FAME, MERCATO NERO E RIVOLTE
a cura di Cornelio Galas
Considerate le scarse prerogative a disposizione in virtù della sua funzione consultiva, il CLNP (Comitato provinciale di liberazione nazionale) dovette limitare la propria azione alla presentazione presso l’Amministrazione alleata di una serie di proposte relative ai principali problemi economico-sociali locali. Il maggiore Mavis, alla fine di maggio del 1945, aveva dichiarato che, pur essendo giunti notevoli quantitativi di carne in scatola, sale, legumi, zucchero ed altri generi, la situazione rimaneva grave. Le difficoltà erano notevoli anche perché il conflitto (La resa del Giappone fu firmata nella baia di Tokyo, il 2 settembre del 1945, meno di un mese dopo le esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki che chiusero la seconda guerra mondiale ) non si era ancora concluso. Il «ritorno alla normalità» sarebbe stato lento e graduale «fino a tanto che il carburante sarà razionato – come lo è in America – e le linee ferroviarie elettriche, i ponti e le strade non saranno riparati». Nel memorandum presentato alle autorità alleate verso la fine di giugno 1945, i membri del Comitato provinciale sottolineavano come la questione dei trasporti fosse strettamente connessa a quella dell’alimentazione. Diveniva essenziale che le vie di comunicazione, quella del Brennero – nord-sud – e quella della Valsugana – in direzione di Venezia – fossero riattivate al più presto possibile.
Direttamente connesso con l’efficienza dei trasporti si rivela il problema dell’alimentazione. La necessità d’introduzione nella Provincia di generi alimentari, specie, cereali e bestiame da macello, nonché di suini […], potranno essere soddisfatti [sic!] soltanto attraverso lo scambio con altre provincie dei legnami che il Trentino può esportare. Perciò sono necessari lo sblocco dei legnami […] e una circolazione automobilistica più libera e più intensa. L’approvvigionamento della nostra Provincia ha inoltre sofferto di deficienza che non trova riscontro nelle altre Province finitime.
A poco più di un mese di distanza, non si nascondeva la delusione per quanto era – o meglio non era – stato fatto, tanto che la situazione della provincia era «catastrofica né più né meno che i primi giorni». La disponibilità alimentare per la popolazione della provincia non aveva raggiunto un livello critico solo in relazione ai trasporti – questione aggravata dal fatto che gli alleati rilasciavano con una certa lentezza i permessi di circolazione – e alla riattivazione delle principali vie di comunicazione (stradali e ferroviarie), ma soffriva le conseguenze di una condizione generale precaria. La soluzione del problema alimentare era ostacolata «dal fatto che le province» erano «economicamente suddivise in compartimenti stagni» che impedivano un «razionale impiego delle risorse». A queste difficoltà, se ne aggiungevano altre, di natura endogena – «raccolto scarso dell’annata, mancanza di fertilizzanti, insoluto problema dei trasporti».
Il risultato più eclatante era il dilagare della «borsa nera» per reprimere la quale o si prendevano «draconiani provvedimenti atti a realizzare una volta per sempre una normale ed equa distribuzione dei prodotti» o si poteva considerare superfluo «mantenere svariati e costosi uffici di controllo, che non» controllavano «nulla».
La repressione del mercato nero e la soluzione della questione alimentare rappresentavano alcuni degli ambiti attraverso cui il CLNP avrebbe fatto sentire maggiormente la sua voce. Il fenomeno del commercio clandestino ed illegale di merci e prodotti alimentari era una delle tante conseguenze negative della guerra che si era appena conclusa. La «caduta di legalità» che aveva caratterizzato il periodo bellico e le stesse giornate della liberazione avrebbe contraddistinto anche l’immediato dopoguerra.
Il mercato nero, i cui primi segnali si sono riscontrati già nel 1941, si appresta a diventare un fenomeno di consistenti dimensioni e un mezzo rapido di arricchimento per i più spregiudicati. La pratica della borsa nera arriva al punto di diventare un’economia parallela e predominante sull’ordinaria attività economica. La lentezza nell’uscire dalla guerra, una volta terminato il conflitto, deve molto alla ramificazione del mercato nero che con i suoi potentati arriva a spezzare, in alcuni luoghi, l’ordinaria rete di distribuzione.
Secondo Alberto Ianes, «il fenomeno del mercato nero» s’intensificò in Trentino a partire dal febbraio 1944, effetto della «scelta tedesca» di sottrarre manodopera al settore agricolo «per impiegarla nell’industria bellica o per destinarla all’arruolamento militare». Una «forza lavoro numericamente insufficiente» e la concomitante «siccità» non consentirono una produzione agricola tale da «soddisfare il fabbisogno alimentare locale» per il biennio 1944-1945. Il caos generato dalla conclusione del conflitto con l’aumento consistente di saccheggi e furti ai magazzini militari e civili – fenomeno aderente alla realtà nazionale – non aveva fatto altro che incrementare la disponibilità di beni e generi di prima necessità da immettere sul mercato clandestino. L’altra faccia della medaglia era rappresentata dal rifiuto di conferire generi alimentari e prodotti agricoli all’ammasso. Come il mercato nero, il mancato conferimento all’ammasso rappresentava il prolungamento di un fenomeno sviluppatosi durante il contesto bellico.
Se durante il conflitto il rifiuto di consegnare prodotti agricoli ed alimentari era stato considerato quale forma di «resistenza civile» alle pressioni dei nazifascisti, nel periodo postbellico, esso perdurò quale forma d’illegalità diffusa su tutto il territorio italiano, una vera e propria piaga economica. Nell’ambiente contadino, l’opposizione ad assegnare i propri prodotti agli ammassi era dovuto in parte al desiderio di arricchirsi o comunque modificare le proprie condizioni economiche in una delicata fase di passaggio.
Come ha sottolineato Marco Borghi per il caso trevigiano, ciò che spingeva gli ambienti contadini ad evadere gli ammassi era una mancanza di solidarietà verso i propri connazionali ed il rinchiudersi in una difesa locale, quasi familiare, alle pressanti sollecitazioni provenienti dall’esterno. Riemergevano così «la dicotomia campagna-città» e «la secolare sfiducia» del mondo contadino verso l’ambiente cittadino. Ad una povertà diffusa soprattutto nei centri urbani faceva riscontro un mondo agricolo chiuso in «egoismi e interessi particolaristici», un’immagine che torna anche nella riflessione storiografica locale. Secondo Vadagnini, «il mondo rurale trentino», rappresentante «la maggioranza della popolazione potenzialmente attiva», si configurava come un ambiente dominato dalla piccola proprietà coltivatrice. Nel corso del conflitto, questa era stata in grado di sottrarsi «in vari modi […] agli obblighi all’ammasso» incrementando «il mercato nero dei prodotti agricoli». Nell’immediato dopoguerra, tale posizione di vantaggio non poteva non essere vista con una certa «diffidenza dalla popolazione locale». Nell’ottobre 1945, Marcellino C., Silvio C. e Albino L. furono arrestati «perché recidivi nel conferimento del latte e del burro». Durante il processo, tenutosi nel gennaio 1946, il sindaco di Aldeno, Angelo Coser, giustificò i tre imputati affermando che «i produttori», generalmente, cercavano «per quanto possibile di sottrarsi al conferimento». Già ai primi di giugno del 1945, sull’esempio peraltro di quanto avveniva in altre realtà territoriali, il CLNP si era orientato a favorire gli scambi tra province – ad esempio, legname per bestiame.
I dati statistici rilevati presso gli archivi dei Tribunali di Trento e Rovereto e riportati nelle Tabelle 1 e 2 fanno riferimento alla varietà d’infrazioni di natura annonaria compiute tra il 1945 e il 1948. Inoltre, le cifre desunte dal Tribunale di Trento (Tabella 1) – che fanno riferimento a gran parte del territorio provinciale – sono state poste a confronto con quelle risalenti al 1938 e al 1942 allo scopo di cogliere il mutamento o meno dal punto di vista qualitativo e quantitativo dei reati considerati.
Se nel 1938 l’infrazione maggiormente rilevata è legata alla «tradizionale» produzione e al successivo contrabbando di grappa, nel 1942, gli effetti di due anni di conflitto bellico si mostrano in maniera evidente. Si macellano clandestinamente carni (20%), si traffica in mercato nero (28%) e soprattutto si manifesta palesemente il rifiuto di consegnare parte della produzione agricola e alimentare all’ammasso (34%). A partire dal 1945, la situazione sembrò migliorare. Tuttavia, si deve supporre che le denunce in relazione al mercato nero e al mancato conferimento siano in numero inferiore rispetto al 1942 per la debolezza delle forze dell’ordine e per il caos generato dalla fine del conflitto. Nel 1948, pur in presenza di un certo numero di borsaneristi (12%), si evidenzia il ritorno a forme illecite di commercio «consuetudinarie» come il contrabbando di tabacco (35%) e di grappa (34%) e dunque a rientrare in un quadro di «normalità». Nel caso roveretano (Tabella 2), influisce sul reato di contrabbando di tabacco il pressoché completo saccheggio da parte della popolazione della manifattura cittadina avvenuto nei giorni confusi della liberazione.
La crisi dei trasporti, la penuria di risorse locali nonché la difficoltà riscontrata nell’accumularle fecero ereditare ai CLN una «condizione di autarchia localistica» costringendoli a ritornare a forme di baratto come strumento di sopravvivenza alimentare. La disponibilità «ad accettare o addirittura favorire gli scambi da provincia a provincia» era dovuta principalmente a ragioni di «ordine pubblico» e per consentire al territorio di competenza «di affrontare e sopravvivere all’emergenza». La conseguenza immediata era che ogni provincia tendeva «a comportarsi quasi come uno staterello autonomo». Almeno per quel che riguarda il territorio trentino, si potrebbe dire che una parte degli stessi CLN comunali agissero come organismi autonomi. Nel giugno 1945, ad esempio, la nafta acquistata dalla Società di trasporto pubblico Atesina fu bloccata dall’intervento del CLN di Arco. Nonostante le pressioni esercitate dal CLNP, i partigiani del luogo si rifiutarono di consegnarla. Il comportamento assunto in generale dai CLN comunali trentini relativo alla consegna dei prodotti all’ammasso, ancora nel luglio successivo, fu stigmatizzato da Ottolini secondo cui i Comuni agivano come «piccole repubbliche».
La carenza di generi alimentari ed il timore di essere privati delle risorse disponibili induceva ad atteggiamenti egoistici non solo il mondo contadino, ma contraddistingueva gli stessi indirizzi di CLN e Comuni periferici chiusi in una visione eminentemente localistica. Emergeva così una palese contraddizione. L’azione del CLN provinciale era ostacolata dai singoli CLN ad esso subordinati che, strumenti di un possibile decentramento amministrativo, erano costretti a procedere sì autonomamente, ma a scapito dell’interesse collettivo. In virtù della grave situazione economica e alimentare, l’autonomia dei CLN si dimostrava alla prova dei fatti controproducente per la ripresa economica ed alimentare dell’intera provincia.
Una delle prime iniziative appoggiate dai membri del Comitato provinciale fu quella di costituire delle «squadre di vigilanza annonaria» che, composte di operai, avrebbero dovuto vigilare le attività di commercio sotto la supervisione della Camera del lavoro di Trento. La tendenza dei produttori a porre le merci sul mercato clandestino era dovuta in parte ai prezzi di vendita più favorevoli. La proposta di maggiorazione avanzata dal CLNP, tuttavia, fu respinta dal maggiore Mavis perché il rialzo dei prezzi avrebbe comportato un aumento del costo della vita e conseguentemente una crescita dell’inflazione. Dinnanzi al parere sfavorevole degli alleati, al CLNP non rimase altro che rivolgere frequenti appelli alla popolazione affinché denunciasse «borsaneristi» e «affaristi privi di scrupoli» o conferisse i generi alimentari all’ammasso. Sul piano pratico, tuttavia, i successi riportati dal Comitato provinciale furono complessivamente poco efficaci. Le autorità alleate, nel settembre 1945, bocciarono l’idea di reintrodurre la «pena del confino» per gli imputati di borsa nera né miglior fortuna ebbe la richiesta che i contravventori agli ammassi fossero giudicati e condannati da Tribunali militari.
La situazione alimentare e in genere economica della Provincia rende necessario il più energico intervento per raggiungere i numerosi ed illeciti depositi di merci imboscate e per reprimere con immediate azioni di polizia […] la speculazione della borsa nera. Il CLN si preoccupa di mantenere l’ordine pubblico nei fatti e negli spiriti; domanda perciò di potere, sia nel campo dei delitti annonari, sia nei confronti di ogni attività delittuosa di carattere sociale o politico, sia precedente che successiva alla liberazione, essere chiamati quanto meno a collaborare con gli organi della giustizia italiane e della giustizia alleata. […] Infatti, pur essendo il CLN organo consultivo, esso rimane sempre l’espressione delle forze popolari e genuine del Trentino.
Addirittura, il CLNP giunse a fare pressioni sull’ordine degli avvocati affinché rifiutassero di difendere in giudizio gli imputati per borsa nera ma senza risultato. La possibilità per il CLNP di conseguire un effettivo successo nel campo degli ammassi era frustrata dall’inefficienza degli stessi organismi preposti al conseguimento dei prodotti agricoli e alimentari. Sebbene fossero stati commissariati su disposizione del CLN all’indomani della liberazione, enti come la Sezione provinciale per l’alimentazione (SEPRAL) e l’Ufficio provinciale statistico-economico dell’agricoltura (UPSEA) si mostrarono totalmente inetti. Secondo il prefetto, questa incapacità assumeva i caratteri di un vero e proprio sabotaggio non disgiunto dalla presenza negli uffici di quadri e personale non epurato.
Le disposizioni impartite dal prefetto rimasero, per sua stessa ammissione, «sempre lettera morta!», uno stato di cose dovuto «ad un’inspiegabile resistenza passiva dell’Upsea (che dipende direttamente dal Ministero) i cui quadri dovrebbero senz’altro essere riveduti». L’incompetenza e la corruzione di questi uffici rappresentavano elementi comuni a gran parte del territorio nazionale poiché dirigenti e funzionari del vecchio regime erano passati dal fascismo al dopoguerra «protetti dalla loro pretesa capacità tecnica». Le costanti pressioni esercitate dal CLNP e dal prefetto sui produttori sarebbero risultate inutili anche per questo motivo. Secondo Marco Borghi, il permanere di apparati e strutture del regime fascista equivalse a mantenere nei posti chiave quei funzionari tecnici che si erano formati durante la dittatura, uomini su cui il «nuovo ceto politico», in mancanza di alternative, dovette fare suo malgrado affidamento. «Gli ammassi» e «le Sepral», pertanto, rimasero «gli strumenti» con cui si cercò di «riattivare i meccanismi della distribuzione alimentare» destinata a sfamare la popolazione.
È possibile ritrovare gli stessi temi ripetuti nel congresso dei CLN trentini svoltosi il 21 ottobre 1945. A fronte di una situazione alimentare permanentemente difficile, se non addirittura disastrosa, il presidente del CLNP si rivolgeva ancora alle masse agricole cercando di convincerle della necessità «morale e civica» di consegnare i loro prodotti all’ammasso. Nella sua relazione, Benedetti non nascondeva che se i risultati della ricostruzione erano stati insoddisfacenti ciò era dovuto in parte al permanere di un sistema burocratico inadeguato, «di una burocrazia sorpassata». Le difficoltà incontrate nel conferimento dei generi alimentari non andavano ricercate unicamente nell’inefficienza dei servizi e nell’inadeguatezza di funzionari compromessi con il passato regime.
La «riluttanza» dei contadini a collaborare al miglioramento delle condizioni alimentari della provincia scaturiva anche da una serie di motivazioni indipendenti, in parte, dalla loro volontà. A distanza di mesi dalla conclusione del conflitto, risultava evidente che tale «resistenza» al conferimento era il prodotto di molteplici ragioni che risalivano al Ventennio, alla guerra e ad una mancata epurazione, motivi che emergevano prepotentemente e violentemente nel difficile e lungo dopoguerra. In qualche caso, tale «opposizione» non era disgiunta da una palese «avversione» ai controlli di enti e organismi statali. Si evidenziava una «diffidenza» di fondo verso lo Stato italiano, «non solo verso questo o quel regime – dittatoriale o democratico – ma […] nei confronti di uno Stato ritenuto rapace, lontano, disinteressato ai problemi della terra». Nel dicembre 1945, il prefetto Ottolini segnalava il verificarsi di «frequenti agitazioni e disordini, specie nei centri rurali, connessi alla situazione alimentare ed alla disciplina degli approvvigionamenti, particolarmente in materia di ammasso di cereali e olio d’oliva». Si trattava di «gravi atti di vandalismo» rivolti contro gli uffici comunali statistico-economici dell’agricoltura (UCSEA), episodi che dovevano essere repressi energicamente con l’identificazione e la punizione dei responsabili.
Uno degli episodi più eclatanti di questi disordini si svolse ancora nel gennaio 1947 quando un agente della SEPRAL, Erminio P., si recò a Nomi ad effettuare dei controlli di verifica della produzione agricola locale. Nel corso dell’ispezione, il funzionario e i due carabinieri che lo scortavano furono aggrediti prima verbalmente poi fisicamente. I figli del titolare dell’azienda, reduci di guerra, accusarono l’uomo di aver fatto un controllo già nell’aprile 1942 costringendo la loro famiglia «a vivere con patate». La presenza dell’agente e dei carabinieri non era passata inosservata poiché nel frattempo si erano radunati altri «giovani». Infuriati, protestarono «che questi sopraluoghi non si dovevano fare, che prima di entrare in una casa si» doveva «interpellare il Sindaco, che era ora di finirla, che avevano sofferto abbastanza e che questo non era il modo di trattare». Allo scopo di chiarire la propria posizione, agente e carabinieri furono accompagnati in Comune mentre «cominciavano ad affluire uomini e donne» che gridavano insulti e minacce: «Lo vogliamo morto – Lo impicchiamo ad una colonna – Date a quel fascista».
I militi dell’Arma intervennero bloccando la folla che cercava di acciuffare l’agente consentendogli di rifugiarsi nei locali del Municipio mentre i manifestanti, rimasti «fuori nel piazzale», continuavano «ad urlare ed imprecare». Ad aggravare la situazione contribuì l’arrivo di un altro gruppo di carabinieri che erano giunti sul posto armati di mitra. «Circa 150 dimostranti» accerchiarono i militari «inveendo e con tentativi anche di strappare di dosso le armi e dicendo a squarciagola che noi militari operanti sarebbero [sic!] meglio che andassimo a lavorare, che potremmo orinare nei nostri mitra, che eravamo protettori dei delinquenti e che eravamo farabutti anche noi». L’intervento del sindaco e di due consiglieri comunali – di sinistra – riuscì a placare gli animi e a far sì che l’incidente non degenerasse.
Il sindaco, però, criticò il funzionario rimproverandogli che la reazione popolare era stata provocata dal suo comportamento irriguardoso. Il paese era stato tragicamente colpito dalla guerra, aveva «sparso sangue» e «lottato per la liberazione». Soprattutto, i suoi «75 reduci» erano «esasperati dalla situazione attuale e decisi al tutto per tutto».
L’episodio di Nomi rappresentava certo un caso limite ma non isolato (Ad esempio, il 30 giugno 1946 a Mezzolombardo, Oreste E. aveva insultato un dirigente dell’UCSEA) accusandolo d’essere stato sempre fascista e di avere compiuto, durante il Ventennio, un pestaggio che, però, era rimasto impunito., indicativo di uno stato d’animo insofferente all’autorità ed ai suoi rappresentanti – gli stessi che, peraltro, avevano operato durante il fascismo e la guerra. Di fatto, il motivo scatenante la sollevazione popolare andava ricercato nella provocazione rappresentata dal funzionario della SEPRAL, già in servizio negli anni precedenti. La presenza dei reduci, magari disoccupati ed «esasperati dalla situazione», contribuì ad alzare il livello di tensione. Inoltre, la comunità di Nomi aveva alle spalle una lunga tradizione «rossa», (Una tradizione riconfermata nelle elezioni comunali del marzo 1946, quando i socialcomunisti si erano aggiudicati 12 dei 15 seggi disponibili) socialista prima e comunista poi, ed il contributo dato alla causa antifascista e a quella resistenziale (Già nell’aprile 1922, Nomi e la sede della locale Unione agricoltori era stata obbiettivo di un’incursione squadristica organizzata dal Fascio di combattimento di Rovereto. In alcuni casi, la resistenza del paese lagarino fu pagata a caro prezzo. Emblematici sono gli esempi di Mario Springa, comunista, deceduto nella questura di Trento nel maggio 1937, e di Isidoro Paissan (Nomi, 10 settembre 1924-Aldeno, 2 maggio 1945), partigiano, morto nello scontro con un reparto tedesco in ritirata nel maggio 1945) non era stato indifferente.
In questo caso, come in altri del secondo dopoguerra, risulterà difficile distinguere cause e contesti che sono più il risultato della sovrapposizione di fenomeni ed eventi non coincidenti dal punto di vista spazio-temporale. Questi non giungono a conclusione in un dato momento storico, ma riproducono effetti e conseguenze ben oltre la caduta del fascismo o la fine del conflitto. A queste considerazioni, si devono aggiungere quelle relative alle pesanti condizioni economiche d’indigenza e di vera e propria povertà ereditate dalla seconda guerra mondiale. Tutte e sette le persone indagate per i fatti di Nomi – sei uomini ed una donna – vivevano in «condizioni povere» se non addirittura «tristi», il che fa supporre che gran parte del malessere fosse stato provocato anche dalla miseria economico-sociale del dopoguerra.
In una relazione prefettizia del settembre 1945, Ottolini tratteggiava una situazione annonaria «in complesso cattiva». Già a partire dall’agosto 1945, i magazzini provinciali erano del tutto sprovvisti di «formaggio, marmellata e conserva». Contemporaneamente, il prefetto si dichiarava scettico circa la possibilità «di integrare i generi tesserati, con acquisti fuori tessera, dato che la Provincia» era «fortemente deficitaria con conseguente grave disagio alimentare della popolazione». A partire dall’estate 1945, quindi, la «sopravvivenza alimentare» della provincia cominciò ad essere preoccupante soprattutto per l’inasprirsi del conflitto sociale. La situazione economica degli impiegati e della classe operaia aveva allarmato il CLNP sin da giugno.
Non vi è dubbio che gli stipendi ed i salari sono lungi dall’adeguarsi al rialzo dei prezzi. Il problema è grave e richiede un intervento immediato e dei provvedimenti capaci di attenuare il pericoloso disagio in cui versano le classi meno abbienti. Particolarmente dolorosa è la situazione degli impiegati i quali non hanno goduto di miglioramenti straordinari come quelli concessi ad altre categorie. Urgentissima poi si presenta la situazione di molti insegnanti che da mesi non percepiscono lo stipendio.
Ad Ala, il 9 luglio 1945, scesero in sciopero 150 operai per ottenere l’aumento di salari e generi di prima necessità. A Riva del Garda, il 25 agosto, un centinaio di donne organizzarono una manifestazione dinnanzi al Municipio contro il caro vita e per richiedere «pane e lavoro». L’acutizzarsi del conflitto sociale era evidenziato sia dal questore sia dal prefetto e le relazioni inviate da entrambi al ministero dell’interno concordavano perfettamente. Secondo il questore, «la prolungata siccità […]» aveva «menomato le già ristrette risorse della provincia» contribuendo «a determinare uno stato di semi-carestia» che turbava la popolazione specie con l’avvicinarsi della stagione invernale. Per il prefetto, «la scarsezza dei generi di prima necessità» aveva «determinato un rialzo impressionante dei prezzi» consentendo l’acquisto solo «a poche classi privilegiate». La maggior parte della popolazione, quella meno abbiente, viveva così in uno stato di vera e propria apprensione per la «semi carestia esistente» e per l’insufficienza di «viveri e […] oggetti di vestiario indispensabili per fronteggiare i rigori dell’inverno».
Il malessere sociale generato dalla grave crisi si ripercuoteva inevitabilmente sull’ordine pubblico. Il 10 settembre 1945, alcune donne – una trentina – organizzarono una contestazione dinnanzi alla sede della prefettura protestando per la mancata distribuzione di generi alimentari tesserati. In assenza del prefetto, il giorno successivo si ripresentò da Ottolini un gruppo di donne – circa 300 – più numeroso e organizzato134. Nella relazione inviata a Roma, il prefetto non parve dare eccessivo rilievo ad una manifestazione che, in definitiva, si era risolta pacificamente, «senza incidenti». In forma più ambigua, il questore Pizzuto faceva intendere che l’episodio fosse da ricollegarsi a qualche trama ordita dai comunisti.
Il 10 corrente una trentina di donne si adunavano davanti alla prefettura per protestare contro la mancata distribuzione di generi alimentari tesserati. Il Sig. prefetto era fuori sede. La mattina seguente le donne, in numero di circa trecento, tornarono, mostrando segni evidenti di organizzazione. Una delegazione fu ricevuta dal sig. prefetto, al quale alcune di esse, fra le quali un paio riconosciute come appartenenti ad organizzazioni comuniste, esposero vivacemente i loro reclami, che furono accolti molto benevolmente e col consueto interessamento dal Sig. prefetto. La manifestazione […] ebbe termine senza incidenti e dette luogo a commenti, poiché, anche in circoli molto autorevoli, apparve strano che una siffatta protesta fosse stata […] predisposta verso il prefetto che, come è noto, appartiene al Partito comunista.
Queste considerazioni rientravano nella mentalità comune ai funzionari di questura. Nonostante il fascismo nelle sue forme legali fosse crollato, permaneva una forma mentis che induceva ancora a considerare le manifestazioni di malcontento popolare non come l’espressione del precario contesto economico-alimentare, ma come un’arma nelle mani delle forze di sinistra, in questo caso, del Partito comunista. Questa sorta di diffidenza verso il popolo, già presente nello Stato liberale, si era acutizzata durante il Ventennio permanendo anche dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Il mese di settembre rappresentò il momento più caldo dal punto di vista dell’ordine pubblico. Tuttavia, si trattò per la maggior parte di manifestazioni estemporanee, casuali, che non nascondevano alcun complotto segreto ma solo l’insoddisfazione per la situazione complessiva. Il 12 settembre, reduci provenienti dalla Germania avevano minacciato d’inscenare pubblicamente una protesta contro le autorità locali ree di essersi disinteressate di loro dopo il rientro in patria. Due giorni dopo, ad Arco, «circa novanta reduci internamento et prigionia Germania riunivansi davanti sede comunale chiedendo assistenza». Nuovi disordini si verificarono a Trento il 14 settembre tra un gruppo di sportivi e le forze di polizia. Circa 300 manifestanti protestarono dinnanzi alle questura ritenuta «responsabile della mancata riunione pugilistica indetta per quella sera». Nonostante «il contegno dei dimostranti fosse stato oltraggioso e provocatorio oltre ogni limite», l’episodio si era risolto senza «seri incidenti». Tale tipo di tensioni rientravano comunque in un contesto politico-sociale complessivo, prodotto dal «crescente squilibrio» proprio a partire dall’estate 1945 «nella dinamica prezzi-salari». Secondo Lombardi, è possibile individuare una differenza tra le agitazioni, «improvvise e violente», promosse da «masse non organizzate (disoccupati, partigiani, donne, reduci)», e quelle incanalate attraverso i sindacati in una «linea di contenimento».
In tale contesto, s’inserirebbe lo sciopero generale che interessò i principali centri urbani della provincia alla fine di settembre del 1945. Dieci mila dimostranti, tra lavoratori e impiegati, scesero in piazza Italia a Trento «contro il carovita e la borsa nera». I manifestanti – al grido di «Basta con le chiacchere vogliamo i fatti Fuori le merci imboscate I lavoratori hanno fame Vogliamo pane e lavoro Siamo senza casa e l’inverno è vicino» – avevano poi raggiunto piazza Venezia senza che si verificassero incidenti. Il corteo, promosso dalle Commissioni interne di fabbrica, degli uffici e delle aziende, aveva trovato l’adesione solidale della Camera del lavoro. Alla base dell’agitazione, organizzata e guidata dalle rappresentanze sindacali, era la situazione alimentare della provincia che, «particolarmente per i lavoratori e per gli impiegati», era «disastrosa». Le razioni dei generi di prima necessità erano «ridicole» mentre, dinnanzi allo «sfacciato rialzo del costo della vita», i salari rimanevano invariati. L’inverno imminente e lo spettro della fame rappresentavano i principali timori della popolazione mentre «al mercato nero che» agiva «impunemente incontrastato i ricchi, gli speculatori del periodo nazifascista, coloro che» avevano «fatto i quattrini a palate a spalle del popolo», potevano «attingere a piene mani». Il giorno successivo, episodi analoghi si svolsero a Rovereto – con 9 mila partecipanti – Arco – 2 mila – e Riva del Garda – alcune migliaia.
In occasione dell’incontro avvenuto a Trento tra i rappresentanti dei lavoratori, il prefetto, il presidente del CLN e le autorità alleate, il maggiore Mavis tracciò un resoconto globale. Nel suo intervento, l’ufficiale ribadiva che la situazione della provincia rispecchiava un contesto più generale dovuto alla «mancanza di materie prime» e «alla deficienza dei trasporti». Ciò nonostante, gli aiuti giunti in Trentino tra il 20 maggio e il 27 settembre 1945 non erano stati irrilevanti: 143 Legumi q.li 2229.29; salsicce viennesi q.li 57.06; farina q.li 178.26; zuppa q.li 2016.66; lardo q.li 1721.87; sale q.li 1154.65; carne con legumi q.li 108.18; zucchero q.li 1107.18; latte in polvere q.li 537; carne di bue q.li 360.37; latte evaporato q.li 1421.29; chili con carne q.li 23.71; uovo in polvere q.li 80.01; pesce q.li 44.91; sapone q.li 173.03. La responsabilità dei ritardi nella distribuzione dei rifornimenti alimentari andava semmai attribuita alle province fornitrici. Al termine dell’incontro, si stabilì di affidare alla Camera di commercio l’esportazione di vino, legname e prodotti ortofrutticoli «in funzione di scambi interprovinciali e internazionali». Inoltre, si decise di rafforzare l’azione di controllo e di prevenzione del mercato nero istituendo «un Consorzio obbligatorio fra tutti i produttori e commercianti di legna onde accelerare le operazioni di rifornimento del combustibile per l’imminente inverno». Ancora nel febbraio 1946, «circa 300 operai degli stabilimenti industriali della città» sospesero l’attività manifestando «davanti alla Camera confederale del lavoro per protestare contro una presunta tassa che il Comune di Trento avrebbe stabilito di far pagare all’atto del ritiro delle carte annonarie». L’aggravarsi della situazione alimentare tra l’estate e l’autunno 1945 andò praticamente di pari passo con l’esplodere drammatico della disoccupazione. Quest’ultima era dovuta sia al graduale ritorno dei reduci di guerra sia allo sblocco dei licenziamenti da parte delle aziende avvenuto a livello nazionale (L’accordo era stato firmato a Roma il 27 settembre 1945 da Confindustria e Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL). Quest’ultima lo aveva sottoscritto nella speranza che lo sblocco dei licenziamenti favorisse in prima istanza la ripresa economica e, poi, il riassorbimento della manodopera). Nel settembre 1945, gran parte del settore industriale bloccò la sua attività per «mancanza di materia prime». A partire da questa data, la disoccupazione raggiunse con il passare dei mesi livelli sempre più elevati. Se in settembre la cifra complessiva dei senza lavoro raggiungeva «appena» le 3.076 unità, nel dicembre successivo essa era già aumentata a 4.436. Nel febbraio 1946, l’Ufficio provinciale del lavoro segnalava «7.164 maschi disoccupati e 2.031 femmine disoccupate». Le cause del costante aumento del tasso di disoccupazione erano dovute principalmente «alla limitazione e cessazione di alcuni lavori di carattere stagionale, alla deficienza di materie prime e allo sblocco dei licenziamenti». Il fenomeno interessava tutti i settori produttivi e tutte le classi sociali.
Nel dicembre 1946 – quando ormai l’esperienza politica dei CLN si era conclusa da alcuni mesi – la disoccupazione maschile avrebbe raggiunto la cifra di 14.583 unità mentre quella femminile si sarebbe attestata sulle 3.771 (6.948 disoccupati nel settore industriale, 1.021 nel settore commerciale, 1.284 nel settore agricolo e 5.340 nel settore impiegatizio e varie; 1.487 disoccupate nel settore industriale, 1.135 nel settore commerciale, 129 nel settore agricolo, 1.020 nel settore impiegatizio e varie.).
Di fronte ad una situazione sociale così grave le soluzioni prospettate dal CLN provinciale di Trento, nell’ambito delle sue possibilità, ricalcarono quelle discusse in ambito nazionale. Con una ripresa industriale ancora lontana e con le manifatture praticamente ferme, l’orientamento fu quello di rivolgersi allo Stato affinché finanziasse un vasto programma di lavori pubblici.Già nel giugno 1945, la CGIL aveva presentato al governo Parri un piano d’iniziative nel tentativo di arginare la disoccupazione dilagante. Il programma prevedeva «una vasta campagna di lavori pubblici, l’emigrazione controllata e pianificata» e «il rifiuto dell’impiego dei prigionieri tedeschi da parte degli alleati». Nella riunione tenutasi il 13 settembre 1945, dinnanzi alla previsione di 20.000 disoccupati, i membri del CLNP decisero di presentare alcune richieste orientate alla ripresa dei lavori di sistemazione della linea ferroviaria della Valsugana e all’avvio dei «lavori di pubblica utilità in economia» e di «ricostruzione». La proposta di utilizzare manodopera italiana anziché quella fornita dai prigionieri di guerra tedeschi fu discussa pochi giorni dopo in una nuova seduta del CLNP. Il tema dei prigionieri tedeschi interessò la stampa locale soprattutto perché ad essi si ricollegava l’aumento della delinquenza nell’Italia settentrionale a partire dall’autunno 1945. Secondo il socialista Giuseppe Ferrandi (Volta Mantovana, 1900-Rovereto, 1955. Avvocato. Partecipò attivamente alla Resistenza collaborando assieme a Manci alla nascita del primo CLN trentino. Catturato nel corso dell’operazione tedesca del 28 giugno 1944, fu condotto a Bolzano nella sede della Gestapo a disposizione del Tribunale speciale che, nell’agosto 1944, lo condannò a sei anni di carcere. Tornato a Trento, partecipò all’attività politica del CLN provinciale assumendo l’incarico di commissario per le Commissioni di giustizia ed epurazione. Eletto deputato del PSI in Parlamento nel 1948), se questa situazione poteva spiegarsi con il comportamento che l’esercito tedesco aveva adottato nell’arco dell’intero conflitto, tuttavia, rimanevano alcune perplessità sul fatto che gli ex nemici si trovassero in libertà. Mentre gli italiani domandavano lavoro, pane e case che li proteggessero «dal freddo», «ben nutriti e ben vestiti […] i prigionieri tedeschi» erano «impiegati in lavori» che solo la manodopera italiana avrebbe dovuto svolgere «con benefici materiali e morali inestimabili». Un’occupazione stabile e un salario decente rappresentavano «i primi e più efficaci rimedi ad ogni pericolo di disordini».
Oltre ad essere un pericolo «per la sicurezza dei singoli e per l’ordine pubblico», «i prigionieri lavoratori» erano «una forza parassitaria e nemica della ricostruzione» in un paese dove non mancavano «le braccia capaci di lavorare come e meglio di quanto» sapessero «fare i tedeschi».
Ad aggravare la situazione occupazionale contribuivano diversi fattori. Da una parte, si assisteva al rientro degli sfollati per cause di guerra – oltre 24.000 per la sola città di Trento – e all’inurbamento del capoluogo e dei principali centri urbani causato dalla «penosa situazione agraria». Dall’altra, la parte maggioritaria dei disoccupati, a qualsiasi categoria lavorativa appartenessero, era costituita dai reduci di guerra che rimpatriavano dal fronte e dalla prigionia. Nel settembre 1945, il questore aveva calcolato a circa 5.000 i reduci rientrati a Trento160 che non trovavano lavoro. Nei mesi successivi il loro numero sarebbe aumentato in maniera esponenziale. A partire dal gennaio 1946, il problema del reinserimento lavorativo dei reduci sarebbe stato praticamente all’ordine del giorno161 anche perché, organizzata una «commissione permanente», questi ultimi svolsero «un’intensa opera di pressione sulle autorità locali». Le richieste avanzate riguardavano la necessità di ottenere un «posto di lavoro sicuro»162 che garantisse condizioni minime di esistenza. Nell’appello consegnato al prefetto, al presidente del CLN e al sindaco di Trento, i reduci, oltre a richiedere la «corresponsione dei sussidi in denaro ai reduci bisognosi» presso l’«Ufficio provinciale dell’assistenza postbellica» ( Il ministero dell’assistenza postbellica – istituito con DLL 21 giugno 1945 n. 380 – era incaricato del sostegno ai civili e militari internati rimpatriati dai campi di prigionia e momentaneamente acquartierati in vari campi di smistamento nell’Italia settentrionale che necessitavano di raggiungere le proprie abitazioni; agli sfollati in seguito a bombardamenti o provenienti dalle ex colonie italiane, senza una dimora; ai profughi; ai partigiani smobilitati in seguito allo scioglimento delle formazioni di appartenenza; alle famiglie dei militari morti in guerra o dei partigiani caduti in combattimento. Disponeva sul territorio nazionale di uffici regionali e provinciali), invitarono gli esponenti politico-istituzionali ad attuare i «provvedimenti emanati dal governo». Alcuni mesi prima, il governo italiano aveva stabilito che almeno il 50% dei posti nell’industria e nell’amministrazione pubblica fossero riservati ai reduci.
A sostegno delle loro rivendicazioni, i reduci si mobilitarono attraverso manifestazioni di piazza. Il 7 febbraio 1946, in accordo con la Camera del lavoro, sfilarono per le strade di Trento. Il 23, «reduci e disoccupati» si portarono «davanti alla Prefettura e al Municipio di Trento per chiedere il licenziamento del personale impiegatizio femminile». A Rovereto, il 9 maggio 1946, 130 disoccupati si recarono in Comune per ottenere un posto di lavoro. «La dimostrazione per intervento dell’Arma e del rappresentante del partito comunista, signor Gianni Sembianti», si era sciolta «col massimo ordine». Come sottolineano Donatella Della Porta ed Herbert Reiter, era inevitabile che le lotte politico-sociali del secondo dopoguerra fossero e la difficoltà di reperire generi di prima necessità. Considerata la debole consistenza del tessuto industriale trentino, l’assorbimento dei reduci/disoccupati sarebbe avvenuto solo gradualmente, lasciato a «soluzioni parziali» come la ricostruzione e l’emigrazione. Secondo Agostino Bistarelli, le mobilitazioni dei reduci dell’inverno 1945-1946 (Tuttavia, ancora nel marzo 1948, oltre «200 reduci» si presentavano dinnanzi alla prefettura) che riguardarono tutto il territorio nazionale erano riconducibili non solo al peggioramento delle condizioni materiali, ma anche alla maggiore capacità organizzativa e associativa degli ex combattenti. A partire dal 1946, le organizzazioni sindacali ed in particolare la CGIL mostrarono, anche se non sempre in modo lineare, una diversa attenzione al problema dei reduci.
Le tensioni sociali proseguirono negli anni successivi, agitazioni istituzionalizzate, cioè condotte dai sindacati e dalle formazioni politiche di sinistra come il PCI. Nel gennaio 1947, a Molina di Ledro, «200 operai, rimasti senza lavoro», organizzarono una manifestazione contro i dirigenti della centrale elettrica locale e le autorità comunali. Dimostrazioni per ottenere miglioramenti delle condizioni materiali e alimentari, si svolsero lo stesso anno in numerosi centri della provincia: a Trento, Brentonico, Arco, Rumo, Mori e Denno. A Fiera di Primiero, l’8 maggio, «200 persone» protestarono contro la decisione del sindaco di «ridurre la razione di pane a 50 gr. giornalieri integrati da 185 gr. di farina da polenta». Il giorno prima, a Pergine, «un centinaio di persone» contestarono davanti al municipio l’«eccessivo aumento della tassa di famiglia» rivendicando «un maggiore interessamento dell’amministrazione per lavori di utilità pubblica». Rovereto, per la forte presenza della classe operaia, rappresentava un vero e proprio focolaio di conflittualità sociale. I primi mesi del 1948 furono, da questo punto di vista, incandescenti. Il 14 gennaio, «100 disoccupati guidati da Alessandro Canestrini (Rovereto, 3 febbraio 1922. Avvocato. Dopo aver partecipato alla Resistenza collaborando con la Brigata Pasubiana, nel dopoguerra si dedicò alla carriera forense impegnandosi attivamente in politica. Consigliere regionale per il PCI (1960-1964), consigliere provinciale per Nuova sinistra (1978-1979). Consigliere comunale di Rovereto in due legislature e di Ala, in una) e Sisinio Tribus» chiesero direttamente al sindaco «il licenziamento delle persone non bisognose occupate nei lavori in corso». Il 26, circa 30 «operai disoccupati» invasero l’ufficio del lavoro di Rovereto. Poche settimane dopo, altri «200 disoccupati», guidati dai rappresentanti sindacali, si diressero presso la sede locale dell’Associazione industriali «chiedendo […] l’immediata assunzione di cento operai disoccupati». A Riva del Garda, i senza lavoro scesero in agitazione per rivendicare l’immediata ripresa dei lavori stradali. Nel settembre 1948, manifestarono le maestranze dello stabilimento Caproni di Trento.
Nella breve informativa inviata a Roma, il prefetto prefigurava una situazione allarmante soprattutto dal punto di vista dell’ordine pubblico. Il perdurare della crisi industriale avrebbe condotto all’aumento dei disoccupati e alle «conseguenti manifestazioni di piazza» nel qual caso la forza pubblica sarebbe dovuta intervenire contro «masse di operai» decise a difendere «il loro diritto alla vita».
Sebbene il quadro sociale rimanesse complesso e difficile ben oltre il biennio 1945-1946, tuttavia, nelle note inviate da prefettura e forza di polizia agli organi centrali di Roma il termine di reduci era scomparso, sostituito da quello di disoccupati. Secondo Bistarelli, il trascorrere dei mesi dalla conclusione del conflitto, soprattutto a partire dalle elezioni politiche del giugno 1946, aveva sostanzialmente modificato i termini sociali di riferimento per cui «perdeva rilievo la figura del reduce come realtà collettiva» lasciando spazio unicamente al disoccupato. Si potrebbe desumere che l’attività del CLN trentino sia stata molto limitata e/o superficiale nei confronti dei reduci che ritornavano dal conflitto e dalla prigionia e che, in generale, «l’attenzione verso il problema del ritorno» sia stata essenzialmente «rivolta ai suoi effetti sull’ordine pubblico». In realtà, come si tratterà successivamente, le forze politiche lasciarono largo spazio alle problematiche legate ai reduci e al loro reinserimento nella vita quotidiana. Prima di tutto, però, il CLNP doveva fare i conti con sé stesso, o meglio con le complesse dinamiche sorte tra CLNP e Comitati periferici.