In questa tredicesima puntata sul Trentino nel Risorgimento parleremo del piano difensivo e controffensivo del Kuhn, del combattimento di Condino e della caduta del fortino Gligenti. Siamo sempre ai confini tra Trentino e Lombardia, in Val del Chiese, valle di Ledro, dove, a Bezzecca, luglio 1866, c’è la famosa battaglia. Propongo, su questa, un video didattico diviso in due parti.
LA BATTAGLIA DI BEZZECCA – PRIMA PARTE – VIDEO
LA BATTAGLIA DI BEZZECCA – SECONDA PARTE – VIDEO
a cura di Cornelio Galas
Per vari giorni i volontari italiani rimasero in atteggiamento di difesa e di osservazione sulla sponda occidentale del Garda e nelle alte valli del Chiese, dell’Oglio e dell’Adda, guardando con un forte cordone di posti tutti i passi montani
Senonché sopraggiungeva ben presto la notizia della terribile sconfìtta che le armi austriache avevano toccato a Sadowa contro la Prussia (3 luglio) e pochi giorni più tardi (8 luglio) incominciava la ritirata delle imperiali regie truppe dal Veneto, mentre il Kuhn riceveva l’ordine di difendere il Trentino con tutte le forze guardandosi verso la Valsugana. Mentre il Cialdini si accingeva a riprendere l’offensiva sul Po, il La Marmora telegrafava a Garibaldi, il 7 luglio, di spingersi innanzi nel Trentino. Ma la soverchia mole di quelle truppe raccogliticce, le difficoltà grandi di approvvigionarle in quelle anguste e povere valli, la mancanza di una salda organizzazione nei servizi amministrativi, la malattia di Garibaldi e fors’anche la demoralizzazione che il pessimo armamento determinava fra i gregari e fra gli stessi capi, fecero sì che il movimento d’avanzata e d’offesa procedesse lento, fiacco, impacciato.
Il tenente colonnello Thour, non vedendo avanzare il nemico, decise di spingere una ricognizione verso Storo ed il Caffaro. Coll’ incarico di guidare questa ricognizione, mosse il 7 mattina da Pieve di Ledro verso Storo il capitano Gredler con un distaccamento di ulani, due compagnie di fanteria di Sassonia, una compagnia di bersaglieri provinciali, un reparto di pionieri, mezza batteria da montagna, e tre compagnie di cacciatori (31^, 32^ e 33^) da tenersi in riserva.
Il capitano Schramm, che comandava le compagnie d’avanguardia, si scontrò fra Darzo e Lodrone colla 1^. 13^ e 14^ compagnia del terzo reggimento garibaldino, respingendole fino a Lodrone, mentre il primo tenente Schindl colla 33^ cacciatori guadava il Chiese e pigliava Lodrone da oriente. Prese tra due fuochi, le camicie rosse dovettero riparare al Caffaro. Frattanto, giunta la notizia di quest’attacco, una sezione di artiglieria da montagna piazzata a Monte Suello cominciò a fulminare il nemico, il quale non insistette più oltre e si ritirò seguito sin presso Darzo dalle tre compagnie italiane. Queste poterono riprendere le loro posizioni anteriori, senza attendere che due compagnie del 9° reggimento, inviate ad appoggiarle, si esponessero al fuoco. In questo scontro le perdite dei volontari consistettero in 2 morti, 4 feriti, 4 prigionieri e 4 dispersi.
Il capitano Melczer, che aveva assunto il comando della mezza brigata in sostituzione del tenente colonnello Thour ammalato, avuta notizia che i garibaldini si addensavano verso il Caffaro e la valle di Ledro, decise di disturbarne le operazioni con un nuovo più energico attacco (10 luglio). Affidò al capitano Gredler la 35^ e 36^ compagnia dei cacciatori Imperatore ed una batteria, inviandolo sulla strada che conduce a Bondone lungo la riva sinistra del Chiese, e incaricandolo di proteggere la mezza brigata contro un eventuale attacco sulla sua linea di ritirata dell’Ampola; ed egli stesso colla 31^, 32^ e 33^ compagnia dei cacciatori, una compagnia di bersaglieri provinciali, una compagnia di fanteria di Sassonia e un reparto del genio mosse per Storo su Dazio, Darzo e Lodrone. Assicuratosi sul fianco sinistro coll’inviare una compagnia e mezza sulle alture ad occidente della strada, e lasciata una compagnia in riserva a Darzo, si spinse sul villaggio di Lodrone, presso il quale arrivò quasi inosservato.
Stavano quivi in avamposti la 6^’ e la 13^ compagnia del 3° reggimento dei volontari con un cordone di posti poco più innanzi, sulle alture a sinistra e nei vigneti a destra sino al Chiese. Circa le 8 antimeridiane cominciò il fuoco dinnanzi a Lodrone e sulle alture ad ovest. Il capitano Gredler intanto metteva in azione i suoi pezzi sulla strada di Bondone e scendeva contro la sponda sinistra del fiume.
Le due compagnie garibaldine ripiegarono su Ponte Caffaro, ove si trovò impegnata nel combattimento anche la 16^ compagnia dello stesso 3° reggimento che vi si trovava a guardia, mentre la 2^ fronteggiava sul Chiese il capitano Gredler. Allora il tenente colonnello Bruzzesi fece avanzare il reato del suo reggimento (tranne il 3° battaglione che rimase presso San Giacomo), chiamando a rinforzo il 2° battaglione del 9° reggimento (maggiore Frigyesi), La settima batteria da campagna, comandata dal capitano Farinetti, aveva in quel mentre piazzato una sezione su Monte Suello e altre due al Cimitero di San Giacomo, bersagliando efficacemente gli austriaci. Questi allora abbandonarono il Caffaro ritirandosi verso Darzo; e il Bruzzesi, incalzando il nemico, stese il battaglione Frigyesi fra la strada e il Chiese e porzione del suo reggimento a sinistra della strada lungo il pendio. Ad aumentare l’effetto morale della vittoria il maggiore Dogliotti collocò presso Lodrone quattro pezzi, che disturbarono la ritirata del nemico su Storo, mentre parte della destra garibaldina, valicato il Chiese, respingeva le truppe del Gredler.
Il Melczer continuò ad indietreggiare attraverso il ponte di Dazio e la bocca d’Ampola, e i rossi oltrepassarono Darzo e occuparono il ponte spingendo pattuglie fino a Condino e a Storo. A protezione contro nuovi eventuali attacchi la 7^ batteria era puntata presso Darzo colle bocche da fuoco contro la Valle d’Ampola, intanto che la 9^ la sostituiva a Monte Suello e a San Giacomo. In questo combattimento, come nei successivi, l’artiglieria del maggiore Dogliotti ebbe un’influenza quasi decisiva sull’esito dell’azione.
Dopo quesito combattimento, il generale Garibaldi si apparecchiava, con tutte le lentezze inerenti alle insanabili deficienze del suo esercito, a prendere l’offensiva. Nell’intento di accerchiare e prendere il fortino Gligenti in val d’Ampola e il forte di Lardaro in val di Chiese e di aprir cosi alle truppe un doppio sbocco su Tione e su Riva, il generale dette ordine: al secondo reggimento di recarsi da Gargnano verso la vai Lorina, per minacciare il forte Gligenti dal sud, senza però impegnarsi in combattimento; al decimo di sostituire il secondo a Gargnano e nei presidi della costiera; al quinto di portarsi da Salò alla punta meridionale del lago d’Idro; al sesto e all’ottavo di ascendere da Salò fino ad Anfo; mentre il settimo era dislocato sui monti ad oriente del lago d’Idro e il primo su quelli a ovest del medesimo, per preparare l’accerchiamento di Lardaro.
La 7^ batteria da campagna collocò quattro pezzi a metà del monte che scende sul ponte Dazio e gli altri due pezzi presso il ponte stesso, la nona batteria sostituì la settima nelle sue anteriori posizioni, aggregandosi l’ottava giunta dal lago di Garda. Il comandante dell’artiglieria prendeva allora con Garibaldi le prime intese per l’ investimento del fortino Gligenti situato nel fondo della gola d’Ampola, e prescriveva al capitano della settima batteria di far salire sul monte Croce, situato sul versante nord della Val d’Ampola e a circa 2000 metri di distanza dal forte, due cannoni da campagna coi loro affusti.
Questa operazione già nella notte fra il 15 e il 16 e durante il giorno successivo era eseguita con gravi difficoltà e pericoli per i cannonieri, che coadiuvati da un battaglione di volontari riuscirono a trascinare i pezzi su specie di slitte attraverso sentieri impraticabili, e a sollevarli sulle rocce per mezzo di corde. Ma mentre questa prima operazione preparatoria di assedio si andava compiendo, il generale Kuhn predisponeva un attacco offensivo per disturbare le mosse di avanzata e di schieramento dei garibaldini.
Le posizioni prese dalle truppe del Kuhn dopo il 28 giugno corrispondevano alle più razionali esigenze della guerra di montagna. Ridotto dall’ inferiorità numerica delle sue forze ad un’azione difensiva, egli aveva dovuto rinunciare a trovar appigli sul territorio del Regno che non gli offriva la possibilità di un utile e organico scaglionamento delle proprie milizie: si era ritratto quindi fra quei punti della zona montagnosa trentina che erano atti a dargli un più efficace appoggio e a permettere alle riserve di accorrere prontamente su qualunque tratto della Linea di difesa.
Come abbiamo visto, le due mezze brigate von Hoffern e Thour (poi Grunne) costituivano questa prima linea di difesa: la prima nella valle del Chiese sotto il forte di Lardaro, la seconda nella valle di Ledro, ad oriente del fortino d’Ampola; facile la comunicazione fra l’ una e l’altra attraverso i colli di Rango e di Giovo.
Le due brigate di riserva (Montluisant e Kaim), concentrate entrambe tra Fiavé e il ponte delle Arche, si trovavano in una situazione tale da poter accorrere in un tempo relativamente breve sia verso Riva per la via di Ballino, sia verso Condino per la via di Tione, sia infine verso la vai di Ledro per Tione e il passo dell’ Ussòl o per Campi e la bocca di Trat. Le riserve strategiche si trovavano in altri termini presso al punto di riunione delle linee di operazione del nemico, risalenti i bacini del Chiese e del Sarca. Ma alla metà di luglio Garibaldi ammassava le sue truppe in direzione della valle del Chiese e accennava solo debolmente verso la vai di Ledro: era quindi conveniente al generale austriaco dirigere tutto il suo sforzo verso la prima per scompaginare il movimento iniziato dall’avversario.
D’altronde la ritirata delle truppe austriache dal Veneto esponeva il territorio trentino ad una invasione dalla parte di oriente che avrebbe potuto prendere il Kuhn tra due fuochi: egli quindi giudicò opportuno di gettarsi sui garibaldini per disordinarli e stancarli, e quindi opporsi più efficacemente ad un eventuale attacco che gli venisse mosso per la Vallarsa e la Valsugana.
Il Kuhn, portato il suo quartier generale da Riva a Tione, dette al tenente colonnello Hòffern e al colonnello Montluisant qui convenuti l’ordine verbale di attaccare nel giorno 16 il nemico, e al maggiore Grunne, comandante la mezza brigata della valle di Ledro, un ordine analogo. Montluisant, colla colonna principale, doveva spingersi da Breguzzo, ove si era trasferito, nella direzione di Condino; Hòffern assecondarlo con un movimento aggirante nelle valli trasversali verso ponente, Grunne valicare da Tiarno il passo di Giovo ed assalire la destra garibaldina, e Kaim, colla sua brigata, tenersi in riserva dietro la colonna Montluisant.
Il sesto reggimento garibaldino, al comando del colonnello Nicotera, nel risalire la valle si scontrò al ponte di Cimego nella colonna centrale austriaca che entrava in battaglia. La 7^ compagnia e il 4° battaglione di quel reggimento, mentre si accingevano a passare il ponte per conquistare le alture al di là del Chiese, al piede delle quali la strada corre verso Cologna, furono fatti segno al fuoco di due pezzi dell’artiglieria avversaria appostata di fronte, mentre un forte stuolo di fanti austriaci si distendeva di corsa sulle colline. Erano circa le otto antimeridiane. Il maggiore Lombardi, comandante il primo battaglione del sesto reggimento, che era tenuto in riserva, volle entrare in linea col terzo battaglione per sospingerlo all’offesa. Lanciatosi sul ponte per il primo fu colpito a morte. La 22^ e la 24^ del reggimento granduca d’Assia, che stavano al di là del fiume, sebbene sostenute dal fuoco dei due pezzi di artiglieria, si trattennero a lungo alla testa del ponte bersagliando gli assalitori, senza attraversarlo. Per tentare una mossa aggirante, il brigadiere Nicotera ordinò al quarto battaglione del 6° fanteria di guadare il Chiese a valle del passaggio e di assalire il nemico sulle colline di rimpetto. Ma il battaglione fu accolto con una nutrita fucilata da un reparto della 4^ compagnia cacciatori, appartenente alla mezza brigata Hòffern, che si trovava distaccata al Monte Giovo e che con tre plotoni di bersaglieri provinciali era accorsa a cooperare all’assalto contro Cimego.
Una parte dei garibaldini, essendosi inerpicati troppo oltre per espugnare i poggi tenuti da costoro, si trovarono tagliati fuori da un reparto della brigata Montluisant che in quel mentre si era avanzato: messi tra due fuochi dovettero arrendersi. Gli altri, non senza aver seminato di caduti il declivio del monte, furono forzati a ripassare a guado il Chiese, ove alcuni annegarono.
Frattanto il centro della brigata Montluisant (22^ e 24^ compagnia granduca d’Assia) s’impadroniva del ponte e prendeva posizione al di là del medesimo, mentre la 23’^ compagnia dello stesso reggimento, rinforzata dalla 21^, pigliava di fianco i garibaldini muovendo dall’alto della valle sulla riva destra del Chiese. Scoccavano le dieci quando le truppe del sesto reggimento cominciavano a ritirarsi verso Condino. Poco appresso, a quanto dicono i rapporti austriaci, il Montluisant ricevette il comando di interrompere la battaglia e di rientrare nelle posizioni del mattino. In questo mentre la mezza brigata Hòffern che formava l’ala destra, per la valle di Daone aveva guadagnato la località detta buoni prati. Essa constava di sei compagnie del reggimento Sassonia, della terza compagnia cacciatori e di una batteria di racchette da montagna. La fronteggiavano, sulle alture fra il monte Narone e Castello, una compagnia volante di bersaglieri garibaldini, due compagnie del primo battaglione bersaglieri, e tre compagnie e mezza del primo fucilieri. L’ala sinistra della mezza brigata Hòffern era formata da due compagnie di fanteria condotte dal capitano Krynicki, il quale muoveva contro Castello tenendosi collegato con Hòffern e con Montluisant.
L’attacco alle posizioni dei nostri si pronunciava verso le dieci e mezza, ora in cui il combattimento nel fondo della valle era già sospeso. Troppo sparpagliate e male in arnese, le milizie italiane che coronavano le alture dovettero condensarsi da Monte Narone sopra Brione e Castello, ove un drappello di bersaglieri cadde in potere del capitano Krynicki. Anche la mezza brigata Grunne aveva eseguito il movimento prescritto, ripartendosi in due nuclei: il maggiore Grunne con la 18^ divisione (35^ e 36’^ compagnia) dei cacciatori e tre compagnie di fanteria muoveva contro Rocca Pagana per dominare di qui la conca di Storo.
il capitano Gredler, colla 31^, 32^ e 34^ cacciatori, rimaneva in riserva sul passo di Rango. Verso le nove, Grùnne coi suoi toccava Rocca Pagana, inesplicabilmente lasciata senza alcun presidio di truppe italiane, e di là vomitava fuoco sullo stradale Dazio-Storo e contro lo stesso quartier generale di Garibaldi, intanto che il Gredler dal passo di Rango spediva il capitano Koth colla 32^ cacciatori e un plotone della 34^ verso la chiesetta di San Lorenzo per bersagliare da questa posizione la strada fra Storo e Condino.
Su questa marciavano numerosi reparti garibaldini per un contrattacco contro Cimego. Il Koth coi tiri ben diretti dei suoi cacciatori riusciva a portare un vivo scompiglio sullo stradale ingombro di truppe e di carriaggi, mentre ricacciava giù nella valle alcuni reparti del 9° reggimento dei rossi arrampicatisi verso il passo di Rango.
Ma venne il momento in cui mutarono le sorti della giornata a favore degli italiani: e ne ebbe merito precipuo l’artiglieria. Due pezzi giunti poco prima da Salò furono collocati al ponte Dazio a bersagliare Rocca Pagana: intanto l’ottava batteria da campagna si appostò presso Brione, dirigendo le sue granate contro la chiesa di San Lorenzo (mezza brigata Grunne) e contro i reparti della mezza brigata Hòffern che muovevano da Castello. Il resto della scarsa artiglieria o si trovava ad eccessiva distanza dal teatro dell’azione (come la 9*^batteria, dislocata a Darzo), ovvero era già in moto per i preparativi d’investimento del fortino Gligenti, come la batteria da montagna e due pezzi della 7^ in cammino verso Monte Croce: i quali ultimi furono seriamente minacciati dalle truppe del Grunne. Peraltro l’azione di quei pochi cannoni, coadiuvata dalle mosse del nono fanteria contro Condino e di alcuni reparti del settimo contro il fianco sinistro delle truppe austriache di Rocca Pagana, forzò gli austriaci ad un generale ripiegamento. Infatti ancor la sera del 16 luglio la mezza brigata Hòffern, che si era trattenuta sul campo fino a tarda ora, rientrò per disposizione del Comando a Roncone, e la mezza brigata Grunne si ritrasse a Tiarno, lasciando al monte Giovo e al monte Rango, col capitano Koth, due compagnie di cacciatori. Le quali, minacciate la sera del 17 dalle truppe italiane che si avvicinavano nell’oscurità, per non correre il rischio di esser prese in mezzo, ridiscesero a loro volta a Tiarno di sopra. Gli italiani ebbero nella battaglia di Condino 28 morti, 133 feriti e 204 prigionieri. Gli austriaci, secondo i loro rapporti, non avrebbero avuto che un morto e 10 feriti, il che sembra assurdo.
Comunque, il combattimento di Condino rivela una condotta impreparata, incerta, slegata da parte dei garibaldini. Perché questi non occuparono, prima del 16 luglio, la Rocca Pagana coi passi di Rango e di Giovo, ossia la breve catena che domina le due valli di Ledro e del Chiese? Il passo di Giovo (e cioè il più settentrionale) era bensì tenuto da un piccolo distaccamento della mezza brigata Hòffern (tenente Hohenegger), ma il resto dello sperone rimaneva affatto libero prima dello scontro, perché la mezza brigata Grunne era unicamente intenta a guardarsi verso il passo di Notta e la vai di Vestino, minacciate dal secondo e settimo reggimento dei garibaldini. Sembra che l’ordine, impartito da Garibaldi, di impadronirsi a tempo di quelle importantissime posizioni, non sia stato eseguito: tale negligenza recò, come abbiamo visto, non poco scompiglio nel campo italiano. Inoltre le forze dell’ala sinistra dei volontari erano troppo scarse e sparpagliate per poter resistere all’efficace tiro degli austriaci.
Sguarnito alle due ali, sebbene assai più numeroso di quello avversario, l’esercito garibaldino non poté sviluppare durante l’azione che una minima porzione delle sue forze, e cioè il 6° reggimento, qualche compagnia del 1°, del 7°, del 9° fucilieri e del 1° battaglione bersaglieri, e soltanto otto o dieci cannoni sui ventisei che aveva a propria disposizione. Gli austriaci, dal canto loro, iniziata la battaglia con un ottimo piano, non la seppero condurre altrettanto egregiamente. Il generale Kuhn fece effettivamente pervenire al Montluisant l’ordine di ritirata fin dalle dieci e mezza del mattino, e perché ? Ecco due quesiti tuttora insolubili. L’annuncio che il generale Cialdini minacciava il Trentino da oriente non era tale da imporre l’interruzione di una azione tattica ben avviata.
Certo, gli austriaci furono informati delle nuove truppe colle quali i garibaldini si rinforzavano al centro e giudicarono più prudente non impegnarsi a fondo con tutte le riserve, dato il pericolo che li minacciava dalla Valsugana, ma intanto l’ala sinistra del Kuhn non aveva potuto prender contatto colla colonna principale, e questa aveva perduto il contatto che aveva coll’ala destra, cosicché il combattimento procedette intempestivo, disordinato, incoerente, sconclusionato; e l’ordine di ritirata, che a quanto si dice, aveva raggiunto il Montluisant alle dieci e mezza del mattino, poté essere recapitato al Grunne appena alle tre del pomeriggio, e al Hòffern soltanto tre ore dopo.
Cosi questo combattimento variò di ben poco la situazione: austriaci e garibaldini rientrarono entrambi nei loro primitivi alloggiamenti, e le operazioni italiane, lente di necessità, non ebbero a soffrire sensibilmente dal piano di battaglia del Kuhn, ideato quanto ben si voglia, ma non altrettanto ben applicato e riuscito.
Il 17 infatti era ripreso con energia l’investimento del fortino d’Ampola. Questo fortino (che poi fu raso al suolo) constava allora di due piccole opere a cavallo della strada incassata che unisce Tiarno con Storo: la sua guarnigione, composta di 33 uomini di fanteria di Sassonia e di 11 artiglieri, agli ordini del primo tenente Preu, era stata rinforzata dalla 33^ cacciatori, che condotta dal primo tenente Schindl aveva lino al 15 luglio tenuto la posizione di monte Ginel, dominante da mezzogiorno il forte, per contrastarne l’accesso all’artiglieria italiana. Questa iniziò il bombardamento il mattino del 17 da quattro posizioni, e cioè dal Monte Croce (a nord-ovest), dove sulla piattaforma di San Lorenzo furono posti l’un dopo l’altro due pezzi della settima batteria da campagna; dal monte Festace, donde due cannoni da montagna rivolgevano tiri indiretti contro il fortino; da un altro sperone di Rocca Pagana, a 600 metri circa dal forte, ove erano stati collocati altri 4 pezzi da montagna; e infine dal fondo della valle, ove il mattino del 17 avanzò con un cannone della nona da campagna il luogotenente Tancredi Allasia: se non che, espostosi questi in pieno al tiro nemico, pagò colla vita l’audace tentativo.
D’altronde, fin dal giorno 17 gli austriaci rinchiusi nel forte si trovavano ridotti a mal partito. Il cortile che congiungeva le due opere era talmente battuto dall’artiglieria che riusciva impossibile avventurarvisi a prender l’acqua. Le truppe dovevano dunque accalcarsi alla peggio nei pochi locali protetti. Il giorno 18 la posizione di Monte Croce fu rinforzata da altri tre pezzi della 9^ da campagna, mentre sul monte Ginel, che dominava a pochissima distanza il forte e non poteva esser colpito dal fuoco nemico, si andava rapidamente costruendo una batteria di breccia. In quest’ultima posizione si erano appostati i volontari del 7° fanteria ed i bersaglieri genovesi, molestando gli assediati con una nutrita moschetteria. Alle due pomeridiane del giorno 19, finalmente, gli assediati chiesero di arrendersi coll’onore delle armi: al che Garibaldi non acconsenti. Gli austriaci pensarono allora che quando i garibaldini fossero pervenuti a dirigere su di loro, dal monte Ginel, i pezzi da montagna, il forte sarebbe stato letteralmente distrutto: di più si avvidero che alcuni reparti di fanteria nemica occupavano la strada di Tiarno e il monte Burelli, tagliando loro ogni scampo. Non restava loro che arrendersi a discrezione. E furono condotti prigionieri a Brescia.
Mentre ciò avveniva in val d’Ampola, la mezza brigata Grunne in val di Ledro era alle prese col secondo reggimento garibaldino. Il Kuhn le ordinava il giorno 18 di assalire contemporaneamente il monte Giovo (verso Cimego) e il monte Notta (verso Tremosine). Ma le forze di cui disponeva il Grunne (nove compagnie, comprese due in quel giorno distaccate a Riva, e una batteria) non gli permettevano di eseguire contemporaneamente questo doppio attacco, data la massa rilevante d’uomini che Garibaldi teneva ad occupare la dorsale fra Condino e Tiarno e l’addensamento progressivo dei loro contingenti nella direzione del passo di Notta e di Val Vestino. Perciò il Grùnne inviò il capitano Schramm con due compagnie di fanteria contro il monte Notta e si limitò a ordinare al tenente Bouthillier una semplice ricognizione su monte Giovo, con un plotone di cacciatori e uno di bersaglieri provinciali.
11 tenente colonnello Spinazzi, che comandava il secondo reggimento, aveva fin dal giorno 12 avuto cenno da Garibaldi di avanzare, lasciando al 10° reggimento la custodia del Garda. Senonché, disseminato com’era lungo la riva del lago e per le valli ad ovest fino al monte Stino presso Hano (ov’erano due compagnie col maggiore Castellazzo), il 2° durò lunga ed aspra fatica a raccozzarsi e perdette parecchi giorni in vane marce e contromarce che affaticarono e depressero i volontari. Era uno dei reggimenti peggio equipaggiati e reclutati: i disagi continui, i frequenti digiuni, l’estenuante andirivieni fra quelle sassose e seminude montagne a volta flagellate dalle piogge a volta riarse dal solleone, finirono per demolire la disciplina già scossa, e per rendere inservibili le armi già cattive e le munizioni già scarse e guaste. A un certo momento Garibaldi, non avendo più notizie del reggimento, mandò il maggiore Castellazzo in cerca del suo colonnello. Il maggiore aveva già collocato due compagnie che aveva con sé sul monte Spessa, a sud del forte d’Ampola, ed altre tre ne distribuì sul monte Bragone.
Lo Spinazzi ricevette frattanto un ordine di Garibaldi che gli intimava di cooperare da est all’ investimento del fortino d’Ampola, e con sette compagnie che gli restavano sottomano si avviò a Tremosine e monte Notta per calare su Pieve di Ladro. Ignorava le forze del nemico in quella valle: non pertanto fidò nell’effetto morale di un’audace offensiva, che avrebbe dato a supporre agli austriaci l’esistenza di rinforzi che non aveva. La sua avanguardia sgombrò il passo di Notta da un drappello di bersaglieri tirolesi qui inviato in vedetta.
Verso le due pomeridiane del 18 luglio, il colonnello Spinazzi si decise a calar truppe in Val di Ledro: spedi a destra due compagnie (maggiore Palazzini) su Legos e Molina, a sinistra altre due compagnie (maggiore Ocari) su Pieve, alla opposta estremità del laghetto, e tenne le altre tre in riserva sotto il suo immediato comando. Alle cinque pomeridiane il capitano Schramm per la valle di Pur giungeva sopra il passo di Notta senza aver incontrato la colonna del maggiore Ocari diretta su Pieve. Al valico sorprendeva una pattuglia italiana posta quivi di guardia e faceva alcuni prigionieri; ma all’allarme accorreva il colonnello Spinazzi colle compagnie in riserva e ricacciava gli austriaci in confusione giù per la valle in due direzioni diverse. Entrambe le ali garibaldine avanzate impegnavano frattanto due distinti combattimenti nella valle. Le due compagnie del maggiore Ocari, giunte presso il lago di Ledro, respingevano dalle colline a sud di questo, e poi dal torrente Marangla e dallo stesso villaggio di Pieve, il capitano Schiffler, che colla 35^ e 36^ compagnia dei cacciatori Imperatore e con una compagnia di bersaglieri Schwazer fu indi costretto a ritirarsi sul picco roccioso di Monte Pari al nord di Pieve.
Le due compagnie del Palazzini, scacciate da Legos le pattuglie nemiche, stavano per avanzare verso Molina, quando dal rumore delle fucilate si accorsero che il combattimento era vivamente impegnato nella direzione di Pieve. Distaccato un reparto verso Molina, il Palazzini si affrettò col resto della sua truppa a soccorrere il maggiore Ocari, e congiunto a questo e a parte delle compagnie di riserva che nel frattempo erano scese a loro volta dal monte Notta, cooperò a scacciare dal villaggio di Pieve gli austriaci e ad assalirli sulle alture soprastanti a Pieve e a Mezzolago, ove, oltre alla 35^ e 36^ compagnia cacciatori, si trovava fin da prima a guardia la 34^ con quattro pezzi d’artiglieria. A notte le tre compagnie austriache ripararono su Lenzumo e furono qui raggiunte dalla 31^ e 32^, che retrocedendo dalla posizione di Tiarno avevano sostenuto a loro volta un piccolo combattimento presso la chiesa di Bezzecca. Il capitano Schramm, scacciato dal monte Isotta, riusciva ad aprirsi una via attraverso Molina, e al di là di questo paese si riuniva con due compagnie di fanteria arciduca Ranieri, richiamate da Riva. Ascese poi con queste al monte Pari, ove poté accamparsi verso la mezzanotte.
Il maggiore Grunne. non stimandosi qui salvaguardato a sufficienza e supponendo che le forze nemiche fossero assai più rilevanti, decise di ritirarsi ancora durante la notte, e intraprese una faticosa marcia verso i Campi col sesto battaglione cacciatori, tranne la 35^ e 36^ compagnia, che lasciò a custodia della bocca di Trat. Dal canto suo, il colonnello Spinazzi non giudicò prudente, con truppe cosi esigue e cosi depresse, di tenere il fondo della valle. I volontari del secondo reggimento, nonostante le loro disastrose condizioni, avevano nello scontro di Pieve fatto miracoli. In numero non superiore a quello del nemico, erano riusciti efficacemente a concentrare il loro urto sulle singole frazioni austriache e a batterle separatamente. L’audacia garibaldina aveva una volta di più sostituito la baionetta all’inservibile fucile. Non sembrava però saggio consiglio abusare di questa piccola vittoria. E le sette compagnie furono raccolte di nuovo, al mattino del 19, al piano di Notta, ove il 20 ebbero il rinforzo di sei compagnie del 10° reggimento.
Cacciati gli austriaci dalla valle di Ledro e abbattuto il forte d’Ampola, gli italiani rimanevano padroni della linea Condino-Riva: si trattava ora di ringagliardirsi nelle posizioni conquistate e di guadagnar terreno. Il generale Haug, comandante la prima brigata garibaldina (2° e 7° reggimento) e incaricato della direzione dell’assedio del forte d’Ampola, aveva fin dal giorno 18 luglio ricevuto ordine da Garibaldi di lasciare le operazioni d’investimento al maggiore Dogliotti e di spingersi all’occupazione di Tiarno per vedere ai prender contatto col secondo reggimento. Il generale Haug invece indugiò la sua mossa, e solo il giorno 20, col quinto reggimento, il 4° battaglione del sesto e la 9^ batteria di artiglieria, forze aggiunte alle scarse truppe disponibili della sua brigata, entrò in valle di Ledro.
Una precisazione: fin dal 15 i dieci reggimenti garibaldini erano stati raggruppati in cinque brigate e cioè: la 1^ brigata, 2° e 7″ reggimento, magg. generale Haug. 2^ brigata, 4° e 10°, magg. generale Pichi. 3^ brigata: 5° e 9° ,magg. generale Orsini. 4^ brigata, 1° e 3°, colonn. brigadiere Corte. 5^ brigata, 6° e 8° colonn. brigadiere Nicotera.
Garibaldi, comprendendo i pericoli inerenti all’avanzata, aveva disposto che il paese di Tiarno non fosse oltrepassato se non dopo la ricongiunzione del secondo reggimento col resto della brigata e l’arrivo dei rinforzi. Ma il generale brigadiere, nella fretta di inoltrarsi fino alla bocca di Trat per calare poi su Riva, si fece precedere dal quinto reggimento dentro la valle di Concei senza prendere sufficienti precauzioni contro un attacco dalle alture laterali. Frattanto il Kuhn era informato che la Valsugana sarebbe invasa da una divisione dell’armata Cialdini. Risoluto a fronteggiarla energicamente, volle però prima infliggere nuove molestie al corpo d’esercito di Garibaldi per rintuzzarne lo slancio. Prescrisse allora al colonnello Montluisant, che teneva con sé al bagno di Comano, di rimontare colla sua brigata a Campi e alla bocca di Trat, di aggregarvisi la mezza brigata Grunne, di far impeto per valle di Concei sulle truppe garibaldine che la invadevano; e alla mezza brigata Hòffern, cui spedi in sostegno la brigata di riserva Kaim richiamata dalle Sarche, comandò di accennare una semplice dimostrazione su Condino.
Contemporaneamente due compagnie di fanteria Ranieri ridiscese a Riva dal monte Pari ebbero ordine di marciare per il Ponale, attaccando il nemico dal lato di Mezzolago e Pieve. Dato che il combattimento si svolgesse felicemente, ai comandanti delle due ali era ingiunto di premere i garibaldini fin su Storo, dandosi la mano ai passi di Rango e di Giovo.
Il Montluisant serrò il 20 sera a tarda ora sulla Bocca di Trat e dispose per la discesa su Lenzumo in due colonne, la prima delle quali sotto il maggiore Grunne doveva, con cinque compagnie del 6° battaglione cacciatori, due di fanteria granduca d’Assia, tre di bersaglieri provinciali e due batterie di razzi tenere il lato sinistro della valle; e la seconda, condotta dal maggiore Krynicki, doveva con quattro compagnie del 1’° battaglione cacciatori, un battaglione di fanteria di Sassonia e una batteria da montagna seguire il torrente e conquistare le alture sulla destra. Quattro compagnie di fanteria granduca d’Assia rimanevano a disposizione del colonnello Montluisant, il quale le spedi oltre il passo Savàl per accerchiare un battaglione garibaldino che si era inerpicato su quelle alture.
Era questo il quarto battaglione del 5° reggimento, che il colonnello Chiassi, per proteggere la sua destra, aveva distaccato verso il monte Carèt e la bocca di Savàl durante la notte dal 20 al 21. Dopo cinque ore di faticoso cammino per balze e burroni, il battaglione si trovò sprofondato in una convalle tra pendici erte e selvose, sotto una tempesta di fucilate e di macigni cadenti a rovina. Il maggiore Martinelli, che lo comandava, non si perdette d’animo e predispose un contrattacco da due lati, ma la situazione era disperata: egli stesso cadde ferito ad una spalla e dovette arrendersi colla più gran parte delle sue forze. Frattanto l’ala sinistra della colonna Montluisant aveva a Lenzumo preso contatto con un altro battaglione del reggimento dei rossi. Gii avamposti italiani ripiegarono dopo un breve combattimento verso Locca, mentre l’avanguardia della colonna Montluisant attendeva l’arrivo del grosso. Cosi il generale Haug aveva tempo di schierare sulla linea di Locca una compagnia del settimo reggimento e una parte del terzo battaglione del quinto, affidando la direzione di quella prima difesa al Chiassi. Altre due compagnie del 5° fucilieri furono spedite sull’altura Naè, fra la val dei Molini e la vai di Concei, e sei pezzi d’artiglieria (9^ batteria da campagna) collocati agli sbocchi della valle di Concei e della valle dei Molini su Bezzecca, ove aprirono subito un fuoco nutrito. Le colonne Krynicki e Grunne, giunte su Lenzumo, si distesero in battaglia; dalla prima fu spedito un reparto cacciatori verso la valle dei Molini, mentre due batterie di razzi, comprendenti in totale dodici pezzi, puntarono contro Locca con tiri efficaci.
Compiuto lo schieramento, gli austriaci avanzarono. Le alture, il villaggio e il cimitero di Locca furono gagliardamente contrastati dal Chiassi e dai suoi volontari; ma il nemico colla sua ala sinistra soverchiava la loro destra dall’alto, e minacciandoli a tergo li costringeva a indietreggiare. La colonna Krynicki moschettava con ben aggiustati colpi l’artiglieria e comprometteva seriamente le comunicazioni fra Locca e Bezzecca. Un attacco alla baionetta, ordinato contro il Krynicki all’ala sinistra garibaldina, riuscì vano, e vana rimase pure una impetuosa carica eseguita sotto Locca, al centro, da una compagnia del settimo reggimento: il capitano Antongina che la guidava, cadde due volte ferito.
Due compagnie del quinto, richiamate da Pieve, ove erano state distaccate a copertura verso Riva non arrivarono a tempo ad impedire una ritirata delle truppe italiane su Bezzecca, ove queste sopportarono a lungo il fuoco micidiale del nemico. Garibaldi, che all’alba del 21 era partito in carrozza da Storo per la val di Ledro, appena oltrepassato Tiarno s’ imbatteva nel colonnello Pianciani inviato dal generale Haug per prevenirlo dell’attacco nemico in val di Concei e del ripiegamento dei garibaldini. Allora sollecitò la marcia del nono reggimento, che con due battaglioni occupava le alture fra il monte Rango e il monte Cadria e che aveva gli altri due battaglioni a Tiarno di sopra. Incontratosi a Bezzecca col generale Haug, dispose con lui la difesa delle posizioni, inviò due compagnie del 9° reggimento, rinforzate poi da due altre, a occupare le colline allo sbocco di val dei Molini, e spinse il quarto battaglione del 6° fucilieri, che si trovava a Tiarno, a rinforzo della posizione di Bezzecca terribilmente bersagliata dal nemico. Un maggiore sforzo sarebbe stato possibile dirigere contro gli austriaci se gli altri due battaglioni del nono reggimento che avevano pernottato presso il monte Giovo, fossero accorsi in tempo; ma il brigadiere Orsini che li aveva ai suoi ordini, credette in principio della battaglia che il rumore delle cannonate venisse da Condino anziché da val di Concei, e tardò a muoversi, mentre, com’egli osserva, avvertito prima avrebbe potuto far cadere quei due battaglioni sulla destra del nemico, dal lato di Val dei Molini.
Garibaldi fece anche premure al colonnello Spinazzi, comandante del 2° reggimento, perché scendesse da Monte Notta, ma lo Spinazzi non obbedì, e poi non riuscì a giustificare la causa della sua disobbedienza. La lotta sul fronte e per le vie del villaggio di Bezzecca fu oltremodo accanita e sanguinosa. I volontari resistettero dapprima alla cappella situata all’ uscita nord-ovest del caseggiato contro la 1^ e 6^ compagnia del reggimento cacciatori Imperatore che la caricavano furiosamente agli ordini del Capitano Tschanett. Questi mori sulla breccia (anche il tenente Fritz, che lo sostituì nel comando, rimase gravemente ferito), ma i garibaldini rinchiusi nella cappella, dopo una vigorosissima opposizione, dovettero cedere: due ufficiali e quaranta soldati furono fatti prigionieri. A sud del santuario gli italiani si trincerarono in un forte edifìcio in pietra, appartenente alla patriottica famiglia Cis, donde contrastarono strenuamente gli austriaci. Una batteria di racchette sopraggiunta fu puntata sulla villa: il primo tenente Wideck che la comandava, cadde ferito a morte. Dopo un breve fuoco di fucileria gli austriaci si lanciarono alla baionetta con vari reparti del 1° battaglione cacciatori (capitani Kòth e Tava) contemporaneamente da est e da ovest. I difensori furono soverchiati e fatti prigionieri in numero di 267, compresi due ufficiali. ÀI tempo stesso il primo tenente Weber avanzava con un piccolo nucleo di cacciatori e di bersaglieri sulle alture sopra Pieve di Ledro e di qui teneva in scacco i pochi drappelli del secondo reggimento, che di là incalzavano in soccorso dei garibaldini.
L’ urto degli austriaci contro Bezzecca si fece più violento allorché il sesto battaglione cacciatori fece impeto sulla destra dei rossi e le compagnie dei reggimenti fanteria di Sassonia e d’Assia mossero a rincalzo del primo battaglione cacciatori. Gli italiani dovettero indietreggiare casa per casa, con molte perdite, e alla fine sgombrare tutto il villaggio di Bezzecca per ripiegare sulla strada e sulle falde del monte Vies, donde erano ancora ricacciati dalla 6^ e 2^ compagnia cacciatori.
A stento gli artiglieri della 9^ batteria da campagna salvarono i loro quattro cannoni puntati allo sbocco di Valle di Concei: qui avevano a lungo tenuto indietro il nemico che piombava dal pendio di sinistra minacciando di circondarli. Senonché, entrati in azione i reparti freschi del nono reggimento, i nostri poterono occupare una collina al nord della strada fra Tiarno e Bezzecca, prima abbandonata, in seguito ad un ordine equivoco, da due compagnie del quinto reggimento, ed ivi disputare seriamente il terreno agli austriaci. L’artiglieria fece il resto. Il maggiore Dogliotti, adocchiato un poggio a sud della strada fra Tiarno e Bezzecca (i prati di Santa Lucia) e concertatosi con Garibaldi, vi diresse la settima batteria. Di lì incominciò a fulminare con rapidi e ben assestati colpi gli austriaci riparati fra le case di Bezzecca. In capo ad un’ora il villaggio ardeva.
L’Abba {Cose garibaldine) dice che la posizione di Santa Lucia fu veduta ed imposta da Garibaldi al Dogliotti; quest’ultimo invece, narra che fin dalla sera del 20 luglio, percorrendo la strada da Tiarno a Bezzecca, aveva notato la posizione di sostegno che poi scelse il 21 per collocarvi la settima batteria. L’incontro fra Garibaldi e Dogliotti é cosi narrato da quest’ultimo: «Prima di arrivare a Tiarno trovai la vettura del Generale vuota, ed alle mie interrogazioni si rispose che egli aveva voluto assolutamente farsi trasportare accanto ad un pezzo esposto al tiro nemico, sdegnando di volersi piegare e ritirare in faccia al nemico. Io mi recai tosto su tale altura e colà trovai precisamente il Generale che seduto a terra, accanto al pezzo, voleva forse cercare nella morte un sollievo al dolore che lo opprimeva. Vi sono istanti nella vita degli uomini grandi, che si possono comprendere, ma non definire. Non esitai un istante, e rivolgendomi al Generale che sempre meco si era mostrato tanto benevolo, lo pregai di voler lasciare tal posizione, e ritornare a Tiarno dove s’aspettavano le sue disposizioni per riparo alla disordinata ritirata che si pronunciava da tutte le parti, soggiungendogli che l’artigliere doveva bensì morire accanto al suo pezzo, non già il generale Garibaldi, che aveva ben altra missione più utile e più grande da compiere. Mi guardò senza rispondermi. Ad una mia replica disse : Fate come volete. Lo trasportammo in vettura verso Tiarno dove colà giunti lo pregai di arrestare le colonne in ritirata almeno per un quarto d’ora, anche per dar tempo alla 7^ batteria che si avanzava di poter venire ad occupare la posizione sopra tal paese, dalla quale io sperava non solo di sostenere la difficile ritirata della 9^, ma di arrestare il nemico, e fors’anco di riprendere l’offensiva. Il Generale con quel suo piglio risoluto disse: Andate che di qui io non mi muovo. Così avvenne”. La versione dell’ Abba è completamente diversa, ma alquanto inesatta se pur letterariamente mirabile. Sembra, dalla sua narrazione, che Garibaldi sia arrivato sul campo verso mezzogiorno, quando i suoi avevano già riparato su Tiarno, e che abbia subito pensato a chiamare il Dogliotti : ciò che non è vero. Garibaldi arrivò non più tardi delle otto o delle nove del mattino e vide con dolore la strage di Bezzecca e la ritirata delle sue truppe su Tiarno. Quanto ai suoi rapporti col Dogliotti, e alle disposizioni circa l’avanzata dell’artiglieria, la versione di quest’ultimo sembra più credibile di quella data dall’Abba, la quale ha tutte le apparenze di un aneddoto che passando di bocca in bocca si sia discostato non poco dalla nuda verità: «Garibaldi giunse, vide, chiamò: — Dov’è il comandante dell’artiglieria? — E subito fu dinanzi a lui il maggiore Dogliotti. — Maggiore, portate tutti i pezzi su quel poggio lassù, tutti ! Di lassù dominerete tutto — ». L’Abba aggiunge che il Dogliotti non sembrava persuaso, e che il capitano Cariolato lo ricondusse allora dal Generale: « — Generale, qui il Maggiore dice che lassù non si può andare … — E allora il leone ruggi … — Eseguite i miei ordini ! — Tre parole, tre sole: l’occhio disse il resto e il maggiore Dogliotti volò». Ad accrescer fede nelle affermazioni del Dogliotti soccorre la testimonianza del trentino Pietro Candelpergher, che era tuttavia un fierissimo garibaldino, e perciò affatto alieno dallo svisare i fatti per favorire un ufficiale dell’esercito regio: « Tostoché Garibaldi vide il maggiore, gli diede ordine di piazzare la batteria su di un’altura alla nostra sinistra, ma il Dogliotti gli rispose le testuali parole: — Generale, non sarebbe meglio piazzarla invece là? — e con la mano indicava un’altura alla nostra destra; al che Garibaldi, data una rapida occhiata, rispose tosto: — Avete ragione ». data una rapida (occhiata, rispose tosto : — Avete ragione — ». Il Candelpergher, a quanto egli afferma, in quel momento si trovava vicino a Garibaldi.
Torniamo agli eventi in val di Ledro. Erano circa le due pomeridiane. Allora il generale Garibaldi comandò una carica in massa. Una colonna composta di militi di tutti i corpi, col maggiore Canzio alla testa, riguadagnò terreno lungo lo stradone. A sinistra quattro compagnie del 9° reggimento condotte da Menotti Garibaldi, ne secondarono gli sforzi. Questa energica riscossa sorprese il nemico, il quale vista l’ impossibilità di scacciare i garibaldini da Tiarno, colpito a morte dall’artiglieria, spossato dalle sempre risorgenti energie dei rossi, si ringuainò in vai di Concei fin su Lenzumo. La fanteria garibaldina perseguitò la retroguardia austriaca fin oltre Locca: la 9^ batteria avanzò al trotto e scompigliò coi suoi tiri le colonne in retromarcia. A notte il Montluisant coi suoi aveva riguadagnato i ripari del mattino sui gioghi circostanti la bocca di Trat.
Di importanza assai minore fu il conflitto di quel giorno nella valle del Chiese. Qui gli italiani si erano schierati sopra una larga fronte. Alla sinistra il primo reggimento teneva la catena di monti tra la valle del Giulis e la valle di Daone e, in seconda linea, l’altra catena situata a sud del Giulis. La posizione centrale (Brione e Condino) era occupata dall’ottavo reggimento, da tre battaglioni del sesto e dall’ottava batteria. A destra due battaglioni del nono reggimento si appoggiavano al Monte Giovo. Il terzo reggimento doveva procedere all’occupazione di Cimego e Castelert. Il Kaim, interpretando gli ordini del Kuhn, inviava la sua colonna di destra (una compagnia e mezza di cacciatori, cinque compagnie di fanteria e una batteria da montagna, sotto il tenente colonnello Hoffern) contro le posizioni di Monte Narone e adiacenze, donde i garibaldini ripiegarono sulla seconda linea di difesa. Muoveva frattanto nel fondo della valle la colonna centrale, (composta di cinque compagnie di fanteria, di una mezza batteria e di un plotone di cavalleria),’ ma questa fu tenuta in rispetto dal fuoco dei cannoni italiani in batteria presso Brione, a cui risposero da Cimego i pezzi austriaci. La 3^ e 4^ compagnia dell’ottavo reggimento, inviate dal brigadiere Nicotera sulla strada verso Cimego, furono messe in scompiglio da un drappello di ulani che agli ordini del primo tenente Carlo Torresani si lanciò alla carica sullo stradone.
La colonna austriaca di sinistra (capitano Buselli, con due compagnie di fanteria, una compagnia di bersaglieri provinciali e mezza batteria) si diresse contro il Monte Nossol, ma tentò invano di sloggiarne i nostri. Le perdite degli italiani furono alquanto gravi a Bezzecca, di scarso rilievo a Cimego: in tutto 121 morti, di cui 6 ufficiali, 451 feriti, di cui 22 ufficiali, 1070 prigionieri, di cui 14 ufficiali. Fra i morti di Bezzecca é da ricordare Giovanni Chiassi, tenente colonnello del 5° reggimento, sostituito alla sera nel comando dal trentino Nepomuceno Bolognini; fra i feriti Ergisto Bezzi, che già più volte abbiamo incontrato sui campi di battaglia e nelle cospirazioni. Quelle degli austriaci a Bezzecca, stando ai loro rapporti, sommarono a 25 morti, 52 feriti e un centinaio di prigionieri. Ad onta di una tale sproporzione a nostro scapito, non si può dire che il Kuhn abbia raggiunto a Bezzecca il proprio obbiettivo, come volle far credere. Le truppe italiane non rimasero da quel combattimento più scosse delle austriache; anzi il vantaggio finale della loro azione contribuì ad elevarne lo spirito. Certo, se il generale Haug avesse usato maggior prudenza nel distribuire i suoi reparti prima della battaglia, se il secondo reggimento, disseminato com’era tra Pieve di Ledro, il passo di Notta e i monti retrostanti fosse accorso all’invito di Garibaldi, se, specialmente, i fucili dei garibaldini avessero tirato meglio, quella giornata avrebbe sortito forse un esito decisivo, per quel tanto almeno che può decidere delle sorti di una guerra una battaglia combattuta fra le gole dei monti.
Anche a Bezzecca apparve l’efficacia prevalente dei pochi pezzi di artiglieria distaccati dall’esercito regolare: una volta di più i cannoni contribuivano vivacemente ad assicurare i vantaggi, del resto scarsi, di quella poco brillante campagna. E Garibaldi si preparava a guadagnarne di ben più ragguardevoli coll’aiuto del generale Medici che muoveva da oriente, quando la guerra fu troncata e il Trentino, già quasi nostro, riconsegnato all’Austria.