TUTTI I LIBRI DA LEGGERE – 2
a cura di Cornelio Galas
bibliografia essenziale
Lorenzo Baratter e Fabrizio Rasera hanno fatto un censimento delle fonti edite e inedite sugli Internati Militari Italiani (IMI) 1943-1945 della provincia di Trento in collaborazione con il Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto. Vediamo allora quante testimonianze ci sono di quei reduci trentini e quali libri, quali pubblicazioni le hanno raccolte.
Centro studi per la Val di Sole, Voci nella tormenta. Immagini e diari inediti dai fronti di guerra e dai campi di prigionia, a cura di Udalrico Fantelli, 1994, 388 pp. Gran parte di questa ricca raccolta di documenti è dedicata alla prima guerra mondiale. Ad essa si aggiunge una piccola sezione con un “Album memoriale” di un soldato solandro nella guerra d’Etiopia 1936-37. Alla seconda guerra mondiale è riservata una parte piccola, nell’economia del volume, da pp. 327 alla fine. In essa si segnala il “diario di soldato e di prigioniero” di Lionello Paternoster, di Celledizzo, classe 1914. Nel suo racconto –si tratta di una memoria, non di un diario vero e proprio- si ricordano la Russia 1942-1943, l’8 settembre a Bolzano, l’internamento presso Vienna. Paternoster lavora in fabbrica a Vienna, all’Austro Fiat. Ampio e interessante il racconto dei mesi successivi all’aprile 45, in un’Austria occupata da americani e russi.
Antonio Romani, Il numero 313240. Diario di prigionia, a cura di Aldo Miorelli, in “La giurisdizione di Penede. Quaderno periodico di ricerca storica”, dicembre 1995, pp. 214-217. Il volume monografico della rivista è dedicato a Nago e Torbole nella guerra 1940-1945. Si vedano anche alcune lettere di Oreste Bertolini (Torbole 1914-1983), alle pp. 193-196. In un numero precedente della rivista, si veda Internati di Nago dopo l’8 settembre 1943, di Gianfranco Ceccanei, annata 2000, pp. 90-115.
Riportiamo la presentazione del breve testo scritta da Miorelli: “Antonio Romani, nato a Torbole il 24 dicembre 1923, contadino e operaio presso la pescicoltura artificiale a Torbole gestita dalla famiglia, fu chiamato alle armi il 7 gennaio 1943. AI momento dell’armistizio si trovava a Fiume dove, il 14 settembre, venne fatto prigioniero dai tedeschi e internato in Germania a Fürstenberg, a Kossen e infine, nel febbraio 1944, a Berlino. Cosa abbia fatto in quei mesi e dove abbia lavorato non lo sappiamo a causa del suo attuale non buono stato di salute. Di sicuro si sa che negli ultimi tempi della guerra fu impiegato per sgomberare le macerie nei quartieri bombardati della capitale tedesca. Il I maggio fu liberato dai russi; il giorno successivo giunse nel campo di Ludwigsfelde e il 9 maggio fu trasferito nel campo di Luckenwalde a sud di Berlino. Rientrò a Torbole alla fine di agosto 1945 assieme al suo vicino di casa Antonio Civettini, prigioniero n. 313181, che con lui aveva condiviso tutto il periodo della prigionia.
Di Antonio Romani ci rimane un’ agendina (cartonata, 10 per 16,5 cm., 96 pagine non numerate) che conserva quattro paginette di diario (pagine 72-75) scritte a matita nei primissimi giorni dopo la sua liberazione avvenuta il primo maggio ’45 e nelle quali delinea molto succintamente gli ultimi giorni di guerra vissuti a Berlino. Trasferito nel campo di Luckenwalde, dedicò parte del suo tempo libero a trascrivere sull’agendina, probabilmente ricopiate da qualche foglio fatto circolare tra gli ex prigionieri, alcune canzoni (“Il nostro Stalin”, “Crocerossina”, “Canzone del Prigioniero di guerra”, “Ricordo del 8 Settembre”) e un lungo articolo,”Campo dello Sterminio”, che era apparso nel 1944 sul giornale “Stella Rossa” di Mosca. Non mancano naturalmente nell’agendina gli “Indirizzi dei compagni sotto la prigionia” e l’elencazione dei pacchi (“Paggi ricevuti”) e delle “Lettere e cartoline” giunte da casa.
1945 1995 per non dimenticare, raccolta di documenti e testimonianze a cura di Luciana Minello e Antonio Passerini, a cura del Gruppo A.N.A. e del Gruppo Anziani e Pensionati di Villalagarina, stampa litografia Stella Rovereto, s.i.d., 95 pp. Esile libretto di raccolta di memorie, di varia natura, ma non prive di interesse (anche come indizio di una più vasta documentazione) . Ai nostri fini si segnalano un ricordo-memoria di Eduino Pizzini di Castellano, che racconta la prigionia in Germania sua e dell’amico Ettore Baldo e la riproduzione di alcuni documenti della prigionia del Baldo, tra i quali due cartoline.
Dino Antolini, Mamma presto ritornerò. Stargard – Germania 25 settembre ’43-aprile ’45. Diario di prigionia, edizione fuori commercio, Antolini Centro Stampa, Tione, 1998, 144 pp. Questo diario è stato steso da Dino Antolini di Alfredo e di Maria Alberti, nato a Tione in Giudicarie, in provincia di Trento, il 22 giugno 1923. (…) Il diario è raccolto in 9 quadernetti di formato cm. 7×9 o 7×10. Il primo è costituito da una agenda del 1941; gli altri 8 sono librettini cuciti personalmente a mano da Dino, rilegatore professionista, con fogli di quaderni ritagliati, piegati a fascicolo e rilegati con copertine ricavate da cartoline militari del tempo. La scrittura, vergata con una penna stilografica, è minutissima, quasi microscopica, ma facilmente leggibile; esemplari gli schizzi relativi a determinate situazioni logistiche, tutti riprodotti in questa pubblicazione. I nove fascicoli del diario risultano ben conservati in una piccola scatoletta di cartone di cm. 8x12x5. Bella edizione di un testo disteso, di classico impianto diaristico, con frequenti riproduzioni fotografiche degli originali. L’autore era vivente al momento dell’edizione e probabilmente c’è la sua mano nel trattamento del testo (qualche breve chiosa parentetica in passaggi oggi più oscuri).
Lino Gobbi, Quei Natali senza campane. Echi di guerra – angosce di prigionia (1941-1945), edizione curata da Alessandro Parisi e Vittorio Baldessari, Tipolitografia Andreatta, Arco 2000, 255 pp. Lino Gobbi (Arco nel 1921, vivente al tempo dell’edizione) era alpino della Julia e superstite della ritirata del Don. Sulla natura del libro (curato e ricco di innesti illustrativi e d’altro tipo fino al rischio della leziosità) scrive uno dei curatori, Alessandro Parisi, in una pagina introduttiva: “Questo libro nasce da un diario di guerra e di prigionia che Lino Gobbi ha scritto attingendo alle sue esperienze di Alpino nel periodo 1941-1945. Non è un diario vero e proprio, in quanto manca di un puntuale e preciso riferimento a date, a scadenze temporali in rapida e sintetica successione. Del diario mantiene, invece, la particolare attenzione allo svolgersi degli avvenimenti personali e non, mostrando la profonda sensibilità dell’Autore nel voler mettere per iscritto i fatti essenziali, gli avvenimenti più importanti di un’esistenza fatta di estremi patimenti fisici e morali, di immani tragedie umane, di speranze mai sopite, di angoscianti attese, di costanti preghiere.
Pochi i personaggi, a volte indefiniti, che si perdono nella folla, nella massa di poveri derelitti. Frequente, al contrario, la presenza dei genitori, dei Cari di Lino Gobbi, così come presente è quel Qualcuno che lo assiste, che lo aiuta nei momenti più difficili, e in questo si manifesta una grande fiducia nella Provvidenza divina, una Provvidenza “manzoniana”, che alla fine lo saprà far ritornare nel suo paese, alla sua casetta di campagna.
La parte sulla prigionia inizia a p. 71 del volume e ne occupa dunque più dei due terzi. L’8 settembre coglie il reparto di Gobbi in Istria, sembra dalle scarne indicazioni geografiche. Il primo nome tedesco di luogo che si legge è poi quello di Kassel: “siamo costretti al lavoro nella famosa fabbrica di carri armati Panzer”.
Carlo Zaltieri, Dalla Prussia Orientale alla libertà. Storia dell’internamento in Germania della fuga e della raggiunta libertà, Grafiche Artigianelli, Trento, s.d. (circa 2000), 125 pp. L’autore è un mantovano da anni residente a Villazzano. Il testo è vitale, ricco di spunti, “giovanile” anche se si tratta di pagine memorialistiche scritte di recente. Scrive l’autore: “Nello scorrere i vari libri scritti dai reduci della prigionia in Germania (…) ho potuto notare che la maggior parte dei testi sono stati scritti da ufficiali”, condannati ad una vita “così monotona che, non essendo obbligati a lavorare, per far passare il tempo, scrivevano i loro diarii”. “Altra cosa è stata invece la vita dei sottufficiali e militari di truppa, obbligati subito al lavoro coatto senza tanti complimenti, nelle fabbriche, nelle campagne, nelle miniere, a riparare strade e ferrovie danneggiate dai bombardamenti, ecc., male nutriti e con orari di lavoro talmente pesanti da non permettere un riposo adeguato. Di conseguenza ci sono pochi racconti di vita da prigioniero…”. E quello di Zaltieri è un racconto che cerca di trasmettere la varietà di esperienze e di incontri della condizione del soldato prigioniero, con uno spirito che, nella specificità di una situazione comunque tragica, potremmo definire picaresco.
Giulio Pedrotti, Quando mi arrivò la cartolina…, La Grafica, Mori 2000, 127 pp. Il racconto autobiografico parte dalla cartolina di leva, ricevuta nel giugno 1938, e arriva fino al rientro e alla ripresa della vita “normale”, nel maggio 1945. Alla prigionia in Germania è dedicato il terzo capitolo, p. 65 ss. La vicenda di Pedrotti coincide con quella dell’amico Carlo Calzà, fin dal richiamo alle armi del febbraio 1943 e il periodo trascorso in caserma a Treviso. E’ a Treviso che Pedrotti, Calzà e altri soldati della Vallagarina vengono fatti prigionieri. Per gran parte della narrazione, Pedrotti si avvale del diario di Calzà, quasi alla lettera, saccheggiandolo amichevolmente. Nel suo testo c’è però qualche dilatazione, qualche inserto gustoso che rende non del tutto meccanico il raffronto tra i due testi. Più “autonome” le pagine sul ritorno. Nel volume sono riprodotte fotograficamente anche alcune lettera a casa.
Pompilio Aste, Diario, a cura di Fabrizio Piazza, sito del Museo della civiltà contadina della Vallarsa, s.d. (ma circa 2000) Consideriamo tra i testi editi quello di Aste, pubblicato sul sito Internet del Museo della civiltà contadina della Vallarsa (http://spazioinwind.libero.it/csv/indice.htm). Riportiamo da lì la nota di Fabrizio Piazza, autore della trascrizione e curatore dell’edizione. Il diario, che nella sua prima parte è più corretto definire memoria, perché scritto successivamente agli avvenimenti narrati, inizia l’8 settembre 1943. Racconta la resa ai tedeschi, successiva all’armistizio, a Lubiana. Prosegue con la descrizione della prigionia attraverso i campi di Thorn, Tchesthokau e Cholm, in Polonia, dove inizia la parte definibile diario vero e proprio, con annotazioni datate, ed infine Wiezendorf, in Germania. Termina il 19 gennaio del 1945. E’ scritto su un quadernetto-notes a quadretti, con copertina di colore verde scuro, su ambedue le facciate, non numerate, dei fogli. La scrittura è chiara, di facile lettura, fitta su tutte le righe disponibili. (…). Oltre al diario vero e proprio il quaderno contiene tre disegni originali, firmati P. Aste, la formula della “Dichiarazione di impegno” con cui i prigionieri italiani potevano optare per la Repubblica di Salò e passare sotto il comando tedesco e alcune lettere alla moglie Itala e al figlio Sandro, riportati nella trascrizione. Le lettere sono scritte direttamente sul quadernetto, nell’impossibilità o senza l’intento di spedirle, con lo scopo evidente di farle leggere dopo l’auspicato rientro in patria, o lasciarle a futura memoria, nell’eventualità di un non ritorno.
La trascrizione ne mantiene la posizione originale. Per quanto riguarda i disegni, invece, gli originali sono al centro del quaderno, mentre qui sono posti in corrispondenza ai relativi campi. La “dichiarazione d’impegno” è qui riportata alla fine, mentre nell’originale è all’inizio. Nell’originale sono inoltre presenti: un elenco di libri letti, un indirizzario con i nomi dei commilitoni o compagni di prigionia, una pagina di citazioni letterarie e religiose ed alcune preghiere, che sono stati omessi.
In copia, il testo è conservato e accessibile in ASP, Museo storico in Trento. Si dispone del file di trascrizione in formato Word (presso il Museo della guerra, testo da controllare). A scopo esemplificativo riportiamo una pagina nella quale è condensato il punto di vista di Aste dentro la vicenda storica di cui è parte. Si tratta del testo di una lettera ai suoi cari non inviata, una sorta di autoritratto da tramandare al dopo: “La giornata di oggi è stata particolarmente dura, per le sofferenze fisiche e spirituali che ci sono state imposte: esposti al freddo per lungo tempo, mal nutriti e poco coperti, abbiamo dovuto ascoltare ancora una volta la volgare parola di un generale venduto, e ci è stato proposto nuovamente il problema dell’opzione, in termini assai severi, con larvate minacce per quelli che non avessero ritenuto doveroso aderire. Superfluo dirvi miei cari, che io non ho considerato neppur questa volta, e nemmeno per un attimo, l’eventualità di optare, non già perchè io mi sentissi unicamente legato ad un giuramento, ma unicamente perché io non voglio – io che non ho tradito nessuno – aver a che fare con i tedeschi; mi si consideri unicamente dall’aspetto di ufficiale italiano, ed in questo caso rispondo disciplinatamente. Questo, mia Itala e mio Sandro, il mio pensiero in materia. Un’ ora dopo la decisione abbiamo dovuto sgomberare la baracca dove ci eravamo sistemati alla meno peggio, e dopo aver sostato a lungo all’aperto, al freddo intenso, abbiamo potuto trovar asilo alla baracca 16, tra gente fredda in un ambiente freddo, sporco, senza possibilità di sistemazione per questa sera. Il gruppo dei “Cacciatori” è stato così smembrato, con profondo dolore per tutti. Con me sono Concutelli Mattioli e Pardini, anch’essi molto depressi. Ma non solo le angustie di oggi hanno determinato in me questa crisi di sconforto; bensì tutta la somma infinita di privazioni, di stenti, di contrarietà accumulate nell’animo in oltre due mesi di vita tra i reticolati. Sofferenze di ordine spirituale in primo luogo, quali l’essere considerati traditori, noi che fummo i primi traditi, il non aver notizie dei nostri cari, il sapere la Patria piombata nella rovina dopo tanti sacrifici e tante speranze.
Poi le imposizioni di ordine materiale, nelle quali il tedesco rivela tutta la durezza del proprio animo, e il rosario interminabile di “miserie” procurate da noi stessi, forse appunto perché a noi è negata la sorte di considerarci alla stregua dei prigionieri normali, e siamo tormentati e ci tormentiamo fino all’esasperazione, per questioni le più varie e futili, che non voglio dirvi e che io stesso vorrei poter dimenticare. In tanta amarezza mi aggrappo, miei cari, all’unica ancora di salvezza, che è rappresentata dal patrimonio – fortunatamente molto grande – del meraviglioso affetto che ci lega tutti e tre vicendevolmente, con vincolo indissolubile.
Il pensiero di voi miei poveri pulcini è sempre sopra ogni altro, tutti i giorni e tutte le ore, con le sue ansie per la vostra sorte, con il cocente dolore per le privazioni che vi sono imposte, e, anche, con qualche sprazzo di luce confortatrice quando rivado alle intime inesprimibili gioie passate insieme e quando mi cullo nell’illusione di ricostruire, in un avvenire più o meno lontano, la nostra vita. Vi potrei dire che “vivo” sugli interessi di “bene” in otto anni giorno per giorno accumulato, e su una lunghissima serie di anticipi del “bene” che vorrò dimostrarvi, se l’Altissimo vorrà concedermi, nella sua infinita bontà, il ritorno. Sento di possedere ancora un campo ricchissimo da sfruttare, in materia di manifestazioni di affetto, e quando, spessissimo, ci penso mi sento inorgoglire, perché voi meritate pienamente, incondizionatamente, tutto quanto il mio affetto.
Sono accanto a voi anche con la preghiera sapete, convinto che la Pietà celeste mi elargirà le grazie di cui ho tanto bisogno. Ed anche circa l’amor di Patria devo dirvi due parole: tu Itala sai e Sandro saprà, con quanto slancio io abbia corrisposto – dopo aver domandato ed insistito – all’appello della nazione in guerra, e con quanta fedeltà l’abbia poi servita in oltre due anni e mezzo di soldato.
Avevo un’unica ambizione: poter raccontare al mio figliolo un giorno il mio modesto contributo alla guerra vittoriosa, dalla quale egli e la sua generazione avrebbero potuto trarre qualche beneficio. Ma una crudele sorte ha voluto diversamente, e la Bandiera del 1o Reggimento Artiglieria Cacciatori delle Alpi è stata con le altre – non vinta – ammainata, ed ora non resta altro conforto al mio animo di italiano che quello di custodire gelosamente – attraverso i campi di concentramento di Germania e di Polonia, contro la potenza demolitrice teutonica, – il sacro tricolore, con la speranza di riportarlo un giorno a Foligno. Vi prego di voler considerare miei amori cari, che non posso ritenermi infelice tutto sommato, fin che posso contare su questi alimenti per la mia anima, quali sono un affetto intenso e meravigliosamente bello per voi, il conforto della Religione, e un fermo sentimento di amor patrio.
Perciò concludo dicendo In alto il cuore, perché giorni migliori verranno. Intanto una parola di conforto m’è giunta anche oggi, con l’incontro di De Romedis; egli, ch’è mutilato di guerra, è doppiamente meritevole di ammirazione, perché era già sulla via del ritorno in Patria ed ha preferito – senza tentennamenti – riaffrontare l’incognita del campo di internamento piuttosto che abiurare ai principi della propria coscienza. Sento che egli mi sarà di sprone a proseguire con saldo cuore e con dignità la strada fin qui percorsa. Miei poveri amori, voglia il Signore Iddio che io stesso vi possa portare questa missiva, e che io possa essere accanto a voi con la mia persona, nel tepore della nostra casina, il giorno in cui leggerete queste mie parole.
Ché se invece il Fato dovesse esigere che io sia privato del sommo bene del ritorno, ebbene Itala e Sandro miei sappiate che il vostro babbetto si è mantenuto sino all’ultimo giorno forte d’animo, fermo nei suoi propositi, scevro dal prestar anche l’orecchio a lusinghe o minacce, in ogni momento buono sposo, buon padre, buon italiano, buon cristiano; e voi elevate il vostro dolore a sentimento di intimo orgoglio, fatene patrimonio spirituale per la vostra vita, consideratemi caduto per la Vera Patria, l’Italia imperitura, e vogliatemi bene.
Grazie, grazie dal profondo dell’anima per il bene, tanto grande e inesprimibile, che mi avete fatto in tanti anni di vita nostra e in questa sera; ne ho il cuore caldo di traboccante affetto e gratitudine, e mi dichiaro pronto a sopportare con forza e serenità le incognite del futuro. Bacio le tue mani mia cara Mammetta brava e cara, raccomandandoti in cuor mio di esser molto forte, come mi hai dimostrato di saper essere in ogni circostanza per quanto dura; ti stringo al mio cuore, Sandro bello e caro, esortandoti ad essere bravo ubbidiente e studioso. Tutti e due siete l’unico grande motivo della mia vita: voglia Iddio Sommo che non ci si perda. Perdonatemi; siatemi fedeli, sappiatemi attendere con fiducia. Vostro Asticino”.
Ferdinando Manfredi, Da Sacco a Sacco. 1939, 40, 41, 42, 43, 44, 1945, Rovereto, Osiride, 2001, pp. 75. Si riporta la prefazione di Fabrizio Rasera: “Questo piccolo libro di ricordi è costituito da due documenti di epoca diversa. Il primo, in ordine cronologico, è il pacchetto delle lettere che Fernando Manfredi spedì ai famigliari dai lager della Macedonia e poi della Croazia dove fu prigioniero dei tedeschi tra il settembre 1943 e il maggio del 1945. Il secondo è il racconto della sua guerra affidato al magnetofono nel 1991 e qui trascritto. Ricordo bene la genesi di questo testo. Stavamo lavorando ad una ricerca su Rovereto negli anni della seconda guerra mondiale, in un memorabile corso del Laboratorio di storia dell’Università della terza età e del tempo disponibile: memorabile per l’impegno che tutti ci mettemmo, coordinatori e corsisti, per il clima umano degli incontri (sullo sfondo c’era l’incubo presente della Guerra del Golfo), per le amicizie che nacquero o si rafforzarono, per i libri che ne uscirono. Eravamo reduci da un analogo ciclo di lavoro sul ventennio 1919-1939, svolto prevalentemente su documenti per così dire oggettivi, anche se già allora si era affacciata prepotentemente l’esperienza diretta dei ricercatori-testimoni. Nel lavoro sulla guerra ebbe ampio spazio la memoria, sia attraverso il reperimento di diari e di lettere, sia attraverso una serie di interviste che risultarono molto coinvolgenti. La parola intervista, ad essere rigorosi, non descrive esattamente le modalità in cui avvenivano gli incontri, nei quali spesso i ruoli dell’intervistatore e del testimone venivano rimescolati dal bisogno di testimoniare di tutti i presenti che avevano partecipato agli eventi.
Le bobine che raccoglievano quei materiali si affollavano di voci, restituivano commenti, correzioni, spezzoni di dialogo. Manfredi, che partecipava a questa atipica quanto interessante costruzione di documenti orali, scelse di raccontare la sua storia di soldato e di prigioniero senza intervistatori né altri mediatori, consegnando al registratore (e alla ricerca) un testo narrativamente compiuto, dalla partenza da casa al ritorno. Il titolo Da Sacco a Sacco lo appose lui, sulla fascetta della cassetta, a sottolinearne da subito un carattere autonomo e, per così dire, d’autore. Un testo orale deve molta della sua originalità ed efficacia alle modalità comunicative. Le interruzioni, le pause, le interiezioni che ritmano la narrazione (“no”, “vero”), le esclamazioni, le fratture del periodo, le inflessioni della voce ad esprimere l’ironia o la gravità o la commozione sono elementi indissolubili con le parole del racconto. La trascrizione che qui si propone configura, inevitabilmente, un altro testo, anche se l’autore che l’ ha effettuata in prima battuta ed il curatore che l’ ha rivista hanno optato per una fedeltà pressoché totale. Credo tuttavia che anche così il racconto abbia una sua efficacia, accresciuta dall’intreccio con le lettere cui si affianca. Che guerra è quella che Manfredi ci racconta in Da Sacco a Sacco? Sul retro di una sua fotografia in divisa ha apposto a matita la didascalia “Se quel guerrier io fossi”, adattando alla sua vena ironica lo slancio eroico del verdiano Radames. Anche nel testo autobiografico un’ironia lievemente amara è spesso la chiave di lettura degli avvenimenti. Vista dalla distanza della memoria di mezzo secolo dopo, quella guerra si presenta come una successione di paradossi. Il pezzo di spago che gli viene consegnato al posto della cintura nel momento di vestire l’abito da militare prefigura fin dall’inizio le incongruenze di un esercito scalcinato.
Al fronte il protagonista dovrà rendersi conto di più tragici paradossi, come la strana guerra ai civili cui gli toccherà di prender parte nell’ambito della repressione della guerriglia partigiana in Jugoslavia. La rievocazione dei rastrellamenti, degli incendi dei villaggi e delle fucilazioni è una delle parti più tese di tutto il testo, che ci restituisce immagini dolorose del conflitto sul fronte balcanico, vissuto con particolare disagio dalla memoria collettiva. Dopo l’8 settembre, un nuovo paradosso: non è la sconfitta in battaglia a rendere i nostri soldati prigionieri, ma una disfatta più complessiva, che li consegna nelle mani del recente alleato e ora nuovo padrone. “Ci siamo chiusi dentro noi!”: la scena in cui gli internati costruiscono i reticolati tra cui saranno rinchiusi rappresenta un’efficace sintesi (ironica) della situazione. La posizione di Manfredi rispetto alla prima parte della guerra è priva di prese di posizione ideologiche, a favore o contro. Il fascismo non è quasi nominato, come regime politico. Piuttosto, nel concreto della situazione militare, avvertiamo una distinzione polemica tra l’esercito ed i battaglioni M, in cui è arruolato il fratello Giuliano, sostenitore appassionato della causa fascista, come apprendiamo anche dai frequenti riferimenti nelle lettere del periodo dell’internamento. Il tempo della scelta, anche per Manfredi e per i suoi compagni di sventura, viene dopo l’8 settembre, nei lager dove sono rinchiusi, quando si presenta la necessità di optare tra l’ arruolamento nelle truppe della Repubblica di Salò ed una resistenza difficile ed oscura, perché impossibilitata ad esprimersi in gesti attivi di opposizione o di rivolta.
A conferma dell’assenza di ogni posa eroica, Manfredi vi accenna appena nella memoria più recente, mentre il tema emerge con forza, sia pure tra le righe, in molte delle lettere. “Comunque tutte queste avversità non hanno infiacchito lo spirito per quello che concerne i miei sentimenti e quello che potrà ancor venire non riuscirà certo a far cambiare dalla strada, che pur prevedendo dolorosa, ho seguito e che abbiamo seguito”, scrive nella seconda lettera da prigioniero, quella del 25 febbraio 1944. E più avanti, il 28 marzo: “Certo è che ormai, per tanto facciano non riusciranno a farmi cambiar l’idea né cambiare dalla via che pur sapendo e prevedendo di sofferenze ho seguito”. Quella che si fa strada è prima di tutto una scelta morale, radicata nella violenza della situazione che sta sperimentando sulla sua pelle e in un desiderio profondo di pace. Quando sa da casa che il fratello Giuliano si è di nuovo arruolato e che combatte con Salò, Fernando commenta con una battuta delle sue: “ditegli che se potrà ritorni pure con l’alloro io mi accontento di tornare quando spunteranno gli ulivi! Qui sappiamo molte e molte cose anche di lassù, ad ogni modo ognuno è padrone della propria idea, e la furbità che mi raccomanda la lascio tutta a lui che certo in avvenire ne avrà più bisogno” (4 giugno 1944). Abbiamo cominciato così ad intrecciare il testo autobiografico con l’altro, notevolissimo documento qui pubblicato: il mazzetto di lettere e cartoline conservate a casa Manfredi, venticinque in tutto. Sono precedute da altre del tempo di guerra, prive però di un interesse analogo, tanto che abbiamo ritenuto di usarne qualcuna solo per la parte iconografica del libro.
Quelle dalla prigionia sono straordinarie non solo per quello che dicono, ma come oggetto in sé. “Carta e confezione autarchica! come vedete, noi soli sappiamo il peso di questa carta!”, scrive Fernando nelle prime righe della lettera del 23 febbraio 1944, scritta sul ritaglio di un sacco di cemento, come quelli che gli toccava scaricare e trasportare nel suo lavoro di schiavo del Reich. Molte altre hanno questo carattere –anche fisico- di scritture dell’emergenza: e tuttavia, attraverso questa corrispondenza di fortuna, l’ingegnoso mittente riesce a far giungere a casa notizie, richieste, commenti, descrizioni della propria situazione, sfidando diversi livelli di censura. A partire da quella interiore: in condizioni come quelle dei soldati e dei prigionieri è di norma molto forte il bisogno di rassicurare i famigliari, di risparmiar loro angosce e pensieri penosi. Anche Fernando cerca di limitare i toni troppo crudi, ma è palese la sua volontà di far trapelare un’immagine realistica della situazione. Le allusioni e gli altri espedienti retorici delle prime lettere dalla Macedonia risultano, anche da questo punto di vista, molto efficaci: “Sono nella terra delle mie sigarette preferite… Sto passando il periodo migliore della mia vita. Spero nessuno dei miei fratelli abbia da invidiarmi.” (10 ottobre 1943) “Al tempo dei faraoni certa gente costruiva le famose piramidi, e il sole non c’è pericolo che si alzi prima di noi, pure la luna ci conosce bene!” (25 febbraio 1944) “… la terra ci è un po’ benigna e ci fa trovare qualche radice di certe piante spinose da trangugiare come contorno di tutto quel po’ po’ di roba che ci danno” (28 febbraio 1944).
Scrive Leo Spitzer, nel suo fondamentale studio sulle lettere dei prigionieri italiani in Austria durante la prima guerra mondiale: “Per indicare il contegno stoico verso le sofferenze, l’italiano si serve della parola ‘pazienza’ (…) La pazienza, la costanza nel dolore, è la virtù dell’eroe cristiano: che è affine, da un lato, alla rassegnazione, e dall’altro al coraggio. E pazienza e coraggio sono fra le parole che ricorrono più spesso nella corrispondenza italiana”. Anche nelle lettere di Manfredi questa parola chiave emerge, più come obiettivo di autodisciplina morale che come capacità acquisita: “Pazienza, pazienza e pazienza! (…) La vita del prigioniero sapevo non esser bella, il nostro caso però è, credo, unico nella storia di questa guerra. Pazienza e ancora pazienza!” (6 marzo 1944). I riti religiosi, le messe domenicali sono uno dei pochi momenti di riconosciuta dignità umana in un universo che continuamente la mortifica. In esse Manfredi può ritrovare a un certo punto anche la dimensione a lui così cara del maestro di coro e del musicista: “Domenica Pentecoste abbiamo cantato la messa degli angeli accompagnata da un violino e una chitarra, (piuttosto che niente!) dopo tanto tempo ho fatto ancora il direttore d’orchestra!” (4 giugno 1944). Nella stessa lettera il pensiero corre al suo coro di Sacco e alle musiche da eseguire: “Sono contento di sentire che quest’anno le ragazze hanno combinato il coro per il maggio. Ringraziate per me il maestro Marini della canzone dedicata a Berto, sono certo che deve esser bella. Volevo scrivervi di far cantare quell’Ave Maria che sapete custodisco gelosamente…” La fede nella Provvidenza, la consolazione reciproca tra compagni di sventura, il forte legame con i famigliari sorreggono costantemente Fernando attraverso tutta questa “terribile prova”.
L’amore per la madre Giuseppina è il tema principale dell’ultima lettera (l’ultima pervenuta e conservata, perlomeno), in data 25 febbraio 1945: “Il peggio dell’inverno grazie a Dio è passato, teniamo duro per il resto in attesa delle violette. L’anno scorso in questi giorni iniziavo la corrispondenza con voi dopo sei mesi di silenzio. Come allora faccio in anticipo gli auguri di buon onomastico a te mamma cara. Il pensiero che ogni giorno certamente mi ricorderai fa ravvivare sempre più il mio affetto per te che finora è il più grande della mia vita. Qualche volta mi pare di comunicare con te col mio spirito, attraverso questa distanza che ci separa e sembra non abbia più a diminuire. Ma finirà sì un giorno! Certo che non me lo so immaginare!” Anche da un punto di vista strettamente storico, il piccolo epistolario di Manfredi mi sembra di notevole interesse. L’internamento nei Balcani, che pure investì più di 100.000 soldati, non ha prodotto una memorialistica nota, né è stato oggetto, a quanto mi risulta, di studi specifici. Le lettere degli internati, più in generale, hanno suscitato finora un interesse molto minore rispetto a quello riservato ai diari e alle memorie, anche perché si è a lungo pensato che non potessero essere che documenti reticenti o puramente privati. Questo significa che sono state cercate, conservate, studiate, pubblicate in misura ridotta. Confidiamo che questo libriccino contribuisca a stimolare un’ulteriore attenzione degli studiosi e delle istituzioni nei confronti di questi umili documenti”.
Mirella Zanin Springhetti, La forza della speranza. Diario di un prigioniero nei Lager nazisti, edizione fuori commercio, Associazione BZ 1999, Bolzano 2001, 104 pp. Storia di un prigioniero scritta in parte dalla figlia, ma affidata anche all’edizione del suo diario. Nato a Borgo Valsugana nel 1909, Luigi Gino Zanin si trasferisce a Bolzano per lavoro nella seconda metà degli anni ’30, con la moglie appena sposata (Eduina Targa, nata a Serrada). Insegnante di meccanica al corso di specializzazione militare, lì viene fatto prigioniero la notte tra l’8 e il 9 settembre. Viene internato nel lager di Steyr, dove scrive note essenziali e intense in un’agendina (già iniziata nei luoghi di passaggio). La sua trascrizione occupa la parte centrale del libro. Ci sono anche lettere e altri documenti. Il libro si conclude con un breve testo, scritto da Gino Zanin, che costituisce un toccante documento sul desiderio e sulla negazione della scrittura. Lo riprendiamo dalla fotografia pubblicata: Avevo progettato di scrivere una serie di articoli che seguissero con attento rispetto verso la realtà, le vicende del gruppo di prigionieri Italiani, fra i quali figura il numero 91746, che sarei io. Raccogliere poi gli articoli e pubblicarli a suo tempo in volume, sarebbe stato per me una grande soddisfazione. La storia d’un prigioniero giungerebbe forse più gradita ai posteri, delle solite storie d’amore che si concludono come sempre dietro un rosaio. Ma oggi mi accorgo, e in tempo, che la mia carriera di prigioniero diventa di ora in ora più scialba, più vuota di risonanza ed il cervello stanco, si rifiuta di lavorare. Se è vero che tutto finisce, all’alba, è solo quest’alba che aspetto, nell’attesa di un domani, che preme e che mi perseguita. Ansia di pace, […] L’impaginazione del documento ne taglia la conclusione, ma anche così lo troviamo straordinario. Il libro contiene anche alcune fotografie del tempo del lager, molto espressive.
Giovanni Meneguz, Fuga da Berlino e altri racconti 1943-1948, Merlo Coderlo Enterprise, [Fiera di Primiero] 2001, a cura di Paolo Meneguz, 63 pp. Nell’introduzione il figlio Paolo racconta la storia di questo libro. “Qualche anno fa, sistemando le carte di mio padre, tra molte altri scritti (poesie giovanili, alcuni capitoli di un 25 romanzo…) trovai anche dei racconti dattiloscritti. Li lessi con curiosità, soprattutto perché l’argomento riguardava un periodo particolare della sua vita di cui conoscevo molto poco: le sue esperienze durante la seconda guerra mondiale. Pubblicarli oggi, a vent’ anni dalla sua morte, vuole da un lato essere un omaggio alla sua memoria e dall’altro far conoscere una parte, poco nota, della sua produzione letteraria. Infatti se molti primierotti, ormai tutti di una certa età, conoscono il Giovanni Meneguz, nelle vesti del poeta di “Vesin allarin “, dell’autore e coprotagonista insieme a Sebastiano Gadenz della trasmissione radiofonica le “Ciacere del Nane e del Bas-cian”, del commediografo e regista tra l’altro de “Le medaie de la Fiera” e di “Amor,festidi e dalmede”, del giornalista dell’ “Alto Adige” e del redattore di “Radio Primiero”, credo che ormai nessuno abbia memoria di questi racconti pubblicati, più di mezzo secolo fa sul quotidiano “Il Corriere Tridentino”. (…) In queste storie scritte tra il 1946 e il 1948 si avverte quasi la necessità, per lui, di fissare quel periodo straordinario vissuto tra il settembre del ’43 e la primavera del ’45. Straordinario non solo perché a viverlo era un ventenne che nel giro di qualche mese era passato dai banchi del liceo “Prati” di Trento alle stanze dell’ambasciata della Repubblica di Salò a Berlino, ma anche per le scelte fatte da tutta la sua generazione in quel breve volgere di tempo (chi repubblichino, chi partigiano, chi furbo – “i pi tropi” avrebbe commentato lui – ) segnarono non solo la loro vicenda personale ma anche la storia della nostra repubblica. Sicuramente autobiografici, questi racconti sono stati disposti in un ordine temporale che ritengo abbastanza convincente.
Giovanni Meneguz in forze presso la caserma “Chiarle” di Trento, dove da tre mesi prestava servizio in qualità di goniometrista, venne catturato il 9 settembre 1943 dalle Forze Armate tedesche, e portato insieme a molti commilitoni in Germania. Qui fu internato nel campo di Langwasser, presso Norimberga. Kostantin Tovarisch il pezzo che apre la serie si riferisce ad un’amicizia nata proprio nel campo di concentramento che lui lasciò il 25 gennaio 1944. Aveva infatti, come altri internati, scelto di schierarsi nuovamente con Mussolini, che nel frattempo aveva costituito, grazie all’aiuto indispensabile del Terzo Reich, la Repubblica Sociale di Salò. I racconti successivi sono ambientati nella nuova situazione dell’autore, “corriere diplomatico” dell’ambasciata della RSI a Berlino, che aveva alla testa Filippo Anfuso.
Candido Degiampietro, Tempi duri (1942-1945). Dal diario di guerra e prigionia del capitano degli Alpini comandante della 634° Compagnia Complementi di marcia, Tipografia Novaprint Carano 2002, 337 pp. Maestro elementare, studioso prolifico e autorevole di storia della Val di Fiemme, accademico degli Agiati dal 1976, l’autore di questo libro si può ritenere una figura particolarmente rappresentativa della cultura del suo territorio. Nella prima parte di questo volume autobiografico si racconta l’esperienza di combattente, dall’arruolamento volontario e dall’impiego come ufficiale degli alpini dal marzo 1942. Il diario che sta sotto il testo, come uno strato geologico anteriore, parte nel febbraio 1943, nei giorni della partenza da Carano verso la Slovenia, dove combatte contro i partigiani. Il suo primo luogo di operazione è Idria, l’antico centro minerario allora entro i confini italiani. E quella zona è scenario di uno scontro tra partigiani sloveni e reparti dell’esercito furiosi, con rastrellamenti, esecuzioni sommarie, coinvolgimento della popolazione civile, nel quale l’autore si rappresenta nella parte del soldato obbediente agli ordini, anzi ardimentoso, ma pietoso.
La seconda parte, piuttosto composita, riguarda la prigionia. In forma di diario abbiamo il periodo che va dalla seconda metà di agosto alla cattura, il 9 settembre in Alto Adige, ai giorni successivi fino al 16 (partenza in treno per la Germania). Nella parte successiva pagine narrative isolate. Deblin (Polonia Orientale). Il 29 febbraio 1944, partenza per Mühlberg in Sassonia. Lavoro in fabbrica a Weinböhla presso Dresda. In forma di diario di nuovo dal 10 dicembre 1944. Bombardamenti, massacri, fuga (19 aprile 1945). Molto drammatica tutta la fase finale. Attraverso la Boemia, con frequenti incontri di persone soccorrevoli. Attraverso l’Ungheria e l’Austria, fino al campo per rimpatriandi di Bad-Tölz in Baviera. Molte storie avventurose e molti personaggi nei mesi trascorsi nella Germania “anno zero”. Infine la chiusura dell’odissea e il ritorno (Degiampietro riparte il 9 luglio, il giorno dopo riabbraccia moglie e figlioletti a Anterivo).
Vigilio Andreolli, Ricordi di guerra da non dimenticare per apprezzare la pace, a cura di Ezio Tranquillini, in “I quattro vicariati”, 2002, p. 59 ss. Terza parte di un racconto orale diventato testo scritto, attraverso la mediazione del curatore. Non c’è nessuna notizia sul metodo e sui criteri. Il testo è efficace e ricco di dettagli vivi. La deportazione dai Balcani, l’impossibile lavoro da operaio in fonderia, le violenze subite, la fuga, la fame patita e gli espedienti per alimentarsi in qualche modo, l’arrivo degli americani, il trauma paradossale del passaggio ad un regime alimentare di abbondanza, la mediocre accoglienza dei fratelli italiani, le difficoltà e i ritardi del ritorno… Temi presenti in molti altri testi, esposti con efficacia.
Claudio Busolli, C. Calzà, A. Cortiana, F. Manfredi, I campi dei soldati, a cura di F. Rasera, Rovereto, Museo Storico Italiano della Guerra, 2003. Riportiamo parte dell’introduzione del curatore: Questo libro raccoglie quattro storie di soldati internati, raccontate in scritti molto diversi per tipologia e per la vicenda che testimoniano. Quello di Carlo Calzà è un diario scritto giorno per giorno, salvo un riepilogo iniziale di quanto accade dalla partenza all’avvio dell’esperienza del lavoro. Il mutare dei supporti testimonia materialmente della condizione di precarietà e di penuria in cui avviene la scrittura: due piccole agende, poi dei fogli ripiegati, infine un calendarietto tedesco annotato direttamente a matita. Il testo si arresta al 13 settembre 1944, a pochi giorni di distanza dal cambiamento di condizione formale degli internati, ribattezzati “lavoratori civili” a partire dall’inizio di quel mese. L’autore fa a tempo a registrare un senso quasi incredulo di sollievo e il perdurare, per quanto riguarda il lavoro forzato, della stessa penosa condizione di prima: “5/9/44. La vita continua come al solito. 11 ore di lavoro in mezzo al ferro sempre”. L’ esperienza raccontata nel diario, dopo la partenza dall’Italia, si divide nettamente in due periodi. Il primo, trascorso in quella Prussia Orientale che dal dopoguerra è territorio russo, non lontano da Königsberg/Kaliningrad, è relativamente mite. Nei quattro mesi trascorsi nella cittadina di Gerdauen, la pesantezza di lavori appresi talora per la prima volta e la pena della lontananza sono mitigate dalla solidarietà con alcuni compaesani e con un generoso compagno di sorte polacco. Le condizioni di vita materiali non sono cattive, tanto da sembrare più assimilabili a quelle di un emigrante che a quelle di un prigioniero. Dopo il ritorno nel Lager, dall’8 gennaio ’44, vengono invece mesi durissimi, in cui l’autore conosce la disciplina feroce, il trattamento da schiavi, la violenza assassina sui compagni di sventura. “7/8/44. Questa mattina è successo un fatto grave. Un nostro compagno, certo Senzalaghi, per aver oltrepassato i reticolati per prendere delle patate è stato ucciso con un colpo di moschetto da una guardia tedesca. Un altro è stato preso e bastonato forte, ed un terzo è arrivato a dileguarsi. Per quattro patate non vale proprio la pena di arrischiare la vita. Quella povera mamma!!!” Il testo di Claudio Busolli configura una diversa tipologia. Si tratta di una memoria, scritta anch’essa per intero in prigionia, ma con sguardo retrospettivo, come indica l’incipit: “Stanco di questa vita volgo indietro il mio sguardo sul tempo così trascorso, come un viandante che spossato concedendosi un pò di riposo, asciugandosi il sudore guarda la strada…” .
Questa modalità di scrittura implica una minore attendibilità per quanto riguarda la successione cronologica ed una diversa selezione degli oggetti dell’annotazione, come sottolinea consapevolmente l’autore: “In questa vita così chiusa v’erano pure delle date che valeva la pena notarle; e le notai su una retrocoperta d’un libro. Mi dispiace averla perduta: ricordo qui il sogno nel quale mia mamma mi strappò questa nota, io benché cercassi di conservarla l’ho smarrita. Non posso perciò ricordarmi delle date: seguisco perciò le mie miserie un pò alla meglio: come mi capitano sotto mano, congiunte logicamente, se riesce”. Tra i moltissimi temi, emerge con particolare forza quello della scelta, che è elemento caratterizzante di tutta la vicenda degli IMI. Messo di fronte ripetutamente a richieste di optare (per l’arruolamento nelle SS, per quello nel nuovo esercito di Mussolini con relativo ritorno in Italia, per altre forme di collaborazione che nel testo vengono esposte in modo confuso), Busolli precipita in un acuto dramma morale, i cui termini non risultano tutti facilmente interpretabili. La mia lotta, intitola il capitolo dedicato a questa fase, che vive in modo talmente angoscioso da avvertire la tentazione del suicidio. Torna assillante il paragone con l’esperienza del padre durante la prima guerra mondiale, soldato nell’esercito austroungarico sul fronte orientale e prigioniero a Kirsanov, in Russia. Busolli padre aveva scelto allora di optare per l’Italia e di cogliere così l’occasione del rimpatrio. L’analogia della situazione sembra disorientare il figlio, complicando una decisione già percepita come straordinariamente difficile. Ci sembra che proprio la complessità di questo passaggio cruciale (accentuata per noi lettori dal cattivo stato delle pagine relative del manoscritto) conferisca un particolare interesse al documento. Quello posto di fronte agli internati fu un dilemma vero, che produsse lacerazioni drammatiche. Il fatto che la loro risposta non fosse unanime esalta, anziché ridimensionare, il valore del largo rifiuto che ne risultò, come sottolinea Rochat: “La cosa straordinaria fu che circa il 90% dei soldati rifiutarono di tornare a servire Mussolini, pur sapendo che li aspettava un durissimo lavoro forzato. Le adesioni degli ufficiali avevano un peso politico maggiore, quindi le pressioni furono prolungate (e rinforzate da un regime di fame e soprusi), non superarono comunque il 30% […] Questa “resistenza senz’armi” nasceva da motivazioni diverse: la fedeltà al giuramento prestato al re, la difesa della propria dignità di uomini e militari, un rifiuto del nazifascismo per ragioni morali, per una ricerca di onestà e coerenza. Contava moltissimo la coesione della “società del lager”, che sorreggeva i singoli nei momenti di crisi. Una resistenza eroica, ma senza eroi né eroismi. Una resistenza che aveva uno straordinario valore politico-morale. Erano i giovani cresciuti nel regime fascista che lo rifiutavano a prezzo della vita. Se Hitler e Mussolini fossero riusciti a arruolare queste centinaia di migliaia di prigionieri per la loro guerra, la storia italiana sarebbe stata diversa e peggiore” (dall’Introduzione a Claudio Sommaruga, Per non dimenticare).
Altri motivi, ricorrenti in questa memorialistica, colpiscono particolarmente in Busolli. Il tormento della fame, certo, ma con esso quello morale, causato dalle infrazioni che la fame induceva a compiere rispetto alla lealtà tra persone soggette alle stesse privazioni. Il senso di umiliazione profonda che spesso le sue pagine comunicano, trasferendo nel lettore un disagio quasi fisico. Il dibattito che si instaura tra le sue posizioni e quelle dei compagni di prigionia più caratterizzati: su argomenti religiosi con l’amico valdese, su orientamenti politici, con l’antifascista e comunista torinese cui è vicino negli ultimi mesi. Cattolico e tendenzialmente moderato, Busolli è toccato dalle convinzioni degli interlocutori e cerca di misurarsi seriamente con esse. Un’analoga apertura si registra nell’incontro con i prigionieri di altre nazioni, che costituisce un altro motivo ricorrente negli scritti degli IMI. Ancora all’inizio della prigionia, lo scambio di distintivi con gli americani gli fa battere il cuore. Più tardi, il colloquio con un prigioniero russo lo induce a rimeditare quello che sa del comunismo sovietico. Da questi luoghi di pena ma anche di nuovi incontri l’Italia fascista appare sempre più lontana, mentre cominciano ad intravedersi temi e protagonisti di quella nuova. Gli altri due nuclei del libro sono costituiti da lettere. E’ opinione diffusa che la corrispondenza degli internati in Germania non possa rivestire un grande interesse, a causa dei condizionamenti della censura, dei meccanismi dell’autocensura, della reticenza al fine di rassicurare i destinatari. Ma l’argomento dovrebbe valere, fatte le opportune distinzioni, per tutte le lettere dei tempi di guerra e di prigionia, mentre libri come quelli di Spitzer, Revelli, Gibelli, o collane come “Fiori secchi” e “Scritture di guerra”, in modo diverso e in riferimento a esperienze diverse, ci dimostrano che non è così. Fosse anche vero in generale, dovremmo comunque aspettarci delle eccezioni. Il pacchettino della posta inviata ai suoi da Fernando Manfredi costituirebbe in questo caso un’eccezione notevolissima.
Soldato in Croazia e in Montenegro, poi in Grecia, Manfredi scriveva a casa cartoline di rapido saluto, come se vivesse una vita così normale da non meritare racconti di qualche impegno. Dalla sua suggestiva autointervista al registratore, recentemente pubblicata, sappiamo che non era così, che anche nella sua esperienza di combattente c’erano cose importanti, ma troppo dure da raccontare. La sua prigionia la visse prima in un lager in Macedonia (fino all’agosto del 1944), poi a Velika Gorica, vicino a Zagabria. E’ una vicenda pochissimo documentata, quella dei circa 60.000 IMI trattenuti nei Balcani. Su di essa, come su quella dei circa 10.000 che vennero deportati sul fronte orientale, scrive Luigi Cajani, “non è stata finora rintracciata nessuna documentazione autobiografica”, l’una e l’altra “restano delle macchie bianche della storia” (Diaristica e memorialistica degli internati militari italiani in mano tedesca (1943-1945), “Materiali di lavoro”, 1990, n. 1-2, p. 283). Manfredi ce la mette tutta, per far intendere a casa in che condizioni si trova e quale è la posizione che ha assunto. Scrive il 28 marzo 1944: “sappiate questo riguardo alla nostra situazione, che al tempo dei faraoni, quelli come noi venivano impiegati a costruire le famose piramidi! Il resto lo lascio pensare a voi.
Certo è che ormai, per tanto facciano non riusciranno a farmi cambiar l’idea né cambiare dalla via che pur sapendo e prevedendo di sofferenze ho seguito”. Quando viene a sapere che il fratello combatte con la repubblica mussoliniana, non perde l’occasione per una fulminea polemica a distanza (4 giugno 1944): “La lettera di Giuliano non mi ha stupito la immaginavo già così, ditegli che se potrà ritorni pure con l’alloro io mi accontento di tornare quando spunteranno gli ulivi! Qui sappiamo molte e molte cose anche di lassù, ad ogni modo ognuno è padrone della propria idea, e la furbità che mi raccomanda la lascio tutta a lui che certo in avvenire ne avrà più bisogno”. Anche dal punto di vista materiale, le sue lettere documentano l’ingegnosità con cui l’autore riesce a mantenere viva una comunicazione con casa. “Carta e confezione autarchica! come vedete, noi soli sappiamo il peso di questa carta!”, si legge nelle prime righe di quella del 23 febbraio 1944, scritta sul ritaglio di un sacco di cemento, uno di quelli che gli tocca scaricare e trasportare nel suo lavoro di schiavo del Reich.
Le lettere di Arturo Cortiana, meccanico di Ala, configurano una situazione ancora diversa. Quelle del tempo della prigionia sono estremamente sintetiche, ma non reticenti, se scrive di aver visto da vicino la morte e di non poter dormire un’intera notte senza interruzioni e paura. Affannosi racconti di un incubo diventano quelle scritte nel periodo successivo alla liberazione, lungo alcuni mesi. Sono testi drammatici, sia per quanto dicono delle violenze viste e patite, sia per quanto fanno intendere del clima di quella Germania all’anno zero. “Molti padroni sono morti uccisi da noi prigionieri (non da me) morti a forza di botte, colpi di pistola e affogati. Ho visto molte città della Germania di queste non è rimasto pietra sopra pietra. Una città di 600000 abitanti non trovavo posto da ripararmi dalla pioggia. Ho visto a morire dei compagni uccisi a colpi di badile, altri ancora gettati in una camera e poi sbranati dai cani e migliaia di altri fatti del genere. Nella prima fabbrica dov’ero prima sono morti o meglio fatti morire 60 compagni due dei quali si sono impiccati dalla disperazione. In mezzo a questi dovevo esserci anch’io … volevo uccidermi, per non morire martirizzato.
La nostra mamma avrà pregato affinché ciò non avvenga. Non mi farò meraviglia di niente. Le barbarie che hanno fatto i tedeschi non saranno credute se non viste e provate”. Cortiana attraversa quegli orrori rafforzando, o riscoprendo, la fede in Dio (con accentuazioni diverse, tutte queste quattro testimonianze ci parlano di un cristianesimo rivissuto o riscoperto in prigionia). Il 2 luglio 1945 (ma lui insiste per mesi a scrivere 1944, come se il tempo avesse smarrito il suo corso ordinario), ricapitola la sua esperienza nei termini di un serissimo paradosso: “Insomma sto bene in tutto, ma però quand’è sera e vado a coricarmi dopo aver recitato le mie orazioni, il cervello mio comincia a svolgere una lunga pellicola sulla quale vedo tutte le fasi della mia vita passata; vedo la vita civile, quella militare, la famosa prigionia e la libertà. Sapete qual è la più spaventosa e la più bella? La più orribile fase è la prigionia la più bella è la prigionia. Non si direbbe ma è così: la prigionia mi ha fatto conoscere Dio, mi ha fatto conoscere e imparare tutto quello che nessuno potrà imparare se non con il provare. A scrivere questo mi vengono le lacrime dagli occhi. E tutte le notti si svolge lo stesso dramma”. Gli autori delle testimonianze pubblicate in questo libro sono tutti trentini, non perché si sia scelta una prospettiva regionale per un tema che non la legittima, ma perché le ricerche che hanno consentito di incontrare i loro testi si sono svolte in ambito locale. Questo dato, in sé occasionale, contribuisce a determinare altri tratti comuni. Uno è costituito dalla forte presenza, nelle biografie degli autori e in parte anche nei testi, della peculiare esperienza della prima guerra mondiale fatta dalla popolazione del Trentino. Tanto Carlo Calzà che Fernando Manfredi hanno nei ricordi d’infanzia i tre anni trascorsi con la famiglia profuga in Boemia. Il padre di Calzà morì in Galizia nel 1914, soldato dell’esercito austroungarico come i padri di Busolli e di Manfredi, ambedue prigionieri in Russia.
Scrivere della guerra, della lontananza da essa imposta, della lacerazione della famiglia è per alcuni una pratica ben nota nella cerchia degli affetti più intimi: abbiamo già ricordato il taccuino annotato a Kirsanow da Bortolo Busolli; un diario di notevole finezza di sentimenti e di stile aveva redatto nel 1915 Giuseppina Filippi Manfredi, la madre di Fernando. Un altro tratto comune è l’impegno sociale, in qualche caso anche politico degli autori. Calzà è stato un protagonista del teatro di parrocchia, come attore e come direttore di compagnia; più tardi ha dato impulso all’associazione ex-Imi e a numerose e tenaci iniziative memoriali; ha contribuito a fondare e ad animare un Movimento pensionati ed anziani. Cortiana è stato più volte consigliere comunale ad Ala, nelle liste della Democrazia Cristiana. Busolli è stato a lungo segretario della Democrazia Cristiana nel suo paese, Saccone, nel comune di Brentonico. A Saccone ha dedicato un libro, ricco di informazioni e di memorie, pubblicato di sua iniziativa (C. Busolli, Notizie e ricordi di un piccolo paese del Trentino. Saccone di Brentonico, Litografia Amorth, Trento, 1978). Manfredi che è di Sacco, l’antico porto sull’Adige dal 1920 unito al Comune di Rovereto, patria di musicisti illustri come Riccardo Zandonai e Renato Dionisi, ha proseguito il suo impegno nell’ambito del coro parrocchiale e della musica corale. Sono profili diversi, ma tutti riconducibili ad un mondo cattolico popolare che in Trentino ha avuto dalla fine dell’Ottocento una fittissima strutturazione associativa e politica. Le fragili carte che si pubblicano in questo libro sono anche documenti del rimodellarsi dal basso, nei tormenti e nelle prove dei lager nazisti, di uno dei filoni ideali principali della nuova Italia democratica.
Sandro Dise (Alessandro Disertori), Un interno mitteleuropeo, dopo, Modena, Omega edizioni, 2003, 759 pp. Autobiografia di un personaggio dai vari e vasti interessi, ingegnere idraulico, rocciatore, musicofilo. Alla prigionia in Germania sono dedicate molte pagine (228-447, a tenere appena largo l’ambito della periodizzazione). Alla base c’è un diario scritto allora, ripreso anche nel libro successivo dell’autore, Mondi in catene, che registriamo in altra scheda. L’8 settembre trova Disertori a Garda, dove, da militare, è investito dell’incarico di svolgere le funzioni di podestà, dopo il 25 luglio. Viene fatto prigioniero, dopo vicende complesse da sintetizzare, e internato in Germania, a un gruppo di ufficiali inglesi. Di passaggio è a Dachau. Viene poi trasferito allo Stammlager VII A di Moosburg, in Baviera. “Nulla sarebbe stato più simile a un caravanserraglio di culture e di razze diverse”. Dell’esperienza in quel lager, a contatto stretto con prigionieri polacchi, russi, francesi, vengono raccontate scene di alta drammaticità. Viene poi Wietzendorf, in Bassa Sassonia, dove rimane per il resto della prigionia. Liberati a metà aprile 1945, D. e una parte dei suoi compagni si stabiliscono a Bergen. Lì hanno, tra l’altro, la visione orribile delle vittime del KZ. Poi di nuovo a Wietzendorf. Avventure, incontri, amori: è difficile riassumere questo testo pieno di vita. Il ritorno a casa viene a fine agosto, a Trento arriva il 2 settembre.
Ricordare misérie. Testimonianze di alpini vermigliani nella 2° guerra mondiale, a cura di Daniele Bertolini, Alberto Delpero, Felice Longhi, Comitato Forte Strino Vermiglio, 2004, 155 pp. Tra le interessanti testimonianze raccolte in questo volume, riguardano il tema della prigionia in Germania quelle orali di Carlo Ferrari (pp. 35-38), Gianni Callegari (pp. 49-52), Vittorio Callegari (pp. 53-55), nonché l’epistolario di Edoardo Zambotti (pp. 141-146).
Memorie. Mario Turrini profugo, orfano di guerra, soldato e internato militare 1914-1945, a cura di Romano Turrini, “Il Sommolago”- Comune di Arco, 2005, 264 pp. Imponente operazione editoriale, che assume il diario di prigionia a nucleo centrale di una sorta di autobiografia familiare e a rappresentanza di un universo comunitario. Operazione rischiosa ma ci sembra riuscita, per merito della competente cura del figlio del diarista e grazie alla qualità degli scritti di Mario Turrini qui pubblicati. Prima delle pagine del diario, c’è la scoperta delle interessantissime corrispondenze inviate dalla Grecia a “Vita Trentina”. Bella iconografia (ben più che un corredo di documenti), all’interno della quale spiccano i disegni e i dipinti di Mario Miorelli.
Riportiamo una parte della prefazione di Giuseppe Ferrandi: Il diario di Mario Turrini è straordinario sia come fonte storica, sia per la capacità di raccontare in diretta e in modo efficace quella drammatica esperienza condivisa con gli altri internati militari italiani; quell’esercito impressionante di prigionieri che secondo le stime più accreditate contava 800 mila uomini. I testi introduttivi curati da Romano, l’antologia che accompagna la quotidiana cronaca della prigionia, i disegni, le fotografie, propongono nella loro complessità – in alcuni casi non mancando di sottolineare la contraddittorietà e le discordanze – una delle pagine più ignorate e poco studiate della nostra storia nazionale. La resistenza di quegli italiani prigionieri di guerra dei tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 solleva alcuni nodi successivamente “evitati”, poco gettonati forse perché lontani dalle esigenze e dalle mode, non solo storiografiche, del dopoguerra. La memoria degli IMI (internati militari italiani, per l’appunto, secondo una definizione attribuita allo stesso Hitler) è stata molto dolorosa. Solo in tempi recenti la storiografia ha posto l’attenzione su questo aspetto rilevante del coinvolgimento degli italiani nell’ultima guerra mondiale, decidendo che andava indagato seriamente, utilizzando le fonti tedesche, valorizzando le testimonianze dei sopravvissuti, inquadrando questa vicenda in un’ottica particolare.
La cornice è ovviamente più ampia, riguarda la complessa macchina da guerra di cui l’universo e il sistema concentrazionario è parte integrante. Era quindi indispensabile, per muoversi nel campo storiografico e sulla vicenda degli IMI, coglierne la peculiarità e farla rientrare in un quadro d’insieme nel quale si sovrappongono e contrappongono ruoli, strutture, ragioni, motivi diversi, con una conseguente pluralità di comportamenti, trattamenti, soluzioni altrettanto diverse. Vorrei porre in risalto la memoria e le memorie degli IMI. Moltissimi libri e opuscoli che parlano dell’argomento sono il frutto della “fatica del ricordo” dei protagonisti di questa vicenda. Si deve parlare proprio di fatica, perché oltre al dolore prodotto dal rievocare quell’esperienza, si può constatare una scarsa attenzione: ciò che era successo ai nostri internati tra il ’43 e il ’45 non trovò per lungo tempo cittadinanza. Credo sia sufficiente citare due casi famosi, dai quali Romano Turrini trae spunto per arricchire le pagine dell’esperienza di suo padre, la vicenda dello scrittore e giornalista Giovanni Guareschi e quella di Alessandro Natta, uno dei più prestigiosi dirigenti del Partito Comunista, ambedue impegnati, su fronti politici e su piani diversi, a mantenere viva la memoria dell’internamento nonostante le difficoltà del dopoguerra. Emblematica fu l’impossibilità per Natta di pubblicare L’altra Resistenza già nel 1954, un testo dove la personale vicenda di ufficiale internato a Wietzendorf si collegava ad una lettura politica sul significato di quella che era ritenuta legittimamente una forma di Resistenza contro il nazifascismo. Il libro dovette attendere il 1997 per essere pubblicato. “Fatica del ricordo” perché fu comunque difficile elaborare o rielaborare il momento della scelta, quando gli emissari di Salò chiedevano l’adesione e la collaborazione in cambio della libertà e di un trattamento umano, fu drammatica la scelta tra il sì e il no a continuare la guerra a fianco dei tedeschi e dei fascisti condizionata dalla terribile situazione della prigionia. Che le scelte, così come le non-scelte, siano uno degli snodi fondamentali in base ai quali leggere le storie di internamento e le storie di vita di questi militari risulta evidente dalla vicenda e dalle parole di Mario Turrini.
Anche Turrini fu “ospite” di Wietzendorf. Il 30 novembre 1943 annota: «Oggi ci è stato comunicato che la Croce Rossa non ci riconosce né per prigionieri né per internati. Perché? Nessuno ci riconosce: per l’italiano del Sud (governo Badoglio, ndr) siamo una specie di traditori, perché dovevamo usare le armi, non cederle. Per quelli del Nord (repubblica di Salò, ndr) pure, perché dovevamo unirci all’alleato e continuare la lotta ecc. Finirà che se ritorneremo nemmeno la mamma ci riconoscerà più. Intanto noi stiamo soffrendo moralmente e fisicamente mentre qui siamo capitati per ignominiosità dei capi che ci abbandonarono al momento che avevamo bisogno di loro. Noi abbiamo ubbidito fino all’ultimo ai comandi ricevuti. Quando fummo liberi di agire era troppo tardi e ormai il nostro spirito era così squinternato che ogni ideale cadeva miseramente davanti allo spettacolo indegno dell’alto. Ormai mi considero solo un essere senza desiderio. Quindi ubbidisco e subisco, ma ogni iniziativa è caduta. Oggi ci hanno proposto di andare a lavorare. Avrei preferito mi comandassero d’andar a lavorare senza il mio consenso». 30 Parole e sentimenti che esprimono una condizione psicologica drammatica e che ben riassumono la specificità dell’esperienza di internamento. Parole e sentimenti che sono giunti a noi grazie a Mario Turrini e alla sua cassetta della memoria, ove ha conservato i preziosi diari.
Marcello Benedetti, Mori e la Seconda Guerra mondiale. Racconti dei moriani sui bombardamenti, dai fronti e dai campi di prigionia, Mori, la Grafica, 2000. Il libro è un’agile raccolta di memorie di ogni tipologia, senza consapevolezza metodologica: un lavoro di pietas comunitaria, non un’operazione storica. Si segnalano il capitolo Racconti del maestro Augusto Montibeller dai campi di prigionia tedeschi e quello Racconti di Lino Poli dai campi di prigionia tedeschi. Ma si tratta di svelti riassunti da parte del curatore, non di una produzione di documenti veri e propri.
Scuola media Damiano Chiesa Rovereto, Vedo un cimitero d’uomini… Testimonianze sulla seconda guerra mondiale, Rovereto, Istituto Comprensivo Rovereto est, 2005, 127 pp. Il libro è il resoconto di un’esperienza didattica, ma fornisce molti documenti di prima mano trattati con sensibilità storica. Per il nostro tema si segnalano in primo luogo i ricordi di Vittorio Trentini (dove si rimanda ad un “fascicolo” da recuperare) e quelli di Aldo Spagnolli.
Lino Poli, Un’avventura. Ricordi di prigionia: 1943-45. Il racconto di una fuga dalla Polonia all’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, a cura di Francesca Cristellotti e Stefano Giovannazzi, Rovereto, Numero Civico, 2006, 166 pp. Lino Poli, Ravazzone di Mori, 1922, agricoltore, ha scritto di recente e dato alle stampe questa interessante memoria. Il racconto che ci offre della sua prigionia in Germania, scritto a tanta distanza di tempo da quell’esperienza, è vivo e diverso da ogni altro. All’autore la propria personale vicenda appare eccezionale, “forse addirittura da romanzo”, e non c’è dubbio che essa si presti alla narrazione, densa com’è di incontri e di viaggi in circostanze drammatiche. Ma “eccezionali” sono in un certo senso tutte le storie di guerra, che per definizione raccontano un tempo straordinario e si situano in paesaggi fisici e interiori mutati e spesso sconvolti. Anche le storie dei prigionieri reclusi, nelle quali sembra non accadere niente o quasi, dal punto di vista degli eventi esteriori, sono accomunate dalla “eccezionalità” di una condizione estrema. I diari e gli scritti memorialistici degli ufficiali italiani prigionieri del Reich dopo l’8 settembre sono spesso di questo tipo: registrano lo stillicidio quotidiano di una condizione di privazione e di schiavitù, allineano sequenze analoghe di soprusi, sofferenze, violenze fisiche e morali. L’interesse di questi testi (e spesso la loro altezza) sta nella capacità di restituire il travaglio interiore, la riflessione filosofica, religiosa, politica che per ciascuno in modo peculiare si intreccia a quell’esperienza. Ciascuno racconta più o meno la stessa vicenda, eppure ciascuno consente al lettore una prospettiva nuova. L’esperienza dei soldati e dei sottufficiali fu in questo caso notevolmente diversa, rispetto a quella degli ufficiali, che rimasero in massima parte e per tutto il tempo segregati nei lager a loro riservati. L’economia tedesca, tanto più negli ultimi anni di guerra, aveva una necessità stringente di manodopera e il lavoro degli ex alleati ridotti a schiavi rivestiva un’importanza decisiva. Impiegati nelle fabbriche e nelle campagne, i soldati italiani ebbero modo di sperimentare la Germania nazista in maniera più articolata degli ufficiali che al lavoro non erano obbligati e che in buona parte vollero e seppero resistere ad ogni tipo di collaborazione.
I prigionieri lavoratori non vissero certo una condizione privilegiata, si ritrovarono anzi collocati negli ultimi gradini della gerarchia sociale e oggetto di pesanti pregiudizi. Subirono frequentemente violenze dirette, furono sottoposti alle mansioni più pesanti e pericolose, patirono spesso la fame e la malattia. E tuttavia fecero incontri più 31 vari, incrociarono difficili, rare, ma non inesistenti solidarietà umane. Ebbero dunque, in apparenza, più “cose” da ricordare e da raccontare. In realtà non furono poi molti a scriverne, a giudicare dalle testimonianze edite. I soldati e sottufficiali ad aver affidato alla pagina scritta in prima persona le memorie della loro esperienza sono un numero piuttosto esiguo. Se ne rileva tuttavia un’apprezzabile crescita negli ultimi decenni. Ad una lunga rimozione (o perlomeno disattenzione) che ha cause complesse, è andata sostituendosi una considerazione crescente per un’esperienza collettiva che oggi appare sempre più importante non solo per il suo spessore umano, ma anche per quanto rappresenta della storia italiana ed europea del ‘900. Il racconto di Lino Poli, che si colloca in questo contesto di rinnovata attenzione, presenta elementi di significativo interesse. Rievoca con efficacia, per fare un solo esempio, la resistenza del suo gruppo di prigionieri a sottoscrivere gli impegni connessi al passaggio da “internati” a “lavoratori civili”, nell’agosto 1944. Quel rifiuto collettivo, comune a gran parte dei prigionieri, si aggiungeva alla vasta opposizione alle proposte di arruolamento dei primi tempi, configurando un momento ancora poco esplorato dagli studi della “resistenza senz’armi” al nazifascismo. Centrale nell’esperienza qui narrata è il rapporto con la famiglia nobiliare al cui servizio Poli e i suoi compagni di sorte vengono assegnati, in particolare con le donne che energicamente ne reggevano le sorti. Il rispetto da esse riservato ai prigionieri, l’umana misura della relazione istituita favorì un legame di reciproca solidarietà dentro il turbine della guerra, che si riannodò nei decenni successivi. Il contadino di Ravazzone prigioniero a Lagów al di là dell’Oder e le sue aristocratiche “padrone” tedesche coltivarono anche nei decenni successivi una rispettosa amicizia, che ha in effetti, come scrive Poli, qualche risonanza da romanzo.
Il gruppo dei prigionieri continuò a ritrovarsi dopo la guerra, a lungo ancora integro (tranne i due uccisi durante l’avanzata russa), rinnovando annualmente un informale rito del ricordo. Quasi tutti i protagonisti della vicenda sono oggi scomparsi, ma i percorsi di una tenace memoria trovano una nuova tappa nell’ accurata edizione di questo libro, arricchita da una significativa documentazione fotografica. 35. Vittorio Grazioli, Prigioniero in Germania in “Il Sommolago”. Anno
Vittorio Grazioli, Prigioniero in Germania in “Il Sommolago”. Anno XXIII, n. 2, agosto 2006, numero monografico, 134 pp. “A distanza di sessant’anni dal ritorno in patria, sollecitato dai familiari e da altri amici, ho tratto dalla scatola dove ho conservato le mie memorie quei sette-otto libretti, quei fogli cartacei ingialliti, la mia corrispondenza (Kriegsgefangenenpostkarte) di internato conservata da mia madre e tutte le sue risposte inviatemi da casa che mi furono di conforto e aiuto a superar quel triste periodo del mio internamento. Il contenuto del libro è il racconto delle mie vicissitudini, sofferte con altre migliaia di commilitoni, una testimonianza viva della nostra storia di internati”, scrive l’autore in una premessa che porta la data del settembre 2006. Il testo parte dall’8 settembre e scandito dalle date, in forma di diario, si conclude con la data del 30 giugno 1945, a ritorno appena avvenuto. Riprendiamo da p. 12 l’itinerario della prigionia di Grazioli: 8-9 settembre cattura al Distretto di Trento e trasferimento a Gardolo; 11 settembre partenza per la Germania: fino a Lipsia. 13 settembre, arrivo a Fürstenberg – Stammlager III B, Brandeburgo. 2 ottobre, partenza per Sorau a/L Arbeitslager n. 42. Lavoro alla Wender u Beheringer Foke-Wulf. 12 giugno 1944, trasferimento all’Arbeitslager n. 60 di Gassen. Lavoro alla Foke-wulf di Sommerfeld. 13 febbraio 1945, partenza da Sommerfeld per Karlsbad (Altrolau), Görlitz, Dresda, Pirna; 15 febbraio, arrivo a Karlsbad. 16 febbraio, Atrolau (fabbrica ceramica). 19 febbraio, trasferimento a Brema. 24 febbraio, arrivo a Brema, Arbeitslager Goldina. Lavoro coatto con la Todt. 17 aprile 1945, liberazione. 8 giugno, partenza da Brema. 19 giugno: è in Trentino, arriva a casa, a Biacesa di Ledro. Come il recente testo rielabora i diari non lo sappiamo, dei diari stessi non si pubblicano riproduzioni fotografiche, mentre sono riprodotte alcune lettere, scritte con una grafia sicura e in ottima lingua.
D’altronde, Vittorio Grazioli era insegnante. Notizie biografiche più precise andranno ricostruite, il libro è molto sobrio in questo. Sappiamo solo la classe d’età cui appartiene (il 1920) e il grado, caporale, che sta scritto sui suoi documenti militari.
Bruno Fait, Eravamo tre da Noriglio. La nostra prigionia in Germania dal 1943 al 1945. Riflessioni sulla mia Rovereto dal 1930 al 2006. Note autobiografiche, Longo, Rovereto, 2006. Testo segnalato da Stefano Spagnolli di Noriglio (edizione non in commercio, edita in un centinaio di copie, in ristampa). In una parte abbondante del libro il Fait racconta l’esperienza dell’internamento insieme agli amici di Noriglio Lino Pasquali (1924) e Giuseppe Fait (1916-1997).
Sandro Disertori, Mondi in catene, Stella, Rovereto 2007, 242 pp. Dopo le pagine di Un interno mitteleuropeo, dopo, Disertori torna con un libro autobiografico, allineando tre esperienze cruciali di una vita intensa: quella di prigioniero in Germania; quella di direttore dei lavori di un grande impianto elettrico siderurgico a Brendeburgo, in un’altra Germania, quella comunista; e infine un’altra esperienza professionale in Irak, negli anni ottanta, nell’Irak di Saddam Hussein. Di queste esperienze il cosmopolita Disertori aveva redatto il diario: in questo libro essi confluiscono in un percorso autobiografico unitario attraverso dittature di natura diversa. Scrive nella parte finale della prefazione: La lettura dei tre diari che ora propongo, anche se potranno forse risultare privi di ogni pretesa, riusciranno anzitutto far tornare alla memoria di molti cosa potesse significare allora il vivere all’ ombra della svastica e come il doverlo fare finisse per incattivire gli animi di quanti la dovevano subire, tanto come attori, quanto come vittime. Questo mio primo diario è intitolato Sotto gli artigli della svastica e il suo significato è più che ovvio.
Il secondo diario è intitolato Diario semiclandestino brandeburghese perché tale è stato in realtà. Sono sicuro, così come lo ero allora, che la Stasi (la polizia segreta di Stato della DDR) lo avrebbe letto molto volentieri. In esso ho raccontato molti fatti di tutti i giorni, mettendo per iscritto osservazioni estemporanee che ora, a distanza di tempo, chiariscono al meglio l’atmosfera di allora. Credo infatti che questo mio sia stato il sistema migliore per riuscire a spiegare come girassero veramente le cose e perché i nostri operai, in quattro anni ne utilizzammo oltre tremila, dopo pochi giorni in DDR perdessero ogni fiducia nel mondo sovietico che agli inizi aveva affascinato quasi tutti loro, se non altro ricordando il comportamento patriottico mostrato dai soldati sovietici, durante la seconda guerra mondiale. Il terzo e ultimo, a cui ho dato il titolo di La Mezzaluna fertile, potrà servire a mettere in rilievo alcune delle ragioni per le quali il governo iracheno sia stato un autentico bubbone canceroso da estirpare il prima possibile. Invero il momento per farlo si era in effetti già presentato col vento in poppa, nel 1991. Che poi gli americani abbiano fermata improvvisamente l’azione loro militare americana, già totalmente vittoriosa e compiuta perfino col favore esplicito degli arabi, è uno dei misteri che nessuno riuscirà a spiegare.
Il secondo tentativo, fatto più di dieci anni dopo, anch’esso sulle prime apparentemente vittorioso, ha dato invece risultati pietosi e perfino controproducenti, sui quali non mi sento di dire la mia. Pur critico, per farlo attendo con apprensione la sua conclusione, come fanno del resto quasi tutti, di questa non necessaria tragedia, ora anche intempestiva. In generale dubito però questo diario possa riuscire a dare una qualche risposta convincente, che chiarisca almeno in parte il rebus iracheno o, comunque, che lo possa fare subito. Io, vissuto sul posto, anche allora ero stato incapace di farlo, nonostante la buona volontà. È forse possibile che qualche eventuale lettore delle mie pagine, nel futuro e con l’aggiunta di ulteriori informazioni aggiuntive, possa invece trarne una utile conclusione se non altro parziale. Allora in Iraq, la cosa non mi era riuscita come invece, e nel modo più persuasivo, mi era capitato nei riguardi del nazifascismo e del comunismo stalinista, sia fra i reticolati dei lager hitleriani che lavorando nella Brandeburgo mortificata e sovietizzata.
Tra questi prigionieri IMI trentini c’era anche mio padre Arturo Tomasi fu catturato a Lero in Grecia, 8 di settembre dai tedeschi e deportato con il treno In Polonia. Pi in Germania.
Una testimone, Nerina De Walderstein. Nella sua testimonianza ” testimonianze dai lager” di Rai educational. Racconta con alcuni prigionieri tra cui mio padre riuscirono a scappare dal lager e dopo molte peripezie tornarono fecero ritorno in Italia.