“EL REBALTON” IN TRENTINO – 8

“VIA I TERRONI”

 

a cura di Cornelio Galas

I Trentini e l’Italia nel secondo dopoguerra

La diffidenza quando non l’aperta ostilità dei trentini verso l’Italia ha radici molto lontane nel tempo. Già all’indomani del primo conflitto mondiale, la Fiamma, quindicinale cattolico-clericale, antiliberale e antisocialista, guidato da Guido Sereni (Probabilmente, sotto tale pseudonimo si nascondeva, secondo Quinto Antonelli, la figura del prof. Ettore Zucchelli, preside del Liceo di Rovereto dal 1921 al 1927, anno in cui fu trasferito ad un Istituto tecnico di Caserta) si fece portavoce di un malessere non generalizzato ma diffuso in una parte consistente della società trentina rispetto al nuovo assetto politico-amministrativo italiano. Dichiaratamente autonomista e ostile alla presenza di funzionari e dirigenti provenienti dalle «vecchie province» (Con tali termini andavano intese le province già appartenenti al Regno d’Italia prima del 1915. Alle «vecchie», si erano unite dopo il 1918 le «nuove» rappresentate da quelle di Trento, Bolzano e Trieste), tra il 1919 e il 1921, il giornale condusse un’energica battaglia contro il centralismo romano ed un apparato burocratico che giudicava opprimente e inefficiente. In occasione del primo anniversario della vittoria, nel novembre 1919, Sereni non nascondeva la propria delusione per lo stato in cui si trovava la provincia.

La richiesta insistente di elezioni politiche, provinciali e comunali, era rimasta inascoltata. All’impossibilità di eleggere liberamente i propri rappresentanti politici, si erano aggiunte «la disorganizzazione quasi irrimediabile in tutti i pubblici uffici, la macchina burocratica che non» funzionava «più, la baraonda sistematica in tutti i campi della vita pubblica». Soprattutto, il desiderio di autonomia e la volontà di disporre delle «cose nostre» erano rimaste deluse in virtù della scelta operata dal governo centrale di collocare «amministratori estranei e incompetenti, incapaci di comprendere la nostra anima e di corrispondere ai nostri bisogni». Da questo punto di vista, la critica rivolta ai funzionari imposti dagli organi di governo centrali si rivestiva di connotati «razziali». Sempre Sereni non riusciva a comprendere le motivazioni che avevano spinto a «dislocare quassù tutta quella tribù avventuriera di meridionali», gente priva di qualsiasi nozione circa «gli usi, i costumi, le tradizioni, le necessità» locali.

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E sta il fatto che a governarci […] furono mandati, fatte pochissime eccezioni, degli estranei inconsapevoli dell’importanza del loro ufficio, dei burocrati pieni di boria e di diffidenza, digiuni di quell’esperienza che è premessa fondamentale per poter lavorare con successo e per farsi ben volere.

Se si escludevano «i carabinieri e i bassi impiegati» che, agli occhi dei trentini, non riuscivano a «farsi capire», il malumore era scatenato soprattutto dall’arrivo in provincia di commissari civili «napoletani», e maestri «siciliani», che avevano poca dimestichezza con la «terra trentina». Alla Fiamma e al suo direttore, la stampa avversaria, liberale e socialista, non risparmiò evidentemente dure critiche e severe accuse di «austriacantismo», di nostalgia per il passato dominio asburgico e di «poco amore» per la nazione. La critica contro le «modalità dell’annessione» al Regno d’Italia, «la denuncia di corruzioni camorristiche», «l’ironia» contro la burocrazia italiana che raggiungeva aspre punte di «antimeridionalismo» rappresentarono i principali cavalli di battaglia della Fiamma. I giudizi espressi dal quindicinale trentino erano certo poco generosi e tenevano in scarsa considerazione le difficoltà strutturali di un Paese che, seppur uscito vittorioso dal conflitto, ne portava le pesanti conseguenze economiche e sociali. La chiusura verso i «nuovi venuti» nel primo dopoguerra rappresentò, come ha sottolineato Rasera per il caso roveretano, una costante anche negli anni successivi.

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La dittatura instaurata da Mussolini a partire dall’ottobre 1926, pur sopprimendo la libertà di stampa e la discussione politica che non fosse diretta emanazione del Partito fascista, non riuscì a sedare del tutto questo tipo di opposizione anti-nazionale. Essa perdurò, seppur in modo disorganico e sotterraneo, durante il regime. Nel corso del Ventennio, l’antifascismo trentino rifletté naturalmente le linee guida del panorama nazionale ispirate dai partiti politici (Secondo lo studio condotto ancora negli anni settanta da Maria Garbari e basato sulle schede conservate presso l’Archivio di Stato di Trento, su 2.935 schedati dalla questura, gli oppositori al regime che facevano direttamente riferimento ai partiti politici clandestini si suddividevano tra socialisti (712), comunisti (399), repubblicani (151) e popolari (53). Inoltre, si annoveravano 56 anarchici) già rappresentanti l’opposizione parlamentare nei momenti precedenti alla presa di potere fascista. Tuttavia, non era da sottovalutare l’esistenza al suo interno di filoni difformi dall’antifascismo classico, che il fascismo e gli organi di polizia non esitavano ad etichettare comunque come antifascisti senza riconoscerne le peculiarità.

Dietro il termine sintetico di «antifascisti» e quello più specifico di «austriacante», si celava il sentimento di un’opposizione latente non solo alla dittatura in quanto tale, ma all’Italia e agli italiani più in generale («I sospetti politici e antifascisti in senso generico» furono 802, gli «austriacanti, pangermanisti, tedescofili»,  gli «anti-taliani o antinazionali», 81, mentre furono 247 i sovversivi privi di una determinata connotazione politica). Una rivisitazione più approfondita e puntuale dell’antifascismo trentino e della resistenza al regime nel corso del Ventennio, come notava Rasera qualche anno fa, è in parte ancora tutta da scrivere. Ciò che è interessante rilevare è il permanere durante gli anni del regime totalitario di quella «diversità» tra trentini e madre patria che, all’indomani del primo conflitto mondiale, la Fiamma di Sereni si era sforzata di delineare.

DEGRUB

Dai fascicoli del Casellario politico centrale, è possibile risalire alla biografia di soggetti adeguatamente sorvegliati dal ministero degli interni e dalle questure e prefetture periferiche proprio per le loro posizioni politiche antinazionali e genericamente indicate come antifasciste. Enrico Bortolotti (Vigalzano di Pergine, 10 luglio 1900. Falegname, residente in Francia), dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale nell’esercito austroungarico, era emigrato in Francia dove aveva manifestato «apertamente sentimenti sovversivi e anti-italiani, senza però esplicare attività politica degna di nota». La sera dell’11 dicembre 1937, Secondo Borroni (Berrago, 4 giugno 1888. Arrotino, residente a Genova ), mentre camminava davanti alla sede del Gruppo rionale fascista I. Corridoni di Genova, «si mise a gridare scompostamente Viva l’Italia e Viva la libertà facendo poi l’atto di fischiare». In uno stato psico-fisico alterato dagli alcolici, fu «accompagnato alla sede del Gruppo» e «dopo aver pronunziato varie frasi senza senso dichiarò di essere italiano per forza». Forse l’uomo, con queste parole, faceva riferimento al fatto che il Trentino – e l’Alto Adige – erano stati annessi all’Italia in base al trattato di Saint-Germain del 1919 senza alcuna consultazione popolare. Inevitabilmente, il senso di una non affinità con l’Italia e gli italiani era maggiormente sentito nell’area di lingua tedesca e nella zona mistilingue, comprensibilmente refrattarie e ostili ai nuovi governanti e alle politiche di italianizzazione forzata avviate successivamente dal governo fascista. L’«antifascista» Bruno De Gelmini (Salorno, 6 gennaio 1892. Contabile) , già ufficiale dell’esercito austroungarico, era accuratamente sorvegliato dai carabinieri di Salorno che lo dipingevano quale soggetto di sentimenti filo-tedeschi per l’attiva «propaganda pangermanista», mentre Paolo De Gelmini (Salorno, 23 maggio 1905. Insegnante, residente a Barcellona) proveniva da una famiglia «di irriducibili sentimenti tedeschi», contraria «aprioristicamente all’Italia e al Regime fascista».

EUREGIO

Il regime fascista, fortemente accentratore e repressivo, la guerra, l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione tedesca (La costituzione dell’Alpenvorland sotto il controllo dell’austriaco Hofer aveva accentuato questo senso di separazione dalle vicende vissute dal resto del territorio nazionale contribuendo anche a limitare il progredire di un forte movimento di resistenza all’occupante) non avevano fatto altro che esasperare questo stato di distacco dal resto del territorio nazionale. La conclusione del conflitto e l’immediato periodo postbellico videro riaffiorare, questa volta in forme più organizzate, quel divario tra i trentini e l’Italia che il fascismo, con le sue politiche di massa, totalitarie e nazionalistiche, non era riuscito a colmare e che, anzi, aveva contribuito ad allargare (Un divario che si era ampliato anche per le stesse politiche economiche attuate dal fascismo tendente a favorire, in virtù di una strategia eminentemente nazionalistica, la provincia di Bolzano rispetto a quella di Trento).

Nonostante non si trattasse di un fenomeno di mera importazione (Pur considerando che la maggior parte dei segretari federali del PNF trentino, succedutisi dal 1921 al 1943, proveniva da altre regioni italiane e nonostante le fragilità del partito stesso in provincia, il mondo economico e una parte consistente della classe politica ed intellettuale aderì con entusiasmo al fascismo), il fascismo si presentò alla popolazione soprattutto con i tratti di una forte centralizzazione burocratica. Prefetti e questori, amministratori e funzionari pubblici provenivano dall’amministrazione pubblica italiana, un’immissione che, nell’apparato locale, pro Giuseppe Guadagni (1922-1926), Marcello Vaccari (1926-1929), Francesco Piomarta (1929-1931), Pietro Paolo Pietrabissa (1931-1933), Silvio Piva (1933-1936), Francesco Felice (1936-1939), Italo Foschi (1939­1943).

Ci furono spesso attriti con «gli ex impiegati di nazionalità italiana del passato regime, in un primo tempo valorizzati e poi discriminati». Ad esempio, dei sette prefetti succedutisi dal 1922 al 1943 nessuno era originario della provincia di Trento. La figura del prefetto ricopriva non solo un ruolo di gestione amministrativa. Durante la dittatura, giunse a rappresentare un puntuale «riferimento politico ” (Giuseppe Guadagni (1922-1926), Marcello Vaccari (1926-1929), Francesco Piomarta (1929-1931), Pietro Paolo Pietrabissa (1931-1933), Silvio Piva (1933-1936), Francesco Felice (1936-1939), Italo Foschi (1939-­1943) capace, per la sua stabilità istituzionale, di tradurre in pratica le disposizioni del governo centrale. Quel «flusso di risentimenti collettivi» di cui si era fatta portavoce la Fiamma, tra il 1919 e il 1920, riemerse così nel secondo dopoguerra (In realtà, a conflitto ancora in corso e sotto l’occupazione nazista, un gruppo di giovani aveva dato vita al Comitato per l’indipendenza del Trentino (CIT). Nel settembre 1944, fu stroncato dall’intervento repressivo delle forze di polizia e di sicurezza tedesche) contribuendo ad alimentare, secondo Rasera, «istanze di autonomismo radicale e, marginalmente, di separatismo».

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A partire dall’estate del 1945, il desiderio di autonomia e di decentramento amministrativo sentito da gran parte della popolazione trentina già negli anni precedenti al primo conflitto mondiale, trovò sfogo e si coagulò ben presto in un movimento politico volto al raggiungimento di un’«autonomia integrale da Ala al Brennero». L’Associazione Studi Autonomistici Regionali (ASAR o A.S.A.R.) fu un movimento popolare che tra il 1945 e il 1948 si batté per l’autonomia e l’autogoverno della Regione Trentino Alto-Adige. Il motto del movimento era: Entro i confini dell’Italia repubblicana e democratica Autonomia Regionale Integrale da Ala al Brennero.[1] Riuscì a coinvolgere persone di cultura ed estrazione sociale molto diverse, superando in poco tempo i 100.000 tesserati.[L’azione dell’ASAR fu affiancata e s’intersecò frequentemente con un’altra organizzazione, il Movimento separatista trentino (MST). Attivo per lo più in modo clandestino, quest’ultimo era finalizzato alla separazione del Trentino-Alto Adige dall’Italia e all’annessione all’Austria quando non all’indipendenza. Non si tratta qui di ricostruire le fasi della nascita e dello sviluppo delle due organizzazioni, ma di evidenziarne le conseguenze dal punto di vista dell’ordine pubblico, le modalità e le forme della contestazione anti-italiana e del «linguaggio» utilizzato dai militanti autonomisti/separatisti. La protesta antinazionale prese inizialmente corpo contro i partiti politici che erano tornati alla luce del sole all’indomani della liberazione.

Nel luglio 1945, un comizio organizzato a Pergine dalla Federazione del PCI trentino fu bruscamente interrotto da un gruppo di persone al grido di Via i teroni. Nella notte tra il 21 e il 22 luglio, ignoti appesero per le strade di Trento un manifesto che, «a firma un membro del partito popolare – Tirolo del sud», era indirizzato al comunista Foco e ai redattori di Liberazione nazionale. Foco, nei giorni successivi ai fatti di Pergine cui aveva avuto assistito personalmente, aveva stigmatizzato severamente l’accaduto. La responsabilità di quanto successo, secondo l’esponente comunista, andava attribuita ad elementi che, dopo aver collaborato coi nazisti, tentavano ora «di rialzare il capo» attraverso provocazioni ed insulti contro il Partito socialista e comunista, e «contro il sentimento d’italianità della grande maggioranza della popolazione trentina».

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Il manifesto al contrario, declinando le accuse di fascismo e di collaborazionismo, affermava «che tutti i forestieri stabilitisi a Trento» avevano «dato esempio di malcostume e di corruzione». Per tale motivo, «per i trentini» sarebbe stata «desiderabile o l’annessione al Tirolo, oppure l’indipendenza politica». La dichiarazione terminava «con l’esortazione ai trentini di scacciare i terroni, che non sono altro che dei parassiti, e di prepararsi per una votazione». La reazione da parte dei partiti componenti il CLN di Trento a questi primi conati xenofobi (Nei giorni successivi, anche un gruppo di soldati della Folgore denunciò le «scritte nettamente offensive per gli italiani centro-meridionali») e separatisti, benché poco attenta alle cause che li avevano generati, fu volta a dare una spiegazione storica a questo malessere. Ferrandi ne riscontrava le origini nel centralismo fascista che aveva impedito una reale democrazia soffocando «ogni spontanea espressione, vietando l’affermazione e la difesa degli interessi regionali, seppellendo nella congestione e nella elefantiasi burocratica, ogni voce e ogni iniziativa che interpretasse e volesse soddisfare i particolari bisogni di ogni singola regione».

Così si è inasprito nella divisione fra nord e sud, un senso di disagio che spesso è sconfinato nelle insofferenze anche eccessive dei settentrionali verso i meridionali destinati pei loro uffici nelle nostre province; fenomeno che trova esatto riscontro nel sud, tra la popolazione locale e i funzionari provenienti dal settentrione.

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Da parte sua, il compagno di partito Lionello Groff (Gardolo, 30 agosto 1880-Trento, 14 novembre 1970. Irredentista, socialista e antifascista. Nel corso del primo conflitto mondiale, proprio per il suo irredentismo fu processato ed assegnato ad una compagnia di disciplina. Nel dopoguerra, diresse l’Internazionale, organo a stampa dei socialisti trentini, e, nel 1921, fu eletto in Parlamento. Nel secondo dopoguerra, fu consigliere comunale per tre legislature, dal 1946 al 1960, e vicesindaco nella Giunta guidata da Tullio Odorizzi (1946-1948), pur ritenendo sacrosanto il diritto all’autonomia, criticava duramente tutti coloro che rimpiangevano il passato regime asburgico. «I teroni» se ne dovevano andare, ma solo nel caso in cui si fosse trattato «di disonesti e di rifiuti piombati qui da qualsiasi lembo d’Italia». Allo stesso tempo, però, dovevano essere allontanati «anche gli austriacanti» fino al punto d’inviarli in «campi di concentramento e di lavoro forzato a tener compagnia ai rimpianti Kameraden, o loro consegna alle corti di effettiva e seria epurazione».

Del medesimo tenore erano le parole di Lubich che, dalle colonne de Il Proletario, incitava a scacciare «la schiuma della terronia, rastrellata dal fascismo capitalista e dalla monarchia fascista e spedita nel Trentino, come in una terra di conquista, per farvi il servizio di spionaggio, di fisco e di baratteria». «Via» dunque «tutti i terroni disonesti, fascisti, fannulloni, parassiti», ma contemporaneamente «via anche tutti i trentini imbroglioni, fascisti, malve, collaborazionisti». Per gli esponenti dei partiti antifascisti, soprattutto di sinistra, con il termine di «terroni» s’identificavano tutti quei «fascisti» che erano approdati in provincia occupando incarichi politici e amministrativi nel corso del Ventennio. Il loro ostracismo, contemporaneamente, si rivolgeva anche verso quei trentini che avevano sostenuto il regime e magari collaborato con i tedeschi durante la guerra. Flaminio Piccoli interveniva su questo tema affermando che la popolazione trentina, soprattutto rurale, non era malata di separatismo, ma di «isolazionismo», desiderio che era la diretta conseguenza del fascismo.

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Dall’Italia giunse quassù Mussolini; e fece, più che il socialista, l’anarchico. Poi il suo fascismo spinse nel Trentino gli Starace, i Razza (Luigi Razza (Monteleone, 12 dicembre 1892-Almaza, 6 agosto 1935). Conseguita la licenza liceale, si trasferì a Milano dove si laureò in Legge. Allo scoppio della Grande guerra, nonostante i problemi fisici, riuscì a partire volontario con il grado di sottotenente nella brigata Volturno, combattendo in val Posina, in Trentino e sul monte Cimone guadagnandosi due croci di guerra al valor militare. In questo periodo collaborò per i giornali di trincea, riportando testimonianza delle atrocità prodotte dal conflitto. Finita la guerra, divenne redattore del giornale socialista di Trento Il Popolo, fondato nel 1900 da Cesare Battisti. Con l’ascesa del fascismo, Luigi aderì ai nuovi ideali politici diventando, dopo la marcia su Roma, membro del Gran consiglio del fascismo e del Consiglio nazionale delle corporazioni.

Nel novembre 1928, assunse la segreteria della Confederazione nazionale dei lavoratori dell’agricoltura e, in seguito, ricoprì la carica di Commissario per le emigrazioni interne. L’apice della carriera politica fu raggiunto nel gennaio 1935, quando fu nominato ministro dei lavori pubblici nel governo Mussolini. Morì in un disastro aereo nel cielo di Almaza (Cairo) mentre si recava in Eritrea) e altra roba del genere. Portò quassù negli uffici, nelle amministrazioni – fino allora modelli di serietà, onestà, correttezza – il sistema delle invadenze, delle preferenze, il crisma di tutto ciò che, oltre a non essere trentino, non dovrebbe essere neppure italiano: la disonestà, la mala burocrazia, la camorra. Si instaurò anche da noi il sistema del vivere alla giornata, la mentalità dell’arrangiarsi: e fece proseliti anche fra i trentini.

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Questa «febbre di isolazionismo» – che molti studiosi hanno identificato quale vero e proprio «trentinismo» – si sarebbe curata, secondo Piccoli, soddisfacendo l’aspirazione all’autonomia, «attraverso un contatto veramente fecondo con la madre patria». Le prese di posizione dei diversi partiti politici furono rese pubbliche in una lettera diretta al prefetto Ottolini apparsa su Liberazione nazionale in cui si condannavano le manifestazioni, spesso anonime, di carattere separatista.

Di segno diametralmente opposto erano gli orientamenti che ispiravano l’ASAR. Il movimento asarino nacque ufficialmente il 23 agosto 1945 per iniziativa di alcune personalità politiche ed intellettuali come Remo Defant, Silvio Bortolotti, Pio Giovannini e Valentino Chiocchetti (Moena, 1 ottobre 1905-Trento, 2 novembre 1990. Laureatosi in filosofia presso la Scuola normale superiore di Pisa, si dedicò all’insegnamento divenendo, nel 1936, preside dell’Istituto magistrale di Rovereto. Convinto federalista, la sua attività politica fu legata al nascere, nel luglio 1945, del movimento autonomista trentino, l’ASAR. Direttore della Biblioteca civica di Rovereto, presidente dell’Accademia degli agiati (1979­-1987), presidente del Museo storico italiano della guerra, socio della rivista Studi trentini di scienze storiche e del Museo del Risorgimento e della lotta per la libertà), ideologo del gruppo, e fu riconosciuto dagli alleati il 27 settembre successivo.

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Il primo numero di Autonomia, organo a stampa dell’ASAR, uscito alla fine di novembre del 1945, forniva non solo le prime indicazioni sugli indirizzi dell’associazione, ma anche delucidazioni circa l’orientamento degli asarini nei confronti dei «terroni». Prendendo spunto dalle scritte anti-meridionali apparse tra Trento e la Valsugana, l’analisi partiva da lontano, dal 1918. Secondo il giornale, il governo di Roma aveva tentato con ogni mezzo di «italianizzare» la provincia. Non è interessante qui sottolineare le solite accuse rivolte al governo italiano di aver introdotto una burocrazia asfissiante e inefficiente, richiamando impiegati da altre province ed escludendo quelli autoctoni: ciò che emergeva in modo rilevante era la spiegazione concettuale del termine «terroni» con cui venivano identificati i funzionari giunti dall’Italia.

Il termine terroni è esatto fino ad un certo punto, perché in esso noi comprendiamo, in questo caso, non soltanto i meridionali, ma anche tutti coloro che provengono dalle vecchie provincie, ossia tutti coloro che non sono trentini. […] Terrone noi lo diciamo in senso dispregiativo, applicandolo a quell’elemento che pigro e indolente […] vive arrangiandosi alla meglio, specializzato in tutte le arti che servono per imbrogliare il prossimo alle cui spalle ride allegramente. Ora noi di questi elementi, che finalmente non sono più protetti dalla camicia nera, vogliamo l’epurazione. Tornino al loro paesello, che sarebbe ora.

Secondo questa interpretazione i trentini erano quasi antropologicamente superiori non solo rispetto ai terroni/meridionali, ma agli italiani, a tutti gli italiani globalmente considerati. Sul fatto che il fascismo fosse stato un fenomeno importato, e quindi, estraneo alla realtà trentina, l’ASAR e in parte la DC, per bocca di Piccoli, erravano in maniera piuttosto grossolana. La conseguenza era quella di auto-assolvere i trentini dalle proprie responsabilità e dalle connivenze con il passato regime fascista. Più aderenti alla realtà erano, invece, le riflessioni dei partiti di sinistra che non ponevano alcuna differenza tra fascisti trentini e fascisti italiani. Come si è tentato di porre in luce nelle pagine precedenti, le tensioni emerse nelle varie comunità di valle, all’indomani della conclusione del conflitto, dimostravano ampiamente che molti podestà e impiegati comunali, trentini, erano invisi alla popolazione proprio per aver tenuto le redini dell’amministrazione nell’arco dell’intero Ventennio.

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Il dato più singolare e contraddittorio era che tra gli stessi esponenti dell’ASAR vi erano personalità che prima del 1943 si erano adoperate, per la posizione pubblica che avevano ricoperto, a sostegno del regime fascista. Valentino Chiocchetti, «impegnato e stimato uomo di cultura» alla fine degli anni trenta insegnante di filosofia all’Istituto magistrale di Rovereto, era stato «comandante degli avanguardisti e dei balilla». Nella ricostruzione fatta da Quinto Antonelli, Chiocchetti risalta quale figura di primo piano nell’opera di denuncia presso i dirigenti scolastici superiori dell’assenteismo dei giovani roveretani alle adunate del sabato fascista. A partire dal 1939, inondò «gli uffici di presidenza con le sue liste degli assenti» affinché «i consigli dei professori» deliberassero «sospensioni e punizioni per demeriti fascisti oltre che scolastici».

Passata la bufera della guerra di cui il fascismo era stato pienamente responsabile, si attuò un processo di de-responsabilizzazione e di auto-assoluzione. Personalità di spicco come Chiocchetti non fecero altro che sostituire il nazionalismo fascista col «nazionalismo» della piccola patria trentina. Le parole d’ordine ed il linguaggio usato dagli esponenti asarini – diffusi attraverso il giornale Autonomia e tendenti ad individuare la causa di tutti i mali della provincia nella corruzione e nel malcostume portati dal fascismo e dagli italiani – inevitabilmente giungevano alla base del movimento e la influenzavano (Nel corso del primo congresso regionale, tenutosi a Trento alla fine dell’aprile 1946, l’ASAR poteva contare su 100 mila aderenti suddivisi in 234 sezioni, dati che tuttavia dovrebbero analizzati con più attenzione, probabilmente molto lontani dalla realtà).

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Nel corso di una conferenza del Partito socialista tenuta a Pieve Tesino nel novembre 1945, la maestra e militante dell’ASAR Clara Marchetto (Pieve Tesino, 1911-Parigi, 1982. Insegnante elementare. Il Tribunale speciale fascista la condannò all’ergastolo per spionaggio a favore della Francia. Fu rinchiusa nel penitenziario di Perugia fino al giugno 1944 quando fu liberata dagli alleati. Finita la guerra, ritornò in Trentino dove aderì all’ASAR assumendovi posizioni di responsabilità. Ebbe una parte di primo piano nella fondazione del Partito popolare trentino tirolese (PPTT) nelle cui file fu eletta in Consiglio provinciale (1948-1949) interruppe Lionello Groff chiedendo che «il Trentino venisse separato dall’Italia, perché queste popolazioni non erano italiane, bensì tirolesi», ribadendo che «da Roma» erano giunte «solo porcherie».

Le parole della Marchetto furono ascoltate dal pubblico presente che, per la maggior parte, era di sentimenti separatisti. Il comandante della stazione dei carabinieri di Pieve raggiunse a quel punto la maestra ammonendola «per le sue invettive verso l’Italia», ma il suo intervento aggravò ulteriormente la situazione. Molti intervenuti si alzarono facendo ressa verso il sottufficiale gridando ad alta voce Andate Via – non vogliamo gli italiani – cosa ci fate ed altre parole in modo concitato e tumultualte [tumultuante]. Per  evitare disordini, i militari ritennero opportuno lasciare la sala.

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Ancora una volta l’autorità rappresentata dalle forze dell’ordine coincideva con una nazionalità, quella italiana, che non si riconosceva e si voleva «escludere». Dal settembre 1945 e nei mesi successivi, comparvero a Trento, Pergine, Denno e in altre località della provincia, manifesti di propaganda secessionista cui il CLN provinciale rispose organizzando a Trento un «imponente comizio antiseparatista». Nel gennaio 1946, il CLNP, «indignato per la messa in discussione dei confini settentrionali del nostro Paese», deplorava «che attraverso scritti anonimi» si mettesse «in dubbio l’integrità della Patria, deformando con interpretazioni arbitrarie quella» che doveva essere «la nostra vita di cittadini accomunati con i connazionali nella riaffermazione degli sforzi concordi per la rinascita materiale e morale del Paese». L’appello era sottoscritto anche dall’ANPI trentino che condannava «certe oscure correnti locali che, alimentate da propaganda straniera e sostenute da elementi già optanti per il Terzo Reich, sotto pseudo veste autonomista tendono […] a ledere il principio dell’unità nazionale». La diffida si sarebbe ripetuta nel marzo 1946.

Purtroppo, in alcuni casi, la violenza rimaneva ancora strumento di confronto politico ed alcuni militanti vi fecero ricorso. Nell’agosto 1945, «un cittadino di origine trentina», ma residente «per molti anni nelle vecchie province», fu aggredito «da individui non identificati con le parole via i terroni e minacce del genere». La sera del 28 novembre successivo, quattro giorni dopo i fatti di Pieve Tesino, Groff, che aveva criticato pubblicamente il movimento asarino, «fu aggredito nella propria abitazione da due elementi dell’ASAR, l’invalido di guerra Cattoi [Elio] e l’avv. Ziglio Italo». Nell’ottobre precedente, lo stesso presidente del CLNP, Benedetti, era stato affrontato verbalmente da due militanti asarini. La tensione era palpabile. Nel giugno 1946, il sindaco di Strigno intervenne sulla stampa locale smentendo in parte le versioni fornite da alcuni giornali – Il Gazzettino, l’Alto Adige e l’Unità – circa una sparatoria notturna contro la caserma De Gol ad opera di separatisti. Lo scontro a fuoco, cui i soldati della Friuli avevano risposto, non aveva provocato né vittime né feriti.

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Il sentimento anti-italiano, rilevato nelle pagine precedenti ed espresso nei confronti dei soldati dell’esercito e dei carabinieri, si manifestò anche in alcune manifestazioni di disordine pubblico in occasione della chiamata al servizio militare di alcuni giovanissimi coscritti. Fulvio A.( Pergine, 14 luglio 1926. Celibe), Ezio P. (Castagnè di S. Vito di Pergine, 18 settembre 1926. Celibe), Emilio F. (Pergine, 21 gennaio 1926. Celibe), e Italo G.( Isera, 30 luglio 1926. Celibe) di Pergine furono giudicati nel settembre 1946 per aver istigato i giovani richiamati alle armi a non presentarsi alla visita di leva, per vilipendio alla bandiera nazionale e per avere gridato frasi sediziose quali «Viva l’Austria, viva il Tirolo, viva il Trentino, abbasso l’Italia, abbasso il Governo italiano, abbasso i terroni!». Pochi giorni dopo, sull’esempio di quanto accaduto a Pergine, a Denno «un gruppo di giovani reclute, dopo essersi presentato regolarmente alla visita medica di leva», innalzò «su un’asta la bandiera tirolese» e attraversò il paese «portando inoltre delle scritte di Viva il Tirolo e Viva il 1926». Alla fine, 11 giovani furono denunciati «per manifestazioni sediziose».

Sempre nel settembre 1946, a Lavarone si verificarono incidenti tra alcuni separatisti ed i reduci e i partigiani ricoverati presso il convalescenziario locale. Di ritorno da una manifestazione asarina svoltasi a Trento, alcuni militanti – «una ventina di esaltati» – «incominciarono a lanciare le stomachevoli frasi di viva l’Austria e il Tirolo». Partigiani e reduci «reagirono […] per cui ne nacque un tafferuglio che degenerò ben presto in una rissa sanguinosa» che provocò alcuni feriti. I carabinieri, giunti sul posto, «effettuarono numerosi arresti e provvidero a far levare da alcune finestre la bandiera giallo-nera» – colori che facevano esplicito riferimento alla monarchia asburgica. Tale provocazione trovò la ferma condanna dell’ANPI. Di fronte a «qualsiasi manifestazione a carattere anti-italiana», l’Associazione rinnovava «la propria solidarietà ai partigiani e reduci di Lavarone che» avevano «saputo rintuzzare l’offesa fatta ai sentimenti della stragrande maggioranza del popolo trentino e soprattutto di quelli che» avevano «combattuto per la libertà di questa terra».

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Gli incidenti di Lavarone si erano svolti in seguito alla manifestazione tenutasi a Trento il 15 settembre sull’onda emotiva suscitata dagli accordi De Gasperi-Gruber (Karl Gruber (Innsbruck, 3 maggio 1909-1 febbraio 1995). Diplomatico e politico austriaco. Durante la seconda guerra mondiale partecipò alla resistenza antinazista. Dopo la ricostituzione dell’indipendenza austriaca divenne nello stesso 1945 presidente del Tirolo. Fondò l’Österreichische staatspartei (partito di stato austriaco), che poi confluì nella Österreichische volkspartei (partito popolare austriaco). Nel 1945, divenne ministro degli esteri nel primo governo Figl. Occupò quest’incarico fino al novembre 1953. Non riuscendo ad ottenere la riannessione del Tirolo meridionale (Alto Adige) all’Austria, si batté perché la provincia fosse dotata di una forte autonomia nel rispetto della minoranza austro-tedesca. Il 5 settembre 1946 Italia e Austria conclusero il trattato noto come accordo De Gasperi-Gruber. A causa di dissapori nel partito popolare austriaco, nel 1953 si dimise da ministro degli esteri e fu inviato a Washington come ambasciatore. Ricoprì incarichi diplomatici a Berna, Bonn e Madrid) del 5 settembre che, sottoscritti in sede internazionale, sembravano sancire l’autonomia solo per il gruppo etnico tedesco dell’Alto Adige (I punti fondamentali dell’accordo riconoscevano agli abitanti di lingua tedesca uguali diritti rispetto a quelli di lingua italiana della provincia di Bolzano e, contemporaneamente, salvaguardavano il carattere etnico e lo sviluppo economico e culturale del gruppo linguistico tedesco).

La dimostrazione di Trento mostrò, ancora una volta, quanto fosse radicato nella base del movimento asarino lo spirito separatista263. Con tutta probabilità, Ernesto B. (Ala, 20 agosto 1905. Residente a Trento, coniugato, cameriere) e Maria W. (Trento, 11 maggio 1907. Casalinga) furono giudicati nell’ottobre 1946 per i fatti del settembre precedente quando si erano «rifiutati di ottemperare all’ordine di scioglimento d’un assembramento di persone nel quale erano elevate grida sediziose […] che mettevano in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini».

Fenomeni a carattere episodico e non certo organizzato che delineavano comunque un distacco da tutto ciò che era italiano o che rappresentava l’autorità del governo centrale. Del resto, la renitenza alla leva, ad esempio, aveva caratterizzato realtà territoriali molto più turbolente come la Sardegna e la Sicilia, regione quest’ultima che, a guerra ancora in atto, aveva visto nascere un combattivo movimento separatista ed indipendentista. L’aspetto sorprendente è che, in certi frangenti, gli esponenti dell’ASAR, dalle pagine di Autonomia, tesero a giustificare anche comportamenti violenti che non avevano nulla di politico (Quando i contadini di Cembra, nel gennaio 1946, aprirono il fuoco contro i militari della Guardia di finanza che avevano requisito una notevole quantità di grappa prodotta illegalmente, il giornale intervenne in difesa dei contrabbandieri affermando ch’essa era il «frutto delle loro sudate fatiche». L’evento più eclatante si svolse a Mori nel settembre 1947 dove una manifestazione organizzata dall’ASAR vide l’adesione di alcuni rappresentanti della Südtiroler volkspartei.

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La dimostrazione pubblica era stata «preceduta da scritte antitaliane in lingua tedesca, apposte la notte precedente, sul tratto della strada Calliano – S. Ilario di Rovereto, fra le quali anche Heil Hitler». Alla propaganda asarina, aveva fatto riscontro «un centro della borgata» ricoperto «di scritte cubitali inneggianti all’Italia, a Mori italiana e a Trento e Triste». In servizio di ordine pubblico, erano intervenuti «quattro autocarri» di carabinieri della Legione di Bolzano agli ordini del dottor De Simone (Salvatore De Simone. Funzionario della questura di Trento. Dall’ottobre 1944 al maggio 1945, prese parte alla lotta di liberazione nelle file del Battaglione Manlio Longon. Nell’immediato dopoguerra, fu incaricato dal CLNP, assieme all’avvocato Domenico Boni, di ricercare ed assicurare alla giustizia i responsabili della morte di Giannantonio Manci) della questura di Trento. Nonostante gli accordi presi nei giorni precedenti e gli inviti rivolti a Chiocchetti e Defant a non esporre alcuna bandiera o simbolo tirolese, il corteo dell’ASAR fu preceduto da un vessillo bianco-rosso con l’aquila bicipite (I colori bianco e rosso indicavano il Tirolo austriaco mentre l’aquila bicipite identificava l’impero asburgico) accolto con grida di «viva il Tirolo» e «via gli italiani».

Chiocchetti e Defant, scesi dal palco dove si alternavano i vari oratori, cercarono di riportare la calma convincendo i propri sostenitori a desistere dall’iniziativa, ma il tentativo di mediazione fallì – «l’alfiere e coloro che gli facevano corona protestarono anzi vivacemente e agitarono più che mai la bandiera». De Simone, allora, fece intervenire dieci carabinieri che sequestrarono il vessillo «non senza però essere venuti a collutazione [sic!] coi più agitati», di cui uno fu tratto in arresto mentre un secondo tentava «di strappare un vessillo tricolore esposto sulla piazza». L’autorità giudiziaria denunciò anche alcuni esponenti dell’ASAR presenti al comizio tra cui Defant che rimase in carcere qualche giorno «per aver incitato una folla di scalmanati in fermento […] a reagire all’opera [della forza pubblica] opponendo occorrendo alle armi».

Gli incidenti di Mori ebbero ripercussioni nei giorni e nei mesi successivi. Due giorni dopo, la sera del 23 settembre 1947, il giovane studente Franco Remonato, originario di Bassano del Grappa, fu picchiato da alcuni elementi asarini perché «aveva espresso i suoi sentimenti di italianità». Il 5 novembre, mentre rientrava nella sua casa di Tierno, fu aggredito e colpito a bastonate l’avvocato Roberto Nones. Al momento del processo che vedeva comparire dinnanzi al Tribunale di Rovereto quattro imputati (Ugo C. (Mori, 10 aprile 1926), celibe, contadino; Bruno G. (Mori, 3 ottobre 1924), celibe, operaio; Tullio Z. (Mori, 18 giugno 1927), celibe, operaio; Guido C. (Mori, 23 ottobre 1925), celibe, operaio), la vittima testimoniò che il movente «politico» dell’aggressione andava ricercato nei suoi «sentimenti italiani e cioè anti-separatisti e anti-asarini». La disamina dei fatti proposta nel corso del dibattimento allargava la ricostruzione proprio partendo dagli incidenti di Mori.

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È d’uopo premettere che anche in Mori come in molti altri luoghi del Trentino aveva trovato fautori il movimento autonomistico dell’ASAR, movimento che, specialmente per certe sue manifestazioni esteriori aventi evidentemente valore anti-italiano, aveva suscitato vivaci reazioni in appartenenti agli strati più evoluti della popolazione. A Mori in particolare erano contrari i qualunquisti del paese ed il contrasto si era fatto più vivo a seguito di una grande adunata di asarini ivi tenutasi il 21 settembre 1947, che dava luogo ad incidenti e ad arresti di iscritti all’ASAR e che aveva come epilogo il ferimento dello studente Remonato. Era noto nella borgata che anche l’avv. dott. Roberto Nones, pur non appartenendo ad alcun partito, nutriva poche simpatie per quel movimento autonomistico, gli si faceva carico di frequentare elementi contrari all’ASAR e di avere, dopo l’adunata del 21 settembre, estesa al Remonato una querela contro coloro che l’avevano assalito e di aver sopperito alle spese di propaganda contro la predetta manifestazione.

Pur non essendo stata un’azione premeditata, l’obbiettivo del pestaggio – che ricalcava pratiche di violenza fascista – era stato quello di dare una lezione ad un avversario politico. Se queste erano le degenerazioni di un movimento popolare, di massa, che si autodefiniva «democratico», maggiori preoccupazioni negli ambienti del CLNP e della questura doveva suscitare l’MST che, in contatto con la Volkspartei e con i circoli nazionalistici al di là del Brennero, operava per la secessione del Trentino dall’Italia. Nel dicembre 1945, il questore Pizzuto, dando il polso della situazione politica locale, sottolineava non tanto il «diffondersi dell’idea separatista» quanto l’«azione concreta clandestina» del movimento, tendente «a sboccare in manifestazioni violente appena gli alleati» si fossero «allontanati».

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In gran parte della provincia si diffondevano voci di un «putsch» e si segnalavano «metodiche importazioni clandestine di armi». Con un numero pari a circa 17 mila aderenti, il questore evidenziava come «fautori del separatismo», appartenenti per lo più «al ceto medio (insegnanti, professionisti e simili)», si trovassero «dappertutto, anche nei corpi armati». Trento, Riva, Rovereto, Gardolo, Lavis, Pergine, Torbole, Nago e Vezzano rappresentavano i principali centri propagandistici dell’organizzazione. Secondo Pizzuto, «scopo di una violenta sedizione» sarebbe stato quello «di richiamare l’attenzione internazionale in appoggio al separatismo mediante una clamorosa affermazione».

Tra i partiti antifascisti, ciò che suscitava maggiori timori era che l’MST accoglieva tra le sue fila, oltre ad «elementi fascisti sbandati», «esponenti della vecchia nobiltà trentina austriacante» che già avevano collaborato con i tedeschi durante il «regno» di Hofer fra il 1943 e il 1945. Pur con caratteristiche così eterogenee e contraddittorie, il movimento separatista intrecciò contatti sia con l’ASAR sia con la Volkspartei giungendo addirittura a penetrare nelle formazioni politiche antifasciste e in alcuni settori della pubblica amministrazione – «tanto in Questura che fra i CCRR». Fu proprio in questo frangente che s’inserì l’azione positiva del CLN di Trento. Lo stesso organismo ciellenistico di Trento non era immune da sentimenti contrastanti circa l’azione politica intrapresa da Roma nel riprendere il controllo della provincia. La sostituzione del questore politico, nel luglio 1945, aveva suscitato, come si è visto, un vivo malcontento all’interno delle forze politiche rappresentate nel CLN. L’atteggiamento insofferente del Comitato era stato reso pubblico da Eugenio Russolo (Valsenio, 18 gennaio 1918. Avvocato. Sottotenente di complemento durante la seconda guerra mondiale, riuscì a sfuggire all’internamento in Germania e a rimanere sbandato in Trentino dal settembre 1943 al maggio 1945. Nell’immediato dopoguerra, aderì al PdA).

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Di fronte all’imposizione del questore Pizzuto, l’esponente azionista dichiarava d’essere fermamente contrario alla centralizzazione governativa e favorevole, invece, ad un decentramento amministrativo che permettesse ai «trentini» di scegliere democraticamente funzionari e rappresentanti politici. L’aspetto che si lasciava intendere era l’ostilità verso funzionari di origine «meridionale» – come Pizzuto – il cui arrivo in provincia faceva temere per un ritorno alle pratiche burocratiche farraginose del passato, che avrebbero nuovamente impedito alla comunità locale di governarsi autonomamente. Il sintomo che anche il CLN era attraversato al suo interno da una certa insofferenza verso funzionari e agenti che non fossero trentini emerge dalle numerose discussioni riguardanti il trasferimento di personale autoctono al di fuori dei confini provinciali. Nell’agosto 1945, una circolare giunta dalla «direzione generale dei Servizi forestali di Roma» che disponeva l’assegnazione dei quadri trentini del Corpo forestale ad altre province suscitò le immediate proteste dell’intero Comitato.

Un atteggiamento questo che non rivelava solo la difesa di interessi localistici, ma anche il timore che, dietro le manovre «romane», si nascondesse il disegno di sabotare l’opera di epurazione politica. Pochi mesi dopo, in dicembre, il CLN assunse uguale posizione nei confronti del trasferimento di «agenti trentini» della questura «da Trento in altre province». In questo caso, intervenendo direttamente presso gli alleati, il Comitato riuscì a raggiungere lo scopo e ad ottenere uno dei rari successi ( Il capitano Glasspool dell’AMG, «per quanto contrario e in via eccezionale», dichiarò sospese le direttive giunte da Roma e invitò il CLN a definire la questione direttamente con il ministero degli interni).

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Nonostante queste tendenze «trentinistiche», a partire dall’estate del 1945, il CLN costituì al suo interno un organo specifico, il «Centro studi autonomia regionale» (Il Centro era composto dall’azionista Martino Aichner, dal comunista Giovanni Ambrosi (Trento, 10 maggio 1879-24 agosto 1955), dal socialista Lionello Groff e dal democristiano Dino Ziglio, sostituito poi da Luigi Benedetti, ed era presieduto dal liberale Francesco Menestrina (Trento, 28 marzo 1872-13 aprile 1961), (CSAR), incaricato di studiare uno statuto d’autonomia da sottoporre poi al governo di Roma. Tale iniziativa costituì un efficace argine alle aspirazioni separatiste che stavano contagiando la società trentina ed una prima base di discussione con l’ASAR che, nel frattempo, si era costituito. La pubblicazione del progetto preparato dal Centro studi, nel dicembre 1945, come annotava il questore in una relazione inviata a Benedetti, condusse ad un «riavvicinamento» «fra il Centro studi autonomistici del CLN e l’ASAR» che anticipava una futura «collaborazione».

La sconfessione delle «teorie separatiste» e la volontà di raggiungere un’autonomia amministrativa all’interno della compagine statuale italiana contribuì a portare l’ASAR all’interno di un confronto democratico «pacifico» (E questo nonostante una parte della sua base sociale, tra il 1946 e il 1947, mostrasse ancora di non gradire l’unione all’Italia come negli episodi che si sono trattati in precedenza). Inoltre condusse alla completa emarginazione l’MST la cui esperienza si chiuse proprio a partire dal dicembre 1945, quando la maggioranza dei suoi membri aderì al movimento asarino. Le elezioni per l’Assemblea costituente del giugno 1946 e gli accordi De Gasperi-Gruber del settembre successivo indicavano ormai che la strada per l’ottenimento di un’autonomia amministrativa per la regione Trentino-Alto Adige sarebbe passata attraverso il confronto ed il dibattito politico-istituzionale all’interno dello Stato italiano (La carta costituzionale, approvata dall’Assemblea costituente alla fine di dicembre del 1947 ed entrata in vigore col primo gennaio 1948, stabiliva la ripartizione dello Stato italiano in regioni, province e comuni. L’art. 116 della Costituzione repubblicana assegnò a cinque regioni – Friuli-Venezia-Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Val d’Aosta – condizioni e forme peculiari d’autonomia sotto forma di statuti speciali entro la cornice dello Stato italiano, democratico e repubblicano.

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Lo Statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige fu definitivamente approvato dai deputati costituenti alla fine di gennaio del 1948). La battaglia per l’autonomia e per una sua concreta applicazione non si sarebbe conclusa (Soprattutto da parte della Volkspartei che, da sempre contraria ad una regione unica, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta inizierà un aspro confronto politico sia in sede regionale sia presso il governo centrale per ottenere un ordinamento autonomo provinciale. Solo dopo la stagione del terrorismo sudtirolese degli anni sessanta, si giungerà nel 1972 alla revisione dello statuto speciale del 1948 e alla costituzione di due province, Trento e Bolzano, aventi ordinamenti autonomi separati.

293 Le prime elezioni amministrative per il neonato Consiglio regionale si sarebbero tenute il 28 novembre 1948. Si confronti «Regresso della Democrazia cristiana». Corriere tridentino. Trento, 30 novembre 1948), e proseguì tra i banchi del Consiglio regionale che di lì a pochi mesi sarebbe stato eletto (Le prime elezioni amministrative per il neonato Consiglio regionale si sarebbero tenute il 28 novembre 1948). L’ASAR, trasformatosi durante l’ultimo congresso del luglio 1948 in un soggetto politico attivo – il Partito popolare trentino tirolese (PPTT) –, fu il vero trionfatore alle elezioni regionali del novembre successivo affermandosi dietro la DC con il 16% dei voti (oltre 30 mila preferenze). Rispetto alle politiche del 18 aprile 1948 – caratterizzate dalla battaglia ideologica tra democristiani e socialcomunisti del Fronte popolare – gli elettori di sentimenti autonomisti, che avevano in aprile dato i loro suffragi alla DC, ebbero la possibilità di scegliere un partito dichiaratamente autonomista, il PPTT. Si chiudeva così la lunga fase di mobilitazione e di gestazione politica dell’ASAR che, trasformatosi in partito, rientrava a pieno diritto nel sistema partitico locale partecipando da quel momento in poi alla vita democratica e civile della regione.

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D’altra parte, qualsiasi ipotesi separatista era oggettivamente impossibile. Il trattato di pace firmato dall’Italia con le potenze alleate il 10 febbraio 1947 e preceduto dagli accordi De Gasperi-Gruber aveva definito i confini geografici della Repubblica italiana (Il trattato era risultato estremamente punitivo nei confronti dell’Italia tanto da essere giudicato negativamente anche dalla stampa locale – «10 febbraio 1947 data infausta. L’Italia ha firmato il ‹diktat› di Parigi». Corriere tridentino. Trento, 11 febbraio 1947). Inoltre, la provincia era uscita fortemente provata dal secondo conflitto mondiale ed il disastroso quadro economico-sociale non avrebbe permesso alcuna forma d’indipendenza politica né tanto meno un’annessione ad un’Austria sconfitta ed occupata da quattro eserciti stranieri (Al termine della seconda guerra mondiale, l’Austria – che dal 1938 con l’Anschluss aveva seguito le sorti della Germania nazista – fu occupata e suddivisa in quattro zone d’occupazione affidate al controllo di inglesi, francesi, americani e sovietici. Solo nel 1955, riottenne nuovamente l’indipendenza). Forse per ridimensionare l’avversione dei trentini ai «terroni», Alfonso Salvadori, su Autonomia, indicava anche nelle drammatiche condizioni economiche e alimentari della provincia il motivo principale che induceva ad allontanare dal Trentino quelle «bocche» che non si potevano sfamare.

Siccome sappiamo di parlare con gente a modo li preghiamo di voler dare un’occhiata alle tristissime condizioni in cui versa la nostra regione, in conseguenza di un’amministrazione disgraziata durata troppo a lungo e d’una guerra che non trovo termine per definire. Che cosa ci rimane? Dov’è il nostro patrimonio accumulato in tanti anni di fatiche e di stenti? Non occorre rispondere. E qui viene a proposito l’esempio del padre di famiglia benestante che mantiene in casa propria un amico; senonchè [sic!] ad un certo punto, per ragioni d’affari andati male, egli viene a trovarsi nelle condizioni di poter a stento dar da mangiare ai suoi figli e deve pregare l’amico di recarsi altrove, perché egli non può più dargli un pane. […] Saranno necessari anni di lavoro per ricostruire il distrutto per riaccumulare il rubato, per riportarci al livello di prima. E in questo frattempo noi non siamo nemmeno in condizione di poter dar pane a tutti i nostri figli. Questa è la dura, triste, sconfortante realtà.

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Risalta in queste parole non solo la mancanza di solidarietà ai propri connazionali e la chiusura in atteggiamenti egoistici, ma anche la benché minima percezione di quanta distruzione materiale e morale la guerra avesse portato in Italia e in tutta Europa. Da questo punto di vista, le conseguenze del secondo conflitto mondiale mostravano che la situazione della provincia, a dispetto di coloro che la volevano isolare e separare, non si differenziava dal resto del panorama nazionale ed europeo. Il fenomeno che maggiormente suffragava questa coincidenza tra contesto locale e generale era rappresentato dalla criminalità. Tra il 1945 e il 1948, anche in Trentino si diffusero forme e pratiche di delinquenza comune fino al punto da giungere ad un vero e proprio «banditismo sociale» che approfittava della crisi economica, della debolezza delle forze dell’ordine e del discredito in cui erano cadute per diffondersi a macchia d’olio sull’intero territorio.

Nel rispetto dell’accordo De Gasperi-Gruber lo statuto del Trentino-Alto Adige aveva ripristinato l’insegnamento del tedesco e ristabilito la toponomastica bilingue. Fino alla metà degli anni cinquanta la Democrazia Cristiana e la Südtiroler Volkspartei (SVP), il partito di riferimento della popolazione di lingua tedesca, guidato originariamente dai Dableiber oppositori del nazismo, collaborarono dunque nella gestione dell’ente regionale, che poté svilupparsi anche economicamente. Nel 1952 il reddito per abitante della provincia di Bolzano era di 211.012 lire, ossia il 130,4% della media nazionale.

Ein Tiroler in Sch¸tzentracht h‰lt eine Kerze vor ein Plakat, auf dem f¸r eine Sammlung f¸r S¸dtirol aufgerufen wird, Text 'S¸dtirol braucht deine Hilfe', Anlass ist der 40. Jahrestag der Abtrennung S¸dtirols

La convivenza pacifica venne tuttavia messa a prova dal ritorno massiccio di optanti, caldeggiato dall’Austria e avallato dai vincitori della guerra. Anche il clero locale contribuì a rinfocolare le questioni etniche: il prete Michael Gamper in un articolo pubblicato sul quotidiano Dolomiten accusò le autorità italiane di oppressione nei confronti della popolazione sudtirolese, paragonando la loro condizione a una Todesmarsch (le marce della morte). I politici di lingua tedesca accusarono il governo nazionale italiano di proseguire nell’intento di creare una maggioranza italiana in Alto Adige (tramite la cosiddetta “politica del 51%”), attirando manodopera dal resto d’Italia per le grandi industrie altoatesine. Alle cifre allarmanti di Gamper che indicavano “50 mila immigrati italiani negli ultimi sette anni” replicò uno studio del Commissariato del Governo e dell’Istituto Centrale di Statistica che quantificò l’aumento della popolazione italiana tra il 1947 e il 1953 nella cifra di poco più di 8 mila unità, legato alla riattivazione postbellica degli uffici statali e militari e alla risistemazione delle opere pubbliche.

La situazione peggiorò ulteriormente a partire dal 1955, anno di ricostituzione della Repubblica Austriaca, che fino a quel momento era uno Stato sotto occupazione e privo di sovranità. Liberatasi del controllo alleato in seguito al trattato di stato, l’Austria decise di mettere in dubbio la sovranità italiana sull’Alto Adige e di farsi portavoce delle istanze rivendicazioniste sudtirolesi ingerendosi direttamente nelle vicende della provincia con la creazione di un apposito “sottosegretariato agli Esteri per gli affari sudtirolesi” (tuttora esistente). Questo venne affidato a Franz Gschnitzer, membro della Lega del Monte Isel (Bergisel-Bund), un’associazione di irredentisti austriaci.

Durante gli anni della guerra fredda la linea fortificata del Vallo Alpino in Alto Adige, dopo essere stata temporaneamente abbandonata, riprese il suo livello strategico, dovendosi questa volta l’Italia difendere da possibili minacce dall’est, soprattutto dall’URSS. Le varie opere furono quindi riprese in mano ed aggiornate per poter resistere a questa nuova minaccia.

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Anche grazie agli appoggi stranieri, all’interno della SVP iniziò la scalata al vertice di elementi radicali, per lo più Optanten rinaturalizzati italiani, con trascorsi nazisti, che si spesero per una politica intransigente nei confronti della popolazione e delle istituzioni italiane in provincia di Bolzano. In tutti i comuni aventi consiglio comunale a maggioranza SVP (tutto l’Alto Adige tranne allora Bolzano, Bronzolo, Egna, Fortezza, Merano, Laives, Salorno e Vadena) venne sospeso il rilascio di nuove residenze per italiani, fu fatta propaganda contro i matrimoni misti, venne attuata la separazione etnica nelle scuole e negli edifici tra le persone dei gruppi linguistici italiano e tedesco, fu ostacolata la costruzione di alloggi popolari, poiché ciò avrebbe favorito l’immigrazione italiana e venne chiesto addirittura lo smantellamento della zona industriale di Bolzano. A ciò si univa il rifiuto categorico della presenza maggioritaria di italiani nelle pubbliche amministrazioni della provincia e del centralismo regionale, che culminò nello scontro istituzionale con il presidente della giunta regionale, Tullio Odorizzi. Quest’ultimo si pose a difesa del primo statuto di autonomia deliberato dall’assemblea costituente repubblicana e la Corte Costituzionale confermò i suoi rilievi, bocciando i tentativi della SVP di depotenziare le istituzioni regionali.

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L’operato della giunta Odorizzi e della classe dirigente regionale di allora venne tuttavia messo in discussione nel marzo 1957 anche dal questore di Bolzano, Renato Mazzoni, che in una lettera al Ministro dell’interno Fernando Tambroni criticò apertamente le politiche fino ad allora tenute dalle istituzioni italiane verso la minoranza germanofona, accusandole di miopia e furberia, e chiese maggior comprensione verso le istanze sudtirolesi.[133] Non fu però ascoltato bensì allontanato dal suo incarico già nel dicembre del 1957. La posizione ufficiale del governo italiano, espressa dal ministro Tambroni un anno prima, era “che non esiste né un problema né tanto meno una questione del Sudtirolo”.

FONTI E BIBLIOGRAFIA: vedi prima punta de “El rebaltón” in Trentino

 

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