EL CAN DA L’UA E E QUEL DAL FORMAI
di Cornelio Galas
Ahi, ahi e ancora tanti ahi
se t’encontri, per caso neh,
quel dal formài …
No se sa gnancora perché,
no se gnanca come, per quel,
ma ti stà ‘tènto, me racomando,
a no ‘ncontrarlo mai, mai
quel lì, quel dal formài.
L’è ‘n po’ come l’orco, el babào
che sgarìss i matelòti.
No l’è grant e gròss, i dis,
ma ‘l spùza che el renéga.
E sol per quel stàghe a la larga,
che te ris’ci, senza volerlo,
de ‘mpestàr l’aria anca ti.
L’è l’istessa storia, ala fin,
de quel pòr càn da l’ua.
Che chisà come l’è stàda,
anca lù i lo ciàma de spèss.
No ‘l gà piche en mèz ala boca,
l’ua propri no la ghe piàs.
Meio n’ossèt, ‘n tochét de pam,
se propri propri l’è famà.
Ho zercà, sui libri grossi
Cossa che gh’è drìo a tut.
T’el scrivo soto, en taliàn,
così no capìss sol el vilàn.
Adès t’el sai, te l’ho dit zamai,
che no gh’è da aver paura
nè de l’ua né del formai.
QUEL DAL FORMAI
di Carlo Scattolini
“Te encontrerai anca ti prima o dopo quel dal formài”. “Incontrerai anche tu quello del formaggio”. Con il significato di: “Ora che hai fatto la furbata da prepotente, non continuare su questa strada perché chi saprà riportarti all’ordine è facile da incontrare”. Ma cosa centra l’uomo del formaggio con una giustizia sociale, una nemesi nei confronti di chi l’ha fatta franca?
La storia è dibattuta da anni, e ben ben cercando troviamo un detto analogo anche il altri dialetti dell’area triveneta, in Trentino, in Friuli, nel Triestino e perfino in Istria, ma rimane la questione: cosa c’entra l’uomo del formaggio?
La prima ipotesi nasce in territorio trentino, pare da un fatto di una cronaca giudiziaria locale narrato da Giovanni de Tisi di Giustino, notaio di Rendina, per quanto riguardava una controversia tra le comunità di Pelagio e Rendina per il possesso della malga del monte Spinole.
I fatti avrebbero avuto luogo nel 1380 in una remota e poco abitata zona del Trentino, in una società che basava tutta la sua economia esclusivamente sull’ agricoltura e la pastorizia, sotto il dominio del principe – vescovo di Trento tramite nobili locali. Ed è uno di questi il cardine della storia, il nobile Giovanni de Tisi accusa di omicidio un malgaro che aveva ucciso “l’uomo del formaggio”.
Era uso in quel tempo che l’affitto di una malga fosse pagato in natura. Nel caso in questione si era pattuito come affitto della malga un “uomo del formaggio” ovvero una quantità di prodotto caseario pari all’altezza di un uomo. Quell’anno, particolarmente povero di latte, i padroni mandarono a riscuotere l’affitto un uomo di statura imponente.
Il povero malgaro incominciò ad accatastare le forme di formaggio accanto al gigante, ma arrivato alle spalle, aveva terminato il formaggio, così tolse dal ceppo un’ascia e semplicemente tagliò la testa del riscossore del tributo.
Questa spiegazione non risponde appieno al significato dell’enigmatica frase, ma vediamo la seconda ipotesi. I malgari ovvero i produttori di formaggi, erano gente abituata alla solitudine dei monti, forti come querce, temprati da un lavoro duro ed in un ambiente impervio, quindi uomini silenziosi, taciturni, dai modi spicci e semplici, contemplativi e poco avvezzi alle furberie della gente di città, quindi quelle rarissime volte che scendevano a valle per vendere o barattare i loro prodotti se qualcuno avesse provato ad imbrogliarli o giocar loro brutti scherzi, avrebbero utilizzato la loro giustizia primordiale, brutale e violenta, ed essendo normalmente particolarmente fisicamente forti, ne avrebbero avuto ragione a suon di “sberloni”.
Anche nella versione trentina si capisce che il malgaro non doveva essere un gracile ometto, ma un uomo dalla forza notevole, se è riuscito con una scure la legna a spiccare la testa dal collo all’esattore in un unico colpo.
Quindi miei cari se vi trovate a girovagare per le terre trivenete e vi venisse rivolta la frase: “Che ta cagà, te catarè anca ti quel dal formai!” state attenti perchè un energumeno giustizialista potrebbe essere sulle vostre tracce, quindi vi conviene filare dritto. Potrei affermare che “L’uomo del formaggio” è un super eroe che salva gli oppressi dai bulli e dai prepotenti, praticamente un Guglielo Tell, un Batman, uno Zorro con la base nel Veronese, chissà se esiste una Formaicaverna, se una Formaimobile, e se ha gadget ipertecnologici, o solo la sua forza erculea e magari un ligneo cucchiaione che usa per mescolare il formaggio!
Quindi in caso di necessità sapete chi invocare.
Spero vi possa essere di aiuto e queste poche righe vi abbiano fatto nascere un sorriso.
CAN DA L’UA
È un’espressione tipica del dialetto bresciano e quasi tutti credono si riferisca al succoso frutto della vite. Tanto che molti aggiungono anche l’aggettivo “passa”, ossia, can dè l’ùa passa . La verità è di tutt’altro genere, persino insospettabile.
È noto che l’Italia del 1500, spezzettata come sempre in mille regni e regnucoli, era teatro di molte guerre. Soprattutto francesi e spagnoli, quando non andavano propriamente d’accordo, decidevano di darsele a più non posso, ma in … Italia.
Quindi calavano sul nostro bel suolo soldati e truppe mercenarie (famosi i Lanzichenecchi del sacco di Roma del 527) che portavano con sé abitudini, lingua, gerghi, modi di dire. I francesi, per dare del fessacchione ad uno, lo apostrofavano con un “chien de l’oie”, ossia cane da oca.
Il cane da caccia era considerato nobile, bello e furbo; quello per le pecore, stupidotto tanto che correva dietro alle… pecore; quello da oca era ritenuto il più stupido proprio perché adibito a tenere uniti i branchi d’oche che, soprattutto nel Périgord, venivano allevate per ricavare il famoso pathé di fegato d’oca.
I bresciani assunsero l’insulto dei francesi, ma con l’andar dei secoli perse il significato originale per divenire un’esclamazione bonaria, quasi affettuosa. Perdendo però anche l’idea di oca, per assumere quella errata di uva. Per di più… passa.
da “Brescia online”