“EL REBALTON” IN TRENTINO – 7

Civili e militari: un conflitto “esplosivo”

 

a cura di Cornelio Galas

La difficile convivenza che aveva caratterizzato il rapporto tra partigiani e militari italiani si ripeté anche tra questi ultimi e la comunità civile. Ai primi di giugno del 1945, Liberazione Nazionale  annunciò con toni entusiastici l’arrivo a Trento dei primi soldati – «affettuosamente salutati dalla popolazione» – del 184. Reggimento artiglieria del Gruppo di combattimento Folgore. L’unità, al comando del tenente colonnello Cangini, era destinata «a costituire il primo presidio italiano di Trento e Rovereto». «Soldati in gamba quelli della Folgore che, in parte volontari, avevano combattuto duramente i tedeschi a Rimini, Filottrano e Bologna partecipando con valore alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

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Questo in breve il resoconto ufficiale sui primi reparti italiani in provincia. Studi recenti hanno sottolineato come il momento «dell’accoglienza delle popolazioni civili […] nelle città liberate» rappresentasse per i militari delle unità del nuovo esercito italiano l’aspetto più significativo e confortante. Secondo Labanca, attraverso le fonti orali, è percepibile «l’emozione ancora viva del caldo abbraccio delle popolazioni emiliane, venete, lombarde, piemontesi che si facevano incontro ai loro connazionali liberatori». Queste manifestazioni di solidarietà nazionale erano reali e particolarmente sentite sia dai civili sia dai militari tanto da rimanere impresse nella memoria di entrambi.

Almeno per il Trentino, il rapporto tra soldati e popolazione si sarebbe dimostrato alla prova dei fatti meno idilliaco. Già il 5 giugno, quattro giorni dopo l’arrivo delle prime unità dell’esercito italiano, a Vezzano furono lanciate alcune bombe a mano contro un deposito di munizioni presidiato dai soldati della Folgore che risposero immediatamente con raffiche di mitra e granate. Oltre al magazzino, nel centro del paese erano dislocati alcuni pezzi d’artiglieria contraerea e controcarro da 88 abbandonati dai tedeschi in ritirata, la cui custodia ed il successivo trasporto fu affidato ai paracadutisti. L’episodio dell’attacco alla polveriera di Vezzano è interessante perché riproduce alcuni elementi sintomatici di un periodo di confusione generalizzata. Nei giorni successivi ai fatti, furono accusati dell’azione alcuni «sbandati tedeschi e fascisti» che avevano preso d’assalto il deposito «allo scopo di asportarne materiale bellico».

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Accanto a quest’ipotesi se ne profilava un’altra che, malignamente, insinuava il dubbio che a compiere l’azione fossero stati «elementi comunisti». Solo pochi giorni dopo, il sindaco di Vezzano smentiva entrambe queste congetture affermando che «il paese era costituito da gente tranquilla che» deplorava «vivamente l’incidente e ancor più le esagerazioni che» avevano «surriscaldato la fantasia».

A Sarche di Madruzzo, tra il 20 e il 21 giugno 1945, si verificava un nuovo lancio di bombe a mano contro un corpo di guardia della Folgore. La coesistenza era delicata e la questione ritornava nelle discussioni tenute dal CLNP. Sempre in giugno, Corsini informò i membri del Comitato provinciale che «in certi presidi» accadevano «per colpa di militi della Folgore cose spiacevoli», che bisognava «eliminare». Allo scopo di evitare questi «atti spiacevoli», Martino Aichner (Trento, 12 marzo 1918-Verona, 21 dicembre 1994. Pilota aeronautico, imprenditore. Laureatosi in giurisprudenza presso l’Università di Roma, nel giugno 1940, ottenne il brevetto di pilota civile. Con l’entrata in guerra dell’Italia entrò nella Scuola allievi ufficiali di complemento di Pescara frequentando poi la Scuola di bombardamento di Aviano e la Scuola aerosiluranti di Gorizia. Tra il 1942 e il 1943, fu tenente pilota nella 281. Squadriglia del 132. Gruppo autonomo aerosiluranti. Il 15 giugno 1942, colpì nel canale di Sicilia un cacciatorpediniere inglese e per l’azione fu decorato con la medaglia d’oro al valor militare. Partecipò ad altre numerose missioni, l’ultima il 20 gennaio 1943 quando fu abbattuto nel porto di Bona in Algeria. Alla fine della guerra, Aichner fece parte del CLN provinciale di Trento in rappresentanza del PdA e fu nel direttivo della commissione Centro studi per l’autonomia) consigliò una collaborazione più stretta con il Comando del colonnello Cangini. Nel luglio 1945, il presidente Benedetti, recatosi a Cirè in Valsugana sui luoghi dell’esplosione di un deposito di munizioni dove avevano trovato la morte alcuni militari della Friuli, aveva raccolto alcuni giudizi negativi sul comportamento dei militari italiani.

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«I contadini» riferirono «che i soldati della divisione Friuli» si comportavano «assai male» ed erano «molto deplorati». Ancora nel gennaio 1946, si pensò addirittura «di riferire al ministro Brosio (Manlio Brosio (Torino, 10 luglio 1897-14 marzo 1980). Avvocato. Liberale, anti-interventista, allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò comunque volontario e, come sottotenente degli alpini, fu decorato di medaglia d’argento al valor militare. Nel primo dopoguerra, contribuì al movimento Rivoluzione liberale di Piero Gobetti (Torino, 19 giugno 1901-Parigi, 15 febbraio 1926). Durante il fascismo, esercitò l’avvocatura a Torino. Dopo la caduta del fascismo, fu membro del CLN di Roma sotto l’occupazione tedesca. Segretario generale del PLI nell’immediato dopoguerra, ministro senza portafoglio nei due governi Bonomi, vice presidente del consiglio nel governo Parri e ministro della guerra nel primo governo De Gasperi. Nominato ambasciatore a Mosca (1947-1951), successivamente occupò lo stesso incarico a Londra (fino al 1955), a Washington (1955-1960) e Parigi (1960-1964). Nel giugno 1964, fu nominato Segretario generale della NATO, incarico che ricoprì fino al 1971. Senatore del PLI e presidente del gruppo liberale al Senato (1972­1976), fu nominato presidente del Comitato atlantico italiano nel gennaio 1979) circa il contegno dei militari italiani nella provincia di Trento». Alla fine di giugno del 1945, un banchetto per reduci di guerra organizzato dai rappresentanti del fascismo locale – il direttore della Cooperativa, l’ex podestà, il segretario del fascio, il brigadiere dei carabinieri – e dai «soldati della Folgore» aveva suscitato il più vivo risentimento nella popolazione.

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A guastare la festa intima, che raccoglieva i vecchi aguzzini del paese intorno ad un copioso e lauto banchetto a base di dolci, torte e innaffiato con ottimo vino fornito dalle cantine capaci dei fascisti locali, intervenne un autentico reduce dalla Germania, che energicamente protestò contro lo sconcio. Intanto dinnanzi al locale dove si teneva il ballo si radunò una folla di uomini e di donne che protestarono violentemente contro questa sfida fatta alla popolazione bisognosa di Roveré della Luna. Il ballo fu sospeso e gli invitati furono accompagnati a casa da una scorta armata formata da carabinieri e da qualche badogliano.

A fronte di una grave situazione alimentare, Liberazione nazionale giudicò l’iniziativa come opera di incoscienti e sfacciati «che evidentemente non si» erano «ancora resi conto del mutamento radicale della […] politica italiana con la caduta ignominiosa di Mussolini e dei suoi diretti collaboratori».

L’aspetto più rilevante che merita di essere sottolineato era dato dal riferimento ai soldati della Folgore quali «badogliani». Permaneva nel pensiero politico e militante dei CLN e dei partigiani, l’identificazione dei militari delle forze armate italiane con il Regio esercito che si era sfasciato l’8 settembre 1943 ed era stato riorganizzato, gradualmente e con difficoltà, dal Regno del Sud e dal maresciallo Badoglio (Gli stessi militari della Folgore cercarono di convincere i trentini a superare dubbi e incertezze sulle posizioni politico-ideali dei militari italiani dalle pagine di Liberazione nazionale). Gli studi condotti da Andrea Argenio hanno evidenziato il permanere nell’esercito italiano uscito dal secondo conflitto mondiale di atteggiamenti nostalgici nei confronti «del passato regime fascista» e soprattutto la «presenza di una nutrita schiera di ufficiali con simpatie verso la monarchia. La ripugnanza per tutto ciò che riguardava l’istituzione militare si era manifestata già nel corso della Resistenza quando le formazioni più politicizzate – comuniste, azioniste, ecc – avevano mostrato una certa ostilità verso quelle più «militari e autonome». Come ha sottolineato Pavone, queste ultime «a quelle GL e Garibaldi apparivano come una continuazione più o meno diretta del regio esercito».

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L’accezione totalmente negativa del termine «badogliano» si riversava così per osmosi nella mentalità popolare. La distanza dei civili verso i soldati appartenenti ai Gruppi di combattimento interessò quegli stessi militari trentini che, dopo aver combattuto o «cooperato» con gli angloamericani nel corso dell’intera campagna d’Italia (La cobelligeranza, forma di collaborazione militare tra Regno del Sud ed esercito alleato stabilita nei momenti successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943 e seguita alla dichiarazione di guerra del governo Badoglio alla Germania (ottobre 1943), comportò l’utilizzo quali truppe ausiliarie di un numero di soldati pari a 137 mila – per lo più impiegati nelle retrovie in compiti di manovalanza e supporto logistico – cui si sommavano i 58 mila combattenti effettivi), rientravano ora alle loro case.

Che la sfiducia della popolazione locale rappresentasse un sentimento abbastanza diffuso nel Trentino del secondo dopoguerra, lo dimostra un documento diramato dalla prefettura nell’ottobre 1945. La nota, inviata alla Camera del lavoro, ai sindaci della provincia e al CLN provinciale, segnalava l’«indifferenza» con cui «molti militari, reduci dall’attuale guerra di liberazione» venivano «accolti da parte di Comitati di liberazione nazionale ed enti civili locali».

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L’informativa sottolineava soprattutto l’esistenza di un’evidente difformità di trattamento tra gli ex internati in Germania, nei confronti dei quali venivano «adottate tutte le provvidenze ed aiuti possibili», e gli ex soldati «dell’esercito di liberazione» verso cui regnava «il più assoluto assenteismo». Non era «raro il caso che questi militari» fossero «ironicamente chiamati Badogliani» utilizzando «lo stesso appellativo che la propaganda fascista repubblicana e nazista» aveva adoperato «nei confronti del nostro esercito di liberazione nazionale».

Il contatto e la vicinanza fisica con i soldati fu la causa principale d’incidenti tra civili e militari dalle tragiche conseguenze. In alcuni casi, si addebitò a militari italiani la responsabilità di efferati casi di violenza. Nell’ambito dell’omicidio della giovane Elda Moscon (Lavis, 1 giugno 1923-11 maggio 1946. Insegnante elementare ), avvenuto l’11 maggio 1946 nei pressi di Lavis, inizialmente furono fatte circolare voci in paese che l’autore materiale dell’assassinio fosse un «soldato badogliano» che aveva da tempo una relazione con la maestra. In realtà, pur essendovi realmente un reparto di stanza nel paese, si trattò solo di una diceria messa in giro per depistare le indagini dal vero responsabile.

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Il 15 agosto 1945, Guido Comper rimase ucciso nel corso di una festa organizzata a Villalagarina dalla 26. Sezione di sanità del Gruppo di combattimento Friuli. Colpevole del decesso era un soldato appartenente al medesimo reparto, Arturo F. (Sorrento, 20 settembre 1921. Manovale, incensurato). In seguito ad un alterco tra i due, il militare aveva sferrato un pugno al torace di Guido causandogli un arresto cardiaco. Il litigio era sorto perchè il civile, mentre ballava con una ragazza, aveva inavvertitamente urtato il soldato che si trovava seduto ubriaco ad un tavolo. Anziché scusarsi, Comper lo aveva insultato. Vittima e omicida non si conoscevano e non vi erano dunque precedenti motivi di rancore. La Corte giudicò che l’imputato «quando sferrò il colpo reagì in stato di ira determinato dall’ingiusto comportamento del Comper, il quale, in via di domandar scusa, proferì l’offesa vai via terrone di Badoglio».

A giudizio della giuria, l’affronto era risultato più grave soprattutto perché rivolto ad un soldato che aveva «risalito la Penisola con truppe combattenti l’invasore tedesco, le quali legittimamente» attendevano «nei paesi ai confini della patria la riconoscente cordialità dei concittadini». Sebbene Arturo fosse incensurato e il suo comportamento in guerra fosse stato encomiabile – tanto da essere proposto per la croce di guerra al valor militare – la Corte sottolineò la «persistenza nell’ira» che tradiva «una grande animosità quando sferrò il violentissimo pugno». In tal modo, il militare fu condannato a quattro anni e 11 mesi di reclusione.

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Nel novembre 1945, una rissa scatenatasi «fra soldati e borghesi» presso una trattoria di Nogarè di Pergine provocò il decesso del carabiniere Attilio Conci – 35 anni – che si trovava a casa in licenza. Giunto sul luogo del tafferuglio, «cercò di ricondurre alla pace gli animi accesi, ma ad un tratto venne colpito fortemente alla testa da un corpo contundente, che lo faceva stramazzare al suolo». Purtroppo, le ferite furono tali da provocarne successivamente il decesso, avvenuto il 6 novembre 1945.

Solo alcuni giorni dopo, attraverso l’attività d’indagine condotta da carabinieri e Comandi della Folgore e della Friuli, l’autore dell’omicidio fu identificato in uno dei soldati che avevano partecipato alla rissa, il paracadutista Nicola P. di 21 anni, originario di Orzala di Puglia. Nel giugno 1947, il quotidiano Corriere tridentino diede notizia dell’avvenuta condanna del giovane a quattro anni – di cui tre condonati – e otto mesi di reclusione per «omicidio preterintenzionale» da parte del Tribunale militare di Verona. Interessante la ricostruzione fatta dell’episodio.

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La sera del 4 novembre dello scorso anno [il giovane militare] si recava a Nogarè per partecipare ad una festa danzante prevista nei locali dell’Enal (Ente nazionale assistenza lavoratori. Istituzione pubblica dopolavoristica, nata nel 1945 in sostituzione dell’Opera nazionale dopolavoro (OND) creata dal regime fascista. Si proponeva di promuovere l’impiego delle ore libere dei lavoratori con diverse iniziative, tra cui in particolare mense, spacci di generi alimentari, soggiorni per lavoratori e colonie per i loro figli, facilitazioni commerciali, sanitarie, termali, cinematografiche, assicurazioni extra lavoro, buoni acquisto. Tra le iniziative culturali, si ebbe inoltre la promozione di feste folkloristiche, campionati sportivi, concorsi canori e musicali) […]. Il P. aveva con sé alcuni commilitoni. Atmosfera serena e gaia per qualche ora alla festa familiare, intorbidata improvvisamente per una discussione sorta a seguito del contegno aggressivo assunto da uno dei ballerini – un giovanotto del posto – nei riguardi di una ragazza.

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Le parole corrono presto fra i giovani e i militari che erano intervenuti in favore della ragazza si trovarono compatti contro alcuni valligiani. La rissa che ne conseguì portò poi alla morte di Conci, intervenuto a sedarla.Sempre nell’ambito delle feste organizzate nei paesi all’indomani del conflitto, si verificò l’uccisione di Oliviero Dallemule. «La notte sul 25 giugno 1945 nel caffé Croce di Predazzo […] si teneva abusivamente un ballo». Ad un certo punto della serata, Alfredo D. (Varena di Predazzo, 4 maggio 1917. Operaio, già condannato, contumace) chiese alla ragazza di Oliviero, che lavorava come cameriera nel locale, il permesso di ballare con lei. Inevitabile che sorgesse un diverbio tra Alfredo e il fidanzato della giovane. Nella lite intervenne anche Clemente B. (Pola, 10 maggio 1921. Minatore), militare della Folgore.

Dopo una breve scazzottata, Oliviero se ne andò accompagnato da alcuni amici rinunciando ad un’eventuale ritorsione e decidendo di andare a dormire. Sulla strada di casa, il giovane incontrò una signorina, Maria De Angelis, che giunta col treno era in cerca di un alloggio per la notte. «Sotto un lampione, aveva scambiato appena poche parole col Dallemule, quando improvvisamente sbucò dal vicolo […] di corsa ed eccitato il D., il quale senza dir parola afferrato il Dallemule per il petto lo scaraventò a ridosso di un muro […], ve lo teneva fermo con ambo le mani poggiate sul petto». Pochi secondi dopo, giunse di corsa B. che, «impugnando una rivoltella», […] «sparò due o tre colpi». Nel corso del processo, quest’ultimo dichiarò d’essere stato avvisato che Dallemule era armato di un mitra e che lo stava cercando per vendicarsi. L’imputato dichiarò, forse nel tentativo di discolparsi, di essersi ritrovato sotto l’effetto di alcolici.

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La Corte, al contrario, osservò che erano risultate chiare le intenzioni omicide del militare perchè «quando i due imputati uscirono dal caffé nutrivano il desiderio di dare al Dallemule una seconda lezione». D., già condannato più volte per furto, «godeva di pessima fama in paese». Offeso dal rifiuto di ballare con la ragazza, aveva allora eccitato il compagno di bevute, B., «rilevantemente alterato dalle bibite [sic!], spingendolo contro il Dallemule» e convincendolo che questi era armato di mitra. La Corte negò le attenuanti generiche a B. per l’ubriachezza che, sebbene spiegasse il fatto, non lo giustificava. Tuttavia, «il suo passato militare e la sua condotta buona» indussero i giudici «a contenere per il minimo la pena per il reato». Nell’aprile 1947, la Corte d’assise di Trento condannò Clemente B. a 21 anni di reclusione, Alfredo D. a 25 (La Cassazione, nel marzo 1949, rigettò il ricorso fatto dai due imputati).

Si trattava di episodi magari sporadici, ma indicativi di un ordine pubblico sempre turbato per la presenza delle forze d’occupazione alleate e dei reparti dell’esercito italiano. Secondo Filippo Cappellano, queste vicende riproducevano un quadro generale.

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Oltre ai crimini commessi da soldati […] al seguito delle armate angloamericane – quali violenze carnali, omicidi, investimenti stradali (Tra il maggio 1945 e il dicembre 1948, morirono in Trentino a causa d’incidenti stradali causati per lo più da mezzi militari alleati e italiani 31 persone e 31 rimasero ferite. Sia civili che militari di diversa nazionalità – italiani, inglesi, americani e tedeschi. In qualità di prigionieri di guerra, questi ultimi furono utilizzati come autisti), furti e rapine –, nel dopoguerra si verificarono sovente risse fra truppe alleate, popolazioni civili e militari delle forze armate italiane. I tafferugli, causati generalmente da ubriachezza molesta dei militari e talvolta innescati da questioni di donne, degeneravano spesso in accoltellamenti e sparatorie con il coinvolgimento di centinaia di scalmanati.

L’abbondante consumo di alcolici contribuiva a far degenerare diverbi in scontri fisici e vendette letali che avevano nella contesa per le donne ( Del resto, per lo stesso motivo, anche durante l’occupazione militare tedesca si erano verificati alcuni episodici tafferugli con ferimenti tra militari tedeschi e civili), almeno nei casi che si sono analizzati, la causa scatenante. Tra i due aspetti, quello predominante era l’abuso di alcool che concorreva a «liberare» la violenza interiore accumulatasi nel corso della guerra, prodotta dalla partecipazione diretta al conflitto.

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A rendere meno limpida l’immagine dei militari, contribuì il dilagare della delinquenza comune cui spesso non furono estranei. Nell’ottobre 1945, le forze dell’ordine segnalarono le gesta criminali di due disertori della Friuli d’origine sarda, Antonio P. (23 anni) e Rinaldo A. (22 anni). Poco tempo prima, avevano fermato e rapinato i passeggeri di un’auto nei pressi di Vigolo Vattaro. Nel corso delle indagini, risultarono pure colpevoli dell’assassinio di un loro commilitone, l’artigliere Mario Todde, ucciso a Roncogno, vicino Pergine, nel settembre 1945. Il crimine era avvenuto a scopo di rapina. «La sera del 17 settembre […] i due militari freddarono il Todde sparando l’uno un colpo di fucile alle spalle del compagno e l’altro un colpo di pistola alla testa».

Dopo averlo praticamente giustiziato, lo derubarono del denaro che possedeva «gettando poi il cadavere oltre il ciglio della strada in mezzo ai cespugli» (I due furono condannati a morte dal Tribunale militare di Verona nel novembre 1946). Nel dicembre 1945 a Villalagarina, due soldati, presumibilmente paracadutisti, sequestrarono una partita di pneumatici per un valore complessivo di 600 mila lire. Nello stesso mese, perdeva la vita Francesco B., militare in servizio presso il 2. Battaglione alpini a Trento. Assieme ad altri tre commilitoni, «si introduceva a scopo di furto nell’autorimessa della Ditta Veronesi». La rapina fallì per l’intervento del custode che, «allo scopo di allontanare i militari, esplodeva tre colpi di pistola dei quali uno raggiungeva il B. causandogli una lesione gravissima al polmone destro per cui decedeva pochi minuti dopo».

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Il ventottenne Augusto Ziglio, nel marzo 1946, fu ferito da un colpo d’arma da fuoco sparatogli a breve distanza da un soldato che lo derubò di 70 mila lire. L’attività investigativa della questura portò all’identificazione di quattro militari della Friuli – Antonio P. (24 anni), Rodolfo D. (21 anni), Glauco V. (24 anni), Roberto P. (23 anni). Le ricerche condotte dalla polizia appurarono che i soldati avevano compiuto l’atto criminoso con la complicità di una ragazza, Ione V., sorella di Glauco, che li aveva informati sulle cospicue somme di denaro che la vittima era solita possedere. L’inchiesta sulla «rapina di via 3 novembre» – come fu ribattezzata dalla stampa locale – fu seguita con grande clamore dai giornali e al processo tenutosi dinnanzi al Tribunale militare straordinario assistette una folla di persone.

Ciò che stupisce è la loro reazione all’ingresso in aula dei membri del Tribunale militare, composto per l’occasione dal generale Alfonso De Leone (presidente), da Tullio Sette (giudice d’appello) e da Nilo Piccoli (giudice popolare) – (Borgo Valsugana, 10 settembre 1911-Trento, 11 dicembre 1996. Membro del CLNP trentino e sindaco di Trento ininterrottamente dal 1951 al 1964. Direttore provinciale delle Poste. Capo di gabinetto del ministro Giovanni Spagnolli, nel 1972, fu nominato presidente del consiglio di amministrazione dell’Ospedale S. Chiara, incarico che mantenne fino al 1974 quando divenne giudice della Corte dei conti di Trento).

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Come raccontò un cronista, «il pubblico, che aveva già dato segni di poca educazione frantumando o asportando alcuni vetri dalle finestre dell’aula, pur di poter assistere in qualche modo al processo, [rincarò] la dose e, in aperto contrasto con le più elementari norme di correttezza, [sottolineò] l’ingresso del collegio giudicante con grida e fischi». Dopo aver riportato la calma sgomberando temporaneamente la sala, la Corte dichiarò la propria incompetenza a giudicare. Accennando «al riprovevole comportamento (in aperto contrasto con le solide tradizioni di educazione e di ospitalità del popolo trentino)», il giornalista attribuiva l’accaduto «alla deficienza del servizio d’ordine (Erano presenti non solo i carabinieri, ma anche un picchetto armato della Friuli) che non era stato in grado di disciplinare tempestivamente […] l’accesso della gente al palazzo di Giustizia».

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Il processo fu così spostato presso il Tribunale militare di Verona dove, il 26 marzo, i soldati furono condannati a lunghe pene detentive mentre la ragazza riuscì a cavarsela con un anno di reclusione. Due sono gli aspetti da sottolineare nel processo sui fatti di via 3 novembre: la persistente debolezza delle forze preposte all’ordine pubblico, ma soprattutto la pressoché totale assenza di rispetto nei confronti della Corte militare da parte del pubblico presente che accolse il suo ingresso con fischi e urla e, più in generale, verso l’amministrazione della giustizia in quanto tale. È questa una caratteristica che ricorrerà spesso anche nei processi per collaborazionismo tenutisi a Trento tra il 1945 e il 1947.

FONTI E BIBLIOGRAFIA: vedi prima puntata

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