CEFALONIA 1943, TANTE “VERITÀ” – 18

a cura di Cornelio Galas

Trattative fino all’ultimo tra Gandin e il Comando Supremo tedesco. Ma non si arriva ad alcun accordo, anzi, i tedeschi preparano l’attacco: non faranno prigionieri.

di Carlo Palumbo

13 settembre. Le trattative continuano

I due scontri armati della mattinata non impediscono la  continuazione delle trattative italo-tedesche. Ad esse partecipano,  per la parte italiana, i capitani Angelo Longoni e Gennaro  Tomasi, quest’ultimo funge da interprete. Il tenente colonnello  Barge ha ormai capito dalle informazioni in suo  possesso che Gandin non è in grado di controllare i suoi reparti;  il giorno precedente aveva detto al generale Lanz: «Personalmente  il generale Gandin si sente vincolato al giuramento  al Re».

Angelo Longoni, incaricato dal gen. Gandin di trattare la resa con i tedeschi la mattina del 15 settembre.

Da fonti tedesche si sa che essi intercettavano le comunicazioni  italiane, anche quelle cifrate, ma queste si interrompono  il giorno 13, due giorni prima dell’attacco. Dopo di allora i  tedeschi devono avere avuto informatori direttamente tra le  fila italiane. Si parla anche di una radio ricetrasmittente utilizzata  da fascisti italiani e collocata nella località di Faraklata.

Tra coloro che possono accedere alle decisioni del Comando  divisionale vi è anche il tenente colonnello Sebastiano Sebastiani,  personaggio di spicco del fascismo italiano, deputato  nazionale e seniore del Partito nazionale fascista, accusato  dallo storico greco Spiros Themistocles Loukàtos proprio di  avere fatto da informatore per i tedeschi.

Hans Barge

Gandin fa giungere due messaggi alla divisione in cui comunica  che sono ancora in corso le trattative con i tedeschi, egli sarebbe impegnato a trattare il mantenimento delle armi  e il contemporaneo rientro in Italia: il primo in data 13 settembre:
«Comunico che sono in corso trattative con il Comando  Supremo germanico […] volte a riportare la divisione in Patria».

Il secondo la mattina del 14 settembre:
«Sono continuate ieri le trattative con la parte germanica per  ottenere che alla Divisione vengano lasciate le armi e le munizioni.  Da parte germanica è stato richiesto che la divisione si raccolga  nella zona di Sami-Digaleto-Porto Poros in attesa di imbarcarsi per  l’Italia, lasciando tutte le armi a Cefalonia prima dell’imbarco».

Nel frattempo, però, non sono divulgati i due ordini giunti  dal Comando Supremo l’11 e il 12 settembre.  Il generale tedesco Lanz, comandante del 22° corpo d’armata  di montagna, responsabile delle operazioni di disarmo  nella zona occidentale della Grecia, giunge verso le ore 12,00  a bordo di un idrovolante sul cielo di Cefalonia. Intende incontrare  Gandin, ma la contraerea impedisce l’ammaraggio  ad Argostoli, per cui raggiunge Barge a Lixuri, da dove telefona  al generale italiano.

Hubert Lanz

A Lanz interessa che la Acqui ceda subito le armi.  Abbiamo la versione tedesca del colloquio nella risposta di  Lanz al presidente del Tribunale per il processo di Norimberga:
«Mi ricordo che Gandin mi chiese di dargli un ordine preciso, di  dirgli ciò che doveva fare. Questo è quello che mi disse nel  colloquio telefonico del 13 settembre. Io gli risposi: “Da subito lei  riceverà ordini da me” […]. Gandin mi fece capire che se riceveva ordini da me, tutto si sarebbe sistemato e che avrebbe provveduto a  fare i passi necessari per eseguirlo».

L’ordine è l’allegato 43a del diario di guerra del 22° corpo  tedesco:
«Il comandante del XXII Corpo al comandante della divisione  Acqui 1) con effetto immediato, di cedere al comandante tedesco  dell’isola tutte le armi, comprese le armi degli ufficiali, che ad essi  sono state lasciate e come è già avvenuto per tutti i reparti dell’VIII  e del XXVI C.d.A. italiani; 2) se le armi non verranno subito  cedute, le forze armate tedesche li costringeranno con la forza a  questa cessione; 3) io dichiaro, con la presente che questa mattina  alle 7,00 la divisione ai suoi ordini ha causato 5 morti e 8 feriti  compiendo un evidente e aperto atto di ostilità».

Lanz aggiungeva:
«Gandin contattò il tenente colonnello Barge e continuò i  negoziati con lui. Se ricordo bene, egli definì una resa delle armi in  tre fasi, credo per il 14, 15 e 16 settembre».

In effetti l’accordo tra Barge e Gandin prevedeva che i reparti  italiani sarebbero stati raccolti nella zona di Sami, cioè  quanto volevano i tedeschi. Ci sono problemi anche a Corfù,  mentre a Brindisi, a poca distanza, sono arrivati gli inglesi.  Così al Gruppo armate E si riassume, a questo punto, la situazione:
«Il nostro tentativo di sbarco a Corfù non ha avuto successo, la  guarnigione di Cefalonia si rifiuta combattendo di consegnare le  armi, l’occupazione di Brindisi da parte degli inglesi pone il XXII  corpo d’armata da montagna al centro di una situazione  incandescente».

Alexander Löhr

Alle ore 16,30 Lanz comunica al generale Löhr, al comando  di Salonicco:
«Nonostante l’intesa col generale Gandin di consegnare le armi  entro le 18,00 del 13 settembre, i comandanti si rifiutano di  procedere al disarmo […]. Il generale Gandin non ha saputo  esercitare la sua influenza sui suoi comandanti. Finora solo due  batterie disarmate. I termini di consegna stabiliti non sono stati  rispettati».

È importante che nel radiogramma di Lanz vengano coinvolti  gli ufficiali nel loro insieme nel rifiuto di cedere le armi. a questo momento i tedeschi decidono la prova di forza  contro la divisione Acqui, hanno solo bisogno di guadagnare  tempo per organizzare l’attacco con le forze necessarie. Le  trattative servono, dal loro punto di vista, a questo obiettivo.

Da Berlino si fa pressione per chiudere rapidamente il varco,  con ogni mezzo. Non è sicuro se Lanz abbia informato Gandin  che, in caso di rifiuto di arrendersi, i soldati italiani sarebbero  stati passati per le armi. Nessuno degli ufficiali italiani sopravvissuti  ha memoria di questa minaccia. Barge è incaricato di  consegnare l’ultimatum di Lanz:
«Il comandante generale del XXII corpo d’armata da montagna  all’Ufficiale Comandante della divisione Acqui, Gandin: 1. Alla divisione Acqui viene ordinato, con effetto immediato, di  cedere le armi, eccetto le piccole armi degli ufficiali, al Comandante  tedesco dell’isola, tenente colonnello Barge, come è già stato fatto da  tutte le parti dall’VIII e dal XXVI corpo d’armata italiano. 2. Se non verranno cedute le armi, le forze armate tedesche costringeranno alla cessione. 3. Io, con la presente, dichiaro che la divisione ai suoi ordini, che  ha fatto fuoco sulle truppe tedesche e su due navi tedesche, questa  mattina alle ore 7, causando la perdita di cinque morti e otto feriti,  ha compiuto un aperto ed evidente atto di ostilità. Lanz, tenente  generale delle truppe da montagna».

Alle ore 21,30 giunge da Cefalonia al Comando del 22°  corpo d’armata tedesco il seguente messaggio:
«La consegna delle armi viene effettuata in tre fasi: 1) nella zona  di Argostoli il 14.9.1943; 2) Nella zona sud-orientale di Cefalonia il  15.9.1943; 3) Nella zona di Sami il 16.9.1943. Qui anche il  concetramento delle truppe disarmate. Gandin ha dato la sua  piena approvazione allo sgombero delle posizioni e alla consegna  delle armi secondo queste modalità».

In un primo momento Gandin consente all’accordo, dato  che dispone di avviare i preparativi perché i reparti si concentrino  nel triangolo Frankata-Sami-Poros. In effetti dall’Ufficio  personale della divisione arriva l’ordine di trasferimento a  cinque battaglioni. Per i reparti questo è l’annuncio che  avrebbe portato alla cessione delle armi. In questo modo Gandin  avrebbe trovato una soluzione incruenta mettendo le  truppe in una condizione che impedirebbe qualsiasi schieramento  difensivo e permetterebbe ai tedeschi di effettuare rapidamente  le operazioni di disarmo.

Aeroporto tedesco sul continente. Archivio Renzo Apollonio.

Questo è in sintesi il giudizio  presente nella relazione Apollonio del 1944:
«La sera del 13 i comandanti dei 5 battaglioni dànno l’ordine di  trasferimento facendo marciare i reparti durante la notte. Il  II/317° si sposta da Razata a Frankata, il III/317° da San  Costantino a Razata, il I/17° Ftr. da Cocolata a Razata, il II/17°  da Argostoli a Perata, il III/17° da Lakitra ad Argostoli. Seppure di  malavoglia i soldati sono rassegnati all’idea della resa. Anche il  comandante dell’Artiglieria, Romagnoli e il capitano Pampaloni  hanno deciso di obbedire all’ordine di Gandin, che prevede che i  reparti siano pronti a muoversi entro le ore immediatamente  successive».

Ai reparti in trasferimento verso la zona di Sami con ordine del 13 settembre viene chiesto di portare con sé una scorta di  viveri e vestiario, necessari per un viaggio non breve. Verso le 23,00 giunge il contrordine. Sempre nella relazione  di Apollonio si legge:
«Verso sera il turbamento tra ufficiali e soldati per l’ordine di  movimento emanato dalla divisione diveniva sempre più  manifesto. Si diffondeva tra i soldati la voce che il generale Gandin  voleva tradire. Da più parti accorsero soldati che reclamavano di  far prigioniero il Generale e addirittura di ucciderlo».

I tedeschi, nelle stesse ore, sono concentrati su Corfù, dove  hanno perduto gli uomini della guarnigione, catturati dai reparti  di Lusignani. Si preparano all’attacco decisivo per il  giorno dopo e sperano di aver chiuso la partita a Cefalonia. Gandin a sera riceve dal colonnello Lusignani la notizia del  fallito sbarco tedesco dal mare e del bombardamento aereo  del porto. Tuttavia, mentre continuano le trattative, i tedeschi  ottengono altre posizioni lasciate dai reparti italiani.

Anche la  maggior parte della 1a batteria del capitano Aldo Hengeller, collocata a Fiscardo, sulla punta settentrionale di Cefalonia, viene richiamata ad Argostoli. Via via che gli italiani abbandonano  le loro postazioni, i tedeschi completano il controllo  della costa nord-occidentale, in vista degli sbarchi in preparazione  per i giorni successivi.

Terminato il ritiro italiano da Kardakata, i tedeschi hanno  occupato la dorsale montuosa e controllano la rotabile per  Argostoli; ormai sono arrivati a pochi chilometri a nord e a  est del capoluogo, giungendo fino a Farsa e a Dalgata col  910° battaglione del maggiore Nennstiel. Possono poi avanzare  verso sud-est, in direzione di Sami e del suo porticciolo. A sud  prendono il controllo di capo Munta, mentre il 1° battaglione del 17° reggimento abbandona le baie di Katelios e Scala,  sempre nei pressi di capo Munta, trasferendosi nella piana di  Kraneia.

Al momento dell’attacco del giorno 15 settembre i tedeschi  sono a quattro-cinque chilometri dal capoluogo, a San Costantino,  ovvero sulla riva settentrionale della baia di Argostoli.  Sarà l’intervento del tenente colonnello Deodato, comandante  del 1° gruppo del 33° reggimento, del capitano Gasco,  del capitano di fregata Mastrangelo e del capitano Apollonio  a convincere Gandin, la sera del 13 settembre, a dilazionare  l’ordine di trasferimento all’indomani per l’Artiglieria e per i  reparti che non hanno ancora iniziato i movimenti, mentre  quelli che durante la notte sono in marcia ricevono l’ordine  di rientrare nelle posizioni di partenza.

È soprattutto Gasco a sostenere la discussione, confermando  al generale di non poter più garantire in quella situazione la  sua incolumità personale di fronte alle possibili minacce che  venivano dagli uomini.

Ancora Apollonio:
«Dopo una breve ma animatissima discussione sostenuta  soprattutto dal capitano Gasco, il generale Gandin dilazionava  all’indomani l’ordine di movimento per le artiglierie e per quei  reparti che ancora non avevano iniziato lo spostamento».

La decisione di Gandin di revocare l’ordine di trasferimento  per i reparti, lasciando così insoddisfatta la prima delle richieste  tedesche, può essere interpretata in vario modo. Da una parte  appare come una conseguenza logica della scelta antitedesca  presupposta dagli studiosi. Ma se era sua intenzione raggiungere  un accordo con la controparte tedesca per un rimpatrio «onorevole» della divisione con le armi nell’Italia settentrionale  sotto controllo tedesco, la sua indecisione mette in crisi il progetto  stesso. Cedendo alle pressioni di alcuni dei suoi ufficiali,  spinge i tedeschi a non fidarsi più di lui.

Antonio Gandin

Se il giorno 11 Lanz  pensava di utilizzare il grosso della divisione nei servizi ausiliari  e di inquadrare la parte più germanofila nei proprî reparti,  ora l’obiettivo è quello di ottenere il disarmo dell’intera divisione  con la forza.  Nel processo di Norimberga il comandante tedesco dichiara:
«Il 13 mattina ero abbastanza ottimista, specialmente dopo che il  generale Gandin mi aveva detto al telefono che si sarebbe  comportato come gli avevo detto. Era stato lui stesso a chiedermi di  dargli quell’ordine […]. Aveva un ordine dalla sua Armata e ora  aveva un ordine da me […] e lui mi fece capire che tutto sarebbe  andato per il meglio».

Lanz, poche ore dopo il colloquio telefonico con Gandin  scrive invece al generale Löhr:
«Poiché la divisione del generale Gandin […] sia a Cefalonia  come a Corfù, oppone resistenza alla consegna delle armi e  Gandin si richiama al fatto che egli aspetta ordini o dal Re o dal  maresciallo Badoglio, io ritengo che non sia possibile il suo previsto  impiego».

I tedeschi avevano fino ad allora considerato Gandin come  il più filotedesco tra i comandanti di divisione italiana nel settore  e fidavano nella disponibilità della divisione a passare  dalla loro parte. Quanto avviene nella giornata del 13 viene  letto come un vero e proprio tradimento del generale nei loro  confronti. E la situazione peggiora ancora in conseguenza di  quanto avverrà il giorno successivo, 14 settembre.

13 settembre. Per i tedeschi Gandin non controlla più  la sua divisione

Il giorno 13 a Barge giungono informazioni che dipingono una situazione di ammutinamento tra gli uomini della Acqui.  Egli informa il generale Lanz su «i soldati italiani che sparano  contro ufficiali propensi alla resa». Di nuovo il giorno 14 comunica al 22° corpo d’armata:
«Lo Stato maggiore della Acqui ha già lasciato Argostoli. Le  trattative sono perciò difficili, in quanto i soldati italiani hanno già sparato a 3 ufficiali, che erano pronti a cedere le armi».

In realtà prima dell’inizio dei combattimenti ci sono tre episodi isolati, collocati in una situazione di tensione per le voci  di resa ai tedeschi e per gli ordini di Gandin. Il primo episodio riguarda il colonnello Ricci, che sarebbe  stato fermato, sulla strada tra Santa Eufemia e Sami, da due  fanti armati di fucile e minacciato.  Ma in un memoriale del 1946 Ricci scriverà:
«L’11 pomeriggio, verso Grizata trovai la strada sbarrata da  grosse pietre […] Due fanti, armati di fucile, avevano predisposto  quello sbarramento. Uno dei due, da me chiamato, mi chiese: “È  vero che il generale vuole farci disarmare?”. L’atteggiamento non era minaccioso ma di persona in preda ad agitazione. Potei  agevolmente calmarlo».

Anche il secondo episodio riguarderebbe indirettamente lo  stesso colonnello Ricci. Il 12 settembre, verso le 10,30, il colonnello  sente colpi di arma da fuoco provenire dalla direzione  di Frankata, dov’è accampata l’8a compagnia. Assieme a lui  giunge anche il comandante di battaglione, il maggiore Fanucchi.

Sul posto, nei pressi del locale che ospita il «servizio di profilassi anticeltica» trovano anche civili e alcune prostitute;  ’intervento dei due ufficiali riesce a calmare gli animi; l’episodio  ha un seguito, perché subito dopo un gruppo di soldati  armati con una mitragliatrice appartenenti al 2° battaglione  del 317° fanteria blocca la strada che attraversa il paese e  apre il fuoco; questa volta interverrebbe il solo colonnello  Ricci:
«Dopo poco anche i ribelli rientrarono. Volli interrogarli e seppi così il motivo della rivolta. Di primo mattino era passato un ignoto motociclista e aveva portato la notizia che lo spostamento del  battaglione da Francata a Razata era stato ordinato dal generale Gandin per facilitare la cessione delle armi».

Su questi episodi vi sono versioni che coinvolgerebbero il colonnello e il maggiore in un tentativo di omicidio, ma queste affermazioni non troveranno conferma nei processi del dopoguerra. L’episodio più importante è il terzo, avvenuto ad Argostoli, il 12 settembre, in cui, nel corso di un diverbio esploso per il controllo di un camion, il maresciallo capo Felice Branca ferisce mortalmente, sembra per cause accidentali, il capitano Piero Gazzetti.

Lanz, al processo di Norimberga dichiarerà:
«Mi fu riferito che una parte delle forze italiane di occupazione si  rifiutavano di deporre le armi e inoltre che i soldati avevano sparato su tre comandanti italiani, che volevano deporre le armi. Insomma  esisteva sull’isola un gruppo di resistenti, comunque li si voglia chiamare, che determinavano la situazione generale, rifiutavano di deporre le armi e tenevano un atteggiamento ostile contro di noi. Dopo aver ricevuto questo rapporto, dovevo prendere una decisione».

14 settembre: “consultazione”: la  Acqui respinge l’ultimatum tedesco

Nel corso della notte, intanto, secondo quanto riferisce lo  storico greco Spyros Loukàtos, già membro della resistenza  antitedesca e protagonista di quelle giornate, si sarebbe costituito  all’interno della divisione un «Comitato di resistenza e  di difesa» composto da Romagnoli, Mastrangelo e Gasco, in  rappresentanza dei reparti di Artiglieria, della Marina e dei  Carabinieri, in contatto con i dirigenti dell’Eam. Secondo questa fonte si sarebbe anche discusso sull’eventualità di rimuovere Gandin dal comando della Acqui. Le cose andranno, però, diversamente.

È in queste stesse ore, infatti, che Gandin decide di verificare definitivamente la posizione degli ufficiali, sottufficiali e soldati rispetto all’ultimatum dei tedeschi. È una decisione eccezionale, in nessun esercito è previsto che il generale comandante chieda l’opinione dei suoi subordinati sulle grandi decisioni da prendere. La scelta può essere diversamente interpretata, perché appare comunque ambigua.

Da una parte Gandin non si sentirebbe di chiedere ai suoi uomini di andare allo scontro coi tedeschi, cosciente che le possibilità di cavarsela sono ben poche, senza averli coinvolti nella decisione, per questo la richiesta sembra rispondere a un empito di partecipazione democratica, che azzera, per un momento, le gerarchie e livella tutti sullo stesso piano di cittadini che decidono il proprio destino esprimendo liberamente la propria opinione e decisione.

Può anche apparire come una rinuncia alla responsabilità del comando, una via d’uscita, poco rispettosa della tradizione, da una situazione di impasse, per scaricare sui subordinati la responsabilità della scelta. Il generale ha bisogno di sapere quali siano i reparti disponibili a cedere le armi oppure a passare con i tedeschi. In effetti questi ultimi gli avevano chiesto il numero e i nominativi degli ufficiali disposti a combattere per loro.

Nelle ore successive all’incontro con gli ufficiali nasce l’idea del «referendum» tra i reparti. La maggioranza degli storici giudica positivamente questa iniziativa del generale, che sarebbe servita a sentire il polso delle truppe e a mobilitare gli animi. Altri, come Filippini, condannano il presunto cedimento di Gandin a una «minoranza faziosa e irresponsabile», mentre Sergio Romano parla di «una pagina nera della storia militare italiana».

Per Paoletti, sulla base anche di varie testimonianze che lo confermerebbero (il sergente maggiore Trusso Zima, il sottotenente medico Enzo Pieroni, il capitano di corvetta Barone), il referendum sarebbe stato lo strumento usato da Gandin per rispondere a una delle richieste di Barge dell’11 settembre:
«I soldati o le unità che sono pronti a continuare a combattere agli ordini e a fianco dei reparti tedeschi devono essere segnalati numericamente in Ufficiali, Sottufficiali e Truppa entro le ore 17,00 del 12.9.1943».

Secondo questa ricostruzione, Gandin cerca di verificare, in ultima istanza, quali reparti siano disponibili a passare con i tedeschi, «sperando di trovare nella fanteria quella maggioranza disposta a passare coi tedeschi o ad arrendersi che non aveva trovato nella Marina e nell’Artiglieria».

Se questo è l’obiettivo, certamente raggiunge un risultato opposto, perché i reparti consultati si dichiarano a grandissima maggioranza favorevoli a combattere i tedeschi. Del resto, Gandin continuerà ancora nei due giorni successivi a trattare con loro, senza considerare l’orientamento dei reparti, e in mattinata invierà la «notifica» a Barge in cui prende le distanze dai suoi uomini:
«La divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine […]».

A partire dall’1,30 della notte Gandin fa giungere ai reparti la richiesta di esprimere un orientamento circa le alternative poste dai tedeschi. La consultazione, che qualcuno dei sopravvissuti ha poi chiamato «referendum», avverrà secondo modalità molto diverse; in genere è l’ufficiale comandante che presenta la situazione ai soldati; pochi sono quelli che si esprimono per la resa o per passare ai tedeschi. In qualche situazione la votazione avviene per alzata di mano, spesso la volontà di non cedere ai tedeschi è espressa per acclamazione, in un clima in cui sarebbe difficile proporre posizioni contrarie, qualcuno, anche tra gli ufficiali, si dichiara favorevole all’accordo; i più, tra i contrari allo scontro, preferiscono non parlare.

Alla fine, però, appare chiara la volontà della divisione di opporsi all’ultimatum tedesco. Per tutti c’è la coscienza che questo significherà affrontare in battaglia gli ex alleati. Ecco la testimonianza dell’artigliere Brunetto Guerrieri, della 3a Batteria di Apollonio:
«Verso le 1,30-2,00 del 14 settembre il capitano Apollonio fece fare la sveglia e subito dopo l’adunata […] comunicò che era giunto dal Comando superiore l’ordine di consultare tutta la batteria sulle seguenti condizioni: 1) continuare a combattere a fianco dei tedeschi; 2) cedere le armi ai tedeschi; 3) resistere all’intimazione tedesca di disarmo.

Il capitano Apollonio illustrò così le tre alternative: 1) La prima alternativa costituiva violazione dell’armistizio; 2) La seconda, cedere le armi, costituiva disobbedienza agli ordini del legittimo governo, perché senza armi non si sarebbe potuto “reagire” a eventuali attacchi tedeschi; 3) la terza costituiva atto di obbedienza agli ordini del legittimo governo ed era conforme ai principî dell’onore militare.

Al termine dell’esposizione vennero posti al capitano alcuni quesiti, ai quali rispose. Alla fine il capitano invitò la batteria a esprimersi serenamente, senza preoccupazioni di sorta. Alla prima condizione la risposta fu pronta e categorica: No. La seconda condizione fu seguita da alcuni quesiti tra i quali ricordo: “Una volta cedute le armi, quale sarà la nostra sorte?”.

Non ricordo se il capitano Apollonio o altri ricordarono cosa era successo al presidio di Santa Maura: dopo aver ceduto le armi, i nostri erano stati avviati nottetempo verso i campi d’internamento tedeschi. Si rispose No. La terza alternativa fu accolta con una esplosione d’entusiamo, come una vera e propria liberazione dalle ansie che ci avevano angosciato nei giorni precedenti».

14 settembre. La «notifica» di Gandin a Barge per il Comando tedesco

All’alba, il generale esce dal Comando per un giro di ispezione di alcuni capisaldi della divisione. Alle 10,00 prepara una «notifica» o Verlautbarung di risposta per Barge, in cui nei fatti respinge l’ultimatum tedesco. Il testo corretto proveniente dal Bundesarchiv-Militararchiv Freiburg è stato pubblicato per la prima volta nel 1974 da don Ghilardini, quindi nel 1986 da Apollonio, nel 1993 da Schreiber e nel 1995 da Giraudi. Fino ad allora erano circolate versioni differenti soprattutto nell’attacco iniziale.

Una è proposta da Bronzini nella sua relazione del 1944 ed è ripresa nel 1945 da Moscardelli:
«Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione Acqui non cede le armi […]».

Simile la versione di don Formato nel 1946:
«La divisione Acqui non cede le armi! Il Comando Supremo tedesco provveda all’immediato sgombero di tutte le sue truppe dall’isola di Cefalonia».

Nella relazione del capitano Bronzini si afferma che:
«La lettera del 14 settembre viene indirizzata direttamente al Com.do Sup. tedesco e consegnata al colonnello Barge perché la trasmetta con la sua stazione radio».

Alle ore 12,00 la lettera è consegnata al tenente Fauth, questa la traduzione della versione conservata nel diario di guerra del 22° corpo d’armata:
«La Divisione si rifiuta di eseguire l’ordine di radunarsi nella zona di Sami, poiché teme di essere disarmata, contro tutte le promesse tedesche, o di essere lasciata sull’isola come preda per i greci, o, peggio, di non essere portata in Italia ma sul Continente greco per combattere contro i ribelli. Perciò gli accordi di ieri non sono stati accettati dalla Divisione.

La Divisione vuole rimanere nelle sue posizioni, fino a quando non ottiene assicurazione – come la promessa di ieri mattina, che subito dopo non è stata mantenuta – che essa possa mantenere le sue armi e le sue munizioni, e che solo al momento dell’imbarco possa consegnare le artiglierie ai tedeschi. La Divisione assicurerebbe, sul suo onore e su garanzie, che non rivolgerebbe le armi contro i tedeschi.

Se ciò non accadrà, la Divisione preferirà combattere, piuttosto di subire l’onta della cessione delle armi, ed io, sia pure con rincrescimento, rinuncerò definitivamente a trattare con la parte tedesca, finché rimango a capo della mia Divisione. Prego che mi venga data una risposta entro le ore 16. Nel frattempo, le truppe provenienti da Lixuri non debbono essere portate avanti e quelle di Argostoli non debbono avanzare, altrimenti ne possono derivare gravi incidenti. Il Generale Comandante della Divisione Acqui. F.to Gandin».

«Ribelli» o soldati?

La formula usata da Gandin nel suo comunicato di risposta a Barge provocherà forti polemiche dopo la guerra. L’ormai generale Renzo Apollonio accuserà Gandin di aver scaricato sulla divisione la responsabilità della decisione di combattere i tedeschi, denunciando così i soldati della Acqui come «ribelli». Ciò avrebbe comportato la decisione tedesca di «estendere indiscriminatamente a tutti i sottufficiali e soldati di Cefalonia la pena di morte, già decretata, con direttiva del 15 settembre, solamente per gli ufficiali che avessero opposto resistenza».

E rispetto all’ordine di Hitler del 18 settembre:
«Questo ordine di Hitler, esclusivo per la guarnigione di Cefalonia, può essere motivato da varie circostanze: a noi sembra di poter individuare come circostanza determinante del massacro quel primo terribile periodo della risposta del generale Gandin all’intimazione di resa: “La divisione rifiuta di ubbidire al mio ordine”».

Anche la Commissione per lo studio della Resistenza dei militari italiani all’estero (CO.RE.M.I.T.E) del ministero della Difesa esprime la propria posizione sulle ragioni della scelta tedesca a Cefalonia nella Relazione finale stesa da Giovanni Giraudi e, a proposito della «notifica» di Gandin, afferma:
«La citazione della divisione potrebbe aver determinato effetti diametralmente opposti alle sue intenzioni e aver provocato reazioni abnormi, tali da indurre a impartire una lezione».

E ancora:
«Il generale Gandin, anziché esprimersi in prima persona, citò solo la “Divisione”, come se essa fosse soggetto al di sopra della sua volontà e della sua responsabilità. Infatti nella risposta si legge “La divisione rifiuta di obbedire al mio ordine […] gli accordi di ieri non sono stati accettati dalla Divisione […] la Divisione vuole rimanere sulle sue posizioni […] la Divisione preferirà combattere piuttosto che subire l’onta della cessione delle armi”. Egli trascura di citare esplicitamente l’unica fonte che legittima in modo inequivocabile la sua risposta: il Comando Supremo italiano, che, come sappiamo, dopo l’ordine del giorno 11 settembre di “considerare le truppe tedesche nemiche” si era fatto nuovamente sentire il 14 settembre, attraverso Marina Argostoli».

E in una nota:
«“La divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine”: il periodo iniziale è sconcertante e chiarisce le ragioni della tremenda rappresaglia consumata contro i soldati».
Dal diario di guerra del Comando Supremo tedesco del 15 settembre risulta il seguente ordine:
«Militari italiani che oppongono resistenza o che si intendono con il nemico o con bande partigiane: gli ufficiali debbono essere fucilati; i sottufficiali e la truppa vanno inviati al fronte orientale per l’impiego nel lavoro».

In data 18 settembre, invece:
«Con riferimento all’ordine emanato il 15 settembre, il Comandante in Capo del Fronte Sud-Est riceve disposizione che, a Cefalonia, non deve essere fatto alcun prigioniero italiano a causa dell’insolente e proditorio contegno da essi tenuto».
La stessa disposizione non sarà invece applicata a Corfù.

14 e 15 settembre: le trattative tra Barge e Gandin continuano

Il 14 i tedeschi innalzano la loro bandiera in piazza Valianos, ad Argostoli, senza che gli italiani reagiscano; alle 15,00 compiono un’azione aerea dimostrativa sull’area di Argostoli; Gandin decide di trasferire il Comando tattico divisionale a Prokopata, lo seguono il colonnello Romagnoli, il maggiore del Genio Filippini, il capitano dei Carabinieri Gasco. Sarebbe un buon punto di osservazione della baia di Argostoli, ma troppo vicino allo schieramento tedesco.

In caso di combattimento, come in effetti avverrà il giorno successivo, quando i tedeschi travolgeranno i capisaldi di Castrì e Padierà, giungendo a poche centinaia di metri da Prokopata, il Comando divisione correrà il rischio di essere fatto prigioniero già nella fase iniziale della battaglia. Le trattative italo-tedesche, però, continuano il giorno 14 e poi ancora nella mattina del 15 settembre.

Vediamo i due diversi punti di vista circa i risultati raggiunti. Secondo il capitano Angelo Longoni, in un’intervista a «Gente» del 1950, i colloqui ripresero «in una casetta in prossimità del porto. Il desiderio tedesco di arrivare a una intesa era evidente. Tutte le richieste italiane vennero accettate. In più fu concesso un porto franco in Argostoli per la bandiera italiana. Come contropartita gli italiani accettavano di ritirarsi in una zona delimitata in attesa dell’imbarco. Ai tedeschi sarebbero stati restituiti alcuni cannoni a suo tempo ceduti agli italiani. Per facilitare l’accordo il Comando italiano accettava come garanzia la firma del generale Lanz».

Nel diario di guerra del 22° corpo d’armata tedesco alla data del 14 settembre è allegato un ordine di Lanz che, in relazione al trasferimento dei soldati italiani disarmati, prevede:
«Le divisioni debbono fornire ai gruppi di marcia le armi individuali necessarie per l’autodifesa, le cucine da campo necessarie e gli automezzi necessari per il trasporto al seguito dei viveri di marcia fino al raggiungimento dei campi di raccolta. Ove possibile, invece del generico rilascio di armi individuali, debbono essere incaricate della protezione delle colonne di marcia unità italiane armate, di sicuro affidamento, particolarmente impegnate».

Al termine del giorno 14 si precisa che:
«Il tenente colonnello Barge pretende la consegna di 10 ostaggi fino al momento della cessione di tutte le armi. Gli ostaggi devono notificarsi presso lo Stato maggiore del 966° regg. da fort. entro le 21 del 14 settembre».

È evidente, quindi, che la trattativa si sta giocando su un equivoco di fondo. Gandin, comunicandone alla truppa i contenuti, nei giorni 13 e 14 settembre, fa riferimento a un rientro in Italia senza dire in quale parte, i tedeschi, invece, hanno già deciso il trasferimento della divisione disarmata in Germania o nei territori da loro occupati.

A complicare le cose e a convincere i tedeschi che Gandin non è più in grado di trattare per la sua divisione è il messaggio che il Comando del 22° corpo d’armata tedesco riceve alle ore 20,48 del 14 settembre da Cefalonia, in cui si afferma che «i soldati italiani hanno già sparato a 3 ufficiali che erano pronti a cedere le armi».

Nuovamente, alle ore 1,00 del 15 settembre, il tenente colonnello Barge precisa la situazione a Cefalonia:
«1) Una parte delle truppe italiane si rifiuta di deporre le armi. Si è sparato sui comandanti, che volevano eseguire l’ordine. 2) Ancora una volta il generale Gandin mi aveva personalmente chiamato a sé. L’ho informato che la sua divisione sarà trasportata in Italia dopo la pacifica consegna delle armi. 3) […] Impressione: la massa dei soldati italiani non ha un’idea chiara della situazione reale ed è sobillata da singoli elementi».

Lanz ha così un’ulteriore conferma, inviata dal comandante della guarnigione tedesca a Cefalonia, dopo il messaggio di Gandin, che i soldati della Acqui si sono ribellati al loro generale. Questa notizia viene riportata da Lanz al suo superiore Löhr e arriva fino a Berlino. Quanto sta avvenendo nelle Isole Ionie interessa moltissimo gli Alleati. Gli avvenimenti del giorno 13 ad Argostoli, nella baia e nella penisola di Paliki sono a conoscenza dell’ufficiale di collegamento navale americano ad Alessandria d’Egitto, che li trasmette in data 14 a Washington.

Giunge anche la voce, ovviamente errata, che il generale Gherzi, considerato filobritannico, avrebbe sostituito Gandin. Nel verbale della riunione italo-alleata Fatima, che si svolge il 14 settembre a Brindisi, si riporta:
«L’ecc. Ambrosio rappresenta che i tedeschi si stanno impadronendo delle Isole Ionie e Dalmatiche […] Di questa questione è già stato fatto cenno all’amm. Power. Il generale Mason [Mason-MacFarlane] ritiene che l’ammiraglio Power avrà comunicato la cosa al generale Eisenhower, ad ogni modo telegraferà egli stesso questa sera. […] Il generale Mason chiede notizie delle nostre divisioni nei Balcani. L’Ecc. Ambrosio espone la situazione dalla quale risulta che potrebbero essere recuperate via mare le divisioni Cuneo da Samos e Acqui da Cefalonia».

Che i tedeschi abbiano avuto il timore di un intervento inglese a Cefalonia e nelle altre Isole Ionie risulta da quanto riporta il diario di guerra del Comando Gruppo armate Est alla data del 14 settembre:
«È possibile che le forze alleate vengano a rinforzare la guarnigione italiana a Cefalonia. Per questo si dà grande importanza all’intercettazione delle telecomunicazioni per poter accertare l’esatto momento di quando ciò avverrà».

C’è inoltre da tener presente che i tedeschi sono particolarmente deboli proprio sul mare. Nel diario di guerra della Marina tedesca dell’area Egeo, in data 14 settembre è scritto:
«Il comandante dell’area Egeo-Balcani, amm. Werner Lange aveva a disposizione per attaccare le isole di Corfù e Cefalonia soltanto due dragamine, due motozattere di Marina, un cacciasommergibili e due piccoli vapori da rifornimento».

È evidente che essi non sono in grado di sostenere contemporaneamente  l’iniziativa a Corfù e a Cefalonia. Per questo hanno bisogno di tempo e, soprattutto, di potere risolvere la situazione in momenti separati nelle due isole.

LA BATTAGLIA DICEFALONIA

Gli ultimi preparativi per la battaglia

A questo punto il tempo dell’attesa è terminato. I tedeschi sono pronti all’attacco. Alle ore 7,45 del 15 settembre, il tenente colonnello Barge trasmette al Comando di Ioannina del 22° corpo d’armata da montagna il seguente marconigramma:
«Il generale Gandin si è trovato pronto a consegnare solo le armi pesanti fisse. L’artiglieria mobile e quella antiaerea vuol consegnarla solo all’atto dell’imbarco. Conclusi i nostri preparativi d’attacco. Momento favorevole per l’inizio dell’attacco: ore 14,00. La notte è trascorsa calma».

Nel diario di guerra del 22° corpo d’armata è registrato  questo marconigramma arrivato alle ore 8,41:
«Allo scopo di eseguire lo sgombero della zona di Argostoli e la consegna in un primo tempo di tutte le armi pesanti installate in modo fisso sulla costa, è stata richiesta al generale Gandin quale contropartita di garanzia, la consegna quali ostaggi di un ufficiale di Stato maggiore e altri 10 ufficiali. In caso di rifiuto la consegna verrà imposta con la forza a partire dalle 14,00».

Nonostante tutto, infatti, le trattative continuano: intorno  alle 10,00 in una casetta nei pressi del porto di Argostoli, avviene un ultimo incontro tra le due delegazioni. Il tenente Fauth comunica che il generale Lanz accetta tutte le condizioni italiane ma chiede a garanzia la consegna di 11 ostaggi tra cui un generale e alcuni ufficiali superiori. Gli italiani rispondono chiedendo la stessa garanzia. Dopo un’interruzione Fauth risponde che tutte le richieste italiane sarebbero state accettate, gli italiani avrebbero dovuto ritirarsi nella zona concordata in attesa dell’imbarco, lasciando ai tedeschi solo i pezzi preda di guerra ceduti agli italiani.

Sotto l’accordo c’è la firma di Lanz. In realtà nel corso di queste ultime trattative i tedeschi continuano a portare rinforzi con grossi apparecchi da trasporto che ammarano nella baia antistante. Gli italiani reagiscono con qualche colpo di cannone, ma senza particolari effetti. Tre ore dopo i tedeschi aprono le ostilità. In effetti i tedeschi stanno intensificando l’arrivo dei rinforzi per via aerea, mentre si stanno concentrando a Preveza, sulla costa greca, per il trasporto via mare, numerosi reparti di fanteria da montagna e di artiglieria, almeno 2.000 uomini.

Dopo i primi giorni di battaglia il rapporto di forze sarà meno sfavorevole per i tedeschi, quando subito dopo l’8 settembre gli italiani erano sei volte di più; la differenza la farà, però, oltre alla maggiore efficienza dei reparti di terra tedeschi, la supremazia aerea, che sarà totalmente a svantaggio della Acqui. Mentre a Corfù cominciano i bombardamenti, il Comando tedesco in Grecia considera assai più pericolosa la situazione che si sta delineando a Cefalonia. Corfù, per il momento, passa in secondo piano. Bisogna liquidare prima la divisione di Gandin.

Nel rapporto giornaliero del Gruppo armate Est tedesco, alle ore 14,30 del 15 settembre troviamo questa frase: «La guarnigione italiana di Cefalonia si è improvvisamente ribellata con le armi, ciononostante continua il suo disarmo». I tedeschi sono cioè convinti, da quanto affermato da Barge e da Lanz, oltre che dalla «notifica» di Gandin del giorno 14, che ufficiali e soldati della divisione, nel loro insieme, si sono ribellati o ammutinati e rifiutano di eseguire l’ordine del generale Vecchiarelli di cessione delle armi.
Sembra essere questa convinzione a giustificare il Sonderbefehl di Hitler a proposito della divisione ribelle.

Da alcune testimonianze risulta che vi furono italiani che nelle giornate cruciali dei combattimenti collaborarono con i tedeschi. Il capitano Pampaloni scrive:
«Era il mattino del 15 settembre quando giunse il contrordine di restare nelle posizioni e, contemporaneamente, di permettere a coloro che volevano andare con i tedeschi di passare nelle loro fila».

Il soldato Pasquale Stella, sopravvissuto alla strage perché utilizzato come portatore da un graduato di sanità tedesco, dichiarava:
«Stando con i tedeschi ebbi così modo di osservare come nel loro procedere contro i nostri, che ancora resistevano, avanzassero tenendo frammischiati nelle loro file soldati italiani, e precisamente come nelle formazioni fossero alternati un soldato italiano e uno tedesco. Gli italiani avevano in testa un fazzoletto o erano muniti di altri segni distintivi».

15 settembre. Baia di Argostoli
la divisione Acqui si prepara a combattere

Gandin stima a  circa 3.000 il numero dei soldati tedeschi presenti sull’isola.  Secondo i dati disponibili, i reparti tedeschi impiegati a Cefalonia  assommano all’inizio a circa 2.000 unità, per salire a un massimo di 2.500-3.000 con i rinforzi sbarcati tra il 16 e il 21 settembre. Una parte dei rinforzi servirà a compensare le perdite subìte il primo giorno di combattimento, ovvero circa 620 tra prigionieri e dispersi, oltre ai feriti, 150-180, per l’intera durata della battaglia. Solo in parte si tratta di soldati esperti e disciplinati, perché molti, 1.300-1.400 uomini, sono considerati «avanzi di galera» dagli stessi storici tedeschi.

Gli obiettivi principali sono l’eliminazione del gruppo Fauth dalla zona di Argostoli e l’occupazione delle posizioni appena abbandonate a Kardakata e ad Ankona, in modo da rinchiudere i tedeschi nella penisola di Paliki. L’iniziativa, però, è presa dai tedeschi, anche se in questa prima fase il successo sembra arridere agli italiani. Le principali battaglie della Acqui a Cefalonia sono quelle di Kardakata e di ponte Kimonico- Divarata, tra il 16 e il 18 settembre; di capo Munta, tra il 17 e il 19 settembre; di Dilinata o seconda Battaglia di Kardakata, tra il 21 e il 22 settembre, tutte sono combattute per riprendere i due nodi strategici e la batteria costiera ceduti ai tedeschi da Gandin durante le trattative.

Alle 11,45 del 15 settembre c’è la prima avvisaglia dello scontro. Una batteria contraerea del capitano Arpaia, seguita da una batteria di marina, aprono il fuoco contro alcuni idrovolanti tedeschi che cercano di sbarcare truppe nella zona di Lixuri. Gli idrovolanti tornano indietro. I combattimenti sono aperti dai tedeschi con il bombardamento di Argostoli a opera della Luftwaffe alle ore 13,30 circa.

Lo storico tedesco Schreiber ricostruisce le operazioni aeree su Cefalonia nel periodo considerato, sulla base dei diari di guerra tedeschi. In sintesi: il 15 settembre sessantatre Ju 87 bombardano e mitragliano a ondate i reparti di fanteria e le batterie di artiglieria collocati sui rilievi che circondano il porto di Argostoli, colpendo il Comando divisionale ormai abbandonato e le batterie di Faraò-Spillià-Chelmata; altri nove Ju 87 concentrano l’attacco sulla strada costiera.

Sul monte Telegrapho interviene il Gruppo tattico Fauth, appoggiato dalla batteria semovente; nella zona di Razata, a est del capoluogo, l’attacco è condotto dal 910° battaglione rinforzato del maggiore Nennstiel. I due gruppi convergono sul centro di Argostoli. Contemporaneamente, il 909° battaglione occupa Pharsa, quindi procede con due colonne parallele sulla strada costiera Kardakata-Argostoli e per la valle Davgata-San Costantino.

Intorno alle 17,30 gli italiani individuano le avanguardie tedesche a cinque chilometri da Argostoli e nel vallone San Costantino, all’altezza di Faraklata. Il 3° battaglione del 317° reggimento è costretto a ripiegare senza ordine. Solo alle ore 15,20 del 15 settembre Gandin comunica alla 7a armata nelle Puglie:
«Prego informare autorità competente che oggi sono stato costretto aprire at Cefalonia ostilità con tedeschi».

Si tratta in realtà della risposta al violento attacco tedesco di due ore prima. Sul monte Telegrapho sono dislocati due battaglioni del 17° reggimento fanteria, il 2° del maggiore Altavilla e il 3° del tenente colonnello Maltese. Nella zona di Razata l’offensiva è affrontata da due battaglioni del 317° reggimento fanteria, il 2° del maggiore Fanucchi, il 3° del tenente colonnello Siervo.

Attorno ad Argostoli sono disposte quattordici batterie di artiglieria, di cui due di marina, che garantiscono un consistente contributo di fuoco per la difesa delle postazioni italiane. Altri reparti minori sono coinvolti nella battaglia. L’iniziale successo tedesco è contrastato dal 3° battaglione del 17° reggimento del tenente colonnello Giovanni Maltese, con un attacco che parte alle ore 19,00.

Verso le 22,00 i tedeschi, che cercano di sbarcare con un pontone e alcuni pescherecci una compagnia vicino a capo San Teodoro, sono inquadrati dalle cellule fotoelettriche della Marina e un’imbarcazione è affondata, secondo Schreiber 123 soldati, 1 ufficiale e 15 sottufficiali risulterebbero dispersi, ma vi sono conferme che la gran parte sarebbe stata salvata da soldati italiani, per cui i morti dovrebbero essere solo una decina.

Il Gruppo tattico Fauth combatte fino a mezzanotte, ma dopo combattimenti durissimi e sanguinosi l’attacco tedesco si conclude con una disfatta. Sul monte Telegrapho i tedeschi si arrendono: all’1,30 della notte del 16 un parlamentare tedesco offre al comandante della Marina Mastrangelo la resa del gruppo. Viene informato Gandin. All’alba del 16 i sei semoventi tedeschi con gli automezzi del reparto sono allineati sulla piazza di Argostoli. Secondo il capitano Longoni i prigionieri tedeschi sono 476.

Sul campo gli italiani dimostrano di avere una reale superiorità sui tedeschi. A Razata, anche grazie a un contrattacco notturno compiuto dalla compagnia del capitano Pantano, il battaglione tedesco è costretto a ritirarsi verso nord con pesanti perdite. Barge deve comunicare lo smacco al generale Lanz; la situazione appare molto critica per i tedeschi, attestati sull’estrema punta settentrionale del golfo di Livadi con quello che resta del 910° battaglione, mentre la penisola di Lixuri è difesa solo da una parte del 909°.

Ma il Comando italiano non approfitta della momentanea supremazia. Con la notte sospende l’inseguimento dei reparti tedeschi in fuga. Per quasi quaranta ore gli italiani restano fermi dando il tempo a Lanz di riorganizzare il suo dispositivo e la situazione si modificherà nei due giorni successivi, anche per le mancate scelte o per le scelte sbagliate del Comando italiano.

16 settembre. La momentanea supremazia italiana

I tedeschi hanno perso circa un terzo degli effettivi e sono costretti a ritirarsi verso la baia di Kyriaki per evitare di essere accerchiati. Barge comunica a Lanz di non avere forze sufficienti per un attacco che abbia garanzia di successo e chiede rinforzi. Il mattino successivo comunica al Comando di corpo d’armata che «Il nemico ha continuato nel corso della notte sul 16 settembre i suoi attacchi al 910° battaglione con un forte supporto di artiglieria. Le nostre forze non sono sufficienti per produrre un attacco che dia garanzia di successo. Il proseguimento dell’attacco sarà possibile solo dopo che saranno affluite forze fresche».

Dal generale d’armata Löhr si fa pressione sul generale Lanz perché siano assunte tutte le contromisure per fronteggiare la situazione: si chiede per due volte se Gandin è a conoscenza dell’ordine del Comando Supremo delle forze armate tedesche che «gli ufficiali italiani responsabili della resistenza sarebbero stati fucilati come franchi tiratori».

Löhr si raccomanda con Lanz:
«Deve essere comunicato, se al momento della consegna dell’ultimatum di deposizione delle armi è stato spiegato al generale Gandin l’ordine emesso l’11 settembre dall’ufficiale I a del Comando Gruppo armate E che si rifà a quello dell’Okw, cioè che in caso di rifiuto, nel momento in cui fossero caduti prigionieri, i comandanti responsabili della resistenza sarebbero stati fucilati».

Alle 21,00 Lanz risponde che il giorno 13 egli ne aveva parlato direttamente con Gandin, conferma di non aver lasciato dubbi in proposito e di avergli mandato un «ordine scritto»,
allegato al diario di guerra del 22° corpo d’armata:
«Se i miei ordini non saranno eseguiti, lei e i responsabili di questa mancanza sarete trattati in maniera molto severa».

Sempre il 16, all’alba, al momento dell’imbarco da Prevesa, il comandante delle operazioni Harald von Hirschfeld, aveva ordinato al maggiore Klebe di non fare prigionieri. In effetti i
tedeschi decidono subito di uccidere tutti gli italiani che a mano a mano si arrendono, ancora prima che giunga l’ordine di Hitler del giorno 18. Comunque Löhr riconferma la decisione di fucilare i responsabili della resistenza, a prescindere dall’aspetto formale.

Per quanto riguarda la resa del Gruppo tattico Fauth, il Comando di corpo d’armata decide di avviare un procedimento davanti al tribunale militare. Quando i tedeschi saranno liberati, nella zona di Troianata, il 22 settembre, l’ufficiale sarà immediatamente processato, degradato e condannato a cinque anni di carcere.

Cefalonia, dopo questo smacco, viene considerata «centro di gravità delle operazioni» del corpo d’armata; Lanz chiede l’intervento di tutti i caccia disponibili, mentre sulla costa greca, a Prevesa e ad Astakos, si concentrano i mezzi navali necessari per sbarcare sull’isola i rinforzi: due battaglioni e un gruppo di artiglieria della 1a divisione da montagna Edelweiss, composta prevalentemente da truppe austriache, oltre a un battaglione della 104a divisione Cacciatori.

Al mattino del giorno 16 sbarca a Cefalonia il maggiore Hirschfeld in sostituzione di Barge, che rimane responsabile solo del controllo della penisola di Paliki. Alle ore 15,00 arrivano tre navi che riescono a sbarcare due compagnie rinforzate. La nostra artiglieria non interviene. Lo sbarco di queste truppe di rinforzo continuerà fino alle ore 0,45 del 20 settembre nella baia di Aghia Kiriaky e in quella di Myrthos, rimaste sotto il controllo tedesco dopo il ritiro dei reparti italiani dalle alture di Kardakata ordinato da Gandin. Una scelta avventata, che ora comincia a rivelare tutta la sua gravità.

La prima decisione di Hirschfeld è quella di costituire una testa di ponte prima dell’istmo, presso Kardakata, in modo da rompere l’isolamento in cui si trovano le truppe attestate nella zona di Lixuri, nella penisola di fronte ad Argostoli. Alle ore 14,00 comunica:
«Il disimpegno dal nemico avviene senza che esso incalzi. Costituita testa di ponte attorno allo scalo marittimo della baia di Kiriaki da parte del Batt. 909° e 910°. Presentemente nessun contatto col nemico, al di fuori dell’intervento degli Stukas nessuna attività di combattimento».

Nel frattempo gli italiani sono avanzati di cinque chilometri, fino a Pharsa, ma non approfittano della difficile situazione tedesca per riprendere immediatamente l’iniziativa verso nord e per impedire lo sbarco dei rinforzi, anzi, Gandin introduce la regola che non si attacca di notte: dopo i combattimenti della prima notte, le operazioni italiane inizieranno così ogni giorno alle 6,00 del mattino per concludersi alle 19,00, mentre i tedeschi sono attivi per tutte le 24 ore.

16-17-18 settembre. Le battaglie di Kardakata e di ponte Kimonico-Divarata

In considerazione della nuova situazione tattica, il Comando italiano decide la riconquista del nodo stradale di Kardakata che permette i collegamenti con la penisola di Paliki, base della presenza tedesca sull’isola, con la baia di Aghia Kiriaky, sulla costa settentrionale, dove continuano a sbarcare i rinforzi nemici, con la zona orientale di Cefalonia, dove sono la penisola di Erisos e l’importante porto di Sami, di fronte all’isola di Itaca.

Per l’attacco previsto il 16 settembre Gandin sceglie il 317° Reggimento che non ha esperienza di combattimento e non sembra essere il più adatto a sostenere il compito più impegnativo. Le migliori unità, il 2° e il 3° battaglione del 17° reggimento lasciano invece la penisola di Argostoli e ritornano in difesa costiera, lontani dal campo di battaglia.

L’attacco viene condotto in un’area montagnosa nella zona compresa tra le località di Pharsa e Divarata, con l’obiettivo di accerchiare le truppe tedesche, dal primo battaglione del 317° reggimento fanteria, al comando del capitano Neri, col concorso di una compagnia cannoni del 17° reggimento fanteria: hanno il compito di prendere Kardakata; dal 2° battaglione del 317°, al comando del maggiore Fanucchi e, successivamente, dal 3° battaglione del 317°, comandato dal tenente colonnello Siervo, che devono dirigersi verso il rilievo del Kutsuli, coprendo così il fianco est dell’attacco; dal 1° battaglione del 17° reggimento del tenente colonnello Dara, appoggiato da sette batterie del 33° reggimento artiglieria, che deve occupare le località di Pharsa e Kuruklata.

La difesa tedesca si avvale del 910° battaglione, ovvero di un reparto del vecchio contingente di Cefalonia, e del 3° battaglione del 98° reggimento da montagna del maggiore Klebe, giunto di rinforzo, oltre a una sezione di semoventi. Di nuovo risulta decisivo il predominio dello spazio aereo: il 16 settembre settantanove Ju 87, venti Ju 88 e due He 111 attaccano Argostoli, la costa orientale del golfo e l’insenatura di Livadi; contemporaneamente sette Ju 52 e quattro Ju 88 effettuano voli di rifornimento per le truppe della zona di Lixuri, cinque Bf 109 attuano ricognizioni nel settore nord-occidentale
e altri dieci Ar 196 in quello sud-occidentale; nei giorni successivi le missioni continuano un po’ su tutta l’isola, mentre vengono lanciati sui centri abitati circa centomila volantini che invitano gli italiani alla resa.

Durante i combattimenti Gandin non impiega il principale punto di forza della divisione, i grossi calibri dell’artiglieria. Nei depositi vi sono quattromila colpi che non vengono utilizzati, in particolare rimangono inattive le batterie da 155/14 e quella da 155/36, che il giorno 16 avrebbero potuto impedire gli sbarchi tedeschi nella baia di Kiriaki e nei pressi di capo Akrotiri, che garantiscono i rinforzi indispensabili nel momento più critico per i tedeschi. Anche i semoventi tedeschi catturati nella notte del 15 rimangono fermi.

Tuttavia le artiglierie uccidono 12 soldati tedeschi e altri 15 rimangono feriti durante due sbarchi effettuati il giorno 17 dal gruppo di combattimento Klebe. Nel corso di questa giornata risultano le seguenti operazioni aeree nemiche: per i bombardamenti a terra sono utilizzati trentuno Ju 87 e sette Ju 88 sulla costa del golfo di Myrthos, sulla costa di Sami, a sud di Dilinata e nella zona tra Pharaklata, Argostoli e Sarlata; i rifornimenti sono assicurati da sei Ju 111, due Ju 88 e sei idrovolanti Ju 52 per Lixuri e Kardakata; nelle ricognizioni nel settore nord-occidentale sono impiegati tre Bf 110 e due Bf 109.

Nonostante alcuni parziali successi italiani, la conquista di Pharsa e Kuruklata, a prezzo di gravi perdite e di molteplici episodi di eroismo di ufficiali, sottufficiali e soldati, la battaglia si conclude con un fallimento complessivo dell’offensiva e con la tragica disfatta del 1° battaglione del 317° reggimento, bloccato sul ponte Kimoniko danneggiato in precedenza dai tedeschi, che è sorpreso all’alba del 17 settembre, poco prima dell’attacco, dai cacciabombardieri tedeschi in un terreno privo di difesa.

Costretti a ripiegare verso Divarata da un contrattacco di due compagnie dipendenti dal maggiore Klebe, nonostante l’azione dei capitani Gasco e Olivieri, che riescono a riorganizzare provvisoriamente una linea di resistenza, i reparti superstiti del battaglione sono sterminati nel corso di combattimenti che si protraggono dalle 6,00 alle 10,30 del 18 settembre.

Rimangono sul terreno 37 ufficiali e 400 soldati italiani, ma non tutti sono caduti nello scontro a fuoco, molti sopravvissuti sono eliminati al termine della battaglia, come si evince dal rapporto del tenente colonnello Salminger:
«Tutti gli italiani furono uccisi in combattimento, salvo coloro che erano ancora necessari come portatori di munizioni»!

Contemporaneamente Klebe inizia il rastrellamento dei reparti italiani isolati e poco numerosi dispersi nella parte nordorientale dell’isola, verso Phiskardo e Assos. Al mattino del 17, il generale Lanz raggiunge in volo Cefalonia. Oltre a rendersi conto di persona della situazione sul campo deve verificare se Gandin è a conoscenza delle conseguenze della scelta di non cedere le armi, ovvero che non ci sarebbero stati prigionieri: effettivamente è lui a telefonare al comandante italiano, si noti che durante la battaglia i collegamenti telefonici tra italiani e tedeschi rimangono attivi fino alla fine!

Nel suo diario personale Lanz scrive:
«Ore 12,30. A Cefalonia col maggiore Lidler. Lì colloquio telefonico con il generale Gandin. Ordine scritto a Gandin. Ore 17,00 ritorno a Jannina».

Se Lanz ha comunicato a Gandin la richiesta di resa incondizionata e le conseguenze terribili di un eventuale rifiuto, la notizia non viene però comunicata ai reparti. Gli ufficiali italiani che si arrendono sono convinti di essere trattati da prigionieri di guerra.

Nello stesso giorno il contrammiraglio Giovanni Galati, da Brindisi, col consenso del ministro De Courten, fa partire per Cefalonia le due torpediniere Sirio e Clio, per portare medicinali e armi, ma viene fermato dall’ammiraglio inglese Peters perché sono senza l’autorizzazione alleata; le due imbarcazioni saranno successivamente mandate a Corfù, poiché il Comando alleato del Cairo pretende che gli italiani abbiano il controllo dei porti di attracco, che secondo loro non sarebbe più garantito a Cefalonia.

Il giorno precedente l’ammiraglio Peters aveva imposto l’internamento anche delle torpediniere e delle corvette, togliendo così agli italiani la possibilità di continuare il recupero delle truppe nei Balcani. Per Cefalonia non vi saranno altri tentativi.

Ancora il 20 settembre Ambrosio informa della situazione drammatica delle nostre truppe il capo della Missione militare alleata:
«Debbono essere riportati in Patria dalla zona di Spalato e dalla zona di Santi Quaranta per ora 30.000 uomini circa. La Marina italiana ha i mezzi disponibili, che però debbono essere scortati da navi da guerra. Tale scorta può essere fatta con le due torpediniere di Brindisi, le due torpediniere di Taranto e le corvette di Brindisi. È urgente che la parte italiana abbia libertà d’azione per fare i suddetti rapporti con le dovute scorte, aggiungendo che le truppe da ricuperare difettano già di viveri».

Nei giorni successivi continua il dialogo tra sordi: da una parte il Comando Supremo che trasmette le richieste di aiuto provenienti da Corfù e da Cefalonia e che chiede un intervento dell’aviazione anglo-americana, dall’altra gli inglesi che sono interessati ad avere manovalanza da impiegare a Brindisi o a Bari.

Lo storico Paoletti fa notare che i due soli interventi fatti dall’aviazione alleata su Corfù sono quelli del 7 settembre 1943, quando viene distrutto l’acquedotto della città, lasciandola senza acqua potabile nelle settimane in cui dovrà sostenere l’attacco tedesco, e il 9-10 ottobre, quando viene colpito e affondato il piroscafo Rosselli, con a bordo 5.500 italiani prigionieri di guerra dei tedeschi, facendo centinaia di vittime.

Il 18 settembre arrivano gli ultimi contingenti tedeschi di rinforzo

Per decisione di Hitler giunge al Comando Supremo delle forze armate tedesche e successivamente al Gruppo armate E e al generale Löhr l’ordine di «non fare prigionieri fra gli italiani [a Cefalonia] a causa del comportamento improntato al tradimento e alla perfidia tenuto dal presidio dell’isola». Altri ordini di servizio dello stesso tenore giungono entro il giorno successivo. Di queste disposizioni le truppe tedesche impegnate nelle operazioni a Cefalonia sono ampiamente coscienti, essendo state invitate dallo stesso Löhr a procedere «senza farsi alcuno scrupolo».

Per ordine di Gandin i reparti vanno all’attacco solo di giorno, normalmente cominciano alle 6,00 del mattino, mentre di notte rimangono sulle proprie posizioni. Ma in questo modo ogni azione si svolge con l’intervento sistematico degli Stukas, che rendono estremamente costoso ogni attacco. Inoltre le posizioni tedesche sovrastano quelle italiane, per cui questi ultimi partono sempre in svantaggio. Il 18 non vi sono operazioni aeree tedesche, perché gli alleati hanno bombardato con circa 200 aerei l’aeroporto di Araxos, in Grecia, ma gli italiani non ne approfittano per evitare lo sbarco dei rinforzi tedeschi, che in effetti procedono indisturbati.

Dal 16 settembre tutti i messaggi che partono da Cefalonia per Brindisi richiedono l’intervento dei caccia, che però non arrivano. Il giorno 19 Gandin comunica:
«Occupazione tedesca limitata penisola Lixuri-capo Munta alt urge intervento caccia onde eliminare eventuale sbarco».

Il messaggio in realtà non corrisponde alla reale situazione sul campo, dove, come sappiamo, i tedeschi hanno ormai il controllo di gran parte della costa nord dell’isola, del passo di Kardakata, che Gandin non nomina mai nei suoi messaggi, come fa notare Paoletti, e sono assai più vicini al capoluogo di quanto Gandin non dica. I tedeschi non provengono ormai solo più dalla penisola di Paliki, ma anche dalle zone degli sbarchi del 16, del 17 e del 18, sulle spiagge lasciate scoperte dal ritiro italiano della settimana precedente. A capo Munta, inoltre, la battaglia è già terminata a nostro sfavore.

La notte tra il 18 e il 19 passa senza combattimenti, come  anche il giorno seguente. Il motoscafo veloce della Croce rossa viene fatto partire per l’Italia per chiedere aiuto. Senza aviazione, comunque, la sorte della Acqui è segnata. Il 19 settembre dodici Ju 87 attaccano sulla costa di Myrthos, mentre altri aerei colpiscono sulla baia di Sami e verso Dilinata, sei aerei lanciano altri centomila volantini nelle zone del capoluogo e di Sami, ancora il 20 settembre venti Ju 87 attaccano le strade a est di Antipata, presso Argostoli.

Alle pressanti richieste di aiuto di Gandin, il Comando Supremo risponde: «Impossibilità invio aiuti richiesti alt Infliggere nemico più gravi perdite possibili alt Ogni vostro sacrificio sarà ricompensato alt Ambrosio». In realtà a Brindisi non ci si rende conto della drammaticità della situazione nelle isole; il 19 settembre, ad esempio, si propone ai comandi alleati: «di soccorrere il presidio oppure di prevedere impegno del naviglio per sgomberare, a suo tempo, le nostre truppe»; ancora il 21 dall’Italia arriva ai comandi della Acqui l’autorizzazione a inviare proposte a mezzo radio «per premiare tempestivamente atti di valore»!

Il maggiore Hirschfeld mantiene saldamente il controllo del nodo di Kardakata, da cui, appena avesse ricevuto tutte le truppe di rinforzo, avrebbe dovuto lanciare l’attacco finale
contro i concentramenti italiani, a settentrione, nel settore di Marketata, e a sud, verso Argostoli. Il 19 e il 20 settembre il generale Lanz è in visita a Cefalonia. L’offensiva è fissata per il 21 settembre. Hirschfeld ha a disposizione il 910° battaglione da fortezza del maggiore Fritz Nennstiel, il primo battaglione del 724° reggimento cacciatori del maggiore Gerhard Hartmann, il terzo battaglione del 98° reggimento cacciatori da montagna del maggiore Reinhold Klebe, il 54° battaglione cacciatori da montagna del maggiore Wilhelm Spindler, due batterie di obici e una sezione di cannoni da montagna del 79° reggimento artiglieria del maggiore Franz Wagner.

18-19 settembre. La battaglia di capo Munta

È in questo contesto che il Comando di divisione assume una decisione che risulta, nell’economia complessiva della battaglia, inspiegabile. L’attacco a una postazione tedesca in via di allestimento sull’estrema punta meridionale di Cefalonia, a capo Munta, a circa cinquanta chilometri dalla zona delle operazioni principali. Un’iniziativa che anche in caso di rapido successo non avrebbe avuto alcuna ripercussione sul teatro di guerra del golfo di Argostoli.

Il capo è situato sul punto più meridionale di Cefalonia e divide le spiagge di Katelios e di Skala, la posizione rialzata permette di controllare le due spiagge per proteggere o impedire eventuali sbarchi, oltre che dominare il mare prospicente. Gandin, in agosto, aveva permesso ai tedeschi di sistemare una batteria sulla punta e il 13 settembre aveva ritirato il 1° battaglione del 17° reggimento e un reparto di mitraglieri dalle due baie e li aveva trasferiti nella piana di Kraneia, in questo modo aveva messo a loro disposizione una posizione utile per sbarcare truppe e per controllare le rotte sul mare antistante.

Tre giorni dopo, il 16, il comando di fanteria divisionale viene incaricato di attuare un colpo di mano entro il giorno 18 contro la postazione tedesca, costituita da una cinquantina di genieri della Kriesmarine al comando del tenente Rademaker, con due mitragliere e sei mortai. Le fortificazioni campali della postazione, anche se non complete sono ben organizzate con ben tre linee di reticolati. Viene costituito un battaglione al comando del maggiore Oscar Altavilla, con due compagnie di fanteria, quelle del capitano Bianchi e del capitano Balbi, sono aggregati anche quattro plotoni mortai, due di mitraglieri e due cannoni.

Nel frattempo, il 17, il capitano Apollonio, in accordo col comandante della Marina Mastrangelo, chiedeva al colonnello Romagnoli di effettuare l’attacco con centoventi volontari, ma la proposta veniva respinta. In realtà il Comando decide un’azione in grande stile, allontanando dal teatro principale dei combattimenti reparti che sarebbero stati molto più utili per fronteggiare l’attacco contro Argostoli (i tedeschi erano a 4 chilometri dal capoluogo), mentre il controllo della batteria tedesca, a cinquanta chilometri, non avrebbe inciso granché sul complesso delle operazioni, anche perché i tedeschi avevano a disposizione per gli sbarchi le due baie nella parte settentrionale dell’isola.

Tra l’altro, il reparto tedesco era controllato a vista da un plotone italiano che impediva l’arrivo dei rifornimenti, tanto che la ridotta guarnigione tedesca si trovava a corto di vettovaglie, mentre rimarranno inattivi, nei giorni della battaglia, le batterie italiane di capo Sostis e quelle collocate tra Chelmata e Lardigò, costituite dai grossi calibri da 155/36 e da 155/14 che avrebbero potuto essere avvicinati all’obbiettivo di qualche chilometro per essere operativi.

Quindi risulta poco comprensibile la decisione di attaccare la postazione con un’operazione effettuata di giorno, su un terreno spoglio, sotto l’azione dell’aviazione e delle mitragliatrici tedesche. Le operazioni iniziano alle 23,00 del giorno 18 con l’occupazione di basi avanzate nella zona di Skala; c’è un po’ di confusione nel coordinamento tra i vari reparti, la preparazione dell’attacco si rivela insufficiente; quando, alle 2,00 del 19, le due compagnie iniziano l’attacco, i reticolati sono ancora intatti.

Vi sono le prime perdite, alcune squadre penetrano nel caposaldo, ma uno dopo l’altro muoiono tutti gli ufficiali della settima compagnia; la risposta tedesca è efficace. All’alba arrivano nove cacciabombardieri tedeschi che completano l’opera. Il maggiore Altavilla è costretto a sospendere l’azione, abbandonando sul terreno i feriti. Alla fine sono caduti in combattimento 5 ufficiali esperti e circa 50 soldati. Un centinaio tra feriti e prigionieri sono tutti uccisi e i corpi buttati in mare.

Poche ore dopo, la stessa tragica sorte toccherà a 18 soldati provenienti dall’isola di Zacinto, arrivati a Cefalonia per partecipare ai combattimenti contro i tedeschi; finiranno proprio a capo Munta e saranno uccisi dallo stesso reparto del tenente Rademaker.

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