati, gli imprenditori furono liberi di abbassare ulteriormente i salari, ma non solo quelli femminili, anche le paghe dei lavoratori maschi vennero ridotte così da renderle più competitive nei confronti di quelle femminili. In questo modo, a parità di altre condizioni, si ridusse l’incentivo ad assumere le donne al posto degli uomini.
L’ordinamento corporativo inoltre centralizzò e politicizzò la contrattazione tanto che i contratti nazionali cominciarono a codificare le differenze basate sul sesso, così da annullare quelle consuetudini locali e quelle condizioni di mercato più favorevoli alle donne. Infine il corporativismo fascista impedì alle lavoratrici di essere ampiamente rappresentate.
A differenza delle organizzazioni socialiste, che avevano tentato di integrare nel mercato del lavoro la manodopera marginale, i sindacati fascisti favorivano i lavoratori che già godevano di situazioni migliori; naturalmente quei lavoratori erano quasi tutti uomini. In ogni caso le donne non sarebbero state rappresentate da donne, visto il numero esiguo di laureate in legge o comunque di esperte nel settore.
A parte qualche eccezione, come Vittoria Maria Luzzi, unica rappresentante femminile nel Consiglio superiore delle corporazioni in quanto era a capo della Corporazione delle ostetriche, interamente femminile, le lavoratrici erano nelle mani di sindacalisti maschi.
Nella misura in cui le donne venivano coinvolte nel sistema corporativo, il loro reclutamento passava non attraverso il sindacato, ma attraverso una vasta rete di organizzazioni parallele, di difficile definizione. Questa rete operava sulla base del presupposto che le donne entrassero nel mondo del lavoro perché spinte dalla necessità, fermo restando che la loro principale attività fosse quella familiare.
La prima di queste istituzioni fu la Federazione Autonoma delle Massaie Rurali nel 1933; quattro anni dopo vennero istituite le Sezioni operaie e lavoranti a domicilio (S.O.L.D.), organismo altrettanto ibrido, che operava sotto la guida e attraverso il personale dei Fasci femminili.
Le attività della S.O.L.D. testimoniano la profonda differenza fra le organizzazioni fasciste destinate ai lavoratori maschi e quelle invece per le lavoratrici. In primo luogo la S.O.L.D. era aperta non solo alle operaie di fabbrica e alle lavoranti, ma anche alle mogli degli operai o ad altri membri femminili della famiglia.
La sua principale funzione era quella di promuovere la propaganda fascista nelle operaie, “assecondando il miglioramento delle loro capacità professionali e domestiche”; si aggiungeva inoltre il seguente compito: “Curare l’assistenza morale e sociale delle operaie, con specifico riguardo alle loro attività femminili”.
La S.O.L.D. non si preoccupava per nulla di rafforzare il potere contrattuale delle lavoratrici o di svolgere altre funzioni politiche negli interessi delle sue aderenti, come invece facevano le corporazioni maschili, ma si limitava a svolgere e a promuovere le attività assistenziali.
Le lavoratrici erano ancora una volta considerate come clienti dello Stato sociale tanto che il corrispondente femminile del fiduciario di fabbrica, era rappresentato dalla visitatrice fascista. L’iscrizione alla S.O.L.D. era vantaggiosa: costava solo due lire e mezza, contro le dieci lire del partito.
Dati i bassi costi, la S.O.L.D. crebbe rapidamente, da 309.945 membri nel 1938 a 501.415, per ricevere poi un forte impulso dall’entrata in massa delle donne nell’economia di guerra, che fece passare le iscritte da 616.264 nel 1940 a 864.922 del 1942.
Con il consolidamento del corporativismo, la legislazione protettiva aprì una seconda fase nella definizione del lavoro femminile, che si delineava sempre più differenziato da quello maschile. Fra le nuove norme protettive, erano quelle che interessavano le madri lavoratrici ad aver maggior peso.
Nel 1931, già 1.200.000 donne su 1.500.000 addette all’industria erano assicurate in conformità alla legislazione introdotta nel 1911, che aveva istituito la Cassa nazionale di maternità. Si è già detto che nel ’35, con il passaggio della Cassa nazionale sotto l’amministrazione dell’INPS, i sussidi e la protezione alle madri lavoratici furono estesi anche ad altre categorie professionali.
Alle donne spettavano due mesi di aspettativa retribuita, uno prima e uno dopo il parto; se volevano prendere un congedo più lungo, avevano diritto al mantenimento del posto di lavoro dal sesto mese di gravidanza a sei settimane dopo la nascita.
Erano garantite pause sul lavoro per l’allattamento fino al compimento del primo anno di vita del neonato ed inoltre, l’idennità pagata ad ogni parto raggiunse le 150 lire. Una legislazione così attenta alle esigenze delle madri lavoratrici era apprezzabile sotto molti punti di vista, e le stesse femministe davano il loro consenso a queste misure protettive.
Ma la storica posizione antifemminile del partito fascista poteva aver cambiato rotta in un modo così determinante? Certamente no. Le leggi infatti, a favore delle lavoratrici madri andavano di pari passo con le prime misure di esclusione delle donne dal mercato del lavoro, che il regime intensificò a partire dagli anni trenta.
Per tutto il ventennio, l’impegno prioritario della dittatura fu sul fronte dell’occupazione maschile; è perciò evidente che le misure protettive verso le donne avevano lo scopo di scoraggiare gli imprenditori ad assumere le donne e di spingere quest’ultime a lasciare il lavoro, quando i figli erano piccoli.
Per quelle donne che in seguito decidevano di rientrare nel mondo del lavoro, le aspettative non erano delle più rosee. La destinazione più probabile era l’economia sommersa, fatta di lavori irregolari e discontinui, completamente privi di qualsiasi assistenza sociale.
In definitiva, il fascismo si trovò di fronte ad una contraddizione nella situazione economica: esigeva una manodopera a basso costo ma allo stesso tempo cercava di assicurare l’occupazione dei capifamiglia. Voleva le donne fuori dal mercato del lavoro, ma tentava di tutelare quelle che già lavoravano “nell’interesse della razza”.
In una situazione economica che si presentava per tutti poco vantaggiosa, l’occupazione delle donne subì, nei fatti, dei colpi pesanti, data l’ostilità dell’ambiente fascista.
MACCHINA E DONNA
“Segnaliamo il questionario inviato alle Unioni provinciali dalla Federazione nazionale dei sindacati industrie chimiche, sulla disoccupazione operaia e sul modo di risolverla. Certamente, porsi il problema non è risolverlo, ma senza precisano nei particolari non si può giungere alla soluzione.
Fra gli otto punti del questionario due sono i cardinali: la limitazione del lavoro femminile e la proporzione del lavoro macchinale rispetto a quello umano. Inutile mettere il capo sotto l’ala: il problema della macchina ci colpisce ugualmente. Inutile affermare che con la macchina indietreggerebbe il progresso: l’uomo è qualcosa di meno della civiltà, ma qualcosa di più del progresso meccanico.
La vita delle nazioni è al disopra del meccanicismo integrale. Il fatto che le stesse organizzazioni operaie, che in passato più si giovavano di esso per la famosa emancipazione dei lavoratori dalla fatica manuale, diano l’allarme ha un grande significato. E’ l’operaio che domanda di ritornare alle aborrite fatiche.
Il lavoro femminile è la seconda delle grandi spine del problema della donna operaia o lavoratrice in genere, interseca oltre la disoccupazione anche la questione demografica. Il lavoro ove non è diretto impedimento distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto.
L’uomo, disorientato e soprattutto “disoccupato” in tutti i sensi, finisce per rinunziare alla famiglia. Oggi come oggi, macchina e donna sono due grandi cause di disoccupazione. Nel particolare, la donna salva molto spesso una famiglia ammalata o addirittura se stessa, ma il suo lavoro è, nel quadro generale, fonte di amarezze politiche e morali.
Il salvataggio dì pochi individui è pagato con il sangue di una moltitudine. Non vi è vittoria senza i suoi morti. L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbe di colpo nella vita nazionale”.
Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta nell’uomo a una fortissima virilità fisica e morale. Virilità che la macchina dovrebbe secondare. (Da “Il Popolo d’Italia,” n. 206, 31 agosto 1934).
LA GESTIONE DEL CORPO FEMMINILE
LA POLITICA DEL CORPO
Il nuovo programma che il regime impose alle masse femminili si occupò anche della riorganizzazione del corpo femminile attorno ad unico modello culturale, naturalmente quello fascista. L’attenzione che il fascismo dedicò al corpo della donna fu così precisa e sistematica che si può parlare di una vera e propria politica del corpo.
Erano principalmente due i motivi di questo interesse verso il corpo femminile. In primo luogo vi era la preoccupazione di Mussolini di assicurare all’Italia una nuova stirpe, robusta, sana e forte, in seguito alle difficoltà affrontate dall’Italia dopo la Grande guerra.
Fu proprio la constatazione del decadimento fisico degli italiani, a causa di miseria, denutrizione e malnutrizione, e di ignoranza delle norme igieniche, a spingere il governo a promuovere una disciplina educativa. Questa motivazione salutistico-igienica non poteva che coinvolgere in prevalenza le donne, in quanto possibili madri e dunque prime responsabili del miglioramento della razza.
Ma l’alta considerazione per gli attributi fisici della donna derivava anche da un altro fattore: la diffusione di modelli femminili diversi da quello imposto dal regime, provenienti dall’ambiente europeo e americano. Il pericolo che le donne italiane subissero l’influenza della cultura d’oltralpe, portatrice di inevitabili impulsi emancipazionisti, non poteva lasciare indifferente la dittatura.
Il governo fascista rispose con lo sforzo di intervenire nella definizione dei canoni di bellezza muliebre, manipolando in questo modo la nuova coscienza della fisicità femminile allo scopo di controllare e sopprimere il desiderio di emancipazione che da essa derivava.
I canoni della bellezza femminile avevano subito delle forti trasformazioni fin dall’inizio del secolo ad opera della produzione teatrale e cinematografica, della stampa e della moda. Attorno al 1910 era stata l’eroina dannunziana Eleonora Duse a rappresentare l’ideale femminile, sostituita negli anni venti dalla garçonne, la cosiddetta maschietta, simbolo della moda parigina.
Agli inizi degli anni trenta, il cinema americano aveva imposto le sue donne “bionde, atletiche, slanciate che avevano influenzato il modo di star sedute, di levarsi, di camminare, di soffermarsi, di volgersi” di tutte le donne italiane.
Questo continuo cambiamento era un fenomeno che disturbava l’omologazione promulgata dalla politica fascista che per porre rimedio al danno provocato dalla cultura commerciale, incaricò Mussolini e i suoi fiduciari a lanciare i propri modelli di bellezza muliebre.
La donna italiana avrebbe dovuto essere generosa nelle forme, avere ampi fianchi ed essere forte e robusta, solo così sarebbe stata una vera madre e una buona compagna, in grado cioè di occuparsi della casa e della famiglia.
La campagna contro la donna magra, pallida e sterile, si aprì ufficialmente nel 1931, quando Gaetano Polverelli, capo dell’Ufficio stampa di Mussolini, ordinò ai giornali di eliminare tutte quelle immagini che mostravano figure femminili magre e mascolinizzate.
Contemporaneamente cominciarono a diffondersi articoli di giornale che celebravano le forme abbondanti e gli epiteti erano spesso grossolani: “Di donna senza ciccia / Strapaese non s’impiccia. Donna che pesa un’oncia / La propria casa sconcia”; altri avevano toni più scherzosi, pur sempre significativi: “In stretto bacino / mal si cova il piccino”.
La magrezza femminile divenne un punto centrale all’interno del dibattito sulla bellezza, tanto che Mussolini chiese alla categoria dei medici di intervenire nel dibattito a difesa “del grasso”, contro la moda dell’eccessiva magrezza. La propaganda fascista continuava ad associare salute e prolificità a quelle donne con fattezze arrotondate, senza volersi accorgere che la realtà femminile stava cambiando.
Le stesse donne rurali, da sempre incarnazione dell’ideale estetico del fascismo, non esaudivano l’incessante richiesta del regime di fare figli; all’abbondanza del corpo non sempre corrispondeva la certezza di numerose gravidanze. Se già le donne di campagna ponevano una certa resistenza ad adeguarsi al modello di donna proposto dal fascismo, in città la situazione era ancora più difficile da gestire.
Sia le donne del proletariato sia le donne borghesi erano sempre più attente alla gestione del proprio corpo, che si esprimeva nelle prime con il controllo delle nascite, nelle seconde attraverso un’adesione a quei modelli estetici che lo Stato demonizzava.
La gestione del corpo femminile non riguardava unicamente i canoni estetici ma si imponeva in modo sistematico anche attraverso un controllo dell’alimentazione. Si è già visto nel capitolo dedicato agli interventi dell’O.N.M.I., che il partito fascista dava molta attenzione all’alimentazione delle madri e delle gestanti proprio perché la qualità del cibo era una delle condizioni necessarie per il miglioramento della razza.
Il controllo del corpo, nelle sue varie forme, è una prassi costante della politica dei regimi autoritari. A conferma di quanto detto, vorrei aprire una parentesi sulla Germania di Hitler, consapevole delle differenze intercorse fra la politica fascista e quella nazista.
Nello sorprendente studio di Robert N. Proctor vi è un’ampia panoramica circa l’interesse della politica nazista verso l’aspetto salutistico del cibo e sul tentativo di delineare “l’alimentazione perfetta” per il popolo ariano. I nutrizionisti tedeschi iniziarono una lunga battaglia contro determinate abitudini alimentari, come l’uso eccessivo di grassi e proteine a favore di un ritorno a cereali e a verdure, considerati cibi più naturali e maggiormente capaci di irrobustire il corpo.
Questo era lo slogan più ripetuto: “Il nostro corpo appartiene alla nazione! Il nostro corpo appartiene al Fuhrer! Abbiamo il dovere di essere sani! Il cibo non è una questione privata!”
Le politiche alimentari tedesche non solo miravano ad irrobustire il fisico, ma la selezione accurata degli alimenti voleva essere anche una forma di prevenzione delle malattie, soprattutto del cancro, ritenuto la “malattia del secolo”.
Non trovando la causa prima dell’insorgere del tumore, i ricercatori tedeschi concordarono nel ritenere che il cancro fosse legato ad una disfunzione del corpo, a sua volta causata da un’alimentazione scorretta che indeboliva il corpo. Venivano perciò indicati quei cibi che mantenevano l’uomo in buona salute, difendendolo – così credevano- dal cancro.
L’eccessivo consumo di carne fu la prima cosa dichiarata pericolosa per la salute; anche l’abuso di zucchero venne sconsigliato, così come l’uso di alcol e di tabacco, che a partire dagli anni trenta, divennero l’oggetto di una lunga politica proibizionista.
Lo stesso Hitler era un vegetariano, convinto che il cancro dipendesse da una scorretta alimentazione, diffondeva una dieta basata principalmente sul consumo di frutta e verdure fresche, non cotte, perché anche la cottura era ritenuta una concausa dell’insorgere del cancro.
Il regime nazista era ossessionato dalla salute, dalla purezza del corpo e della razza, voleva classificare ogni malattia genetica, stilare mappe genetiche e razziali, individuare e registrare ogni minimo dettaglio della vita del popolo tedesco.
Seppur nessun governo sia mai stato così sistematico nell’inquadrare l’esistenza umana quanto quello nazista, il fascismo raggiunse un alto livello di controllo soprattutto nei confronti delle donne, “osservate” nelle loro case, nella loro intimità, nel posto di lavoro e in ogni forma di associazionismo.
LO SPORT FEMMINILE
L’attenta e precisa politica del corpo femminile messa in atto dal governo fascista si espresse anche attraverso un’assidua organizzazione dell’attività sportiva. In passato l’attenzione che i governi avevano dimostrato per le attività fisiche delle donne era stata scarsa: né il partito liberale, né il movimento socialista, e neppure il femminismo avevano investito nel campo della cultura fisica.
Mentre in Europa esistevano già alcuni movimenti sportivi femminili, come la Lega femminile della salute e della bellezza in Gran Bretagna o altre società ginniche nell’area scandinava e in quella tedesca, in Italia si dovette aspettare il ventennio fascista per assistere all’entrata delle donne nel mondo dello sport.
In realtà, qualche anno prima, i modernizzatori cattolici avevano promosso una “ginnastica cattolica”, e nel 1923, sotto la guida della professoressa Teresa Costa, la Gioventù femminile creò i primi gruppi sportivi, chiamati “Forza e Grazia”.
Lo scopo di questa ginnastica era quello di formare “buone madri cristiane, buone e sane, fisicamente e moralmente, capaci di darci una generazione di italiani sani, buoni, anch’essi fisicamente e moralmente”.
Nonostante la coincidenza fra gli obiettivi cattolici e quelli fascisti, lo sviluppo delle iniziative cattoliche venne bloccato il 9/4/1928, quando il regime bandì tutti i gruppi sportivi non fascisti.
Gli anni trenta segnano l’inizio della lunga propaganda che il fascismo operò a favore dell’esercizio fisico, promovendo ed incoraggiando l’associazionismo sportivo sia maschile sia femminile.
L’esaltazione dell’attività sportiva e del suo aspetto salutistico, si sposava perfettamente con l’ideale fascista di forza- coraggio -prestanza che coinvolgeva, seppur in termini differenti, l’universo maschile quanto quello femminile.
Per gli uomini rappresentava il mezzo necessario per diventare ottimi soldati, e ad una Nazione che si preparava a ripercorrere le gloriose tappe dell’antica Roma, occorrevano uomini forti, sani e coraggiosi, quindi sportivi. Alle donne, il regime non aveva assegnato obiettivi militari, ma un compito di maggior responsabilità: mettere al mondo i futuri soldati italiani.
Per nascere sani, bisogna essere cresciuti in un grembo sano, partoriti e allattati da madre sane. Di qui la necessità di curare la salute delle madri attraverso l’esercizio fisico. Per questo aspetto eugenico attribuitogli dalla propaganda fascista, lo sport femminile venne considerato un vero e proprio investimento, un progetto da portare avanti anche di fronte alle resistenze dell’area cattolica e di parte dell’opinione pubblica.
Incoraggiare le donne a praticare dello sport, era un’arma a doppio taglio. Se da un lato era un mezzo per realizzare gli scopi prefissati dal regime, l’associazionismo sportivo poteva allo stesso tempo aprire la via all’emancipazione femminile. Di fronte all’incoraggiamento delle donne ad essere sportive, ritenuto dai più eccessivo e indiscriminato, si sollecitò un intervento del governo in proposito.
Nella seduta governativa del 16/10/1930, il Gran Consiglio del Fascismo decise di esaminare il problema dello sport femminile.
La decisione creò grande aspettativa e accese nuove polemiche fra una parte della popolazione, soprattutto dell’ambiente sportivo, che si dichiarava favorevole all’esercizio fisico, e i conservatori, assieme a quei padri e fidanzati seccati di vedere le loro donne dedicarsi ad attività extradomestiche, che ovviamente speravano in un’inversione di rotta da parte del governo.
Ma i termini della questione non erano questi. Il G.C.F. non metteva in discussione la validità dell’esercizio fisico, ma si accingeva a pronunciarsi in merito all’atletismo femminile. La distinzione fra i due modi di concepire lo sport era netta. Una cosa era promuovere la pratica sportiva, in quanto funzione formativa e correttiva, tutt’altro era sostenere una forma di attività che prevedeva dei risvolti agonistici, con allenamenti specifici, competizioni ed esibizioni pubbliche.
L’atletismo femminile, divenuto una realtà alla luce dei Campionati Femminili Mondiali svoltisi a Praga nello stesso anno, doveva esser posto sotto rigido controllo. Il G.C.F. ordinò alla Federazione dei Medici Sportivi di pronunciarsi a sfavore dell’atletismo femminile, con lo scopo di spostare sul terreno medico una questione che non riusciva a gestire.
In accordo con i medici sportivi, il Presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano fu incaricato di limitare il campo dell’attività fisica femminile, di definire quali fossero le discipline più adatte al corpo di una donna, “al fine di non distogliere la donna dalla sua missione fondamentale: la maternità”.
In questo modo il Gran Consiglio si poneva al di fuori della polemica e lasciava alla categoria dei medici lo scomodo compito di trovare un equilibrio che mettesse tutti d’accordo sullo sport femminile.
Gli interrogativi più frequenti riguardavano la scelta delle discipline femminili, il periodo in cui la donna poteva fare dello sport e gli eventuali danni che l’esercizio fisico poteva recare nella pubertà, durante il ciclo mestruale o durante la gravidanza.
Tra la rosa degli studiosi che intervennero nel dibattito, oltre al dott. Poggi Longostrevi, si misero in luce il dott. Rettagliata, il dott. Scalzone ed un’unica donna, la dottoressa Cori, le cui posizioni non erano poi così diverse.
Sia il dott. Rettagliata che la dottoressa Cori si pronunciavano a favore di una differenziazione degli esercizi, sottolineando la distinzione della muscolatura e della struttura ossea femminile rispetto a quella maschile.
Entrambi ritenevano la ginnastica una condizione necessaria per avere una corretta postura ed un bell’aspetto, purché eseguita senza eccessi e mai prima dell’età puberale. Il dottor Scaglione, direttore della clinica Ostetrico Ginecologica della Reale Università di Perugia, si dichiarava completamente d’accordo con i metodi adottati dall’Opera Nazionale Balilla in proposito.
L’O.N.B., creata a Roma “per l’assistenza e l’educazione fisica e morale della gioventù”, prevedeva l’assistenza dei giovani d’ambo i sessi, dagli otto ai diciotto anni, raggruppati nelle due organizzazioni dei Balilla dagli otto ai quattordici e dagli Avanguardisti dai quattordici ai diciotto anni compiuti.
Per soddisfare le richieste del Gran Consiglio e seguire i consigli dei medici sportivi, il presidente dell’O.N.B. Renato Ricci aveva predisposto delle ferree regole all’interno dei gruppi giovanili.
La prima regola era la differenziazione fra maschi e femmine, applicata in ogni campo, negli itinerari sportivi, nelle manifestazioni pubbliche, nei giorni di allenamento e nel personale che lavorava all’interno dell’organizzazione.
Per quanto riguardava le discipline sportive, vennero promossi gli sport di squadra, ritenuti più adatti al corpo femminile in quanto favorivano il contatto sociale e lo spirito di gruppo, e il corpo libero poiché aggraziava le forme. Inoltre le posizioni dei medici coincidevano nel sostenere la durata dell’attività fisica oltre la giovinezza; anzi la si consigliava anche in quelle fasi come la gravidanza o il periodo mestruale, in cui si era creduto di doverla vietare.
E’ necessario sottolineare che per quanto la propaganda fascista avesse investito nel campo dell’attività fisica, essa rimase una prerogativa per donne appartenenti ad ambienti borghesi o piccolo-borghesi. Infatti, la ginnastica e l’esercizio fisico si erano diffusi principalmente perché introdotti come materia obbligatoria, nelle scuole italiane.
Dunque, le donne degli strati più umili e della campagna, o quelle che per varie ragioni erano rimaste escluse dal processo di scolarizzazione, non vennero coinvolte nel fenomeno dell’associazionismo sportivo.
Per la restante minoranza di donne che ebbe la possibilità di entrare nelle organizzazioni sportive fasciste, lo sport non rappresentò un’occasione di libertà personale ma di disciplina in nome del partito e della razza.
L’ACCADEMIA DI ORVIETO
La realizzazione del progetto sportivo fascista necessitò della costruzione di impianti sportivi e di strutture adatte a formare i futuri insegnanti di educazione fisica. Tra il 1927 e il 1930 il governo dette un eccezionale impulso all’edilizia sportiva; vennero, infatti, inaugurati più di mille campi sportivi, piscine e palestre, distribuiti nelle più importanti città italiane.
Fra tutti gli impianti sportivi, quello più maestoso e celebrato fu certamente il vasto complesso architettonico che va sotto il nome di Foro Mussolini. Il Foro, la cui progettazione fu affidata all’architetto Del Debbio, si costruì a Roma lungo la zona che da viale Angelico porta alle pendici del Monte Mario e simboleggiò, per tutto il periodo fascista, la resurrezione morale e fisica del popolo italiano.
Nel 1929, un anno dopo l’inizio dei lavori per la costruzione del Foro, il governo fascista annunciava la nascita dell’Accademia di Educazione Fisica Femminile, provvedimento che rispondeva all’esigenza di formare nuove insegnanti per le scuole medie e per le organizzazioni femminili fasciste.
Dopo un’accurata ricerca per trovare una sede idonea, il G.C.F. scelse un antico edificio situato ad Orvieto, che nel XIII secolo aveva ospitato l’antica Università della città. L’interno del complesso architettonico fu completamente restaurato per dare maggior spazio e luminosità, mentre l’esterno poté mantenere il suo aspetto originario.
La costruzione si articolava su due piani. Il pianoterra ospitava gli alloggi del personale di servizio, una cucina e la mensa, due palestre coperte, una sala medica e un magnifico teatro in grado di accogliere più di mille persone; il piano superiore era costituito dagli alloggi delle allieve e degli insegnanti, dalle aule scolastiche e da un salone di studio.
All’esterno c’era un ampio spazio dedicato alle esercitazioni di ginnastica ritmica ed artistica, un campo di pattinaggio, uno di atletica ed un maneggio. Le allieve che accedevano all’Accademia erano tutte provenienti da famiglie medioalte, e l’educazione completa che ricevevano poteva considerarsi di ottimo livello.
Dopo aver frequentato i corsi, equiparati a quelli universitari, ottenevano un diploma che permetteva loro di accedere all’insegnamento di educazione fisica, dopo una sorta di tirocinio di insegnamento. La durata dei corsi fu all’inizio biennale, più tardi di tre anni.
I corsi accademici erano vari, prevedevano sia attività pratiche sia l’insegnamento di materie umanistiche e scientifiche, senza dimenticare l’interesse dimostrato dall’Accademia per le problematiche socio-assistenziali. La giornata delle allieve si divideva fra lezioni teoriche e quelle di ordine pratico, momenti di ricreazione e di studio.
L’organizzazione era simile a quella di un collegio: poca libertà e divieto di ricevere la posta personale, controllo delle camerate, visite dei parenti con date fisse e ritmi quotidiani sempre uguali. L’unico evento in grado di spezzare la monotonia delle giornate, era la visita periodica di qualche autorità politica.
In quell’occasione venivano scelte le allieve più brave e di miglior aspetto, per presentarle agli ospiti a dimostrazione del livello tecnico ed estetico dell’Accademia. La giornata prevedeva un programma fitto d’esibizioni ginniche, di interviste e di giri d’ispezione da parte del rappresentante del Governo. L’onorevole Renato Ricci, presidente dell’O.N.B., era l’ospite più atteso ed autorevole.
Egli si recava con frequenza all’Accademia, portava i saluti da parte del Duce, e ogni anno fissava appuntamento a tutte le allieve al Foro di Mussolini, ove si teneva il saggio finale a conclusione dell’anno accademico. L’Accademia Femminile di Orvieto rappresentava per l’élite delle ragazze che potevano accedervi, un ottimo percorso per costruirsi un futuro lavorativo ed ottenere una certa autonomia, almeno in termini economici.
Nonostante la rigidità dell’ambiente accademico che rifletteva perfettamente la standardizzazione promulgata dal regime, alle studentesse diplomate si apriva la strada dell’insegnamento, un’alternativa sicuramente valida rispetto all’esclusione dal mondo lavorativo che aveva colpito la maggioranza delle donne.
LA DONNA, LO SPORT, LA MATERNITA’
“La donna. Non vogliamo, in questa breve delucidazione, discutere sul valore organico o spirituale dell’eterno femminino, sulle idee che vigono intorno ad esso tra femministi e antifemministi dell’un sesso e dell’altro.
E per femministi intendiamo non già gli estimatori del sesso ch’è il necessario e ideale complémento di quello maschile – ossia della metà più bella del genere umano; e basterebbe già la bellezza, a cui pur si unisce il cuore, nel sesso che deve attrarre, a compensare deficienze, che debbono esserci, o differenze in altri sensi – ma i fatui affermatori d’una assoluta eguaglianza di funzioni e di valori, che implicherebbe per forza una perfetta eguaglianza di forme e di costituzione anatomica, e quindi di parti sessuali che sì gagliardamente colorano di sè tanta parte della vita umana.
Ma ci sarebbe da discutere anche su di un altro punto; sul posto che dobbiam dare oggi alla morale; a questa povera morale, che a parlarne fa bollare del terribile nome di moralista l’imprudente che, non avendone acquisito il diritto da un abito di religioso e quindi da un dovere professionale di religioso o di predicatore, si azzardi, lui laico, ad occuparsi di cosa non sua.
E dovremmo dire anche del posto da dare all’igiene, che è una santa cosa – se salute del corpo ha da essere intesa come presupposto indispensabile alla normale e piena vita dello spirito, ch’è la vera vita dell’individuo -, ma che anch’essa, esagerata o falsata, può esser condannabile come tutte le denaturazioni o come tutte le cose che vanno all’estremo. Chè, si sa, gli estremi si toccano; e questo vuoi dire che anche per l’igiene l’estremo potrebbe corrispondere col suo opposto.
Come la questione del femminismo oppure di una giusta considerazione della donna ha attinenza strètta con quella degli sports, così l’igiene ha egualmente stretta relazione con essi sports. I quali da alcuni sono veduti sotto svariati angoli di luce o nei loro più svariati aspetti o significati, mentre molti, erroneamente, li vedono solo dal lato della salute – e non giustamente neanche da questo lato -, prescindendo da quei riflessi sociali, morali, estetici, spirituali che essi possono avere.
Comunque, riguardo alla donna, qui ci basta porre l’affermazione – la quale non potrebbe essere seriamente smentita -, che essa, eguale nel valore totale o nella somma dei suoi singoli valori rispetto all’uomo, non lo è nei singoli valori o nei vari elementi corporei o funzionali o spirituali di che consta la sua personalità completa.
Eguale dunque in questa somma algebrica, ma diversa; come in un sano e bel convivio possono avere egual valore i cibi od i vini; come, tra gli stessi cibi, non saprebbe instituirsi differenza di valore tra una buona bistecca sapientemente cotta o delle frutta belle e mature, che già colla vista rallegrano i commensali.
E se c’è diversità, non può essere lo stesso lo sport o la ginnica per l’uomo e per la donna.
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Gli sports. Sport o ginnastica o educazione fisica? Si ha, cioè, da prender la parola sport per designare la ginnica in generale, come fanno molti che paiono ignorare quell’altra gran parte degli esercizi corporei che non rientrano propriamente negli sports, e a cui non danno importanza perchè non piace quel non so che di metodico che si vede nella ginnica in generale o in certa parte di essa, ad alcuni invisa perchè veduta sotto la specie della ” noiosa” ginnastica fatta “al chiuso”, oggi che tutto, financo l’amore, s’ha da fare liberamente all’aperto.
Insomma, ha la parola un significato di ginnica ridotta alla sua parte per molti precipua, più utile, più appariscente, più pratica e più gradita alla gioventù? Oppure la si ha da intendere come i più paion oggi intenderla, ossia come tutta la ginnastica, che molti non negano, ma che piace ormai di sintetizzare in quel nome più gradito, più svelto – anche in quel monosillabo, oltre che nel significato che suscita alla mente – più dinamico e però più consono a questi celerissimi tempi?
Ma sta di fatto che gli sports non sono che una parte dell’esercizio corporeo, ossia di quella ginnastica che è cosa più complessa e completa e che, pur nella sua parte sportiva non ha poca importanza, segnatamente nella donna e in alcune sue forme, come la ginnica ortomorfica, callistenica e via discorrendo.
Dunque sports, sì, anche per la donna; cioè per essa esercizi e giuochi prevalentemente all’aria libera o che avvicinino o preparino agli esercizi veramente sportivi. Ma anche ginnastica; anzi educazione fisica; la quale ha un valore anche più lato della ginnica, come l’educazione in genere, che comprende tutte le funzioni dell’individuo, e non è la sola istruzione o l’educazione o addestramento dell’intelligenza.
E questo, per ovviare – e più conta ovviare ai danni e questi prevenire più che cercare soltanto di ottenere vantaggi positivi -ai danni che la scuola, porta alla donna più che all’uomo per un cumulo di ragioni che facilmente si possono intuire.
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Maternità. Molti più o meno intuiscono il significato di questa sacra parola, quando, se padre è o dovrebbe essere – oggi è piuttosto scaduto in valore, questo alto significato – qualcosa di venerando o quasi augusto, madre ha in sè addirittura qualche cosa di sacro. Nè temiamo, così dicendo, di spiacere neanche alle signorine avanguardiste della vita novecentesca.
Chè oggi la quasi totalità delle fanciulle – pur quelle le quali peccano per certa esuberanza e indipendenza e paiono sconfinare dal campo della esteriore femminilità – non pensa più, come qualche tempo addietro, che il far figli abbassi la donna al livello di un (animale da riproduzione) (l’obiezione stoltissima che prima usava muover subito a chi parlava di donna cui l’ambiente della casa e la figliolanza meglio s’addicono che la defatigante od esauriente o denaturante vita eccessivamente extracasalinga).
E quasi tutte le ragazze più o meno sentono ché la maternità è, al contrario, ciò che più alza, la donna nel concetto di chi pensa e sente rettamente, e’ la solleva nel valore che può dare la società; ch’essa è quel che più l’avvicina all’ideale che la società stessa le assegna e che corrisponde alla, funzione per cui Iddio l’ha creata.
Ed esse capiscono che il matrimonio è lo sbocco vero, la terraferma a cui, dopo il vagare fluttuante nelle incertezze, nelle esperienze, nei disinganni, nei non sempre soddisfacenti svaghi della vita di ragazza, deve mirare ogni donna che non puzzi di intersesso o di femminismo; è il porto in cui solo si quieta, nonostante le inevitabili preoccupazioni e spesso le pene e i dispiaceri che s’incontrano, l’anima della donna; il sacrario, la scuola in cui si eleva e si perfeziona il corpo stesso, se non nel senso di un’estetica che fa capo alla linea o all’eleganza, ma in quello d’un organismo che arriva al suo armonico sviluppo; in che anche l’anima, se pur si attenuino certi valori dell’intelligenza, trova una più completa bellezza, e tutta la donna attinge il culmine del suo particolare fascino di sposa e di madre.
Maternità peraltro non è solo il generare dei figli; un fatto, cioè; di così grande portata non è conchiuso soltanto negli stretti limiti di tempo del concepimento e della gestazione. Come fu detto “sola mulier in utero” (quante volte, a lezione ripeteva questo apoftegma il compianto grande maestro Pietro Procco); come la funzione sessuale ha nella donna una importanza eccezionale ed influisce sulla intelligenza, anzi sullo spirito tutto in un modo che non è paragonabile a quello dell’uomo, così ogni età od ogni suo stadio dev’essere veduto in rapporto alla meta ultima o centrale della donna, nella bambina essendo in latenza la futura prepubere, e in questa iniziandosi quella vita genetica che va gelosamente salvaguardata in un’età in cui la vita genetica latente è come il seme che deve essere inserito nel terreno nella maniera più opportuna, e la pianticella, che dev’essere curata in rapporto alla delicatezza sua nel tempo in che sboccia sotto terra dal seme e poi fuoriesce timida dal terreno.
Così il primo intimo sorgere e lo svilupparsi della vita genetica potranno essere deviati dalla via normale con una facilità che il profano non saprebbe immaginare. Sicchè qui più che altrove – cioè nel campo della profilassi e di quella. vita spirituale e sociale che ha nella giovine tanta influenza sulla vita sessuale quanto questa ne ha sulla vita spirituale, qui par giusto e doveroso l’attenersi a quel precetto del principiis obsta che fu nei secoli espressione della più saggia medicina.
E quindi si pensi anche a quei danni che la civiltà urbana di per sè stessa – specialmente in questi ultimi tempi di vita eccessivamente dinamica ed emotiva e complicata, e di continui svaghi spesso esaurienti – può portare indipendentemente da tare o deficienze costituzionali, pur nelle fanciulle sane, non impunemente viventi la non igienica vita delle grandi città moderne.
Quindi la maternità si allarga nella preparazione al concepimento, e, avendo il suo punto centrale nella gestazione, si prolunga nella prima educazione somatica del neonato che è l’allattamento. Il quale, da un lato contribuirà più d’ogni altra cosa al futuro sviluppo del fanciullo, mentre, d’altro lato, molti sono gli elementi esterni ed interni, corporei e spirituali, che possono non indifferentemente influire sulla normale formazione di quello che è il cibo ideale del fanciullo nel suo primo anno di vita: il latte materno, che è come una prosecuzione di eredità nel momento più formativo del suo sviluppo, a lui proveniente da colei che, concependo, già stampò 119 l’orma sua nel piccolo abbozzo dell’essere che più tardi verrà alla luce.
Eppoi? Eppoi, ce n’e’ ancora della strada da fare per la maternità. La quale è anche opera di educazione e di protezione del fanciullo nell’età prima, in cui meglio si richiede la vigilanza della madre, che ha da. natura e dall’amore – l’amore intende e insegna più della scienza cartacea – la prescienza e scienza di quello che al figlio suo occorre.
Verrà la scuola e la vita esteriore men vigilata. E la madre completerà l’educazione del fanciullo, e correggerà quello che il piccolo potrebbe prendere da elementi inopportuni o dal cattivo esempio. E si curerà sempre del nutrimento del bambino, e che esso si muova e prenda aria e si svaghi e apprenda e si espanda alla vita. Insomma, farà, essa, quello che l’artista fa colla statua o col suo bozzetto in creta, ch’ei col pollice ritocca e corregge e liscia per avvicinarlo a quell’ideale che gli sta nella mente.
E qui, in questo formare e perfezionare l’opera greggia che esci dal suo seno, ci sembra che meglio riappaia, nella saggezza e nell’amore e nel sacrificio, la grande funzione della madre, che vuoi dare a Dio e alla società l’offerta più grande ch’essa possa dare; che sia insomma la maternità più alta e più bella, come quella che è intesa a formare la persona o l’anima del figliuolo.
Dunque? Dunque vigilanza della donna fino dai suoi primi anni; e sana ginnica nel periodo della preparazione materna. E dopo? Dopo, ginnica e sports possono non cessare, ma, fattasi la donna madre, ancor meno si possono far confronti con l’uomo.
Chè essa ha ormai cambiato la sua persona corporea e, se e vera donna, ancor più la sua persona spirituale, sì che talvolta restano appena scarsi vestigi di quelle che furono tendenze mondane e ribelli dell’età in cui non ci fu il contatto dell’uomo e il concepimento non aprì alla sua mente e al suo cuore un nuovo mondo. E da allora sarà. sopra tutto pei figli e per la famiglia, pur vivendo sempre una vita sana e che avrà i necessari contatti colla vita esteriore”.
(MASSIMILIANO CARDINI, da “Maternità e Infanzia”, Rivista bimestrale dell’Opera Nazionale per la protezione della maternità e infanzia, anno XVII, n. 1-2, gennaio-aprile 1942, pp. 179-184).