CEFALONIA 1943, TANTE “VERITÀ” – 9

a cura di Cornelio Galas

Ancora su Cefalonia, settembre 1943. Cefalonia dimenticata? Il successo mediatico e i suoi prezzi. Il quadro generale. L’insufficienza delle fonti. Cosa successe a Cefalonia? I combattimenti. La ferocia tedesca. Il calcolo delle perdite. Il mancato intervento anglo-americano. Cefalonia da ricordare.

Questi i temi trattati da Giorgio Rochat in un saggio storico. Che proponiamo a supporto ed integrazione di quanto scritto finora su quella tragica vicenda della seconda guerra mondiale.

di Giorgio Rochat

Nel settembre 1943 le unità italiane dislocate nelle isole di Cefalonia e Corfù, quasi tutte
appartenenti alla divisione Acqui, rifiutarono di arrendersi ai tedeschi, li affrontarono in
combattimento e furono sopraffatte. Poi i tedeschi massacrarono a Cefalonia alcune migliaia di militari italiani che si erano arresi e 6/700 a Corfù.

Giorgio Rochat

Non ho intenzione di apportare nuovi elementi a queste vicende, né di ripercorrerle per esteso, non c’è molto da aggiungere alle ricostruzioni di M. Montanari e G. Schreiber del 1993; tra le successive merita attenzione soltanto quella di G. E. Rusconi. Vorrei passare in rassegna alcuni problemi che oggi suscitano molta attenzione e qualche polemica. Per contenere un discorso già troppo lungo mi occupo soltanto di Cefalonia, anche se non è giusto dimenticare Corfù (e tutti gli altri episodi di resistenza dalla Jugoslavia all’Egeo).

Cefalonia dimenticata?

Rispondere a questo interrogativo non è facile, il ricordo di Cefalonia ha più facce. Tutta la
guerra italiana 1940-1943 è stata studiata e celebrata in modo discontinuo perché era la guerra di Mussolini e perché era stata persa (e spesso malamente). Molta attenzione per El Alamein e gli alpini in Russia, ben poca per la guerra contro la Grecia e le occupazioni balcaniche.

Un disinteresse che si è esteso all’8 settembre, un disastro troppo pesante per la memoria nazionale. In particolare è stato praticamente dimenticato quanto avvenne nei Balcani, da Lubiana al Dodecaneso, dove il crollo delle forze armate si accompagnò a una serie di combattimenti e poi di eccidi tedeschi. Abbiamo dovuto aspettare quasi cinquant’anni perché un ufficiale e storico tedesco, Gerhard Schreiber, ci desse una ricostruzione complessiva e attendibile di queste vicende. E poi ci ritornasse con una narrazione documentata degli eccidi tedeschi dopo l’8 settembre.

In questo quadro, Cefalonia non è stata dimenticata, anzi ha fruito di un ricordo privilegiato  rispetto alle altre vicende nei Balcani. Nei primi giorni di ottobre i tedeschi fucilarono forse un  centinaio di ufficiali italiani nell’isola di Coos, nel Dodecaneso; di loro si è perso il ricordo, neppure  una lapide testimonia questo massacro Invece l’Ufficio storico dell’esercito curò già nel 1945 una  prima ricostruzione dei fatti di Cefalonia, l’anno dopo uscì il volume di memorie del cappellano  Formato di buona diffusione.

Nel 1948 ci fu la prima missione sull’isola per il ricupero delle salme,  il cui rimpatrio iniziò nel 1953 7. Vennero concesse 18 medaglie d’oro ai caduti, 4 alle bandiere dei  reggimenti. Vicino a Argostoli fu eretto un monumento efficace, cui resero omaggio il presidente  Pertini, poi il ministro Spadolini, recentemente il presidente Ciampi. Il sobrio romanzo storico di  Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, ha venduto decine di migliaia di copie dal 1963 a  oggi.

Non citiamo per brevità l’attività delle associazioni di reduci, ma ricordiamo il Premio Acqui  Storia di un certo prestigio, promosso dalla città di Acqui in ricordo della divisione che portava il  suo nome; in questo ambito nacque nel 1993 il primo volume di storia sugli eccidi di Cefalonia e  Corfù.

Forse l’elemento più significativo viene dalla toponomastica stradale. Già quindici anni fa  Bologna, Brescia, Catania, Firenze, Genova, Milano, Padova, Palermo, Pisa, Roma, Torino, Verona  avevano una via Cefalonia, Caduti di Cefalonia, e simili. Una piccola prova della diffusione del  mito, non sono molti gli altri momenti della guerra che ritornano nelle nostre strade.memoria della strage di Cefalonia.

Il ricordo ha però anche un’altra faccia: Cefalonia, una pagina nera della storia militare  italiana. Già nel 1945, poi nel 1948 l’Ufficio storico dell’esercito avanzava dubbi sull’opportunità  di glorificare una vicenda segnata da episodi di indisciplina e rivolta di ufficiali e soldati . Un  tema ripreso negli anni Cinquanta dalla denuncia dei genitori di alcuni caduti contro 28 ufficiali  sopravvissuti all’eccidio, accusati di averlo provocato costringendo con la loro rivolta il generale  Gandin a un combattimento senza speranza.

Il processo dinanzi al tribunale militare di Roma si  concluse nel 1957 con l’assoluzione degli ufficiali italiani; fu proseguito a carico di 30 ufficiali  tedeschi accusati della strage, tutti assolti nel 1960 anche per gli ostacoli frapposti dai ministri G.  Martino e P. E. Taviani, più preoccupati di non creare difficoltà al governo tedesco che di rendere  giustizia ai caduti italiani.

Cefalonia pagina nera, un tema ripreso a più riprese nel corso degli anni con accenti diversi,  che si intreccia con quello patriottico, Cefalonia pagina di gloria. Non si può certo dire che  Cefalonia sia stata dimenticata, bensì che non ha ancora trovato una collocazione sicura nella  memoria nazionale.

Il successo mediatico e i suoi prezzi

In questi ultimi anni le vicende di Cefalonia hanno avuto un successo crescente sotto più  aspetti. Un melodrammatico film hollywoodiano, un altro italiano di minore diffusione, una serie di  trasmissioni televisive culminate in un recente sceneggiato degno della prima serata Rai. Poi una  serie di libri e libretti, alcune memorie, molti articoli di giornale, anche romanzi storici  drammatizzanti. Molte celebrazioni e rievocazioni di vario taglio e livello.

Contributi greci e un  convegno a Cefalonia nel 2003. Infine un nuovo interesse da parte tedesca di magistrati, storici e  giornalisti, nel quadro di un riesame dell’occupazione nazista dei Balcani.  Innanzi tutto, perché questo nuovo grande interesse per i fatti di Cefalonia? Un interesse  che, si badi, non va più in là dell’isola, quasi tutti gli autori non arrivano a Corfù e ignorano gli  episodi analoghi di resistenza nei Balcani.

La ragione più evidente è la dimensione della strage, alcune migliaia di militari trucidati in
due giorni fanno più effetto dei tanti altri eccidi commessi dai tedeschi nello stesso periodo
Dalmazia all’Egeo. La seconda ragione è che i fatti di Cefalonia possono essere isolati dal contesto  del disastro dell’8 settembre, senza le molte e diverse complicazioni delle vicende parallele.

Cefalonia è un’isola, le sue vicende hanno tempi diversi da quelle delle truppe sul continente,  possono essere studiate come un “atto unico” fine a se stesso (inquadrarle nel contesto balcanico  sarebbe faticoso). Inoltre presentano alcuni aspetti che si prestano a discussioni e conclusioni  drammatiche: le “esitazioni” del gen. Gandin, il comportamento “sedizioso” di ufficiali e truppe, la  decisione tedesca di fucilare migliaia di soldati. Le fonti sono scarse, quindi si possono aggiustare  con facilità fino a arrivare a giudizi perentori e scandalistici, documentati o meno.

Il successo mediatico non ha portato chiarezza nelle interpretazioni. Da una parte sta sempre  la versione patriottica: al disastro dell’8 settembre viene contrapposta Cefalonia come inizio della  riscossa nazionale, la divisione Acqui come blocco compatto di eroi che scelsero di combattere per  l’onore, i “martiri di Cefalonia” come dicono celebrazioni e monumenti. In realtà si combatté e si  morì dalla Dalmazia all’Egeo prima che a Cefalonia, ma non sono i giorni che contano; la resistenza  di Cefalonia merita certamente di assurgere a simbolo glorioso del rifiuto di una resa  durissimamente pagato, a patto che sia debitamente inquadrata, che non si dimentichi quanto questo  rifiuto fosse difficile, che si eviti la retorica del “tutti eroi”.

Dall’altra non pochi autori continuano a presentare Cefalonia come una pagina nera, fino a
dipingere gli uomini della divisione Acqui come una banda di rivoltosi e il gen. Gandin di volta in  volta come un filotedesco, un debole travolto dagli avvenimenti, addirittura un traditore che avrebbe  chiesto ai tedeschi di fucilare i suoi uomini che non gli obbedivano.

Un accanimento che tutto  concede alla ricerca dello scoop, del particolare sensazionale che spiega tutto, naturalmente  lasciando da parte il contesto storico e i pochi studi validi. Non vale la pena di elencare questi nuovi  contributi, che poi neppure sono così nuovi, i fatti di Cefalonia hanno sempre suscitato sospetti e  condanne, la novità è che oggi trovano più diffusione.

Le due versioni concordano spesso su un punto: sono state le forze di sinistra a impedire che  si ricordasse Cefalonia per difendere la priorità e il ruolo della resistenza partigiana. Una tesi che si  ritrova in quasi tutti gli scritti su Cefalonia di questi ultimi anni, di una miseria morale e scientifica  deprimente. Nessuno di questi autori si preoccupa di fornire uno straccio di prova (troppa fatica).

Nessuno conosce la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, l’opera che ha impostato  gli studi in materia, dove “l’epopea” di Cefalonia ha il giusto risalto. Nessuno si chiede come la  sinistra partigiana potesse impedire alle grandi case editrici, alle università, alla televisione, alle  forze armate di studiare le vicende di Cefalonia e dei Balcani, se davvero ne avessero avuto  l’intenzione.

In realtà la contrapposizione tra Cefalonia e la resistenza partigiana è un’invenzione  recente e ingiusta, frutto dell’attuale momento politico. Oggi è di moda diminuire e criminalizzare  la guerra partigiana e considerare i “comunisti” colpevoli di tutto e di più, i nuovi storici di  Cefalonia si accodano.

Tra tante declamazioni e scandalismi fatica a trovare spazio un’interpretazione più rispettosa  dei fatti e degli uomini, che non trascuri il contesto storico e ricerchi la giusta collocazione dei fatti  di Cefalonia nella memoria nazionale. Tentiamo di ripercorrerla.

Il quadro generale

All’8 settembre 1943 le forze italiane di occupazione nei Balcani, da Lubiana al  Dodecaneso, contavano circa 650.000 uomini, una trentina di divisioni con uno scarso supporto  aereo e navale. Era il risultato della guerra “subalterna” di Mussolini: la Germania doveva vincere  la guerra, l’esercito italiano presidiava le retrovie. Il rovesciamento di alleanze comportava il sacrificio di queste truppe.

La Germania non intendeva rinunciare ai Balcani (e alla penisola  italiana, ma qui non possiamo occuparci di quanto qui avvenne), quindi si era preparata a attaccare  le truppe italiane. I rapporti di forza erano chiari, le unità tedesche erano in complesso inferiori di numero, ma efficienti e mobili, con un forte appoggio aereo, mentre le molte divisioni italiane erano  logorate da due anni e mezzo di occupazione e lotta contro i partigiani; e non avevano possibilità di  movimento, dovevano attendere passivamente gli attacchi tedeschi.

Non avevano scampo, la loro  distruzione era il prezzo da pagare per la guerra di Mussolini. La crisi delle truppe italiane al momento dell’armistizio fu aggravata dalla mancanza di  ordini. Al momento di annunciare l’armistizio con gli anglo-americani, il re, Badoglio e i vertici  militari non ebbero la lucidità e il coraggio di ordinare ai comandi in Italia e nei Balcani di  prepararsi a fronteggiare la sicura aggressione tedesca, di dire chiaramente che l’alleato di tre anni  di guerra era diventato il nemico, di fare appello all’onore degli ufficiali perché combattessero dove  era possibile.

Antonio Gandin

Anziani colonnelli e generali educati a un’obbedienza apolitica si trovarono quindi a  decidere su due piedi se aprire il fuoco sui tedeschi alleati fino a poco prima oppure cedere e  arrendersi. In Italia quasi tutti crollarono, due milioni di militari si dissolsero in un paio di giorni,  “tutti a casa”. Nei Balcani ciò non era possibile, la scelta era brutale, arrendersi o combattere. Vale  la pena di ricordare che la mancanza di ordini superiori era un implicito invito alla resa e che dove  gli ordini arrivarono tempestivamente, erano ordini di resa.

E’ il caso della XI armata di Grecia (di  cui faceva parte la divisione Acqui), il suo comandante ci mise poco a passare con i tedeschi e a  ordinare a tutti i suoi generali di cedere le armi ai tedeschi, come quasi tutti fecero.

Non si può studiare il comportamento del gen. Gandin dimenticando come decine di suoi  colleghi vissero la stessa situazione. Alcuni si arresero subito, collaborarono con i tedeschi o furono  travolti in poche ore. Nell’isola di Zacinto, subito a sud di Cefalonia, 4.250 militari italiani si  consegnarono ai tedeschi nelle prime ore del 9 settembre senza sparare un colpo.

Nell’isola di  Leukade, poco a nord di Cefalonia, il 10 settembre i tedeschi uccisero il comandante italiano e due  ufficiali, poi catturarono senza difficoltà tutto il presidio. Dove l’aggressione tedesca fu meno  rapida, ci fu quasi sempre una resistenza con vicende simili e diverse: esitazioni dei comandanti,  sbandamento di reparti con non pochi casi di passaggio al nemico, combattimenti disordinati, anche  lunghi e violenti, difficili rapporti con i partigiani comunisti. Una resistenza che durò pochi giorni o  poche settimane, a seconda delle situazioni; ma le truppe italiane non avevano scampo.

I tedeschi  avevano bisogno di qualche tempo per effettuare concentrazioni di forze superiori sorrette  dall’aviazione, poi liquidavano le forze italiane. Ogni volta ci furono fucilazioni di ufficiali e  soldati, fino a 150/200 in alcuni casi. Un discorso su Cefalonia va inquadrato in questo contesto.

L’insufficienza delle fonti

La premessa di ogni ricostruzione è che non sarà mai possibile sapere con precisione quanto  avvenne nel settembre 1943 a Cefalonia. La documentazione italiana andò distrutta, le fonti  disponibili sono in sostanza alcune relazioni posteriori di ufficiali scampati all’eccidio e una  memorialistica quanto mai scarna (con pochi acquisti recenti che risentono delle polemiche). Come  tutte le testimonianze, nessuna di queste merita fede assoluta, dal loro confronto emergono frequenti  divergenze grandi e piccole, su tutte pesa il trauma dell’eccidio. Le incertezze o la confusione raggiungono il culmine quando si parla dell’orientamento dei soldati sulla base di indizi quanto mai  approssimativi.

Da parte tedesca abbiamo la documentazione degli alti comandi, di quelli operativi e poi dei  reparti impegnati nella repressione, studiati in modo esemplare da Schreiber. Ci offrono notizie  sicure sugli ordini impartiti, le truppe impegnate, i combattimenti. E’ già molto, se non si dimentica  che le carte dei comandi hanno sempre una componente difensiva, a discarico delle responsabilità di  comandanti e truppe; e che quelle dei reparti sono generalmente attendibili per la composizione e i  movimenti delle truppe, non certo per il loro comportamento.

Basti ricordare la lunga serie di  reticenze e silenzi della documentazione tedesca in merito al massacro dei soldati italiani a  Cefalonia. Sono problemi che si incontrano nella storia di tutte le guerre, le forze armate producono  grande copia di carte, ma non sempre le notizie e cifre che cerchiamo. Sui fatti di Cefalonia  abbiamo tre studi base: Montanari, che li ha ricostruiti sulle fonti italiane; Schreiber, che  ha studiato a fondo le fonti tedesche; e Rusconi, che ha rivisitato e confrontato le due versioni.

Nessuna ricerca storica è mai definitiva, anche il quadro articolato che questi studi forniscono può  essere rettificato nei particolari minori. Non però con i metodi di alcuni recenti autori, che  estrapolano singoli documenti o fatti dal contesto per arrivare a conclusioni tanto perentorie quanto  inconsistenti.

Cosa successe a Cefalonia?

Si dimentica spesso che tutto iniziò con un aperto rifiuto di obbedienza. Ho già detto che le
divisioni della XI armata furono le uniche a ricevere il 9 settembre un ordine esplicito dal loro  comandante d’armata: cedere le armi ai tedeschi. Obbedirono, furono disarmate e deportate in  Germania. Il comandante della Acqui, Gandin, invece rifiutò di obbedire.

Non era certo il tipo del  generale ribelle, era un perfetto ufficiale di stato maggiore che negli anni precedenti aveva avuto un  grosso ruolo nel Comando supremo e svolto una serie di missioni di fiducia presso gli alti comandi  tedeschi. Se avesse obbedito, era la scelta più facile, la divisione Acqui sarebbe stata disarmata e  deportata come tante altre.

Gandin disobbedì, fu tra i pochi generali che capirono subito che con  l’armistizio i tedeschi diventavano nemici. Un rifiuto di obbedienza che dà la misura della  eccezionalità del momento, che non sempre gli viene riconosciuto, per fortuna nessuno glielo ha  mai rimproverato.

Tra le due scelte di Gandin, il rifiuto di obbedienza del 9 e la decisione di combattere del 14
settembre, stanno le sue cosiddette “esitazioni” su cui si è molto discusso. La cruda realtà è che la  Acqui non aveva via di scampo, un combattimento era senza speranza. Le truppe erano stanche e  poco addestrate, sparpagliate su un terreno aspro e montuoso, con scarse possibilità di manovra e  poca artiglieria (la gran parte delle batterie erano orientate a contrastare uno sbarco angloamericano).

Il massimo risultato che potevano ottenere era di cacciare i tedeschi dall’isola, per poi  attendere il loro ritorno in forze. Cefalonia era una gabbia senza vie di uscita, l’aviazione tedesca  aveva il controllo del mare. Che gli italiani cedessero, mantenessero o riconquistassero le posizioni di Kardakata non poteva cambiare molto. Nulla poteva impedire ai tedeschi di raccogliere  le forze necessarie per la conquista di Cefalonia, era soltanto una questione di tempo.

E Gandin ne  era certamente consapevole. Mi sembra del tutto logico che cercasse di guadagnare tempo trattando  con i tedeschi non tanto per trovare un’impossibile via di uscita, quanto per rinviare un  combattimento inevitabile quanto votato al fallimento. Sugli atteggiamenti “rivoltosi” dei soldati sono stati spesi fiumi di inchiostro che non  tengono conto dell’eccezionalità della situazione.

Le ricorrenti accuse di sovversione e rivolta si  soffermano innanzi tutto su una serie di episodi di indisciplina indubbi. Buon numero di soldati  intorno a Argostoli chiesero rumorosamente di combattere, accusarono a gran voce Gandin di essere  succube dei tedeschi, commisero atti di violenza, forse drammatizzati dalle relazioni posteriori  (notizie quasi sempre di seconda mano).

Anche alcuni ufficiali inferiori chiesero aggressivamente di combattere, le loro vicende sono state forse esagerate, visto che il maggiore atto di indisciplina  sembra ridursi al fatto che costoro affrontarono Gandin per chiedere di combattere con la tenuta da  combattimento anziché l’uniforme regolare.

Molti autori, sin dal 1945, hanno visto in questi fatti una spaccatura tra Gandin e le truppe,
non pochi sono arrivati a parlare di una rivolta che forzò la mano a Gandin. Anche la sua  convocazione dei cappellani per avere notizie dello stato d’animo dei soldati viene vista come un  segno di debolezza, mentre il cosiddetto “referendum” diventa un’operazione poco meno che  bolscevica.

Sono valutazioni che dimenticano la situazione di eccezionalità: comportamenti  inammissibili in tempo di pace acquistano un significato diverso nell’imminenza della battaglia. E  le notizie che abbiamo sui soldati sono così poche e frammentarie da richiedere molta cautela nelle  conclusioni.

Premesso che nessuno può fornire un’interpretazione autentica dei pensieri di Gandin, a  me pare che il suo comportamento abbia una linearità. Se avesse voluto cedere ai tedeschi, lo  avrebbe fatto subito; dopo il 9 settembre tutti gli avvenimenti (l’aggressività tedesca, le reazioni  delle sue truppe, i primi combattimenti a Corfù, in ultimo i tardivi quanto inequivocabili ordini  giunti da Brindisi) lo portavano a affrontare un combattimento che sapeva senza speranza.

Quindi  tollerò gli atti di indisciplina e promosse una consultazione dei soldati che nulla aveva di  bolscevico. Secondo le poche testimonianze, i comandanti di compagnia chiesero agli uomini  inquadrati di pronunciarsi tra il passaggio ai tedeschi, la resa e la resistenza; la scelta collettiva fu  quest’ultima. Non fu certo un referendum democratico, piuttosto una forma di mobilitazione degli  animi adeguata al momento drammatico (anche se probabilmente non raggiunse i reparti più lontani  da Argostoli).

I cannoni iniziarono a sparare prima che Gandin desse l’ordine. Alle ore 6 del 13 mattina le
batterie italiane aprirono il fuoco contro due motozattere tedesche cariche di rifornimenti per il  reparto tedesco dislocato presso Argostoli. Dinanzi a un movimento chiaramente ostile, gli ufficiali  non aspettarono un ordine dall’alto (che sarebbe giunto troppo tardi) e agirono di iniziativa.

L’iniziativa non era incoraggiata nell’esercito italiano, quindi alcuni autori parlano di una palese  insubordinazione, a me sembra un comportamento adeguato alla situazione.  Il 14 settembre il gen. Gandin chiuse le trattative con la nota frase: “Per ordine del Comando  Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la divisione Acqui non cede le armi”.

Queste parole non risultano dalla documentazione scritta, ma dalle testimonianze dei sopravvissuti,  è possibile che siano una sintesi di un messaggio più lungo. In ogni caso dipingono bene la  situazione, Gandin affrontava il combattimento obbedendo agli ordini superiori e alla sua coscienza,  anche con il consenso delle sue truppe, come non sempre avevano i comandanti. Si dimentica  spesso che Gandin sapeva di andare incontro a una morte sicura: nessuno poteva prevedere le  dimensioni della vendetta tedesca, ma la fucilazione dei comandanti era annunciata.

I combattimenti

Sono noti, non mi soffermo. La cosa più difficile è capire il comportamento delle truppe. Sappiamo che una parte degli ufficiali avrebbe voluto accettare la resa, ma al momento decisivo  tutti obbedirono. Per i soldati abbiamo notizie parziali e contraddittorie, da una parte stanchezza e  passività, dall’altra la decisione (su cui concordano studi e testimonianze) con cui i battaglioni del  317° reggimento affrontarono i combattimenti. Possiamo soltanto ipotizzarne le ragioni: l’odio  maturato verso i tedeschi, l’obbedienza e la dignità di soldati, l’ansia di uscire da una situazione di  incertezza, la speranza che un successo aprisse la possibilità del rimpatrio.

Vale la pena di  ricordare che Cefalonia non è un caso isolato. Nelle stesse settimane, dalla Dalmazia all’Egeo, in  tutte le occasioni in cui ci furono combattimenti regolari non mancò l’obbedienza e la  partecipazione delle truppe; nelle memorie dei giovani ufficiali è quasi sempre presente la  convinzione che con ordini tempestivi e chiari la resistenza ai tedeschi avrebbe potuto essere  condotta con ben altri esiti.

Va pure ricordato che a Cefalonia non ci furono defezioni, né singoli né reparti cercarono di  passare ai tedeschi o di arrendersi prima del crollo finale. Fu buona sorte che il XIX battaglione  della milizia, circa 600 uomini, giunto a Cefalonia nel dicembre 1942, ne fosse allontanato nel corso  dell’estate; all’8 settembre era a Prevesa e passò subito in blocco ai tedeschi.

Gli attacchi italiani non riuscirono a sfondare verso Kardakata su un terreno difficile, una  successione di colline senza riparo dal fuoco; la differenza fu fatta dall’aviazione, il giorno 16 i  tedeschi impiegarono ben 127 aerei su Cefalonia. Ciò nonostante il reparto tedesco dislocato presso  Argostoli fu sopraffatto, con la cattura di 6 semoventi e circa 450 prigionieri trattati correttamente.

Un battello che giungeva di rinforzo fu affondato con la perdita di 139 tedeschi. L’artiglieria fece  altri 12 morti e 30 feriti tra i trasporti di truppe tedesche che arrivavano sulla costa settentrionale.  Poi lo sbarco di tre battaglioni di truppe tedesche da montagna con un gruppo di artiglieria  capovolse la situazione. La superiorità numerica italiana non era forte come appare sulla carta,  perché molti reparti erano dispersi lungo tutta l’isola; a fronteggiare l’attacco tedesco del 21  settembre c’erano soltanto quattro o cinque battaglioni, in parte già provati, e ben poche batterie. La  manovra tedesca ebbe un rapido successo, poi le truppe italiane crollarono e furono massacrate.

La ferocia tedesca

La guerra tedesca aveva assunto un carattere di ferocia criminale già dal 1941 in Russia  (fucilazioni sul campo, selvagge rappresaglie contro la resistenza nelle retrovie, inizio dello
sterminio degli ebrei, milioni di prigionieri russi lasciati morire di inedia nei campi) e in Jugoslavia,  con una repressione della guerra partigiana sempre più pesante.

Vale la pena di ricordare che Hitler  aveva prescritto che nessun ufficiale fosse chiamato a rispondere delle misure anche eccessive prese  contro la resistenza nei territori occupati. Il 18 settembre il comando tedesco Sud-est ricevette l’ordine di Hitler che “a causa  dell’infame e proditorio comportamento a Cefalonia, non dovevano essere fatti prigionieri italiani”.

Inutile cercare di capire la ragione di questo ordine che è certamente la prima causa del massacro,  forse la rottura sentita come un’offesa dopo le trattative, forse l’esigenza di dare un terribile  esempio per stroncare la resistenza che alcune unità italiane continuavano (per i tedeschi era  essenziale chiudere al più presto queste operazioni). Del resto Hitler non aveva bisogno di una  ragione precisa per l’ordine di sterminio nel momento in cui reiterava disposizioni di massima  durezza verso le forze italiane con fucilazioni su larga scala, la cui applicazione dipendeva dalle  situazioni e dai comandi sul posto.

La riproduzione di una foto d’epoca mostra l’imputato Alfred Stork (al centro). Un ex autiere della Divisione Acqui, Bruno Bertoldi ha deposto il 31 gennaio 2013 al processo a carico di Alfred Stork accusato dell’uccisione di “almeno 117 ufficiali italiani” sull’isola di Cefalonia, nel settembre ’43.

L’ordine di Hitler non fu trasmesso direttamente alle truppe, Schreiber ne ha ricostruito i
successivi passaggi di comando in comando, non vale la pena di distinguere i diversi livelli di  responsabilità. In sintesi, fu messo per iscritto l’ordine di agire con durezza e di fucilare gli  ufficiali, quello di effettuare esecuzioni di massa fu comunicato a voce; non fu pianificata  l’uccisione di tutti gli italiani sull’isola, fu scatenata “soltanto” una rappresaglia di dimensioni  eccezionali.

Le truppe tedesche erano già motivate alla vendetta contro gli italiani “traditori”, non ebbero  esitazioni dinanzi alle uccisioni a catena. Cominciarono con l’ammazzare sul posto i soldati che si  arrendevano nel corso dei combattimenti, secondo le regole della repressione antipartigiana in cui  non si facevano prigionieri (una regola seguita pure dalle truppe italiane nella guerra in Jugoslavia,  dove pure erano le meno feroci).

Le truppe tedesche non si fermarono qui, continuarono a uccidere  anche dopo il crollo italiano, all’incirca tra il mezzogiorno del 21 e quello del 22 trucidarono tutti i  reparti che si trovarono dinanzi.  L’ordine criminale di Hitler fu eseguito solo in parte per i soldati (furono risparmiati i reparti  lontani dai combattimenti e altri secondo logiche casuali), ma quasi del tutto per gli ufficiali, quelli  caduti con i loro uomini il 21-22 settembre e quelli fucilati a freddo il 23-24, prima il gen. Gandin  con il suo comando, poi quasi tutti gli altri, 193 in rapida successione il giorno 24.

Scamparono alle esecuzioni a freddo gli ufficiali nati nelle province di Trieste, Trento e Bolzano (considerate già  territorio tedesco), i cappellani, alcuni medici, pochi altri per casi diversi, in tutto forse una  sessantina su 525, qualcosa di meno secondo altre fonti, non avremo mai il numero esatto.

Gli eccidi tedeschi dopo l’8 settembre furono giustificati asserendo che, in seguito al tradimento del re e di  Badoglio, i militari italiani non erano più soldati regolari, ma civili in armi, partigiani, quindi massacrabili a  piacere. In realtà un’immediata dichiarazione di guerra alla Germania non avrebbe avuto alcun peso, non era  la Germania nazista a sentirsi vincolata da scrupoli giuridici, ciò che cercava era la vendetta per la defezione  italiana e un clima di terrore che accelerasse il collasso delle truppe.

“Dopo la guerra l’aiutante di campo di von Hirschfeld [il comandante tedesco sull’isola], Kurt Hepp,  confermò che il suo capo aveva ricevuto l’ordine per radio direttamente dall’aiutante di campo di Hitler”  (Hermann F. Meyer, La 1° divisione da montagna in Grecia durante la II guerra mondiale, in Cefalonia  1941-1944. Un triennio di occupazione, cit., p.100).

Alle migliaia di soldati uccisi fu vietata una sepoltura anche in fosse comuni, i corpi vennero  bruciati, lasciati nei campi o ammucchiati in cavità o burroni; gli ufficiali fucilati il 24 furono  buttati in mare. Ai caduti tedeschi fu assicurato un cristiano riposo nel cimitero di Argostoli.

Non mi sono occupato di quanto accadde a Corfù per motivi di spazio, ricordo soltanto che
qui la vendetta ebbe dimensioni minori, ma sempre terribili: 600/700 ufficiali e soldati uccisi  durante i combattimenti o subito dopo, alcune decine di ufficiali fucilati a operazioni concluse, i  corpi furono buttati in mare.

Il calcolo delle perdite

I limiti della nostra documentazione sono evidenziati dall’insufficienza delle cifre sugli  uomini. Quelle correnti dicono di 11.000 soldati e 525 ufficiali su Cefalonia, 5.000 caduti  sull’isola, 3.000 morti nell’affondamento delle navi che portavano i prigionieri verso il continente.  Nessuno si è finora preoccupato di controllare queste cifre.

In realtà, il totale di 11.000 soldati e 525 ufficiali presenti a Cefalonia non si appoggia a un
documento e non è dettagliato, anche se proviene certamente dalle carte dell’Ufficio storico. Oggi  alcuni studiosi tedeschi tendono a ridurlo. Ho rivisto con scrupolo le non molte cifre disponibili  arrivando alla conclusione che questo totale è verosimile, fino a prova contraria si può continuare a  prenderlo come base.

L’altra cifra ragionevolmente sicura (un intreccio di testimonianze e fonti diverse) è che i  prigionieri italiani rimasti a Cefalonia nel 1944 fossero 1.300/1.400.  Secondo la documentazione della marina tedesca, utilizzata da Schreiber, tra il 28 settembre  e il 6 gennaio 1944 furono deportati da Argostoli 6.418 prigionieri italiani con 8 navi  sovraccariche, dove i mezzi di salvataggio erano riservati alla scorta tedesca. Di questi 1.360 (o poco meno) perirono nell’affondamento delle navi sulle mine (non i 3.000 della versione  tradizionale, senza alcun appiglio documentario)

In sintesi, abbiamo l’elenco dei reparti italiani sull’isola nel settembre 1943, ma non la loro forza.  Sappiamo quanti uomini aveva la maggior parte di questi reparti nel novembre 1942. Possiamo ipotizzare che questi reparti avessero  più o meno la stessa forza nel settembre 1943, ma non abbiamo dati precisi per altri reparti arrivati  successivamente. Rimane quindi un discreto margine di incertezza.

In un testo recente si dice che gli uomini rimasti sull’isola avevano aderito alla guerra nazifascista,  un’affermazione miserevole. Per quanto sappiamo, gli ufficiali cui fu risparmiata la vita dovettero firmare  una dichiarazione di adesione alla guerra hitleriana che in quelle circostanze non aveva evidentemente alcun  valore (e infatti quelli deportati nei lager furono considerati prigionieri, non optanti per la guerra  nazifascista).

Nulla fu chiesto ai soldati; i tedeschi classificarono come aderenti quelli rimasti sull’isola, un  gesto arbitrario preso senza averli consultati, anzi a loro insaputa. I soldati e gli ufficiali portati sul continente  furono considerati prigionieri, anzi “internati militari” come tutti i militari italiani catturati all’8 settembre, di  cui divisero le sorti nei lager del Reich hitleriano (salvo successive opzioni per la Rsi, è il caso di un ufficiale  che si era salvato dalla fucilazione perché trentino).

Se dai 11.500 militari italiani presenti a Cefalonia l’8 settembre togliamo i 6.418 deportati  verso il continente e i 1.300/1.400 rimasti sull’isola, il totale dei caduti nei combattimenti e nelle  rappresaglie tedesche di settembre risulta di circa 3.800, 4.000 secondo altre fonti, meno della  versione tradizionale (il che non vuol dire diminuire l’orrore di massacri e fucilazioni), cui sono da  aggiungere i 1.360 morti in mare. Tutte cifre da prendere con riserva, comunque più sicure di quelle  finora date.

Il 28 settembre il piroscafo Ardena di 1.092 tonnellate affondò su una mina ancora in vista di Argostoli;  per il sovraffollamento e la mancanza di mezzi di salvataggio morirono 720 degli 840 prigionieri, mentre si  salvarono tutti i 60 tedeschi a bordo. Il 17 ottobre affondò il piroscafo Marguerita (900 tonnellate) con la  morte di 544 dei 900 italiani e di 5 dei 25 tedeschi. Il motoveliero Alma di 254 tonnellate fece un primo  viaggio senza inconvenienti il 30 dicembre con 102 prigionieri, fu affondato nel secondo viaggio il 6  gennaio; manca la cifra dei prigionieri trasportati, ne ho calcolato 102 come nel viaggio precedente e li ho  aggiunti ai morti in mare, senza sapere se in parte si salvarono. (Cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati  nei campi di concentramento del Terzo Reich).

WCENTER 0XMDCARFJC Salme di militari italiani sottoposti ad esecuzione sommaria il 22 settembre 1943 nella strage di Cefalonia, l’eccidio di militari italiani compiuto dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. La procura militare di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di un ex militare tedesco, 89enne, accusato dell’uccisione di “almeno 117 ufficiali italiani” sull’isola di Cefalonia, nel settembre ’43. Si tratta di Alfred Stork, che avrebbe partecipato all’ultimo atto dell’eccidio: la fucilazione di ufficiali alla ‘Casetta Rossa’. ANSA +++NO SALES – EDITORIAL USE ONLY+++

Riassumendo, 11.000 soldati e 525 ufficiali presenti a Cefalonia, di cui 3.800/4.000 caduti in  settembre (morti in combattimento, fucilati al momento della resa o poco dopo), 6.418 sgombrati  per mare (di cui 1.360 morti negli affondamenti) e 1.300/1.400 rimasti sull’isola. Mi sembra  impossibile andare oltre, i dati sulla forza e le perdite delle unità militari hanno sempre un margine  di approssimazione, in tutte le guerre e in tutti i contesti.

Il mancato intervento degli anglo-americani

Un ultimo problema che ricorre in parte degli studi: il rimprovero più o meno aperto agli  anglo-americani per avere rifiutato di intervenire in aiuto della resistenza di Cefalonia. Si tratta di  un problema sollevato per ignoranza o malafede. E’ noto l’interesse di Churchill per uno sbarco in  forze nei Balcani per mantenere queste regioni nell’orbita britannica, è nota anche la netta  opposizione degli stati maggiori alleati per ottime ragioni strategiche, la grande difficoltà di  un’avanzata attraverso centinaia di chilometri di terreno montuoso, aspro e con poche strade.

La  penisola italiana era un obiettivo più facile, con obiettivi assai più importanti dal punto di vista  politico e mediatico. Perciò il grande sbarco ebbe luogo a Salerno il 9 settembre, ma non ebbe un  facile successo, per alcuni giorni le truppe alleate rischiarono di essere ributtate in mare. Tutte le  attenzioni e le forze disponibili furono quindi concentrate a sostegno della testa di ponte.

Inviare in Adriatico qualche cacciatorpediniere non aveva senso dinanzi alla netta  superiorità aerea tedesca. Gli anglo-americani avevano il dominio dell’aria nel Tirreno, però  nell’Adriatico la Luftwaffe poteva contare su aerei ormai incapaci di affrontare quelli alleati, ma  ancora efficienti dove non trovavano contrasto come gli Ju.87, i famosi Stuka, e i bombardieri  Ju.88, largamente impiegati su Cefalonia e in grado di affondare le navi senza protezione aerea,  come le due torpediniere italiane dinanzi a Corfù.

L’aviazione anglo-americana non poteva  intervenire in Adriatico perché le sue basi erano ancora in Sicilia (per rimettere in servizio gli  aeroporti di Puglia occorreva tempo). Per salvare la divisione Acqui ci volevano le portaerei  indispensabili a Salerno, ossia un’operazione aeronavale di grandi proporzioni che non rientrava in  alcun modo nei piani e nelle possibilità degli alleati.

Si tenga infine presente che Cefalonia aveva un grosso valore strategico per gli italiani  prima dell’8 settembre e per i tedeschi (che ne rafforzarono le difese nel 1944) come difesa
avanzata delle coste greche e dell’accesso al golfo di Patrasso. Invece per gli anglo-americani (se  mai avessero pensato a uno sbarco in forze nei Balcani) non poteva avere alcun interesse un’isola  senza un vero porto e così montuosa da non avere spazio per un aeroporto anche piccolo.

In definitiva, un intervento anglo-americano per salvare Cefalonia (ma anche Corfù e le altre  truppe italiane che in settembre combattevano dalla Dalmazia all’Albania, sempre dimenticate) non  era possibile per evidenti rapporti di forza, che gli studiosi dovrebbero conoscere prima di avanzare  recriminazioni.

Se si vuole una riprova, si pensi a quanto accadde nell’Egeo, dove gli inglesi sbarcarono  truppe in diverse isole italiane, senza potere impedire il ritorno in forze dei tedeschi che anche qui  avevano la superiorità aerea. In queste isole i soldati britannici che non riuscirono a reimbarcarsi  ebbero il trattamento di prigionieri di guerra, mentre i militari italiani restarono in balia della  vendetta tedesca, tra fucilazioni e deportazione.

Cefalonia da ricordare

Oggi ricordiamo quattro Resistenze, o meglio quattro fronti della Resistenza contro il  nazifascismo, diversi per caratteristiche e dimensioni e pari nell’impegno, senza una graduatoria di  meriti e di priorità. La resistenza delle truppe all’8 settembre soprattutto nei Balcani, che una  piccola minoranza continuò nel 1944 con i partigiani jugoslavi e albanesi. La partecipazione delle  forze armate alla guerra in Italia a fianco degli anglo-americani. La guerra partigiana e la  deportazione nei campi nazisti di morte. La resistenza senz’armi delle centinaia di migliaia di  militari catturati all’8 settembre che nei lager di prigionia rifiutarono l’adesione alla guerra  nazifascista che li avrebbe liberati da maltrattamenti, fame disperata e lavoro forzato.

La resistenza della divisione Acqui a Cefalonia e Corfù appartiene evidentemente al primo  (in ordine cronologico) di questi fronti, ne è l’episodio più noto per le dimensioni dell’eccidio. E’  giusto che ne diventi il simbolo, purché ciò non induca a dimenticare gli altri episodi di resistenza  delle truppe tra settembre e ottobre 1943, meno sanguinosi, ma non meno degni. Non ha senso  esaltarla in concorrenza o in alternativa alla guerra partigiana, sono vicende diverse e parallele,  fronti diversi di una stessa Resistenza al nazifascismo.

La vicenda di Cefalonia riassume il dramma delle forze armate all’8 settembre: la scelta  immediata del gen. Gandin di non passare dalla parte dei tedeschi, i suoi tentativi di rinviare un  combattimento senza speranza, infine la decisione di combattere. Sono scelte e momenti vissuti  anche dagli altri pochi generali che rifiutarono di cedere ai tedeschi e ne furono schiacciati. Pure la  richiesta di combattere di una parte degli soldati e ufficiali della Acqui, forse sopra le righe, si  ritrova negli altri episodi di resistenza, come pure l’obbedienza di tutti al momento decisivo.

Nel suo momento più nero, il disastro dell’8 settembre, l’esercito italiano trovò a Cefalonia
una pagina di onore, che non possono intaccare le polemiche astiose o farneticanti. Gandin non è un  eroe senza difetti, è un comandante che agisce secondo responsabilità e coscienza in una situazione  eccezionale senza via di uscita; può avere commesso errori minori (l’insufficienza delle fonti lascia  un margine di dubbio su tutti gli aspetti della vicenda), ma non sbagliò le scelte fondamentali del 9  e del 14 settembre.

Gli uomini della Acqui non erano eroi, né martiri, soltanto soldati che, per  riprendere una frase tradizionale, fecero il loro dovere in parte con convinzione, tutti con  obbedienza. La ferocia di una guerra senza quartiere, la volontà tedesca di vendetta e gli ordini di  Hitler portarono a un massacro terribile e ingiusto.

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