VITTORIO VIALLI, UN FOTOGRAFO NEI LAGER
INTERVISTA DI VIALLI AL TGR DELL’EMILIA ROMAGNA
(attenzione: occorre aspettare almeno 25 secondi dall’avvio del video prima che parta l’intervista: un problema tecnico – su documento originale – al quale non sono purtroppo riuscito ad ovviare, mi scuso in anticipo)
a cura di Cornelio Galas
Cari amici di Televignole in questa nuova puntata sugli Imi, gli internati militari italiani, parleremo della importante testimonianza di un trentino, Vittorio Vialli, del quale abbiamo pubblicato già una serie di foto che lui scattò, in qualche modo, durante la prigionia.
Ma chi era Vittorio Vialli? Vittorio Vialli nasce a Cles in Val di Non (Trento) il 1° febbraio 1914, quarto di cinque fratelli e una sorella, da Vittorio Vialli, impiegato comunale di Cles, e Maria Ferrari. Per permettere ai figli di studiare, la famiglia si trasferisce dopo qualche anno a Trento dove Vittorio frequenta il Liceo Scientifico “Dei Polentoni”.
Nel 1933 si reca a studiare a Pavia (dove suo cugino Maffo Vialli era un luminare dell’Università, titolare della cattedra di Anatomia Comparata). Essendo molto amante della natura, degli animali e delle sue montagne sceglie di studiare Scienze Naturali con la cugina Giulia Vialli, figura importante della sua vita, anche lei futura docente universitaria. Nel 1937 si laurea e la sua tesi riguarda le amate marmotte del monte Peller. In seguito lavora come Conservatore al Museo Civico di Storia Naturale di Milano.
Nel 1941, offertosi volontario, è inviato al fronte greco-albanese con il grado di tenente di fanteria. In Albania combatte in trincea, mentre in Grecia, a Istmia, presso il canale di Corinto, è aggregato alla Marina Militare Italiana come responsabile del funzionamento strategico del canale, in qualità di geologo. È suo compito perlustrare tutti i giorni il territorio circostante. Documenta inoltre fotograficamente le sponde del canale per monitorarne lo stato di sicurezza.
Il 21 maggio 1941 sposa per procura la diciassettenne Liana Mazzoldi, nata a Zara e figlia di un trentino, conosciuta a Milano, che sarà la compagna della sua vita. L’8 settembre 1943, a Istmia, viene catturato dai tedeschi e deportato, dopo un penoso viaggio in carro bestiame durato 30 giorni, in vari campi di concentramento in Polonia e in Germania. Da quel momento a Vialli viene posta una scelta: aderire con una semplice firma alla Repubblica fascista di Salò, e quindi essere rimandato immediatamente in Italia, a combattere gli alleati a fianco dei nazisti, oppure rimanere prigioniero del nemico. Sceglie la seconda ipotesi, come del resto altri circa 650.000 soldati italiani.
Vialli ama la fotografia, per cui ha sempre con sé la sua Zeiss Super Ikonta con la quale aveva già documentato la quotidianità della guerra in Grecia e in Albania. Per lui fotografare non è soltanto un hobby, ma uno strumento abituale per il suo lavoro scientifico. Egli sviluppa e stampa da solo per scegliere le sue inquadrature con un taglio personale. È quindi abituato a scrivere attraverso immagini senza bisogno di ricorrere a tante parole.
E anche in questa drammatica occasione riesce a portare la macchina con sé, riuscendo fortunosamente e inconsciamente a nasconderla durante le numerose perquisizioni. In seguito consegnerà la Zeiss, troppo ingombrante, a un militare tedesco della Wermacht che gliela ridarà alla fine della guerra. Vialli d’ora in poi userà un piccola Leika, molto più maneggevole, datagli dal suo fedele amico e complice Vittorio Paccassoni. Ed è stata questa piccola macchina fargli scattare il desiderio irresistibile di beffare i tedeschi a rischio della propria vita e a dargli la forza di resistere per poter poi raccontare in un diario visivo composto da più di 400 foto, completo, e per questo eccezionale, la sua verità, dal giorno della cattura a quello della liberazione, avvenuta nell’aprile 1945.
Con la macchina nascosta dentro al cappotto o nelle mutande, insieme a un pugno di rullini, smontata e rimontata, finita in un’autoclave per ben due volte, avvolta in stracci, ma sempre riemersa ancora funzionante, Vialli fotografa la vita quotidiana del campo, i suoi carcerieri, il fotografo tedesco che immortala gli internati, gli appelli al gelo, le conferenze, le messe, le lezioni universitarie organizzate dagli ufficiali nelle baracche, le sequenze di un assassinio perpetrato a sangue freddo da una sentinella tedesca, il comandante del lager, la radio clandestina.
All’inizio del 1945 gli italiani internati rifiutano anche il lavoro agricolo proposto: i tedeschi rispondono riducendo le razioni di cibo agli ufficiali. Avanza la tubercolosi e gli edemi da fame. Il 5 aprile arriva l’ordine di trasferimento solo bagaglio a spalla. Due le destinazioni possibili: Buchenwald o Bergen Belsen, ambedue campi di sterminio. Il trasferimento non avverrà: una divisione corazzata inglese è alle porte di Hannover. Il 16 aprile 1945 Vialli esce dal campo, fotografa l’avanzata dei carri armati inglesi: l’unica fotografia che risulterà mossa per l’emozione. Documenta i 2.500 morti del cimitero italiano di Fallingbostel, si reca a Bergen Belsen, situato a pochi chilometri di distanza, vede i forni crematori, le fosse comuni. Non ha più il coraggio di scattare, l’unica immagine è quella di una tomba di una quindicenne ebrea italiana che non ce l’ha fatta a sopravvivere alla soluzione finale.
Poco dopo la liberazione, denutrito, pesava infatti 40 chili, si ammala di pleurite ed è costretto a rimanere nel campo di Bomblitz, trasformato in ospedale militare inglese dove viene curato e trascorre la convalescenza per alcuni mesi. Poi il ritorno in Italia passando per Merano il 30 agosto 1945. Raggiunge la moglie Liana a Cinisello Balsamo, in provincia di Milano, dove vive sfollata essendo stata bombardata la sua casa in via Cesare Battisti a Milano. Riprende il lavoro di conservatore al Museo di Storia Naturale, che nel frattempo era stato anch’esso bombardato.
Si occupa della sua rimessa in funzione, allestendo le prime sale didattiche, e attuando importanti scambi di materiali fossili con varie nazioni, per esempio facendo arrivare dagli Stati Uniti uno scheletro completo di dinosauro in cambio di pesci fossili del monte Bolca. Nel frattempo nel 1947 era nata la figlia Silvana.Nel 1951 la famiglia si trasferisce a Milano dove nel 1953 nasce il figlio Bruno. Nel 1957 diventa vicedirettore del Museo.
Nel 1961 vince la neocattedra di Geologia e Paleontologia dell’Università di Bologna. Si trasferisce con tutta la famiglia nel capoluogo emiliano dove affiancherà la passione per la ricerca a quella dell’insegnamento, distinguendosi con il suo atteggiamento controcorrente e ostile verso la baronia universitaria dai poteri occulti. Sarà molto amato dagli studenti e stimato dai colleghi. Nel 1965 è il responsabile del recupero e del restauro di uno scheletro completo di balena fossile rinvenuto in val di Zena, nei pressi di Bologna. Allestisce una sala didattica all’avanguardia, ancora oggi molto attuale e usata dagli studenti, a lui oggi intitolata, presso il Museo Capellini. Attraversa “indenne” le turbolenze studentesche del 1968, comportandosi da uomo giusto e illuminato.
Dal 1970 al 1980 ricopre la carica di direttore di Istituto e anche di direttore del Museo di Paleontologia Capellini. Nel 1975, la moglie Liana, assieme ai figli Silvana e Bruno, lo spinge a pubblicare il primo libro “Ho scelto la prigionia” contenente una parte delle foto scattate durante la prigionia. (Liana lo aiuterà soprattutto nel difficile e doloroso lavoro di cernita, stampa e ricostruzione delle didascalie in rigoroso ordine cronologico). Per lui è un lavoro faticoso e doloroso.
Questo libro viene stampato dalla casa editrice Patron e ha una distribuzione assai limitata. In questi anni pubblica parecchi articoli e due libri ancora oggi usati dagli studenti: “Geografia” Ed. Patron, Bologna e “Lezioni di paleontologia” Ed. Pitagora, Bologna. Nel 1979 Vittorio subisce un primo infarto e da allora il suo fisico, ma soprattutto il suo morale vengono compromessi. Nel 1982 l’ANEI con sede a Roma pubblica un secondo libro “Ho scelto la prigionia” con le stesse foto migliorandone la qualità, ma questo volume addirittura non viene neanche venduto in libreria, ha una bassissima tiratura e un circuito limitato. Il 5 febbraio 1983 Vittorio Vialli, dopo un secondo infarto, viene colpito da ictus e muore improvvisamente.
Nel 2001 la famiglia dona all’Istituto Storico Parri di Bologna l’intero fondo Vialli, costituito dai negativi originali delle oltre 400 immagini. Da questo momento le foto incominciano finalmente a circolare seriamente anche in Italia. In Germania infatti l’interesse degli storici tedeschi è sempre stato in tutti questi anni molto vivo. Il lavoro di Vialli è stato giustamente apprezzato e studiato: sono state fatte mostre, scritto articoli, la famiglia è stata invitata sia a Sandbostel che a Bergen Belsen.
Nel 2005 è uscito il volume “Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania” curato da Adolfo Mignemi, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, dove viene fatta un analisi storica accuratissima del materiale del Fondo Vialli. Nel settembre 2007 a Rimini è stata inaugurata una mostra itinerante intitolata “Prigionieri per la libertà” finanziata dalla CISL e curata da Gino Taraborelli che ha destato molto interesse. Nel settembre 2008 la mostra è stata ospitata dall’Istituto Storico Parri a Bologna.
HO SCELTO LA PRIGIONIA
di Vittorio Vialli
Dalla presentazione, pagine 29-30
…gli I.M.I. non parlano volentieri della loro prigionia. tra le varie malattie che molti vi contrassero, manca per fortuna quella del reducismo. non aspirano a che li si giudichino eroi, e nemmeno vogliono rivendicare percentuali del ruolo di salvatori della patria. Essi desiderano soltanto che non si dica che sono stati dei “fessi” perchè in quei tempi calamitosi di grandi confusioni di idee, in cui era umano che ognuno pensasse a se stesso, non firmarono la famosa adesione. Gli I.M.I. vorrebbero, in breve, che la gente, e soprattutto i giovani, capissero che essi hanno semplicemente fatto il proprio dovere di soldati e cittadini. Con dignità. In condizioni dure. Per libera e meditata decisione personale… …Gli I.M.I. appresero, dopo la guerra, fatti che prima ignoravano o solamente intuivano in maniera molto vaga, moltissimi dei quali colpirono a morte milioni e milioni di poveri innocenti indifesi; fatti aggiaccianti ed impensabili per orrore ed efferatezza. Per quanto effetti e conseguenze delle guerre siano stati in ogni epoca terribili, non era possibile immaginare le tragedie immani dei campi di sterminio, le camere a gas, i forni crematori, la soluzione finale, gli innumerevoli assassinii in massa, freddamente attuati dagli hitleriani con burocratica efficienza. Del pari non è possibile dimenticare che, di 67.000 prigionieri italiani in Unione Sovietica, i rimpatriati, dopo anni di segregazione senza notizie, furono appena 10.000. Né si possono scordare le durissime condizioni degli italiani nei campi di concentramento francesi del Nord Africa e nemmeno le interminabili detenzioni in India… Questo, ed ovviamente non soltanto questo, ha inevitabilmente ridimensionato nel cuore degli I.M.I. le prime valutazioni fatte della propria vicenda. Essa non è più vista oggi, almeno da chi vuiol essere obbiettivo, come la più dura tra quelle sopportate dagli uomini nella seconda guerra mondiale.. Ce ne sono state di ben più tragiche, purtroppo. Ma, pur non essendo stata la più dura, essa rimane non di meno un capitolo molto triste da iscrivere nella storia contemporanea. Una vicenda da non dimenticare: non per sollecitare o rinfocolare l’odio, sia chiaro, ma per fare umanamente comprendere, a chi dall’esperienza altrui vuole imparare qualcosa, i guai che possono nascere dall’intolleranza, dal fanatismo, dalla smodata demagogia. |