LA DONNA E IL FASCISMO – 2

a cura di Cornelio Galas

INTERVENTI STATALI: ASSEGNI FAMILIARI

E PREMI DI NATALITA’

Per ovviare alla situazione italiana degli anni venti, caratterizzata da relativamente poche unioni familiari e pochi figli, il regime stabilì una precisa linea politicoculturale d’intesa con la Chiesa cattolica, come si è già detto, fertile retroterra per le esigenze del fascismo.

Lo stesso Loffredo sottolineò la necessaria collaborazione fra Stato e Chiesa, in quanto “la famiglia cristiano-guerriera del fascismo è il solo nucleo familiare in cui possono nascere e crescere numerosi i futuri figli della Patria”. Insieme Stato e Chiesa impedirono l’informazione e la circolazione degli anticoncezionali. Nel Codice Rocco inoltre, si inserirono pene pesantissime sia per quelle donne che deliberatamente si rifiutavano di rimanere incinte, sia per coloro che favorissero o procurassero l’aborto.

Nella legislazione fascista, l’aborto e la diffusione degli anticoncezionali divennero reati contro la collettività e contro lo Stato, perché considerati comportamenti contro lo sviluppo della razza italiana; nelle normative precedenti, a anche per la morale cattolica, tali comportamenti erano unicamente considerati reati contro la moralità.

L’apice dell’alleanza culturale e politica fra regime e Chiesa cattolica, è rappresentata dalle encicliche “Casti Connubii” e “Quadragesimo anno”, emanate da Pio XI negli anni ’30 e ’31. Entrambe le encicliche sigillavano la superiorità dell’uomo e la conseguente subordinazione della donna, la cui femminilità si affermava entro le pareti domestiche. Inoltre vi si risottolinea come il lavoro femminile fosse un pericolo per la famiglia e per l’educazione dei figli.

Come ricorda Oreste Del Buono, le centotre citazioni, tratte dal Vecchio e Nuovo Testamento e dai Padri della Chiesa, contenute nell’enciclica “Casti Connubii”, non solo venivano lette in sede di matrimonio, ma il sacerdote consegnava anche una copia dell’enciclica agli sposi, insieme alla polizza nuziale delle assicurazioni di Stato col premio di natalità.

Nonostante la divulgazione di una cultura così univoca che spingeva alla procreazione e alla famiglia, l’Italia vide, dal 1926 al 1930, scendere di due punti il suo tasso di natalità rispetto al quadriennio precedente. Il regime dovette perciò intervenire con una assidua politica che mirava a colpire economicamente i più restii al matrimonio, e a premiare le famiglie più numerose.

Con la legge del 1/1/1927 creò un’apposita tassa sui celibi fra i venticinque e sessantacinque anni – con l’esclusione di sacerdoti, religiosi, invalidi e militari – che venne raddoppiata l’anno successivo. Dodici anni dopo, la tassa sul celibato fu pagata da oltre un milione di celibi, per un ammontare che quasi coincideva con la somma pagata dallo Stato per gli assegni famigliari, per i prestiti matrimoniali e per i premi di natalità.

Nel ’34 vennero istituiti gli assegni famigliari, concessi a quelle famiglie numerose e con pochi mezzi di sostentamento. Inizialmente, i soli beneficiari furono i lavoratori delle industrie; soltanto nel ’36 la distribuzione degli assegni fu ampliata anche alle altre categorie professionali. Malgrado le classi lavoratrici urbane costituissero una minoranza della popolazione del tempo, l’intervento del regime sembrava voler favorire il proletariato urbano.

Probabilmente, come sostiene Chiara Saraceno, il regime cedette alle pressioni del sindacato fascista che rivendicava una qualche forma di compensazione, per le restrizioni salariali imposte dal fascismo in quegli anni. Il concetto di famiglia era fondamentale per ottenere gli assegni: potevano ottenere aiuti solo quei nuclei familiari, composti da genitori, figli ed altri conviventi a carico del padre di famiglia; ovviamente si doveva trattare di famiglie e figli legittimi.

Nel 1937 ci fu un altro importante intervento politico a sostegno della famiglia. L’Istituto Nazionale Fascista della previdenza sociale concesse i prestiti matrimoniali; furono le stesse province ad elargire i prestiti e a riscuotere le somme in restituzione. Si stabilirono dei criteri ben precisi per l’assegnazione dei prestiti.

Chiara Saraceno

Come prima cosa, il marito doveva essere un cittadino italiano con un’età massima di ventisei anni. Inoltre, la restituzione del prestito, che oscillava fra le mille e tremila lire, doveva avvenire in rate mensili, a tasso zero, a partire dal sesto mese di matrimonio. Se la moglie era incinta, la restituzione veniva posticipata al diciottesimo mese.

Esisteva però una variante: se i figli crescevano di numero, venivano aumentate anche le quote condonate; se invece le gravidanze si fermavano ad una soltanto, la rata mensile di restituzione del prestito saliva del 2%.

La politica famigliare e pronatalistica del regime raggiungeva il proprio acme con l’assegnazione di premi di natalità alle famiglie più prolifere. Erano le stesse organizzazioni fasciste a consegnare il premio in denaro, che consisteva in una somma compresa fra le duecento e le cinquecento lire.

In caso di parto gemellare, Mussolini in persona offriva milleduecento lire alla famiglia premiata. Le misure pronatalistiche del regime furono dunque di due tipi: “positive” quelle miranti a dare premi e sostegni; “negative” invece, quelle tese a punire gli atteggiamenti ritenuti pericolosi e devianti. Entrambi gli interventi, modificarono non solo la normativa relativa alla maternità ma anche quella relativa alla paternità.

Infatti, misure “positive” erano già state adottate dai governi prefascisti. Fin dal 1911, esisteva la Cassa nazionale di maternità, finanziata dai contributi delle lavoratrici e dai loro datori di lavoro. Erano le sole operaie delle industrie a beneficiare di questa iniziativa, che consisteva in una indennità pari a 40 lire al momento della nascita del figlio. La riforma operata dal fascismo, nel ’23, seppur non ampliò le categorie di donne che potevano godere di questa forma di assicurazione, aumentò l’indennità portandola a 100 lire.

Nel ’35, l’amministrazione della Cassa nazionale della maternità passò all’INPS; solo da quel momento si ebbe l’estensione dell’ idennità ad altre categorie professionali. Con l’introduzione dei premi di natalità, nel ’39, il regime sostituì l’indennità pagata esclusivamente alle madri lavoratrici “con una somma, crescente ad ogni nascita, che era pagata ad ogni uomo o donna cui nascesse un figlio”.

Questo significò l’estensione della possibilità di ottenere un compenso anche per i lavoratori maschi, nel caso fossero diventati padri. I premi di natalità assumevano così un significato diverso: se prima potevano esser considerati un riconoscimento del diritto ad essere madri e lavoratrici insieme, sotto il regime, diventavano dei veri e propri premi a favore della famiglia attraverso un aumento del salario del marito.

Poiché la realtà lavorativa era composta in prevalenza da uomini, la politica pronatalistica del fascismo andava dunque a premiare la componente maschile piuttosto che le donne, malgrado la costante esaltazione della funzione materna che culminava nella Giornata della Madre e del Fanciullo, festeggiata il 24 dicembre, la sua massima consacrazione ufficiale.

Premi di natalità, prestiti matrimoniali, assegni famigliari e la stessa tassa sul celibato esprimono chiaramente la direzione della politica “sociale” del fascismo, che mirava a dare il massimo sostegno alla famiglia, purché essa fosse legittima e fondata sulla “figura maritale – paterna”.

L’ O.N.M.I.

Gli anni compresi fra il 1925 e 1927 videro il regime impegnato a realizzare un progetto, forse il più ambizioso nel campo della politica sociale, rivolto principalmente alle madri e ai loro bambini: un programma coordinato di leggi a favore della maternità e dell’infanzia, legittime o illegittime. La legislazione fascista tentò di dare un assetto statale e nazionale all’assistenza pubblica, per troppo tempo lasciata alle iniziative private o religiose.

Nel 1925 venne creata l’O.N.M.I., l’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia, a cui lo Stato assegnò il compito di coordinare i diversi programmi di assistenza sociale e di controllarne l’esecuzione. L’O.N.M.I. avrebbe dovuto occuparsi dell’assistenza integrale della maternità e dell’infanzia, sotto tutti gli aspetti, quello sanitario e quello sociale e morale, per tutte le categorie di madri, nubili o coniugate, e per tutte le categorie di bambini, legittimi o illegittimi. Un programma assistenziale di vasta portata, con compiti precisi ma spesso non realizzati.

L’avvocato Giovanni Mazza descrisse nel libro Maternità e Infanzia in Regime Fascista, quali fossero i compiti dell’O.N.M.I.:

 “Il Duce ha affermato che il compito essenziale dell’O.N.M.I. è quello di rafforzare al massimo il sentimento e il vincolo famigliare, dare il massimo impulso alla natalità, ridurre al minimo le cause della mortalità delle madri e dei bambini. Questo comandamento è in giusta relazione con l’altro: “Bisogna essere forti anzitutto nel numero, perché se le culle sono vuote, la Nazione invecchia e decade. Gli scopi dunque dell’O.N.M.I. si riassumono nella difesa e nel miglioramento fisico e morale della razza”.

Anche nella rivista Maternità e Infanzia viene ribadito che:

 “la difesa attiva e tenace della razza ha trovato in Mussolini il primo assertore ed il primo realizzatore, sin da quando, nel 1925, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia fu creata […]; l’ interessamento del Duce per l’azione di assistenza materna ed infantile deve essere accolto dal popolo italiano come una conferma dell’amore schietto che Egli porta per coloro che perpetuano nei secoli la razza: le madri e i bambini d’Italia”.

Dunque era evidente che l’O.M.N.I. avesse una funzione politica oltre che assistenziale: sempre nell’ideologia e nel programma fascista la tutela della maternità si accomunò alla difesa della razza. L’O.M.N.I. aveva il compito di assistere le giovani madri ed i loro bambini, convincere le future madri a portare a termine la gravidanza, prevenire gli aborti e i parti clandestini. Spesso l’Opera Nazionale tentava di contattare i padri e spingerli al riconoscimento dei figli o al matrimonio; tutto questo obbediva alle tendenze del regime di fortificare i legami familiari.

Le madri e le donne gravide venivano seguite nell’alimentazione grazie alla presenza di mense ben fornite: era anche un modo per tenere sotto controllo quelle donne che erano ritenute incapaci di prendersi cura di loro stesse, e dunque più esposte al pericolo di un aborto.

Negli ambulatori dell’O.N.M.I., vi erano a disposizione delle scorte di latte in polvere per quei bambini che non potevano né essere allattati dalla loro madre né da una balia. Al contempo, quelle madri che si rifiutavano di allattare al seno senza un certificato medico che ne testimoniasse l’impossibilità, perdevano ogni forma di assistenza ed erano costrette ad andarsene insieme con i loro bambini.

L’allattamento al seno:

“nell’ideologia dell’O.N.M.I. era quasi di per sé una garanzia della bontà della madre che insieme non opponeva resistenza alla “natura” ed era disponibile a sacrificarsi per il bambino. Nel caso poi delle madri nubili sembrava fornire maggiori garanzie di attaccamento e quindi di non abbandono”.

L’assistenza medica veniva dunque concessa solo alle donne che avevano comportamenti in linea con le norme del servizio, tutti i comportamenti considerati devianti venivano puniti con l’allontanamento dagli ambulatori. Non bisogna dimenticare che l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia svolgeva una funzione di controllo sociale e politico, che si esprimeva sì con l’aiuto verso le madri, ma doveva sempre obbedire alle direttive del partito. Tutte le assistite perciò subivano un controllo che riguardava i loro comportamenti abituali, ma anche la classe sociale di appartenenza e la fede politica.

Questo compito politico dell’O.N.M.I. è confermato dal fatto che, in concomitanza alle leggi razziali del ’38, l’assistenza alle madri cambiò repentinamente, “non tutte i bambini vennero incoraggiati a nascere e sopravvivere e non tutte le donne vennero incoraggiate a diventare madri”. Soltanto le donne bianche e non ebree, quelle cioè in grado di assicurare all’Italia fascista una razza pura e non inquinata, poterono beneficiare degli aiuti dell’Opera Nazionale, che già nella sua definizione sottolineava il carattere esclusivamente nazionale dell’assistenza.

Queste sono alcune cifre che riferiscono il numero delle gestanti assistite dallo O.N.M.I.: nel ’26 soltanto 129, pari allo 0,01% di quelle di tutta Italia; nel 1934, cioè alla soglia del “decennio fecondo”, questa percentuale sale all’11,8%, corrispondente a 168.021 gestanti assistite dall’O.N.M.I. contro le 1.113.636 di tutta l’Italia. Se poi si esamina un più ridotto campo d’indagine, cioè quello di una provincia emiliana, nonostante si annunciasse che i ricoveri erano stati 137, i refettori materni 15, le presenze 42.829 e i sussidi a famiglie di minori 15, si doveva confessare che:

“per l’assistenza prenatale c’è ancora molto da fare…Devono ancora sorgere in tutti i comuni i mezzi più idonei (consultori, ambulatori ostetrici e pediatrici) a ridurre l’elevatissima cifra di 300 gestanti che perdono la vita nel parto, e di 10.000 madri che restano menomate o sterili per malattie contratte durante o dopo il parto”.

Si può perciò asserire che l’aiuto che avrebbe potuto ricevere una donna di montagna o di campagna era ancora ben lontano dall’essere sufficiente. La prima causa di questa inefficienza derivava dall’assoluto accentramento di ogni funzione decisionale, direttiva e perfino applicativa dei regolamenti. Per esempio, era impossibile sostituire una dipendente assente senza aver avuto, non soltanto il benestare da Roma, ma anche il nominativo di chi avrebbe dovuto sostituirla.

Non si lasciava il minimo spazio all’iniziativa periferica, il regime era altamente sospettoso di tutto quello che non fosse strettamente controllato dal centro. Inoltre vi era spesso un’inefficiente preparazione tecnica del personale e anche una mancanza effettiva del personale a causa di un sistema basato sul volontariato.

L’O.N.M.I. fu troppo spesso considerato un istituto elemosiniere e curativo, anziché prevalentemente profilattico: è questo il motivo principale della scarsità degli interventi e della mancata realizzazione degli obiettivi prefissati. Si deve affermare però, che l’Opera Nazionale non fu un totale fallimento.

Se è possibile per un momento, andare oltre i motivi ideologici e politici dell’iniziativa fascista, l’O.N.M.I. ha il merito di rappresentare il primo e più vasto tentativo di coordinare, in tutta Italia, il settore assistenziale e di sganciarlo da iniziative esclusivamente privatistiche e da motivazioni etico – religiose, tanto da rimanere in vita fino agli inizi degli anni settanta.

LA RISPOSTA DELL’ ITALIA

Nonostante l’attenzione della dittatura, gli italiani non soddisfecero le richieste del Duce. Infatti, il tasso di nuzialità rimase costante per tutto il ventennio, attorno al 7,3 per mille, se si esclude la punta di 8,3 per mille nel 1937, anno in cui vennero celebrati quei matrimoni che erano stati rimandati a causa della guerra in Etiopia.

Ma ancora più sorprendente è la constatazione di un calo di quattro punti del tasso di natalità, fra il 1927 e 1934 . Sono state date diverse spiegazioni di questo rifiuto alla procreazione degli italiani. La De Grazia individua un motivo socio-economico ed uno culturale. Il primo riguarda le non buone condizioni delle famiglie italiane nel primo dopoguerra e perciò un controllo delle nascite per non peggiorare la situazione.

Il secondo riguarda invece più specificamente le donne e la loro emancipazione. Secondo la De Grazia le donne avevano coscienza della propria sessualità e il controllo delle nascite era indice di una gestione privata del proprio corpo. Questa seconda spiegazione riguarda le donne del ceto medio – borghese: erano le donne di città che, più a contatto con modelli femminili alternativi a quelli offerti del regime, potevano evitare gravidanze indesiderate usando i metodi contraccettivi.

La donna operaia, riferisce la De Grazia, conosceva il preservativo, ma non lo usava con sistematicità; il preservativo, infatti era associato al sesso extraconiugale e su di esso pesava un forte pregiudizio. Meldini vede invece la causa del mancato aumento demografico proprio all’interno della politica fascista.

La battaglia demografica fascista non rispondeva alle esigenze di tipo assistenziale – sanitario dell’Italia post-bellica, si teneva anzi ben lontana da provvedimenti assistenziali, dato che “lo Stato assistenziale incarna il credo borghese dell’egoismo ed è la vivente negazione del credo fascista dell’eroismo”.

Le conseguenze dell’orientamento di tale politica possono riscontrarsi direttamente proprio nella scarsità e nella irrilevanza degli interventi concreti in ambito demografico.

Meldini fa notare che a parte l’istituzione degli assegni famigliari, unico provvedimento qualificante, “gli altri interventi, altrettanto incisivi – dalle riduzioni ferroviarie ed esenzioni tributarie alle famiglie numerose, ai premi di natalità – non vanno al di là del piccolo gesto demagogico.

Quanto ai prestiti familiari senza interesse, istituiti nel ’37, la loro concessione indiscriminata e la esiguità del prestito – dalle mille alle tremila lire- finiscono per ridurli ad un modesto vantaggio supplementare per le famiglie piccolo – medio – borghesi”.

Mussolini non si rese conto, o meglio non volle vedere, che l’Italia si stava trasformando in un Paese industriale – agricolo, e questo cambiamento coinvolgeva anche il tradizionale nucleo familiare, fondato sulla patria potestà, sulla severità dei costumi e sulla prolificità.

La tendenza al declino della fecondità non poteva esser facilmente fermata attraverso una politica demografica, perché si trattava di un processo di lungo periodo e con radici profonde. Il fallimento di tale politica non va attribuito ad una sua intrinseca debolezza o incoerenza, come invece sostiene Meldini, ma ad un più radicale cambiamento della realtà sociale sia in termini economici sia culturali.

Le misure legislative a sostegno di una maggior prolificità e gli stessi premi di natalità si inserivano in un contesto più ampio, caratterizzato da disoccupazione crescente tra le classi operaie e in alcuni settori delle classi impiegatizie, riduzione dei salari, l’accelerazione dei processi di urbanizzazione (nonostante la propaganda fascista a favore della campagna) che, inevitabilmente, modificavano i modi di vita degli individui e delle famiglie.

Inoltre, il processo di trasformazione del modello famigliare andava a modificare il posto dei figli all’interno della famiglia stessa, e “da questo punto di vista, nessun premio di natalità poteva compensare l’investimento in termini di tempo, affettività, disponibilità personale della madre che ora si ritenevano necessari per ciascun figlio e non era neppure sufficiente a coprire i costi ritenuti necessari (per l’alimentazione, la scolarità, l’igiene, ecc.) per dare ai figli una buona vita”.

Infine, l’effetto della lunga politica demografica fascista venne impedito o distorto dall’entrata in guerra e poi dalla caduta del regime, che modificarono ulteriormente la vita e le abitudini degli italiani.

EMANCIPAZIONE PROFESSIONALE

“Il lavoro femminile – osservava Danzi – crea nel tempo stesso due danni: la “mascolinizzazione” della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre ad elevare sempre più il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un intoppo, un ostacolo, una catena; se sposa, difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito e, là dove il divorzio è possibile, finisce, prima o poi, per riacquistare la propria libertà – le statistiche dimostrano come il maggior numero di donne che divorziano sia dato dalla categoria delle impiegate -; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe”.

E ancora: “L’eguale diritto al lavoro, applicato in larghissima scala, ha condotto – in numerosi strati della popolazione – alla indipendenza economica della donna rispetto all’uomo, diminuendo in questi una supremazia che era di norma estrinsecata (inconsciamente o coscientemente) in modo da risolversi in un rafforzamento morale della famiglia; sia che si trattasse della moralità che il padre, cui le figlie erano debitrici di ogni cosa poteva ad esse imporre, sia che si trattasse della condotta che il marito, unico sostegno del bilancio familiare, poteva esigere dalla moglie. E ciò senza dire delle conseguenze morali del lavoro in comune nelle officine e negli uffici, e di altri aspetti a tutti noti del lavoro femminile”.

SUDDITANZA CULTURALE – INTELLETTUALE

“In Italia, l’idea di una limitazione legale della istruzione professionale femminile – per non parlare di una rivoluzionaria trasformazione dei programmi scolastici, nel senso innanzi accennato – è scarsamente compresa.

Contro le proposte, che ogni tanto affiorano, per un nuovo orientamento della cultura femminile,- così si scriveva durante il Ventennio –  si oppone, ad esempio, che il sistema attuale va bene… perchè il Fascismo ha, per ora, lasciato immutato questo settore, mentre non è detto per niente che non solo ciò che il Fascismo non ha ancora toccato del vecchio sistema, ma anche tutto ciò che esso ha fatto di nuovo sia dal Fascismo stesso tenuto per eternamente buono; perchè altrimenti la rivoluzione continua perderebbe ogni giustificazione ad essere tale.

Sarà invece fatale che il Fascismo affronti e risolva questo problema fondamentale nella creazione della nostra nuova civiltà, realizzando la negazione teorica e pratica di quel principio di eguaglianza culturale fra uomo e donna che può alimentare uno dei più dannosi fattori della dannosissima emancipazione della donna.

Avvenuta tale negazione, in uno stato totalitario che intenda sfruttare tutte le possibilità di potenziamento della efficienza del popolo, la donna dovrà faticare, e molto, anche intellettualmente, per fornirsi di una preparazione adeguata ai compiti che lo stato fascista ad essa dovrà richiedere: non è esagerato affermare la necessità che si organizzino dei corsi di istruzione femminile non solo elementari ma anche medi, e persino universitari, che, nell’interesse della nazione, pongano la preparazione domestica della donna in armonia con il progresso realizzato nei vari campi della scienza che possono alimentare il perfezionamento dell’economia domestica .

E’ un compito colossale di riorganizzazione: nell’ intraprenderlo si deve essere incoraggiati dal pensiero che esso, in definitiva, altro non è che un ritorno alle origini, un riconoscimento delle logiche esigenze della famiglia”.

SUDDITANZA PROFESSIONALE – FINANZIARIA

Altri “postulati” fascisti: “L”abolizione del lavoro femminile deve essere la risultante di due fattori convergenti: il divieto sancito dalla legge, la riprovazione sancita dall’opinione pubblica. La donna che – senza la più assoluta e comprovata necessità – lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, la donna che, in promiscuità con l’uomo, gira per le strade, sui trams, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici, deve diventare oggetto di riprovazione, prima e più che di sanzione legale.

La legge può operare solo se l’opinione pubblica ne forma il substrato; questa, a sua volta, può essere determinata da tutto un insieme di altre misure che indirettamente e insensibilmente operino sulla opinione pubblica.

Nessuno ignora che l’istruzione femminile e il connesso lavoro femminile sono in gran parte conseguenza dell’attuale organizzazione economico-sociale in cui l’eventualità che le donne debbano provvedere al sostentamento proprio e dei propri congiunti è tutt’altro che rara; ma non per questo si deve ammettere che la stessa organizzazione sia immutabile e quindi siano immutabili gli attuali criteri sulla istruzione e sul lavoro femminile.

E’ invece necessario collaborare allo studio di provvidenze atte a rendere applicabile il principio della limitazione della cultura professionale e quindi della occupazione professionale delle donne. Fra tali provvidenze vi sono ad esempio l’assicurazione obbligatoria superstiti e la perequazione efficace dei redditi in relazione agli oneri familiari.

Meglio che irrigidirsi nel sostenere la insostituibilità dei sistemi attuali vale ammettere per lo meno – dimostrando una maggiore comprensione delle esigenze della nazione – che, “in luogo di troppo numerose e mediocri avvocatesse, medichesse, ingegneresse e impiegate di amministrazioni pubbliche o private, oggi si possono gettare sul mercato del lavoro e molto ben agguerrite, molte professioniste della casa, dell’alimentazione, di particolari insegnamenti, dell’assistenza ospitaliera e sociale, le quali, oltre risolvere il problema angoscioso del pane quotidiano e del proprio avvenire, raggiungono socialmente un alto valore economico e produttivo, tutt’altro che da disprezzare”.

E ancora: “In definitiva, nella considerazione del lavoro femminile bisogna superare nettamente la fase dalle preoccupazioni di ordine fisiologico, che passano in seconda linea di fronte a quelle di ordine morale, spirituale, economico; e vedere nell’abolizione del  lavoro femminile soprattutto un mezzo per la restaurazione della demograficamente indispensabile sudditanza della donna all’ uomo”.

LA FAMIGLIA NELLA LEGISLAZIONE CIVILE FASCISTA

“La famiglia occupa nell’ordinamento fascista una posizione moralmente e socialmente preminente, in conformità del resto a quella che è sempre stata una sana tradizione del nostro popolo e della nostra razza. Il nuovo Codice accentua questa preminenza rafforzando ulteriormente la compagine familiare contro ogni pericolo di corrosione e di inquinamento. Tentativi di intaccare questa compagine non sono mancati nel tempo prefascista, allorchè si pretese di contrapporre i diritti dell’individuo a quelli della famiglia.

Di essi il più importante fu quello che sboccò nella presentazione al Parlamento, ad iniziativa del Governo, di un disegno di legge sul divorzio, rimasto fortunatamente senza seguito per l’ostilità palese della pubblica opinione, tenacemente attaccata per motivi religiosi, sociali e sentimentali al principio della indissolubilità del matrimonio”.

Per far sì che la donna contribuisse alla realizzazione del Grande Stato Fascista divenne necessario costruirle una coscienza politica che avesse a cuore gli interessi della società. Questa consapevolezza non poteva che nascere da un impegno delle donne fuori dalle pareti domestiche, attraverso la partecipazione alle organizzazioni femminili fasciste.

Che cosa si chiedeva alle donne? Quali sarebbero state le loro funzioni? Certamente il regime non le chiamò alla partecipazione politica in senso proprio, dato che i Fasci Femminili non ebbero mai competenze politiche ma solo doveri assistenziali e la questione del voto fu soltanto una concessione apparente. Inoltre, a chi le donne dovevano obbedire? Ai superiori maschi del PNF o alle loro dirigenti femminili?

Non esistono risposte precise perché l’organizzazione delle donne fu un’opera rarefatta che testimonia l’ambivalenza della dittatura: assegnare le donne a scopi fondamentalmente riproduttivi sia in privato che in pubblico, pretendendo allo stesso modo un’attiva partecipazione all’interesse pubblico per raggiungere, in parte, quegli stessi obiettivi.

Il risultato più evidente fu che le donne, invece di trovare un’occasione di emancipazione e di autonomia, trovarono nella società nuovi obblighi e nuovi padroni. C’è un’evidente ambiguità della prassi politica sostenuta dal Duce e dai suoi fiduciari, lungo tutto il ventennio, per aggiungere che alla base delle molteplici e contraddittorie azioni di partito, vi è un unico filo conduttore: negare alla donna ogni sorta di diritto, che sia esso politico, sociale che strettamente economico.

L’ideologia fascista è in tutto e per tutto antifemminile, sempre tesa a sottolineare l’inferiorità femminile e a ristabilire la sudditanza della donna all’autorità maschile. L’obiettivo diventa realizzabile attraverso la costruzione di un programma politico preciso ma non unitario, proprio a causa della necessità di mascherarne l’innata antifemminilità al fine di ottenere un’ampia adesione nelle stesse donne.

LE ORGANIZZAZIONI FASCISTE
I FASCI FEMMINILI

I Fasci Femminili esistevano fin dai primi anni del regime, ma solo in seguito divennero la struttura che raggruppava tutte le organizzazioni femminili. Gruppi di donne coinvolte in eventi significativi del movimento fascista esistevano già attorno agli anni venti; ad esempio, nel 1921-22 erano stati creati i fasci femminili di Modena, Milano, Brescia, Firenze, Roma e Verona.

Questi primi gruppi femminili erano piccoli e senza alcun potere all’interno del partito fascista: non si dava credito a quelle donne coinvolte nelle attività politiche, anzi erano guardate con sospetto, proprio perché l’obiettivo primario del regime era relegare la donna in una sfera privata e familiare, ritenuta tipicamente femminile. Solamente nel ’26 i Fasci femminili vennero riconosciuti ufficialmente a livello nazionale.

Diedero la loro adesione anche le altre associazioni femminili risparmiate dal regime, quali l’Unione delle Donne Cattoliche, le Infermiere della Croce Rossa, i Circoli delle Giovani Operaie e l’Associazione Madre e Vedove dei caduti in guerra. Questi gruppi si spartivano la partecipazione delle donne italiane prima che il regime si consolidasse: è questo uno dei motivi principali della scarsa iscrizione ai Fasci negli anni venti.

Era soprattutto l’Unione delle donne cattoliche, l’UFCI, a reclutare il maggior numero di adesioni fra i ceti medi e quelli operai urbani, e a rappresentare una chiara alternativa alle organizzazioni fasciste, esercitando un’enorme influenza sulla cultura politica delle donne.

Le associazioni cattoliche erano pronte a lanciare una vera controriforma che avesse come obiettivo ricristianizzare l’Italia, salvandola dai pericoli dell’industrializzazione e dalla mancanza di valori del liberalismo.

Nei primi anni venti il movimento cattolico uscì vittorioso dallo scontro con le organizzazioni fasciste, grazie ad una migliore organizzazione interna e ad una maggior libertà delle dirigenti del movimento.

Mentre i Fasci furono sempre limitati dallo stretto controllo della gerarchia maschile e dalla continua disputa interna su  quanto andasse investito nella politica vera e propria, le donne cattoliche invece non distolsero mai lo sguardo dalla società civile e dal suo bisogno di “moralizzazione”, dedicando un’attenzione ridotta al problema del voto.

Inoltre erano molto più avanti nell’organizzazione interna. Il movimento cattolico ebbe fin dall’inizio una propria organizzazione giovanile; si cominciò nel 1920 con le effettive, tra i sedici e i trentacinque, e le aspiranti, fra i dodici e i sedici; nel ’23 si continuò con le beniamine, tra i sei e dodici anni; nel ’33 vennero creati i gruppi di piccolissime, tra i quattro e i sei anni, per finire nel ’37 con le angiolette, dalla nascita ai quattro anni.

Il successo del movimento femminile cattolico derivò inoltre dalla forte solidarietà che legava le donne di ogni condizione sociale, e che attraverso gli ampi reticoli parrocchiali riusciva a diffondersi, in linea orizzontale, in tutta la società femminile. Questi sono alcuni dati: nel 1925 l’UFCI contava 3.162 gruppi e altri 541 in formazione, per un totale di 160 mila iscritti; in quello stesso anno i Fasci forse raggiungevano le mille sezioni e contavano 40 mila iscritte.

A differenza del cattolicesimo, la politica del fascismo verso le donne era una sorta di esperimento, un’invenzione del tutto nuova, che si faceva strada tra la stessa diffidenza maschile e il disfattismo femminile. Riconosciuti nel ’26, solo alcuni anni dopo, precisamente nel 1932-33, i Fasci raggiunsero una reale linea organizzativa; ma fu con il sostegno delle donne alla campagna in Etiopia, negli anni ’35-36, che il PNF abbandonò in modo definitivo ogni sospetto nei loro confronti.

Le remore della gerarchia maschile erano rivolte soprattutto al ruolo politico delle organizzazioni femminili e all’attivismo delle donne, da sempre disapprovato perché causa di disordini sociali. La questione principale era l’incertezza delle funzioni e degli scopi dei Fasci.

Lo schema di Statuto dei Fasci, pubblicato sul Popolo d’Italia del 14 gennaio 1922, precisava a chiare lettere che
“i gruppi femminili non possono prendere iniziative di carattere politico, essendo loro compito il coordinare, sotto il controllo dei Fasci, le iniziative di propaganda, beneficenza e assistenza”.

La stessa Elisa Majer Rizzioli, fondatrice dei Fasci lombardi e delegata delle opere assistenziali, sosteneva che i Fasci femminili lasciavano camice nere e cortei ai Fasci maschili, in nome della valorizzazione della maternità come sentimento vivificatore della Patria e di tutti quegli elementi sociali che, dalla maternità stessa, si diffondono come luce sociale.

Il compito dunque delle donne all’interno dei Fasci non doveva essere politico ma sociale. Inoltre la struttura delle associazioni fasciste doveva calcare i modelli delle organizzazioni liberali – moderate, o meglio ancora, di quelle cattoliche, dunque interclassiste e apolitiche, interessate a promuovere iniziative assistenziali e di beneficenza.

Lo Statuto del ’22 prevedeva sei gruppi di attività e di propaganda:
1. Gruppo di propaganda in difesa dell’italianità del linguaggio, attraverso pubblicazioni specializzate e biblioteche localizzate in scuole, carceri e altre sedi fasciste.
2. Gruppo di tutela morale del lavoro. Il compito era quello di avvicinare le operaie con problemi di pensioni, di maternità o malattia ai sindacati.
3. Gruppo sanitario presieduto dalle infermiere fasciste che si sarebbero occupate di allestire dei corsi professionali di infermieristica.
4. Gruppo scolastico che avrebbe curato i rapporti fra la scuola e le famiglie.
5. Gruppo agricolo interessato a promuovere l’incremento dell’agricoltura e della viticoltura.
6. Gruppo per la protezione e divulgazione dei prodotti italiani in tutti i settori.

Risulta difficile stabilire il limite fra questi compiti considerati socio-assistenziali e le eventuali conseguenze politiche delle azioni dei Fasci. Se è vero che mai vennero interpellate le dirigenti femminili su questioni politiche riguardanti le donne, come ad esempio il passaggio delle Piccole e Giovani Italiane sotto l’Opera Nazionale Balilla nel ’29, o quando si decise di fondare le Massaie Rurali nel ’33, non si può di certo negare una valenza politica alla mobilitazione delle donne a favore della campagna in Etiopia nel 1935, e neppure alla significativa iniziativa di creare corsi e scuole in grado di riqualificare le donne, alla luce dell’espulsione di queste dal mercato del lavoro.

Per tutto il ventennio i Fasci oscillarono fra una posizione apolitica ed una più attivista, proprio perché non ci fu alcun interesse da parte degli alti vertici fascisti ad affrontare la questione sul piano teorico. Al regime andava bene sfruttare la “naturale” inclinazione femminile alla missione di educatrice, usandola come principale agente del processo di moralizzazione, senza concederle ufficialmente alcun ruolo politico.

La stessa direzione dei Fasci non fu mai definita con chiarezza. Inizialmente si stabilì la presenza di una dirigente nazionale che mantenesse i rapporti con il PNF e che avesse il compito di nominare le varie fiduciarie provinciali e le segretarie di sezione.

Ma il 26 maggio nel ’31, il segretario Giovanni Giurati ordinò la totale subordinazione a tutte le direttive del PNF da parte dei gruppi femminili, e in particolare di ottemperare alla direttiva numero 2137 del 20/12/29, che imponeva la supervisione del segretario generale di partito su tutte le nomine locali da parte dei federali.

Di conseguenza tutte le designazioni delle fiduciarie dei Fasci femminili dovevano passare per Roma. Questo provvedimento ha un duplice significato. Il più evidente è la negazione della piena autonomia dei Fasci femminili e la subordinazione alla gerarchia maschile del PNF, ma vi è anche un aspetto positivo.

Questo desiderio di voler mettere ordine nelle organizzazioni femminili segna un cambiamento dell’atteggiamento della stessa gerarchia maschile: il provvedimento rappresenta un riconoscimento ufficiale che identifica finalmente i Fasci con le strutture di partito.

Un anno prima, nel 1930, c’era stato un altro significativo passo in direzione della trasformazione dei Fasci in un’organizzazione femminile di massa. Il leader nazionale dei Fasci fino al ’30, Augusto Turati, scelse il Giornale della Donna di Paola Benedettini Alferazzi per farne il giornale ufficiale dei Fasci femminili; dall’anno successivo, il PNF prese a finanziarne la pubblicazione.

Accanto a Paola Benedettini Alferazzi, collaborarono altre vecchie compagne di lotta, come Teresa Labriola, frizzante intellettuale e teorizzatrice del femminismo latino, Camilla Bisi, Bice Basile e Willy Dias provenienti da La Chiosa, rivista genovese che aveva appena chiuso. Dal ’30 al 34 il Giornale della donna si fece promotore degli interessi femminili e fu molto attivo, almeno a parole.

Ma quegli anni di relativa libertà ebbero breve durata. Nel ’35 la Benedettini Alferazzi fu rimossa dalla direzione e il giornale, ribattezzato Donna fascista, fu posto sotto la direzione di un uomo del PNF che cominciò a diffondere le direttive di partito e a dar risonanza a celebrazioni di facciata, riempiendo le pagine di pubblicità di stile americano.

Questi anni, dal ’29 al ’35, furono molto importanti per i Fasci non solo perché ebbero la possibilità di esprimersi attraverso un organo di informazione, ma anche perché si attuò una più precisa articolazione interna e si ordinò di fondare un fascio femminile ovunque esistesse una sezione maschile.

Proprio nel ’30, Turati diede vita alle Giovani Fasciste, organizzazione destinata alle ragazze tra i diciotto e ventuno anni, allo scopo di coprire meglio le classi di età. Nel 1918 fondò il Giornale della donna con l’intento di promuovere l’educazione femminile sociale.

“Il femminismo latino è la nuova politica degli anni trenta che esprime il tentativo di riconciliare femminismo e fascismo. Creato appunto dalla Labriola e da altre attiviste dei movimenti emancipazionisti, si definiva latino perché sosteneva comportamenti considerati peculiari alla femminilità italiana: l’attaccamento alla tradizione e alla famiglia, il rispetto per la razza. Si dichiarava inoltre nazionale in quanto rifiutava l’esasperato riformismo socialista a favore di una riconciliazione fra la causa delle donne e i più alti interessi dello Stato”. (V. De Grazia, Le donne del regime fascista, Marsilio, Venezia, 1993).

Sulla base di queste innovazioni, le organizzazioni crebbero: da 106.756 nel 1930 a 121.087 nel 1931, a 145.199 nel 1932, con un’accelerazione a 217.206 nel 1933. In seguito, il totale delle iscritte continuò a salire, da 304.313 del 1934 a 398.923 dell’anno successivo.

LE MASSAIE RURALI

Il fascismo fu un fenomeno che interessò principalmente il mondo urbano e che trovò le prime adesioni nel ceto medio – borghese; il mondo rurale, che rappresentava più della metà dell’Italia, inizialmente ne rimase escluso. Proprio per questa divisione all’interno della realtà italiana, il partito fascista, per potersi consolidare, dovette operare una vasta politica di propaganda rivolta a quella campagna così estranea alle iniziative del progetto fascista.

Mussolini fu sempre molto attento nel promulgare il mito della vita rurale, ricca di valori e propensa a mantenere i legami familiari, così come elevò ad esempio la prolificità delle famiglie contadine per vincere la sua battaglia demografica. Inoltre la riforma agraria e il progetto di bonifica integrale ebbero un ruolo rilevante, per molti anni, nella politica del regime.

L’iniziativa di inserire nel partito la Federazione Autonoma delle Massaie Rurali risponde proprio all’esigenza di coinvolgere anche le donne rurali nelle organizzazioni fasciste. Nel 1933, dopo quasi dieci anni dalla nascita dei primi Fasci femminili, i sindacati agricoli promossero la creazione delle Massaie Rurali, in seguito passate sotto la supervisione dei Fasci femminili, per dare un’identità fascista a quelle categorie più emarginate.

Le organizzazioni dovevano raggruppare le donne di campagna di ogni condizione: le moglie degli agricoltori, le contadine e le braccianti. Queste donne avrebbero dovuto rappresentare l’immagine di una gaia Italia campagnola in ogni occasione di manifestazione fascista, addobbando il loro corpo con vestiti e costumi tradizionali.

Come per i Fasci, anche le sezioni delle Massaie erano sotto lo stretto controllo della gerarchia maschile. Si stabilì che vi fosse una fiduciaria per ogni sezione provinciale, assistita da un consiglio, ovviamente di sesso maschile, composto dal vicesegretario federale e dai rappresentanti provinciale dei lavoratori dell’agricoltura, dell’O.N.M.I. e dell’artigianato. Insomma si schierò un esercito di funzionari di partito per un’iniziativa che non fece poi così presa sulle donne di campagna, almeno ai suoi esordi.

La sproporzione, infatti, fra i Fasci di città e la Federazione delle Massaie era evidenti: in quelle zone in cui la popolazione rurale era il doppio di quella urbana, il rapporto fra le massaie e le donne iscritte ai Fasci era di 1 a 3. Fra il ’34 e il ’35 le tesserate non arrivavano a 200 mila; il numero delle iscritte subì però una forte impennata negli anni successivi. Nel ’37 le iscrizioni superavano le 500 mila, per poi raggiungere l’apice delle adesioni allo scoppio della seconda guerra mondiale con 1.480.000 di iscritte.

LA VISITATRICE FASCISTA

Nel dicembre del 1930 il segretario del PNF Giovanni Turati annunciò l’intenzione della dittatura di istituire una nuova operatrice sociale: la visitatrice fascista. Anche questo provvedimento andava nella stessa direzione della creazione dei Fasci e delle Massaie Rurali, esprimeva cioè quella necessità di organizzare le masse femminili ai fini di un attivismo sociale.

Le stesse militanti di partito si dimostrarono favorevoli alla nascita di questa nuova figura, persino Teresa Labriola che mai aveva ritenuto le iniziative caritatevoli la principale attività politica delle donne, definì tale provvedimento come “sano fascismo e sano femminismo”. Perché sano fascismo? Perché sano femminismo? Secondo la Labriola, ma anche per altre donne impegnate nella causa femminile, l’iniziativa di Turati migliorava quel corporativismo voluto da Mussolini, che poco si adattava alla complessità della società. Inoltre, e su questo punto è necessario riflettere, la visitatrice fascista presupponeva “una destinazione della donna al di fuori delle mura domestiche”.

E’ abbastanza curioso vedere come due donne, entrambe di elevata cultura e considerate due leader all’interno del movimento emancipazionista, sentissero ancora il bisogno di insistere sull’inclinazione femminile all’assistenza sociale, vissuta spesso come diritto e dovere.

Pare proprio che anche fra queste stesse donne circolasse l’idea che  “l’aspirazione massima della donna sana, che essa dimostra fin dalla primissima età, per istinto e per natura psico-fisica, è quella dell’assistenza, è quella di giovare in tutti i campi e in tutti i momenti della propria vita al suo simile, sia in pubblico che in privato”.

Una possibile spiegazione può venire dall’analisi del concetto di volontariato, diffuso fra le stesse donne borghesi che lo promossero. Le militanti fasciste erano spesso portate a considerare il volontariato come un atto di politica sociale piuttosto che come gesto di abnegazione e di sacrificio. Nel volontariato vedevano la possibilità di allargare l’influenza delle donne nella società fascista così da acquisire i diritti civili.

Questa interpretazione attivistica del volontariato doveva però confrontarsi con la nuova realtà imposta dal regime: il cambiamento del significato della filantropia di fronte al consolidarsi dello Stato assistenziale.

La concezione di volontariato che le donne borghesi avevano ereditato dall’epoca liberale doveva scontrarsi con le nuove direttive di partito, con le rigide gerarchie amministrative e con la vastità delle regolamentazioni.

Per quelle donne educate ad un femminismo filantropico, la beneficenza era un’iniziativa personale che implicava obblighi di natura morale e non certo legali, era volontaria e dunque molto lontana dal concetto di obbligo sociale che la dittatura stava diffondendo.

L’assistenza sociale che il regime tanto invocava, si inseriva nell’articolata previdenza sociale, altamente burocratizzata quanto poco personalizzata. La visitatrice fascista entra a pieno titolo nel passaggio fra un sistema e l’altro. Fino agli inizi degli anni trenta, la figura della dama di carità occupava ancora un ruolo fondamentale.

Non era necessaria alcuna preparazione per offrire una buona parola ai poveri né per scodellare un piatto di minestra calda; bastava soltanto scegliere la dama di carità fra “quelle signore che, per intelligenza, tatto, o conoscenza del popolo e dei suoi bisogni, siano maggiormente atte a svolgere efficacemente questo alto compito”.

Nella seconda metà degli anni trenta la situazione cambiò repentinamente e la visitatrice divenne una vera e propria assistente sociale di partito. Si istituirono dei corsi di addestramento progettati in collaborazione con la Croce rossa e si ordinò che la visitatrice fascista indossasse la divisa, venne inoltre fissato uno stipendio.

Una volta diplomate, le giovani visitatrici gestivano mense per i poveri, colonie estive, uffici di collocamento per donne e laboratori di addestramento professionale; facevano inoltre le visite domiciliari alle famiglie segnalate per il disagio economico.

Un ruolo di primo piano nella professionalizzazione del servizio fu svolto dalla nobildonna Itta Stelluti Scala Frascara, infermiera professionale che aveva studiato pediatria a Londra e, fatto curioso, firmava i propri scritti sull’assistenza sociale con uno pseudonimo maschile, Elio Silvestri.

Nel 1930 fu chiamata alla guida dei Fasci femminili romani e nel ’37, assieme a Clara Franceschini, venne nominata prima ispettrice nazionale dei Fasci, col compito speciale di agire da collegamento tra le opere caritative del partito e le patronesse reali della Croce rossa italiana.

Sempre nel ’37, quando le opere assistenziali del partito passarono alla municipalità, le visitatrici furono incaricate anche della gestione degli ambulatori. La forte trasformazione del volontariato femminile, operata da un cospicuo intervento statale, suscitò fra le donne dei giudizi differenziati a seconda che fossero militanti fasciste o legate alle tradizioni filantropiche liberali o cattoliche.

Le prime enfatizzavano la disciplina di tipo militare e l’assetto corporativo dato da Mussolini, come conferma il severo messaggio della marchesa piemontese Irene Giunti di Targiani alle sue aspiranti visitatrici:
“Per essere realmente presenti, bisogna imparare a rimanere nelle file, diventare soldati, senza zaino e senza moschetto, ma con vigor di passi che non rallenta e che può conservarsi a sessanta come a venti anni”.

Per le militanti fasciste le iniziative assistenziali private avevano valore solo se coordinate a livello nazionale e sottostanti a rigida disciplina, cioè completamente inserite nell’apparato corporativo della dittatura.

Dal canto loro, le esponenti del femminismo liberali, per quanto d’accordo con le pratiche moderne dell’assistenza sociale, temevano di essere ridotte a semplici ingranaggi nella macchina burocratica fascista.

La dottoressa Giulia Boni, nelle sue conferenze alle donne di Pisa, sosteneva che l’operato delle donne completava l’azione dello Stato:
“Lo stato infatti deve intervenire in numerosi casi, perché esso solo può dettare le norme necessarie; ma è indispensabile il concorso di un’iniziativa privata organizzata […] per colmare le lacune delle provvidenze statali ed asserire la propria influenza al di là dei necessari limiti assegnati alle attività dello Stato”.

Al di là delle appartenenze politiche, tutte le donne che si dedicavano al volontariato sostenevano il diritto e l’obbligo della donna di servire fuori casa. Il contributo delle donne al progresso della vita civile doveva dunque attuarsi nelle funzioni assistenziali e di beneficenza, oltre a quelle tradizionali di moglie e di madre.

La stessa dottoressa Boni diceva che
“se una donna si limitasse, per apatia o per egoismo, alle cure domestiche e impiegasse il tempo libero solo a fare la calza, verrebbe meno ai suoi doveri verso la società”.

Insomma sia le militanti fasciste che le donne di formazione cattolico-liberale, pur avendo una diversa concezione sull’organizzazione del volontariato, concordavano nel ritenere il volontariato un obbligo sociale per le donne, ribadendo che esso costituiva la loro dimensione politica.

Il 20/6/1937 in occasione dell’inaugurazione della mostra sull’assistenza fascista e le colonie al Circo Massimo, Mussolini annunciava alle donne di aver guadagnato una nuova influenza politica. Pur rimanendo innanzitutto le custodi del focolare, il fascismo contava sulla loro azione d’assistenza nazionale e sociale che doveva giungere fino alle colonie.

I servigi femminili erano si riconosciuti dal regime, ma questo riconoscimento non si spinse mai oltre il limite imposto dalla stessa vecchia guardia fascista, sempre più spaventata dalla crescita dell’attivismo femminile.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

1 risposta a LA DONNA E IL FASCISMO – 2

  1. Pingback: Mostra di economia domestica e delle scuole rurali – Portale archivi audiovisivi

Lascia un commento