CEFALONIA 1943, TANTE “VERITÀ” – 17

a cura di Cornelio Galas

Siamo nella fase cruciale, quella che precede l’eccidio dei soldati, degli ufficiali italiani a Cefalonia. Anche su questo Carlo Palumbo nel suo libro fornisce una serie di documenti più che altro trovati in Germania.

di Carlo Palumbo

Un bilancio della resistenza italiana nei Balcani

Complessivamente il Comando tedesco dovrà spostare nei Balcani circa quindici divisioni per garantirne l’occupazione e sostituire le forze italiane. Sono truppe che vengono sottratte ad altri settori del conflitto. In numerose occasioni i soldati italiani hanno impegnato quelli tedeschi, nonostante solo in qualche caso vi sia stato un aiuto concreto da parte inglese; le armate italiane si sono trovate senza indicazioni univoche del Comando Supremo e i comandi inferiori sono stati lasciati soli a decidere quale azione contrapporre all’iniziativa tedesca.

Sarebbe stato certamente possibile organizzare una diversa e più coordinata risposta da parte degli stati maggiore italiano e inglese. Si tratta perciò di una grossa occasione perduta. È da notare, inoltre, che i comandi italiani hanno spesso preferito trattare con quelli tedeschi piuttosto che con le organizzazioni partigiane o con gli stessi inglesi. Ben diverso sarebbe stato l’effetto di una risposta coordinata in precedenza tra il Comando delle armate italiane nei Balcani e quello inglese del Medio Oriente.

Invece è prevalsa l’improvvisazione e la disorganizzazione delle autorità militari italiane che hanno preferito salvare il ruolo di una casta militare compromessa col vecchio potere, piuttosto che rischiare la collaborazione con le forze che si opponevano al nazi-fascismo. Da parte loro, gli alleati, gli inglesi soprattutto, hanno preferito la dissoluzione dell’esercito
italiano, ridimensionando così la forza militare di un temibile concorrente nel Mediterraneo.

GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI CATTURATI
DAI TEDESCHI DOPO L’8 SETTEMBRE

Quanti sono i militari italiani internati dai tedeschi? Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 l’Italia interrompe l’alleanza con la Germania di Hitler e mantiene una situazione di incertezza del proprio status internazionale fino alla dichiarazione di guerra alla stessa Germania, resa pubblica il 13 ottobre, che trasforma il nemico di ieri in cobelligerante degli alleati.

Nel pomeriggio dell’8 settembre, la Germania attua il suo piano che tende a mettere fuori gioco l’esercito italiano nelle zone di occupazione subito dopo l’armistizio, disarmando in totale oltre 1.000.000 di soldati italiani; di questi circa 200.000 riescono a fuggire oppure ottengono rapidamente la liberazione in seguito a specifici accordi intervenuti tra i comandanti tedesco e italiano; altri muoiono nel corso dei trasferimenti verso i luoghi di destinazione oppure aderiscono a vario titolo alle forze nazi-fasciste; circa 650-700.000 raggiungono i luoghi di deportazione in Germania, in Polonia, in Bielorussia e in Ucraina; altri 100.000 rimangono nei Balcani.

Le cifre fornite sul numero dei soldati italiani internati dalla Germania sono abbastanza variabili; tra quelle più attendibili vi sono i dati forniti dallo storico Gerhard Schreiber, sulla base dell’esame delle fonti tedesche dell’Archivio militare federale di Friburgo, che indica in circa 644.000 i soldati italiani catturati dalle truppe tedesche: 207.000 sul territorio nazionale, di cui 183.000 nell’Italia settentrionale di competenza del Gruppo armate B di Rommel, 24.000 nell’Italia centro-meridionale sotto il controllo del Gruppo armate sud di Kesserling; 49.000 in Francia dal Comando ovest; 388.000 nei Balcani e nelle isole da reparti alle dipendenze del Comando sud-est; 25 dai reparti impegnati sul fronte russo, più altri 70 che si trovavano presso reparti romeni.

Il numero degli internati tenderà a ridursi nel corso della  guerra: nel febbraio 1944 risultano essere circa 617.000, mentre  oscillano tra 595.000 e 610.000 quando gli Internati militari  italiani (I.M.I.) saranno trasformati in «lavoratori civili».

Perché «internati militari» e non «prigionieri di  guerra»?

L’espressione con cui sono inquadrati i prigionieri italiani  dopo la costituzione della Repubblica sociale italiana, avvenuta  il 18 settembre 1943, «internati militari italiani» non è puramente  formale, essa serve a distinguere i soldati italiani assegnati  a campi chiamati Stalags o Oflags dagli altri prigionieri di  guerra ai quali sono applicate le garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra del 1929 e rinchiusi nei Krigsgefangenenlager.

Soldati italiani prigionieri in attesa: gli ufficiali sulle sedie, i fanti per terra o in piedi.
Bundesarchiv Koblenz.

Come già nella fase della cattura dei soldati, nelle prime  settimane, – quando il rischio in caso di resistenza era la fucilazione,  in quanto «franchi tiratori», perché appartenenti a  un paese che non era considerato formalmente in guerra con  la Germania – la condizione degli italiani «Internati» sarà diversa  da quella degli eserciti delle Nazioni unite, con la sola  eccezione dell’Armata rossa, alla quale era riservata la sorte  peggiore.

Ad accentuare il loro l’isolamento, infatti, contribuirà l’impossibilità da parte del Comitato internazionale della Croce  rossa di fornire una qualsiasi assistenza per ridurre, ad esempio,  la sofferenza per fame e per freddo, tanto che la loro mortalità  sarà notevolmente più alta di quella di tutti gli altri prigionieri  di guerra; quattro volte superiore, ad esempio, a quella dei  francesi che ne ricevevano regolarmente i soccorsi.

A opporsi all’intervento della Croce rossa non sono solo i  tedeschi, che hanno posto gli italiani fuori dalle convenzioni  internazionali; sono contrari gli inglesi che continuano a vedere  in loro gli ex nemici da punire, e pone ostacoli anche la Repubblica  sociale italiana, che non farà nulla per trovare strade  informali per l’invio degli aiuti umanitari, come già avveniva,  ad esempio, per i deportati politici.

La Repubblica sociale, almeno inizialmente, considera il  passaggio dei soldati italiani da «prigionieri di guerra» a «internati  militari» un miglioramento di status che avrebbe facilitato  il rientro in Italia e l’inquadramento nel nuovo esercito  repubblicano dei soldati; al contrario, gli appelli per il reclutamento  non avranno successi significativi.

La denominazione compare ufficialmente il 24 settembre,  per ordine esplicito di Hitler. Il principale obiettivo dei tedeschi  è quello di utilizzare il maggior numero possibile di italiani  nell’industria bellica, a fianco o in sostituzione dei soldati russi  che avevano un’alta mortalità, per sopperire a una carenza di  manodopera che sta diventando sempre più grave. La Convenzione  di Ginevra vietava espressamente l’utilizzo nel lavoro di prigionieri, perciò la specifica denominazione serviva bene  a questo scopo.

Il comportamento tedesco non sarà dettato solo da ragioni  di diritto internazionale: da una parte c’è la necessità di fare del caso italiano una dura lezione per gli altri paesi asserviti o  alleati, per impedire ulteriori defezioni che indeboliscano ulteriormente la posizione strategica tedesca, già messa a dura  prova dall’offensiva sovietica.

Dall’altra vi è anche una ragione psicologica a motivare le  asprezze e il rancore del soldato tedesco: la convinzione di essere  stato tradito dall’ex alleato, un’esperienza che già si era  fatta sentire trent’anni prima, quando, nel 1915, gli italiani  avevano abbandonato l’alleanza con il Reich tedesco e con  l’Impero Austro-ungarico per schierarsi con le potenze «plutocratiche  »: Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti; un sentimento  che doveva essere ancora forte, dato che non pochi  soldati del Führer avevano già combattuto, soprattutto se ufficiali  o di origine austriaca, – o lo avevano fatto i loro genitori –  sul fronte italiano.

Per queste ragioni la condizione dell’internamento di questi soldati sarà particolarmente dura.  In genere vengono assegnati a campi sotto l’autorità della  Wehrmacht o dell’Aviazione; non sono rari, però, i casi in cui  i soldati sono rinchiusi in campi di punizione (ad esempio per  atti di sabotaggio o perché si rifiutano di lavorare) o in campi di deportazione politica o razziale; alcune migliaia finiscono,  così, nei campi di lavoro e di sterminio delle SS, come Dora e  Dachau, i cosiddetti Konzentrationslager.

Alla fine della guerra saranno 40.000-50.000 i militari italiani   scomparsi nei campi tedeschi, morti d’inedia, per le sevizie,  uccisi per rappresaglia e a seguito di esecuzioni sommarie. A  questi vanno aggiunti coloro che sono morti dopo il rimpatrio in conseguenza a gravi malattie, in particolare la tubercolosi,  contratte durante la prigionia.

Il trattamento subìto da ufficiali e soldati  Ai militari italiani internati, soprattutto agli ufficiali, poco  dopo l’arrivo nei campi, viene prospettata l’alternativa di collaborare  con l’esercito nazista; con la costituzione della Repubblica  sociale italiana sono gli stessi inviati militari e civili  di Mussolini a proporre il ritorno immediato in Italia in cambio  dell’ingresso nelle formazioni militari fasciste repubblicane in  via di riorganizzazione o di nuova costituzione. Sia in un caso  che nell’altro le adesioni saranno limitate a quegli elementi  già convinti politicamente e ideologicamente a entrare nelle  formazioni politicizzate, come le SS, che accettano anche adesioni  di volontari stranieri.

A partire dal mese di dicembre la propaganda diventa più  efficace, anche per le conseguenze dell’internamento sul morale  dei soldati e degli ufficiali ai quali viene proposto non  tanto l’adesione alla guerra fascista, quanto il rientro in Italia.  Nel complesso un quarto degli ufficiali, circa 8.000 su 30.000,  e il 10% dei soldati finisce con l’aderire all’offerta di rimpatrio.

Ufficiali e soldati non vivono le stesse condizioni di internamento.  I primi, dopo il febbraio 1944, sono rinchiusi in grandi  campi per ufficiali, gli Oflager, dove, almeno inizialmente, sono  esentati dai lavori pesanti; in primavera, però, anche agli ufficiali viene richiesto l’avviamento al lavoro volontario, in cambio  di un miglioramento delle condizioni di vita, ma non tutti  accettano. Il 4 marzo 1944 viene emanato il cosiddetto «decreto pallottola», che prevede per gli ufficiali e sottufficiali  prigionieri fuggiti e nuovamente catturati (con l’eccezione di  inglesi e americani), il trasferimento segreto in un reparto del  campo di Mauthausen, dove sarebbero stati uccisi, appunto,  con un colpo alla nuca.

La «scomparsa» non sarebbe stata  comunicata ufficialmente, in quanto il prigioniero «non sarebbe  stato ripreso». Nell’estate 1944, su richiesta di Mussolini,  il governo tedesco trasforma i militari italiani in «lavoratori  volontari» e dall’autunno anche per gli ufficiali comincia a  essere introdotto il lavoro forzato. I pochi che si rifiutano finiscono  nei campi di punizione, in condizioni di sopravvivenza  estremamente difficili. La liberazione avviene a partire dall’aprile  1945, anche se il rimpatrio completo si conclude solo  nel mese di settembre.

Le condizioni generali dei soldati internati non sono diverse  da quelle degli ufficiali, anche se peggiori sono la disciplina e  il vitto, la differenza sta soprattutto nel lavoro forzato che viene imposto da subito ai soldati, per dodici ore al giorno,  con un riposo settimanale. Quelli che possono essere utilizzati  come lavoratori qualificati sono assegnati all’Organizzazione  Sauckel.

Gli italiani si confondono con milioni di deportati,  prigionieri russi, civili slavi, ebrei, deportati politici, tutti addetti  a lavori indispensabili per l’economia di guerra, in genere  molto faticosi se non massacranti, anche per le condizioni  ambientali in cui si svolgono, con un’alimentazione al di sotto  del livello di sopravvivenza, con i prigionieri sottoposti alle  minacce e alle punizioni, non di rado anche mortali.

Moltissimi lavorano alla costruzione del Vallo orientale.  Nella maggior parte, oltre la metà, sono impiegati nel settore  minerario, metallurgico, chimico, dove le condizioni sono peggiori;  al contrario gli italiani, come i russi, sono poco impiegati  in agricoltura, dove le condizioni sono migliori.  Nell’agosto del 1944, gli Imi, su un totale di 424.328 unità, risultano così impiegati: 29.916 in agricoltura, 43.684 nelle  miniere, 179.988 nell’industria metalmeccanica, 24.485 in  173  quella chimica, 45.543 nelle costruzioni, 29.812 nei trasporti.

I casi più terribili riguardano i soldati costretti nelle miniere  della Slesia e della Renania; i circa 1.000 deportati nel Konzentrationslager  Dora, addetti allo scavo di due enormi gallerie  dove sono costruiti i razzi V2, dove muoiono 304 militari, ma  vi sono rinchiusi anche 419 deportati politici italiani di cui  119 muoiono nel campo; i 1.800 detenuti del carcere militare  di Peschiera, quasi tutti deceduti a Dachau.

Il cambiamento di status in «lavoratori civili», avvenuto nell’estate  del 1944, ha poche conseguenze sulle condizioni dei  soldati, già sottoposti al lavoro forzato. Tuttavia, al 1° gennaio  1945 sono ben 69.300 gli internati italiani che non hanno ancora  firmato il provvedimento di passaggio allo stato civile.  Alla fine della guerra, sul fronte orientale, i tedeschi in  ritirata massacrano centinaia di soldati italiani. I sopravvissuti  iniziano lentamente a rientrare in Italia per mezzo di lunghi  convogli che attraversano l’Europa centrale sconvolta dalla  guerra e percorsa da milioni di profughi di ogni tipo.

PRINCIPALI OPERAZIONI MILITARI  DURANTE LE TRATTATIVE
DEL 9-15 SETTEMBRE 1943

Il generale Gandin il giorno 11 ordina l’abbandono del nodo  stradale di Kardakata, che viene rapidamente occupato da reparti  tedeschi del battaglione 909 (1)*, trasferito dalla zona di Lixuri;  sotto controllo tedesco passa anche la spiaggia di Aghia Kyriaki, sulla costa nord-occidentale. Il 3° battaglione del 317° reggimento  (2) viene trasferito da Kardakata nella zona del cimitero di Argostoli.

Nello frattempo il 2° battaglione (3) si sposta da Frankata a Razata, avvicinandosi al capoluogo, mentre il comando di reggimento  viene spostato a Valsamata (4). Le batterie del 33° reggimento artiglieria,  già disposte lungo la costa a sud di Argostoli, sono ricollocate  a protezione del capoluogo e dell’accesso al porto, all’interno  della baia di Livadi. Intanto i tedeschi disarmano e fanno prigionieri  i reparti italiani rimasti nella penisola di Paliki: le batterie di Chavriata  (5), capo San Giorgio (6) e capo Akrotiri (7), le caserme dei  Carabinieri e della Guardia di Finanza di Lixuri (8).

Il 13 settembre  le batterie del 33° reggimento e della Marina bloccano un tentativo  di sbarco di due motozattere tedesche (9) nel porto di Argostoli.  Entrano in azione la 3a di Apollonio (10), la 1a di Pampaloni (11),  la 5a di Ambrosini (12), oltre alla batteria di Marina E208 comandata  da Mastrangelo (13).
* La cifra tra parentesi indica il riferimento sulla carta n. 6.

BATTAGLIE DI ARGOSTOLI  (15-16 SETTEMBRE),

DI KARDAKATA E PONTE  KIMONIKO-DI VARATA (16-18 SETTEMBRE),

DI CAPOMUNTA (18-19 SETTEMBRE)

La battaglia inizia il 15 settembre con un attacco aereo tedesco  sul capoluogo e sulle alture circostanti (1), contemporaneamente il  gruppo tattico Fauth procede contro le posizioni italiane sul monte  Telegrapho (2), mentre il 910° battaglione si dirige verso il capoluogo da nord, dopo avere occupato Pharsa (3).  Nel corso della notte viene respinto un tentato sbarco verso capo  San Teodoro (4) e si assiste ad una vittoriosa controffensiva italiana:  il 2° (5) e il 3° (6) battaglione del 17° reggimento costringono alla  resa il gruppo tattico Fauth, forte di circa 500 uomini e di una batteria  di semoventi.

Contemporaneamente tre battaglioni italiani,  il 1° del 17° reggimento (7), il 2° (8) e il 3° (9) del 317° reggimento,  contrattaccano il 910° battaglione tedesco (10), che è costretto a  ritirarsi velocemente verso la baia di Kyriaki (11) inseguito dalle  truppe italiane, che puntano sul passo di Kardakata (12) senza  però raggiungere l’obiettivo.

Nel corso del 16 sbarcano sull’isola i rinforzi tedeschi del 98°  reggimento (13), con una testa di ponte nella baia di Aghia Kiriaky,  mentre rimane sotto il loro controllo Kardakata. Lo stesso giorno  gli italiani cercano di riprendere il passo ceduto solo pochi giorni  prima: il 2° e il 3° battaglione del 317° reggimento e il 1° del 17°  procedono da sud e da sud-est e attaccano le posizioni tedesche  senza ottenere risultati positivi, ma subendo forti perdite.

Da nord-est avanza invece il 1° battaglione del 317° reggimento  (14), che viene sorpreso all’alba del giorno 17 dagli uomini del  98° reggimento del maggiore Klebe a ponte Kimoniko (15) e distrutto.  Dal 18 settembre, mentre arrivano gli ultimi rinforzi, i reparti tedeschi procedono al rastrellamento dei soldati italiani rimasti  nella zona passata sotto il loro controllo (16).

Lontano dal teatro  principale delle operazioni, sulla punta sud-orientale dell’isola, a  capo Munta, nei giorni 18 e 19 si svolge un altro combattimento  disastroso per i reparti italiani, che nel tentativo di riprendere la  postazione abbandonata pochi giorni prima ai tedeschi, perdono  due compagnie del 17° reggimento (17).

LA FASE FINALE DELLA BATTAGLIA
21-22 SETTEMBRE 1943

Per la mattina del 21 settembre Gandin ha previsto un secondo  attacco per riprendere il passo di Kardakata. Sono pronti il 2° battaglione  del 317° reggimento sulle alture del Kutsuli-Vrochonas  (1) e il 3° battaglione disposto più a est (2), oltre al 1° battaglione  del 17° reggimento vicino alla linea di costa, all’altezza di Pharsa  (3).  All’alba del 21 settembre i tedeschi precedono la prevista offensiva  italiana prendendo di sorpresa i nostri reparti, con due colonne  che scendono lungo la rotabile Dragata-Phalari-Dilinata.

La prima  è costituita dai battaglioni 910 (4), già attestato sulle alture di Kuruklata,  più vicine alla linea di costa, e dal 1°/724 (5) del maggiore  Hartmann. La seconda è comandata dal maggiore Klebe e comprende  il 3°/98 (6) e il 54° battaglione (7), che si dirigono verso il monte Kutsuli.  Il 1°/724 intorno alle 2,00 della notte aggredisce il 3° battaglione  del 317° reggimento e lo distrugge. Alle 8,00 del mattino i tedeschi  concentrano il loro attacco sul monte Kutsuli e annientano le batterie  del 33° reggimento di artiglieria (8); alle 14,00 il gruppo  Klebe arriva nella zona Frankata-Valsamata-san Gerasimo (9),  dove sono i servizi divisionali; anche questi reparti sono spazzati  via.

Intanto la fanteria tedesca affronta, sulla costa tra Kuruklata e  Pharsa, il 1° battaglione del 17° reggimento (3) e lo sbaraglia. A  sera i principali obiettivi sono stati raggiunti. Il 22 settembre sono  messi a tacere gli ultimi reparti italiani: alle 12.00 quello che rimane  del 1° e del 3° battaglione del 17° reggimento fanteria è costretto  al silenzio nella zona tra Razata e Procopata (10).

Nel primo pomeriggio le avanguardie del gruppo Klebe entrano  ad Argostoli (11) e mettono fine all’ultima resistenza italiana nella  caserma dei Carabinieri, fucilando i sopravvissuti che si sono arresi.  Nel frattempo era arrivata l’offerta di resa del generale Gandin  dal quartier generale di Keramies, vicino Metaxata (12).

LE OPERAZIONI MILITARI A CORFÙ
DAL 9 AL 25 SETTEMBRE

A Corfù il comandante, colonnello Lusignani, con circa 4.000  uomini, in prevalenza appartenenti al 18° reggimento fanteria  della divisione Acqui, decide di rifiutare l’ultimatum tedesco e di  combattere.  Il giorno 13 viene respinto un tentativo di sbarco a sud del capoluogo,  contemporaneamente i reparti tedeschi presenti, circa 400  uomini, sono catturati e disarmati.

Nei giorni successivi l’isola viene sottoposta a bombardamenti  continui, mentre da Porto Edda-Santi Quaranta giungono reparti  italiani in fuga dalla Grecia e dall’Albania, in particolare il 49°  reggimento della divisione Parma comandati dal colonnello Bettini.  Tra il 23 e il 24 settembre i tedeschi riescono a sbarcare in forze  e il giorno successivo gli italiani sono costretti alla resa.

Nei combattimenti  o in seguito alle fucilazioni avvenute immediatamente  dopo la fine degli scontri muoiono 640 tra soldati, sottufficiali e  ufficiali, tra questi i colonnelli Lusignani e Bettini, che sono fucilati  assieme ad altri 19 ufficiali dopo la resa, mentre i feriti sono 1.200,  ma non vi sono i massacri di massa di Cefalonia.  Molti uomini cercano di fuggire via mare, la maggior parte viene  catturata e trasferita in Germania. Altri soldati saranno uccisi sulle  imbarcazioni utilizzate per il trasferimento in Grecia.

AEROPORTI E PORTI TEDESCHI E ITALIANI
INTERESSATI ALLE OPERAZIONI MILITARI NELLE
ISOLE IONIE NEL SETTEMBRE 1943

Nella carta n. 12 sono indicati i porti di partenza delle truppe  tedesche che sbarcheranno a Corfù e a Cefalonia nel settembre  1943. Da Igoumenitza (1) partono le imbarcazioni tedesche per il  fallito sbarco del 13 settembre, poi ancora del 24-25 settembre.  Da Prevesa (2) i reparti tedeschi si imbarcano per Cefalonia nei  giorni 16-20 settembre, per Corfù il 23-24 settembre.

Gli attacchi aerei su Corfù del 12-26 settembre, partono dagli  aeroporti di Valona (3), Argirocastro (4) e Drenova (5) in Albania,  da quelli di Ioannina (6), Paramithia (7) e Prevesa (2) in Grecia.  Quelli contro Cefalonia tra il 15 e il 22 settembre, dagli aeroporti greci di Prevesa (2), Agrinion (8) e Araxos (9).  Gli aiuti italiani potrebbero arrivare per nave da Taranto (10) o  da Brindisi (11) a Corfù, impiegando 12-14 ore di navigazione.  Gli aeroporti italiani più vicini sono quelli di Manduria (12), Grottaglie  (13) e Brindisi (11), distanti circa 200 chilometri da Corfù e  circa 400 da Cefalonia. In particolare quest’ultima isola è fuori del  raggio di azione degli aerei provenienti dalla Puglia, mentre Corfù  è a mezz’ora di volo di un caccia-bombardiere.

Da notare che a  Corfù vi è un aeroporto funzionante che avrebbe potuto essere  usato almeno per i rifornimenti degli aerei con base nel Salento.  Le truppe italiane provenienti dalla costa albanese e da quella  greca dopo l’8 settembre confluiscono su Santi Quaranta-Porto  Edda (14) per raggiungere Corfù nei giorni che precedono l’attacco  finale.

LA NOTIZIA DELL’ARMISTIZIO
A CEFALONIA E CORFÙ

L’atteggiamento dei greci, uno sguardo d’insieme 

La Grecia di oggi ha due importanti feste nazionali: la prima  ricorda la ribellione ai turchi e l’inizio della lotta per l’indipendenza,  l’altra è la «Festa dell’Ohi», cioè «Festa del NO», che  cade il 28 ottobre e celebra il rifiuto opposto dal governo Metaxas  all’ultimatum di Mussolini, che nell’ottobre 1940 dette  inizio all’invasione della Grecia da parte delle truppe italiane.

Dopo cinque mesi di offensive gli italiani, nonostante le altissime  perdite subìte, non riuscirono ad avere la meglio sull’esercito  greco, sostenuto da un’ondata di patriottismo anti-italiano  che coinvolse profondamente tutta la società greca.  Solo l’intervento della Germania e della Bulgaria poté avere  ragione della resistenza greca, nell’aprile del 1941. Ma i greci non riconobbero mai la vittoria italiana, anche  se le pressanti richieste di Mussolini a Hitler permisero agli  italiani di partecipare alla firma della resa greca.

L’Italia ebbe per 28 mesi, fino all’agosto 1943, la responsabilità  principale nell’occupazione del territorio greco, col comando  di un’armata mista italo-tedesca. Nei primi mesi i  greci preferirono avere rapporti coi tedeschi piuttosto che con  gli italiani che erano particolarmente disprezzati o odiati.  Con l’inizio della resistenza greca, in Epiro e in Tessaglia,  le rappresaglie delle truppe di occupazione sui ribelli e sulla  popolazione civile finirono per accomunare nel giudizio negativo i due eserciti occupanti e peseranno nei rapporti tra  truppe italiane e popolazione civile anche dopo l’8 settembre.

A Cefalonia e a Corfù non vi erano state particolari iniziative  della resistenza greca, nelle sue due componenti, quella comunista  e quella monarchica. A Corfù vi sono circa 500 deportati  politici, antifascisti o nazionalisti civili e militari fedeli  al regime di Metaxas; ad Argostoli, capoluogo di Cefalonia,  la caserma Mussolini è utilizzata come luogo di detenzione  per i protagonisti di attività anti-italiana fermati durante i rastrellamenti,  circa 300 persone al momento dell’armistizio.

Nei mesi di occupazione non risultano, però, azioni armate  contro i reparti italiani né – a parte i maltrattamenti e le percosse  al momento degli arresti – violenze sanguinose o rappresaglie  sulla popolazione, per cui era stato possibile attenuare  il clima repressivo tipico di una situazione di occupazione armata  su un territorio nemico. In realtà vi erano stati anche  casi di fraternizzazione e di collaborazione tra militari e popolazione  civile. Era inoltre presente un’organizzazione collaborazionista,  l’Organizzazione Patriottica di Cefalonia.

Quando iniziano gli scontri con i tedeschi, su pressione delle  organizzazioni della resistenza greca, i responsabili italiani  decidono di liberare tutti i prigionieri, sia a Corfù sia a Cefalonia,  perché non cadano in mano tedesca, mentre si attiva  con forza la propaganda nei confronti dei soldati italiani perché  combattano i tedeschi.  I greci diffondono notizie sul possibile arrivo degli inglesi,  mentre si dichiarano disponibili a collaborare alle operazioni,  addirittura promettono rinforzi di partigiani dall’Epiro.

La  circolazione di volantini e pubblicazioni in italiano rafforza la  volontà dei soldati della Acqui di andare allo scontro, ma crea  anche confusione e aspettative che non saranno soddisfatte. In realtà durante la battaglia il ruolo della resistenza greca  sarà marginale, mentre sarà maggiore durante i dodici mesi  di occupazione tedesca, quando ben diversa sarà l’azione di  repressione contro la popolazione civile, sottoposta a durissime  e sanguinose rappresaglie.

I civili di Cefalonia cercheranno di fare il possibile per proteggere e salvare parecchi soldati italiani sfuggiti alla cattura,  dimenticando che erano stati un esercito occupante per più  di due anni. Ancora oggi resta nella memoria collettiva degli  anziani cefalioti un ricordo commosso per quei giovani italiani  che scelsero di combattere anche per loro.

La dislocazione delle forze al momento dell’armistizio

I tedeschi fanno affluire in Grecia, tra giugno e agosto, cinque  divisioni, ufficialmente per contrastare i possibili attacchi  alleati, in realtà si stanno preparando a occupare il paese in previsione di un distacco italiano, anche se il nuovo ministro  Badoglio aveva riconfermato, dopo il 25 luglio, che la «guerra  continua». Il 6 agosto, nell’incontro di Tarvisio, Ambrosio aveva chiesto, senza ottenerlo, il rientro delle nostre divisioni  dall’estero e l’invio di reparti tedeschi, che in effetti cominciano  ad arrivare anche in Italia nel mese di agosto.

I tedeschi al momento dell’armistizio hanno solo piccoli  presidî a Cefalonia, Corfù, Paxos, Itaca, Santa Maura e Zante.  Ovunque gli italiani hanno una netta supremazia. Vi sarebbero  le condizioni per una risposta coordinata alle minacce  tedesche. Ma questo non avviene. I tedeschi non hanno mezzi  sufficienti per attaccare contemporaneamente le isole rimaste  in mano italiana, dopo Cefalonia e Corfù dovranno aspettare il 27 settembre per attaccare Lero e il 3 ottobre per Coo. A  Santa Maura e a Zante le guarnigioni appartengono alla divisione  Casale.

Il console italiano a Cefalonia, Vittorio Seganti, in un memoriale  inviato il 10 gennaio 1944 al segretario generale del  ministero degli Esteri della Repubblica sociale italiana Serafino  Mazzolini, sottolinea come il generale Gandin abbia imposto  una svolta nei rapporti con le truppe tedesche: subito dopo il  suo arrivo egli avrebbe chiesto di rafforzare la difesa dell’isola  con reparti germanici, che fino ad allora non erano presenti;  già poco dopo il 25 luglio avveniva nella parte meridionale di  Cefalonia una prima manovra congiunta; il 3 agosto arriva la  2a batteria del 201° reggimento artiglieria, il 7 agosto il 909°  battaglione e i primi due plotoni della 2a batteria, il 10 agosto  il 3° plotone, che prosegue per Lixuri.

In questo modo è Gandin  ad anticipare la decisione di trasferire sull’isola un Comando tedesco, che sarà autorizzato direttamente dal generale  Vecchiarelli solo in agosto.  Dopo gli spostamenti di truppe italiane e tedesche effettuate  a partire dai primi di agosto, all’8 settembre 1943 sull’isola di  Cefalonia vi sono tra i 9.000 e gli 11.000 uomini di truppa e  400-500 ufficiali al comando del generale Antonio Gandin,  mentre i tedeschi hanno 1.800 uomini e 25 ufficiali al comando  del tenente colonnello Hans Barge.

Il territorio dell’Isola, 781 chilometri quadrati, è diviso in  tre settori.  Il settore nord-orientale, Comando di Makrjotika, controllato  dal 317° reggimento di fanteria del colonnello Ezio Ricci,  col supporto di due gruppi e una sezione di artiglieria; a Kardakata
è collocato un battaglione di fanteria.

Il settore sud-occidentale, Comando di Keramies, controllato dal 17° reggimento di fanteria del tenente colonnello Ernesto  Cessari, oltre a gran parte della forza del 33° reggimento artiglieria  del colonnello Mario Romagnoli, con sede presso la  Scuola agraria di Argostoli; circa un terzo delle forze tedesche  è collocato alla periferia della città di Argostoli, nel campo  sportivo verso capo San Teodoro, col Gruppo tattico Fauth  che ha circa 500 uomini e nove semoventi con cannoni da 75  e da 105; vicino al Comando divisione italiano viene anche  installata una centrale per le intercettazioni radiotelefoniche  sotto il nome di Comando genio marina.

Il settore nord-occidentale, Comando di Lixuri, dove sono  dislocate gran parte delle forze tedesche del tenente colonnello  Hans Barge, il 966° reggimento con due battaglioni d’arresto  meno la compagnia di stanza ad Argostoli (battaglioni 909°,  capitano von Stoephaesius, e 910°, maggiore Nennstiel), oltre  a tre batterie italiane, di cui una di marina.

Sull’isola vi sono, inoltre, un centinaio di civili italiani, soprattutto  funzionari e impiegati, sotto la responsabilità del  console Vittorio Seganti dei Conti di Sarzina. Vi è anche una  debole rappresentanza del Fronte di liberazione nazionale  (Eam), non particolarmente attivo durante l’occupazione italiana  ma molto presente nei primi giorni successivi all’armistizio  e poi nei mesi dell’occupazione nazista.

Secondo fonti greche sono 150-200 i volontari che parteciperebbero  in varie forme alla lotta successiva, in particolare  come guide o informatori dei reparti italiani. Da qualche settimana,  inoltre, è attiva sull’isola una Missione militare alleata,  costituita dal tenente Andreas Galiatsatos e dal caporale telegrafista  Frixos Sinopoulos, con compiti di collegamento con le  fazioni della resistenza greca e col Comando alleato del Cairo.

I reparti tedeschi affluiti a Cefalonia sono formalmente sotto l’unico Comando italiano, in quanto parte dell’11a armata,  anch’essa mista italo-tedesca. In realtà essi si sono collocati,
con il consenso del comandante dell’isola, in luoghi particolarmente  importanti per il controllo e la difesa. I semoventi  del Gruppo Fauth avrebbero dovuto essere usati sulla costa  occidentale come artiglieria costiera, sono i tedeschi però a  volerli collocare nel capoluogo. In questo modo i tedeschi, già  prima dell’8 settembre, possono controllare la cittadina e l’imboccatura  del porto principale dell’isola.

Essi controllano altre  posizioni strategiche, in particolare lungo la litoranea a nord:  ad Ankonas, a quattro chilometri da Kardakata, il principale  nodo stradale di Cefalonia, che mette in collegamento con la penisola di Paliki e con la parte orientale, si installa una compagnia  tedesca; anche il ponte Kimonico è presidiato dai tedeschi,  benché questi presidî siano formalmente sotto il comando  del 317° reggimento fanteria del colonnello Ezio Ricci;  un altro reparto si piazza a Fiscardo, sulla punta nord dell’isola,  dove viene approntata una batteria. In questo modo i tedeschi  controllano le due spiagge del golfo di Mirto, sulla costa settentrionale.

Antonio Gandin

Altri tedeschi si ritrovano sulla parte sud orientale  di Cefalonia, con due batterie a capo Munta e a Skala.  Il 3 settembre Gandin riceve a Cefalonia il generale Hubert  Lanz, comandante del 22° corpo d’armata tedesco, costituito  in luglio (1a Gebirgsdivision, 104a Jagerdivision, 966° Festungsgrenadierregiment),  con cui si intrattiene molto cordialmente, per confermare  l’amicizia italo-tedesca.

Il Promemoria n. 2, datato 6 settembre, raggiunge il Comando  dell’11a armata ad Atene la sera del 7, portato dal generale  Cesare Gandini rientrato da Roma. Al punto IV ordina: «Indipendentemente da dichiarazione di armistizio o meno, e in  qualsiasi momento, tutte le truppe di qualsiasi Forza Armata  dovranno reagire immediatamente ed energicamente e senza  speciale ordine ad ogni violenza armata germanica e delle  popolazioni in modo da evitare di essere disarmati o sopraffatti».
Comunque precisa:  «Dite francamente ai tedeschi che se non faranno atti di violenza  armata le truppe italiane non prenderanno le armi contro di loro,  non faranno causa comune coi ribelli né colle truppe  angloamericane, che eventualmente sbarcassero».

8 settembre. L’annuncio dell’armistizio

PIETRO BADOGLIO

L’annuncio dell’armistizio giunge a Cefalonia nella serata  dell’8 settembre. Un radiotelegrafista della Marina ascolta da  Radio Londra la notizia, sono quasi le 19,00. Un’ora dopo  c’è il comunicato letto alla radio italiana dal capo del governo  Pietro Badoglio:
«Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare  l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria,  nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla  Nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower,  comandante in capo delle forze anglo-americane alleate. La  richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità  contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze  italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da  qualsiasi altra provenienza».

La notizia si sparge rapidamente nell’isola; dai villaggi arriva  il suono di festa delle campane; i soldati italiani accolgono  l’annuncio con gioia perché interpretano l’armistizio come la  fine della guerra e l’approssimarsi del ritorno a casa. Viene  comunque imposto il coprifuoco. Bastano però  poche ore perché  la preoccupazione per il comportamento che terranno gli  ex alleati tedeschi si faccia prevalente.

Il capitano Mastrangelo

Alle 21,00 un semovente tedesco compie una limitata azione  dimostrativa nell’area del porto, puntando il cannone verso il  dragamine Patrizia. L’equipaggio reagisce armando le due mitragliere  in dotazione, ma in caso di scontro l’imbarcazione  verrebbe affondata immediatamente. La notte passa senza  novità. Al mattino, chiamati probabilmente dal capitano di  fregata Mastrangelo e su ordine del colonnello Romagnoli,  arrivano due autocarri al comando del capitano Apollonio, gli artiglieri che lo accompagnano smontano i pezzi che vengono  caricati assieme alle munizioni sui veicoli.

I tedeschi non intervengono a impedire il trasporto. Si tratta della prima collaborazione, dopo l’armistizio, tra uomini della Marina e dell’Artiglieria.  Almeno all’inizio tra i soldati c’è la consapevolezza della  momentanea supremazia italiana, i tedeschi sono poco più di  1.800, ma la vicinanza della costa greca, dove la forza tedesca  è soverchiante, alla lunga non lascerebbe scampo. C’è però la  speranza che dall’Italia arrivi l’aiuto necessario. E poi ci sono  gli ex nemici, gli anglo-americani, che certo non lasceranno  nelle mani tedesche l’isola di Cefalonia, così importante per il  controllo dell’accesso al golfo di Patrasso.

Il generale Gandin  cerca immediatamente di mettersi in contatto con i comandi  italiani sulle isole e in Grecia, senza però riuscirci; la notizia  ha preso tutti di sorpresa e i collegamenti sono per il momento  interrotti. A Cefalonia c’è anche il generale Marghinotti, comandante  dell’8° corpo d’armata con sede ad Agrinion, sul  continente, colto sull’isola dalla notizia dell’armistizio mentre  sta effettuando una visita di ispezione, che non sa dare alcuna  indicazione precisa e decide di ripartire subito.

Dal Comando di Argostoli parte l’ordine di ritirata per la  truppa, mentre si intensifica l’attività di sorveglianza delle pattuglie.  Alle 21,30 finalmente giunge un fonogramma partito  alle 19,00 da Atene, sede del Comando misto italo-tedesco  dell’11a armata, da cui dipendono le otto divisioni italiane in  Grecia, firmato dal generale Vecchiarelli. Il testo conferma  quasi alla lettera il proclama di armistizio, precisando che:
«Nell’eventualità conclusione armistizio, da parte Italia resta  inteso quanto segue Alt 1) Truppe italiane non faranno atti ostilità contro truppe tedesche a meno non siano da queste attaccate nel  qual caso alla forza si risponderà con la forza Alt 2) Esse non  faranno causa comune né con ribelli greci né con anglosassoni se  sbarcassero Alt 3) Continueremo difendere coste fino all’avvenuta  sostituzione con truppe tedesche Alt 4) Conseguentemente ognuno  resti al suo posto con gli attuali compiti fino nuove disposizioni Alt  5) Comunicare quanto precede ai corrispondenti comandi tedeschi  Alt 6) Sia mantenuta con ogni mezzo esemplare disciplina ed  efficienza bellica reparti Alt 7) Dare assicurazione».

Tuttavia queste direttive sono poco dopo superate dall’accordo  raggiunto intorno alle 22,00 da Vecchiarelli e dal generale  von Gyldenfeldt, capo di Stato maggiore dell’armata  mista italo-germanica, che prevede il rimpatrio dei reparti  italiani con armamento individuale mentre sarebbero state  cedute le armi collettive. Vecchiarelli è uno dei pochi comandanti  a conoscere il contenuto del Promemoria n. 2, ma lo interpreta  contravvenendo alle sue disposizioni, infatti se è previsto  che  «Il comandante è libero di assumere verso i germanici  l’atteggiamento che riterrà più conforme alla situazione»,  al punto IV si afferma con chiarezza che «Indipendentemente da dichiarazione di armistizio o meno, e in  qualsiasi momento, tutte le truppe di qualsiasi Forza Armata  dovranno reagire immediatamente ed energicamente e senza  speciale ordine ad ogni violenza armata germanica in modo da  essere disarmati o sopraffatti».

il generale Vecchiarelli

È inoltre previsto che, nel caso peggiore, il generale Rosi  garantisca comunque il possesso dei porti principali di Cattaro e Durazzo in Albania, mentre per la Grecia e Creta le truppe  dovranno riunirsi al più presto sulle coste in prossimità dei  porti per organizzarne il rimpatrio. Gli ordini del Comando  Supremo sono quindi chiari su questo punto: in nessun caso i  reparti italiani dovranno farsi disarmare dai tedeschi.

Queste  disposizioni sono confermate dall’Ordine 24202/OP col «telegramma  circolare Ambrosio» dell’8 settembre, ricevuto secondo  Vecchiarelli la mattina del giorno successivo.  Verso le 22,30 giunge un comunicato dal governo italiano  che ordina la partenza per Brindisi delle imbarcazioni presenti sull’isola.

Prima di mezzanotte Gandin dispone un cambiamento  nella disposizione della divisione, fino ad allora pronta  ad affrontare lo sbarco alleato sull’isola e ora riorientata in  funzione antitedesca: il secondo battaglione del 17° reggimento,  di riserva a Mazarakata, viene spostato ad Argostoli,  a difesa del Comando italiano minacciato dal Gruppo tattico  Fauth e da una batteria di semoventi tedeschi; tre batterie del  33° reggimento artiglieria sono dislocate attorno al golfo di  Lurdata, col compito di tenere a bada i semoventi tedeschi e  il loro deposito munizioni, la banchina del porto, il ponte di  Argostoli, la strada per Kardakata.

Renzo Apollonio

Proprio queste tre batterie,  la prima e la terza da 100/17, dislocate attorno al golfo di Lurdata e comandate rispettivamente dai capitani Pampaloni  e Apollonio, la quinta da 75/13 del tenente Ambrosini, schierata  nel settore meridionale di Markopulo-Katelios, avranno  un ruolo decisivo nel primo scontro coi tedeschi. Appare  chiara almeno fino a questo momento la volontà italiana di  mantenere il controllo del territorio.

I tedeschi, tuttavia, già dalla notte hanno ricevuto l’ordine  di attuare il piano Achse, che prevede il disarmo delle truppe  italiane con ogni mezzo. Intanto le truppe tedesche del generale Lanz, comandante del 22° corpo d’armata, operano rapidamente  sia sul continente, lungo la costa adriatica e ionica,  sia sulle Isole Ionie, per assumerne il controllo. Subito occupano  Zacinto, dove le truppe italiane, 4.250 uomini, si arrendono  senza opporre resistenza.

Il giorno dopo tocca al presidio  di Santa Maura che deve arrendersi dopo una breve resistenza  e i tedeschi, per rappresaglia, uccidono il colonnello Mario  Ottalevi e due ufficiali. Per il momento, però, queste notizie  non raggiungono Cefalonia, che rimane isolata dalle isole più  vicine.

9 settembre. L’abbandono del nodo stradale di Kardakata

I tedeschi già all’alba del giorno 9 raggiungono il nodo stradale  di Kardakata, provenendo da Lixuri, portano quattro  pezzi anticarro di rinforzo al gruppo del tenente Fauth, ad  Argostoli; dopo il loro passaggio il tenente colonnello Siervo  fa schierare i suoi uomini. Alle 7,45 gli autocarri, dopo aver  forzato il posto di blocco di Drapanon, si trovano all’imboccatura  del ponte di Argostoli, dove sono fermati dal capitano  Gasco; il comandante tedesco presenta un permesso del generale  Gandin, nel frattempo il capitano Apollonio, che con  la sua batteria ha il compito di controllare il ponte, ha fatto  puntare e caricare i pezzi.

L’ordine di non sparare arriva all’ultimo  momento dal Comando Artiglieria, i tedeschi sono  autorizzati a proseguire. Poco dopo, sono circa le 8,00, al  bivio di Kardakata si verifica un altro tentativo: cinque autocarri  con una compagnia del 909° battaglione si presentano  al passo, sono bloccati dal capitano Pantano che comanda  una compagnia del 317° fanteria. I tedeschi caricano le loro armi, ma sono costretti a cedere e a ritornare a Lixuri di  fronte alla decisione del capitano.

Sempre in mattinata i tedeschi  compiono il loro primo atto di aggressione vera e propria  contro i reparti italiani quando la piccola vedetta Trionfo, che  sta dirigendosi verso l’uscita del porto di Argostoli per effettuare  il servizio di vigilanza costiera, viene costretta a rientrare da  due granate tedesche cadute a poca distanza dall’imbarcazione.  Il capitano Mastrangelo ordina allora alle imbarcazioni  ancora presenti nel porto di allontanarsi nottetempo sfuggendo  al controllo tedesco. Verso le 20,00, quando usciranno dal  porto, l’artiglieria tedesca sparerà contro di esse.

Già la mattina del 9 i partigiani greci distribuiscono volantini  che inneggiano all’Italia e alla Grecia libere, alcuni ufficiali  greci della riserva chiedono ai comandi italiani che vengano  consegnate loro armi; vi sono i primi contatti tra alcuni degli  ufficiali che animeranno la lotta antitedesca e i capi della resistenza,  tra questi il sottotenente medico Boni, i capitani  Pampaloni e Ambrosini, il capitano di corvetta Barone. Per il  momento, però, non si hanno notizie di consegna di armi.

Vittorio Ambrosio

La presenza del gruppo Fauth a poca distanza dal Comando  divisionale avrebbe permesso già all’alba del 9 settembre un  colpo di mano per disarmare il presidio italiano, ma il tenente  colonnello Barge, che intrattiene buoni rapporti con Gandin,  e che comunque è momentaneamente in inferiorità numerica, preferisce approfittare della disponibilità del generale italiano  per ottenere un risultato importante.

Verso le 9,00 Barge  giunge ad Argostoli per incontrare Gandin. Poco dopo, probabilmente
su richiesta tedesca, giunge al tenente colonnello  Siervo, comandante del 3° battaglione, che aveva di sua iniziativa  bloccato due tentativi dei tedeschi, l’ordine dal Comando di divisione di iniziare il ritiro dalla posizione di Kardakata.  Sono circa 800 uomini che abbandonano il presidio. Al termine del trasferimento rimarrà solo un plotone col compito
di comunicare i movimenti tedeschi.  Si tratta di una decisione particolarmente grave per le sorti  della divisione, in quanto si perde il controllo della rotabile  che permette il collegamento tra Argostoli, la penisola di Paliki  e il settore nord-orientale dell’isola.

Marcia di mattina presto: strade polverose, muli carichi, rari camion. Bundesarchiv
Koblenz.

In questo modo, inoltre,  la divisione perde la possibilità di mantenere i contatti con le due batterie italiane di Kavriata e San Giorgio, che rimangono  nel territorio controllato dai tedeschi. Con il ritiro delle truppe  italiane a sud del passo si perde anche il controllo delle baie  di Livadi e di Aghia Kyriaki, che i tedeschi useranno per sbarcare  i rinforzi che serviranno a raggiungere il capoluogo.

La scelta di Gandin è solitamente interpretata come una  concessione a Barge per dimostrare la buona volontà italiana  nella trattativa che si sta avviando per il rientro della divisione  in Italia. Sul piano militare si rivela subito un grave errore  perché mette le truppe italiane in condizione di netta inferiorità,  soprattutto ai fini della battaglia che di lì a qualche giorno  si sarebbe scatenata.

Il generale von Stettner sull’imbarcazione che si sta allontanando da Prevesa.
Bundesarchiv Koblenz.

Paolo Paoletti considera l’abbandono di Kardakata come  la principale prova della volontà di Gandin di tradire: la divisione  è messa nella peggiore condizione in caso di scontro  con i tedeschi. Anche l’intenzione, sottolineata da altri studiosi,  di rafforzare le posizioni italiane ad Argostoli, è contraddetta  dai movimenti effettivi: dei reparti tolti a Kardakata sono portati  nel capoluogo solo tre plotoni del 2° battaglione, mentre  il 3° battaglione viene trasferito in un vallone tra Castro e  Prokopata.  Questa decisione apre un solco tra alcuni reparti e il generale Gandin.

Dirà il capitano Apollonio nel suo memoriale del  1944 conservato presso l’Ufficio storico dello Stato maggiore  dell’Esercito:
«Il ritiro del battaglione da Kardakata fece cadere il velo sulle  intenzioni del generale Gandin. La disillusione provocò amarezza e  scontento anche per il fatto che il semplice soldato non poteva  ammettere una condotta che non fosse più che decisa ed energica, tanto più che il presidio tedesco era di gran lunga inferiore al  nostro. Il generale cominciò così ad alienarsi l’animo dei soldati che  indiscutibilmente l’avevano profondamente amato e apprezzato».

L’imbarco a Preveza: carico di pezzi di artiglieria. Bundesarchiv Koblenz.

Negli stessi minuti il Comando Marina di Argostoli del capitano  di fregata Mastrangelo riceve l’ultima drammatica comunicazione  telegrafica da Patrasso, che annuncia la resa italiana.  La notizia viene immediatamente comunicata a Gandin,  ma circola rapidamente anche tra i soldati, che ovviamente  reagiscono con indignazione e rabbia. Mentre Mastrangelo  ordina già per la notte del 9 il ritiro dei proprî uomini dalla  stazione semaforica di Gherobambo, nella penisola di Paliki,  ormai sotto il controllo tedesco, nessun ordine di sgombero  arriva per la Fanteria, per l’Artiglieria (le due batterie di Kavriata  e San Giorgio), per la Guardia di Finanza e i Carabinieri  (Lixuri).

Il giorno 10 sono ritirati da Kardakata anche i Carabinieri.  Nella notte tra il 10 e l’11 saranno i civili greci ad avvertire  gli italiani rimasti che i tedeschi li stanno circondando. Sempre nella giornata del 9 settembre, Gandin assume direttamente  «il Comando e il controllo diretto di ogni reparto  dell’isola», come afferma il capitano Bronzini, attraverso il telefono  o le staffette, concentrando nelle sue mani quel potere  decisionale che apparteneva di norma ai comandi di reggimento.

Soldati italiani disarmati si avviano alla prigionia. Il fotocronista li riprende da una
camionetta militare. Bundesarchiv Koblenz.

9 settembre. Il Comando di Atene impone la cessione  delle armi pesanti ai tedeschi. Se i tedeschi hanno ben chiaro il loro obiettivo, assai confusa  è invece la situazione dei comandi italiani. I primi operano  con sicurezza applicando un piano di disarmo delle truppe  italiane già previsto da tempo, con collegamenti efficienti tra  i reparti, i comandi ai vari livelli fino a Hitler, da cui partirà  l’ordine decisivo di liquidare la resistenza italiana a Cefalonia  senza fare prigionieri.

Nelle prime ore del 9 settembre il generale

Prevesa, 23 settembre 1943. Reparti in attesa dell’imbarco per Corfù. Bundesarchiv
Koblenz.

era stato sostituito dal generale Hubert Lanz, comandante  del 22° corpo d’armata; questi assieme a Vecchiarelli aveva  stilato una bozza d’accordo che prevedeva dopo quattordici  giorni il trasporto dell’armata in Italia a cura del comando  germanico con armamento sufficiente per difendersi da attacchi  di ribelli, per combattere eventualmente contro l’attuale  nemico, cioè gli anglo-americani, o il bolscevismo in Italia o comunque per mantenere l’ordine pubblico.

La bozza però  non è accettata dal generale Löhr, superiore di Lanz, in quanto il rimpatrio avrebbe dovuto avvenire con le truppe italiane disarmate.  Nel corso della mattina Vecchiarelli accetta l’imposizione  tedesca che prevede il disarmo dei reparti in cambio  del rimpatrio, che sarebbe avvenuto «a cura dell’organizzazione  tedesca da cui dipendeva l’unica ferrovia operativa:  Atene-Salonicco-Belgrado-Zagabria-Fiume». È lo stesso generale  a confermarlo nella sua Relazione per la Commissione  accertamenti, al suo rientro in Italia a guerra finita.


Le ultime disposizioni prima della partenza per Corfù. Ancora il generale von Stettner.
Bundesarchiv Koblenz.

Ma già il giorno successivo la radio annuncerà il passaggio  sotto amministrazione tedesca dei territori italiani di confine:  le province di Bolzano e Trento entrano a far parte dell’Alpenvorland,  mentre quelle di Gorizia, Udine, Trieste, l’Istria e Fiume vanno a costituire l’Adriatisches Kustenland. Appare quindi  chiaro che il punto di arrivo dei convogli sarà nei territori  sotto controllo tedesco e non in quelli del governo legittimo di
Vittorio Emanuele III.

In conseguenza dell’accordo del mattino, verso le 20,00 del  giorno 9, dal Comando di Atene giunge un secondo ordine  del generale Vecchiarelli diramato la mattina alle 9,50 ma  pervenuto attraverso il Comando di Agrinion con molte ore  di ritardo, che per il suo contenuto apertamente disfattista e  collaborazionista verso i tedeschi e palesemente in contrasto  con quanto pervenuto dal governo Badoglio, trasferitosi nel  frattempo a Brindisi, provoca un forte disorientamento; a  Gandin, come agli altri comandanti di divisione, infatti, viene  dato l’ordine di cedere le armi collettive e di trasferire il controllo
del territorio ai reparti tedeschi subentranti entro le ore  10 del giorno successivo:
«Seguito mio ordine 02/25006 dell’8 corrente Alt Presidî costieri  devono rimanere attuali posizioni fino at cambio con reparti  tedeschi non oltre però ore 10 giorno 10 Alt In aderenza clausole  armistizio truppe italiane non oppongano da detta ora resistenza alcuna a eventuali azioni truppe anglo-americane Semialt  reagiscano invece at eventuali azioni ribelli Alt

Pertanto una volta  sostituite Grandi Unità si concentreranno in zone che mi riservo di  fissare unitamente at modalità trasferimento Alt Siano lasciati ai  reparti tedeschi subentranti armi collettive et tutte artiglierie con  relativo munizionamento Alt Siano portate at seguito armi  individuali ufficiali e truppa con relativo munizionamento in  misura adeguata at eventuali esigenze belliche contro ribelli Alt

Consegneranno parimenti armi collettive tutti altri reparti delle  Forze Armate Italiane conservando solo armamento individuale  Alt Consegna armi collettive per tutte Forze Armate italiane in Grecia avrà inizio at richiesta Comandi tedeschi at partire da ore  12 di oggi Alt Generale Vecchiarelli 09500909».

L’ordine di Vecchiarelli contraddice apertamente le disposizioni  previste nell’armistizio tra italiani e alleati, oltre che  gli ordini di Ambrosio e di Badoglio. Il disarmo delle armate italiane in Grecia e nei Balcani richiederà alcune settimane.  Solo i primi reparti in partenza da Atene il 9 settembre hanno  con sé parte dell’armamento individuale per potersi difendere  da eventuali attacchi partigiani.

Ma dopo che molte delle  armi individuali sono andate disperse, a volte vendute dai soldati
italiani, i tedeschi, dopo aver imposto drastiche misure  per chi si presentasse ai centri di raccolta senza i fucili, dal  giorno 10 decidono il disarmo totale, anche per evitare possibili
ribellioni e, per i reparti imbarcati, l’eventualità di un dirottamento  delle imbarcazioni verso porti italiani fuori del loro  controllo.

Ogni tentativo di ottenere chiarimenti, sia presso il Comando  di Atene, sia presso il Comando Supremo in Italia, risulta  inutile. Il Comando Supremo, infatti, ha interrotto le comunicazioni  con i settori di operazione nei giorni 9 e 10 settembre,  ovvero durante il trasferimento da Roma a Brindisi; dall’11  però riprende a trasmettere ordini verso i reparti ancora attivi  in Corsica, Sardegna, l’Elba, Lero, Rodi, Corfù e, ovviamente,  anche Cefalonia. Questo almeno sembra essere la valutazione  più verosimile.

I reparti tedeschi avanzano ordinatamente verso l’interno di Corfù, in direzione nordest.
Bundesarchiv Koblenz.

Sempre più chiaramente si fa strada il senso di isolamento e  di solitudine di fronte alla presenza minacciosa dei tedeschi.  Si riesce ad attivare solo il collegamento radio con Corfù, col  Comando del colonnello Lusignani, anch’egli deciso, fino a questo momento, a non cedere ai tedeschi, ma ugualmente  all’oscuro della situazione generale. Chiaramente l’ordine è  stato emanato sotto dettatura dei tedeschi, che in poche ore  avevano assunto il controllo del sistema di comando italiano  in Grecia, mentre le divisioni italiane in gran parte sbandano  o cercano di raggiungere, quasi sempre inutilmente, i porti di  imbarco, o si arrendono in massa.

Gandin si rende conto che la situazione della Acqui è drammatica; la momentanea prevalenza numerica non potrà durare  a lungo e non ci sono dubbi sulla durezza della reazione dell’ex  alleato nel caso di resistenza italiana; di fronte alle richieste  tedesche prende tempo, sostenendo che l’ultimo comunicato  da Atene sarebbe «parzialmente indecifrabile».

Vi è una prima consultazione informale con i comandanti;  in maggioranza sono favorevoli alla cessione delle armi: il comandante  della fanteria divisionale generale Gherzi, il capo di Stato maggiore della divisione, tenente colonnello Fioretti,  i comandanti del 17° e del 317° reggimento di fanteria, il tenente  colonnello Cessari e il colonnello Ricci, il maggiore Filippini,  comandante del Genio.

Due tenenti colonnelli, Uggé del 17° fanteria e Sebastiani  aiutante di campo del generale Gherzi, ma anche seniore del  Partito fascista, sono favorevoli a passare direttamente agli ordini  tedeschi; diversamente, il comandante della Marina, Mastrangelo,  e quello del 33° reggimento artiglieria, il colonnello Romagnoli, sono contrari alla cessione delle armi.

Gandin preferisce non decidere e prendere tempo; ai soldati  per il momento non vengono comunicate le disposizioni di  Vecchiarelli. Il giorno 9 o il 10 i due idrovolanti ancora in  rada ad Argostoli rientrano in Italia senza che Gandin invii  particolari richieste.

L’ULTIMATUM DEI TEDESCHI,
LA RISPOSTA ITALIANA E LE TRATTATIVE

Il 10 settembre arriva la richiesta tedesca di resa.  Nell’incontro della mattina precedente Gandin aveva anche  concesso a Barge di entrare nel porto di Argostoli. Infatti, all’alba del giorno 10 le banchine sono ormai presidiate dai semoventi  tedeschi e per uscire o per entrare nel porto le navi  devono passare davanti a capo San Teodoro e alla punta meridionale  della penisola di Paliki, anch’esse sotto controllo tedesco  addirittura già prima dell’8 settembre.

A questo punto  il porto di Argostoli, il più importante dell’isola e l’unico che  avrebbe permesso di imbarcare la divisione, non è più sotto il  controllo italiano. La situazione è chiara alle truppe fin dal 9  settembre, quando Mastrangelo aveva fatto uscire il nostro  naviglio rimasto in porto di nascosto col buio, mentre il 10 i  tedeschi negano l’uscita al motoscafo della Croce rossa messo  a disposizione del console italiano Seganti. Sulla costa orientale  i porticcioli di Santa Eufemia, Sami e Fiscardo sono ancora  in mano italiana, ma non sono utilizzabili per operazioni di  imbarco in grande stile.

I tedeschi si muovono consapevoli che non avrebbero trovato opposizione da parte del Comando  italiano, tanto che nel pomeriggio del giorno 10 un semovente  tedesco si ferma vicinissimo al Comando divisionale e ci rimane  anche nelle due settimane successive, per tutta la durata  dei combattimenti, mentre altri pezzi si piazzano agli incroci  strategici senza che arrivino ordini di contrasto.

Il tenente colonnello Barge, comandante delle truppe tedesche  a Cefalonia, è convinto che la divisione Acqui del generale  Gandin non si opporrà alle disposizioni di Vecchiarelli. Ai comandanti tedeschi in Grecia giunge in mattinata un  telegramma dal Gruppo armate E:
«Dove vi sono reparti italiani o nuclei armati che oppongono  resistenza bisogna dare un ultimatum a breve scadenza.  Nell’occasione occorrerà dire con veemenza che gli ufficiali
responsabili di questo tipo di resistenza verranno fucilati quali  franchi tiratori se, alla scadenza dell’ultimatum, non avranno dato  alle loro truppe l’ordine di consegnare le armi».

Corfù, settembre 1943. Spostamento di un mezzo di artiglieria pesante. Si tratta
dell’ultima foto della serie di tre rullini conservati nel Bundesarchiv Koblenz.

Barge, dopo avere rassicurato il comandante del Gruppo  armate E, generale Löhr, affermando di poter controllare la  situazione e di arrivare al disarmo italiano entro breve tempo,  alle 8,30 del giorno 10 settembre, assieme al tenente Fauth,  raggiunge il Comando italiano ad Argostoli, dove si incontra  con Gandin e col tenente colonnello Fioretti. Barge chiede la  consegna delle armi per il giorno successivo alle 10, nella  piazza di Argostoli, davanti alla popolazione greca; gli ufficiali  avrebbero conservato le pistole, ma tutte le altre armi andavano  consegnate; viene anche promesso il rimpatrio della divisione.

La risposta del generale Gandin la conosciamo dalla testimonianza  del capitano Bronzini:
«Gandin chiede che la cessione delle armi avvenga lentamente e  che la divisione conservi le armi fino al momento della partenza da  Cefalonia e che lascerà qui solo le artiglierie; le armi pesanti le  consegnerà ai tedeschi solo all’atto in cui i reparti metteranno piede  in Italia».

Gandin è intenzionato ad avviare una trattativa con i tedeschi,  intanto spera in qualche notizia dall’esterno, dall’8° corpo  d’armata; non si fida dei tedeschi e teme una trappola. Cominciano  anche ad arrivare notizie sulla situazione italiana: il  reduce Tommaso Tecchi, ad esempio, scriverà, a proposito  del giorno 10:
«Attraverso la stazione radiotelegrafica della marina si riusciva  ad ascoltare notiziari in lingua italiana trasmessi da stazioni inglesi;  eravamo venuti a sapere che alcuni membri della famiglia  regnante, i generali Badoglio, Ambrosio, Roatta e altri ufficiali […]  avevano lasciato Roma diretti verso la costa adriatica».

Anche il capitano Bronzini conferma che tramite il radioponte  Corfù si sapeva che il governo aveva raggiunto Bari e il  Comando Supremo Bari o Brindisi.  La notizia dell’incontro, nonostante le misure prese, si sparge  tra i soldati. Il disorientamento cresce, si diffonde la convinzione  che il generale avrebbe deciso di arrendersi ai tedeschi.  Vi è una prima riunione, organizzata da ufficiali del 3° battaglione,  quelli cioè che avevano eseguito l’ordine di lasciare  Kardakata nonostante fosse evidente l’assurdità della decisione  dal punto di vista militare.

Poi la discussione coinvolge i reparti  del 33° artiglieria, gli uomini dei capitani Pampaloni, Apollonio  e Ambrosini. Anche i reparti della Marina, su iniziativa  del capitano di fregata Mastrangelo, si dichiarano pronti ad  affrontare i tedeschi.  Nei giorni successivi prenderanno l’iniziativa di consegnare  armi alla resistenza. Sono per primi il comandante della Marina  e il capitano Pampaloni a prendere contatti con i patrioti  greci.

In un secondo incontro, al quale partecipano, oltre ad alcuni  ufficiali di queste armi, anche esponenti della resistenza greca,  si concordano le misure necessarie nell’eventualità di uno  scontro. Il colonnello Romagnoli è informato della volontà  dei suoi ufficiali. I soldati vogliono tornare a casa e i tedeschi  sono l’ostacolo da rimuovere. I patrioti greci diffondono materiale  antitedesco e incitano gli italiani a resistere, garantendo  il loro aiuto.

Il ruolo degli Alleati

Gli anglo-americani hanno a Cefalonia una missione dell’Interservices Liaison Department, sezione del Secret Intelligence  Service inglese, composta dal capomissione Andreas  Galiatsatos e dall’operatore radio Frixos Sinopulos, dipendente  dal Quartier generale alleato del Medio Oriente con sede al  Cairo. Devono raccogliere informazioni sul nemico e favorire  una collaborazione tra italiani e alleati. Il giorno 10 avviene  un primo incontro tra Galiatsatos e il generale Gandin. È  presente anche un altro ufficiale greco, il tenente Agesilao  Miliaresis. Essi invitano gli italiani a resistere e promettono  l’appoggio aereo inglese. Il comandante italiano risponde  prendendo tempo.

Il giornalista greco George Karayorgas a guerra finita intervista  a lungo Galiatsatos e pubblica i suoi resoconti a partire  dal 1952; a proposito dell’incontro del 10 ricorda:
«Il generale Gandin accolse Galiatsatos gentilmente e chiese il  parere ufficiale del Quartiere Generale del Medio oriente.  Galiatsatos comunicò nuovamente con la radio […] e il Cairo  promise che avrebbe trasportato tutto l’esercito italiano, con i  proprî mezzi in Italia. Dovevamo solo pazientare e aspettare lo sbarco delle truppe inglesi.

Il generale Gandin ascoltò le proposte  inglesi preso da grande commozione e turbamento. Era stato sorpreso e aveva perso del tutto il controllo. Ma all’inizio accettò  con gioia la proposta britannica senza mostrare alcun dubbio.  Pregò tuttavia Galiatsatos di permettergli prima di consultarsi con  il suo Stato maggiore».

In un incontro con i capitani Apollonio e Pampaloni, lo  stesso ufficiale affermava:
«Se decidete di prendere l’iniziativa contro i tedeschi bisogna che  lo facciate senza esitazioni […] È chiaro che il generale Gandin ha  paura di misurarsi con i tedeschi».

Anche Apollonio ammetterà che «il generale poco convinto,  si riserva di dare una risposta per l’indomani».  Sull’atteggiamento alleato abbiamo informazioni contraddittorie.  Il Comandante Supremo delle forze armate alleate  nel Mediterraneo è il generale Dwight D. Eisenhower, ma le  operazioni sono coordinate da due comandi, il primo ad Algeri,  il Quartier generale delle forze alleate del Mediterraneo  occidentale, il secondo al Cairo, sotto il nome di Quartier generale  delle forze alleate del Medio Oriente, con a capo il generale  Henry Maitland Wilson.

Il canale di Otranto separa le  due sfere d’azione.  Il Comando di Algeri è impegnato a Salerno, dove sono  concentrate le forze americane, che incontrano grosse difficoltà  nello sbarco e nel mantenimento delle teste di ponte sulla  costa. Il Comando del Cairo, in particolare per volontà inglese,  considera prioritario in questo momento l’intervento nelle
isole dell’Egeo. Le isole di Corfù e di Cefalonia rientrano nell’area di influenza del Cairo, ma ancora il 25 settembre Churchill  telegrafa al generale Eisenhower esprimendo qual è la  maggiore preoccupazione di Londra:
«Rodi è la chiave tanto per il Mediterraneo orientale quanto per  l’Egeo. Sarebbe una vera catastrofe se i tedeschi riuscissero a  consolidarsi».

È all’interno di questo ragionamento che devono essere ricondotti  gli interventi inglesi nelle isole dell’Egeo di Castelrosso,  Coo, Lero, Samo e altre minori nei mesi di settembre e ottobre  1943.  Solo il generale Eisenhower può prendere la decisione di  spostare risorse da un teatro all’altro del Mediterraneo. E sarà  lui, il 19 settembre, a manifestare un primo interesse degli alleati  per la situazione nelle due isole dello Ionio.

Il 10 settembre viene diffuso per radio un comunicato del  generale H. M. Wilson:
«Ordine da parte del Comandante in Capo delle forze Alleate  del Medio Oriente a tutte le unità italiane dell’area balcanica.  Soldati delle Forze Armate Italiane: un armistizio è stato firmato  dal vostro governo. La guerra tra l’Italia e il Regno Unito è  terminata. Secondo i termini del suddetto armistizio, questi sono i  miei ordini immediati a tutti i membri delle Forze Armate Italiane  nell’area dei Balcani.

Dovranno cessare tutti gli atti di ostilità verso  le popolazioni dei paesi in cui vi trovate. Sarà mantenuta la più  ferrea disciplina in tutte le unità e tutte le truppe rimarranno unite
nelle loro unità. Tutti i tentativi da parte dei tedeschi o dei loro  satelliti di disarmare o di sciogliere le forze armate italiane o di  impossessarsi delle loro armi, dei loro magazzini, della benzina,  dell’acqua o di impadronirsi delle loro guarnigioni saranno respinti fino all’ultimo.

Tutti gli ordini diramati dai tedeschi non saranno  eseguiti. Le forze italiane del Dodecanneso si impossesseranno con  la forza delle posizioni ora occupate dai tedeschi. Tutte le unità  della Marina Militare e della Marina Mercantile italiana  procederanno immediatamente come segue. […] le navi da guerra  nell’Egeo si dirigeranno verso il porto di Haifa. Tutti gli aerei della  Regia Aeronautica si dirigeranno immediatamente verso Nicosia,  Derna, Tobruk e Adem […].

Disubbidire a questi ordini o agli  ordini successivi che io emanerò sarà considerato come una  violazione dei termini armistiziali, accettati dai vostri comandanti  in capo e condizioneranno il nostro futuro trattamento nei vostri  confronti».

L’ordine del comandante alleato, già nella giornata del 10  settembre, vieta quindi qualsiasi intesa o trattativa con i tedeschi  che comporti il disarmo dei nostri reparti o la collaborazione  con l’ex alleato, ma Gandin procede invece con le trattative  e gli incontri. Nel «documento di Quebec» del 18 agosto,  integrativo dell’armistizio, era richiesto agli italiani di  «Predisporre i piani perché al momento opportuno le unità italiane  nei Balcani possano marciare verso la costa dove potranno essere  trasportate in Italia dalle Nazioni Unite».

È quanto effettivamente sta accadendo in quei giorni, con i  reparti che si stanno radunando per convergere in direzione  dei porti di Spalato, Santi Quaranta e Porto Palermo.  Ma diversamente da quanto promesso, gli alleati non manderanno  proprie navi a recuperare i soldati italiani, come non  invieranno aiuti alle due isole minacciate di invasione. Nei  giorni successivi avrebbero a disposizione gli aeroporti di Manduria, Grottaglie e Brindisi, oltre eventualmente a quello di  Corfù, per effettuare operazioni su Corfù e Cefalonia con i proprî bombardieri, che avrebbero sufficiente autonomia. E  nemmeno saranno autorizzati interventi di soccorso della  flotta italiana di Taranto.

Gli alleati sono sicuramente interessati  al controllo delle Isole Ionie, ma non si fidano degli  italiani, come era apparso chiaro in tutta la vicenda delle trattative  armistiziali, per cui condizionano il loro impegno alla  risposta dei comandanti italiani.  Nelle sue memorie così si esprime il generale Eisenhower a  proposito del comportamento italiano nelle isole del Dodecaneso:
«Comunque si scoprì presto che la guarnigione italiana non aveva fegato per combattere contro i tedeschi».

L’atteggiamento di Gandin finirà per confermare negli alleati  questo pregiudizio antitaliano.  11 settembre. Il nuovo incontro con la missione inglese.  e la trattativa Barge-Gandin.  I giorni 11-12-13 settembre sono decisivi per la sorte degli  uomini della Acqui. La ricostruzione degli avvenimenti non è  però del tutto chiara. Vi è incertezza sulla precisa successione  degli eventi. Sono chiari, grazie alla documentazione tedesca,  i tempi e le modalità delle decisioni tedesche, in particolare la  comunicazione, avvenuta alle ore 10,30 dell’11 settembre da  parte del tenente colonnello Barge dell’ultimatum formale a  Gandin.

Si sa anche dell’invio a Brindisi di una richiesta di  evacuazione dall’isola fatta da Gandin alle 11,20. Non vi è invece  certezza sull’arrivo del messaggio da Brindisi che ordina  di resistere ai tedeschi. Come vedremo successivamente, secondo alcune testimonianze attendibili l’ordine sarebbe giunto  già la mattina dell’11; apparirebbe in questo caso ambiguo il  comportamento di Gandin, tutto teso a raggiungere un accordo  con Barge, almeno fino al giorno 13. Altri ipotizzano  invece che l’ordine sia giunto solo nella tarda serata del 13,  quando ormai le cose si stanno mettendo male per gli italiani.

La sera del 10 era stato ritirato da Kardakata il distaccamento  dei Carabinieri; durante la notte tra il 10 e l’11 i  tedeschi cercano di circondare il plotone della 10a compagnia  rimasto a presidiare il passo, sono i civili greci a informare il  comandante della manovra, questi decide allora di ripiegare  sulla strada verso Argostoli, fino al chilometro 12. Gandin si  muove in maniera contraddittoria: tra le 8,00 e le 8,30 c’è un  nuovo incontro tra italiani e tedeschi, da una parte Barge e  Fauth, dall’altra Gandin e il tenente colonnello Fioretti.

Verso  le 10,00 Gandin riceve la missione militare alleata che gli  offre copertura aerea e gli chiede di attaccare i tedeschi immediatamente.  Nella richiesta della missione si offre l’appoggio  aereo alleato se la divisione avesse catturato il presidio tedesco  e mantenuto il controllo dell’isola. Sempre negli articoli di  Karayorgas, in riferimento ai fatti del giorno 11 settembre,  troviamo:
«Il giorno successivo si riunì di nuovo il Consiglio di guerra.  Gandin, senza entusiasmo, decise di aderire a Badoglio. Galiatsatos  ricevette un messaggio dal Cairo e informò gli italiani di attaccare  subito per neutralizzare i tedeschi prima che comprendessero bene  cosa stava succedendo […].

Gandin, invece, anziché attaccare  come un fulmine, chiese ai tedeschi di venire a trattative con lui  (…). Galiatsatos fuori di sé dall’ira […] corse al Quartiere Generale  italiano senza prendere misure di sicurezza […]. Chiese di vedere Gandin invece gli si presentò Apollonio, che gli chiese cosa stesse  succedendo. E Galiatsatos: “Costui ha dato 3 giorni di tempo ai  tedeschi, o è stupido o è un traditore”».

E in un altro articolo:
«Dal momento che Gandin tardò a ordinare l’attacco generale  […] Galatsiatos riferì gli sviluppi al Quartiere Generale. La  risposta fu laconica: “Non interessatevi più dell’impresa”».
Verso le 10,30 uno dei semoventi tedeschi presenti nella  zona del porto spara due colpi di avvertimento in direzione  del veliero Enrichetta Maddalena. Si tratta di un’altra azione aggressiva  contro gli italiani. Nei giorni dal 9 all’11 settembre i  tedeschi hanno imposto ormai la propria presenza ad Argostoli.

Vediamo la testimonianza del capitano Longoni:
«Con movimenti preordinati di truppe e carri armati i tedeschi  avevano occupato i punti strategici della città assumendo la  formazione di combattimento. Dovunque incontravamo posti di  blocco, essi forzavano la consegna dei nostri Carabinieri che non  reagirono solo per ordine superiore».
È evidente che i tedeschi si preparano a imporre il loro controllo sull’isola e dànno per scontata l’accettazione della resa  di lì a poche ore, fidando nella disponibilità dimostrata fino  ad allora dal generale Gandin.  Alla stessa ora Barge presenta a Gandin l’ultimatum di resa  sulla base dell’ordine dell’11a armata.

L’alternativa è continuare  a combattere al loro fianco, oppure cedere le armi entro  le ore 18,00 del 12 settembre; una risposta sarebbe dovuta arrivare  entro le 19,00 del giorno stesso. Si tratta, nei fatti, di  una richiesta di resa senza condizioni. È previsto che «dal disarmo vanno escluse quelle unità che, dopo accurato controllo,  diano affidamento di continuare a combattere agli ordini e a  fianco delle truppe tedesche», mentre al punto 8 si dice che  «Si attendono ulteriori ordini su permanenza e impiego delle  truppe disarmate italiane».

Secondo la sentenza del Giudice istruttore militare Carlo  Del Prato emessa nel 1957: «Si deve equiparare la imposizione  di cedere le armi fatta dai tedeschi a un atto di ostilità». A questo punto, secondo diverse testimonianze, tra queste  quelle di don Romualdo Formato e del capitano Apollonio,  verso le 11,00 arriverebbe l’ordine di all’erta generale. Il comandante  dei Carabinieri, Gasco, ordina subito la liberazione dei prigionieri politici.

Per il console Seganti e nelle memorie di alcuni marinai,  nelle stesse ore la Marina abbandonerebbe le banchine del  porto di Argostoli, disarmando i battelli disponibili, distruggendo  gli archivi, ritirandosi nelle proprie batterie; sembra  logico ritenere che l’ordine sia partito dal Comando di divisione.

Secondo il sottotenente Di Rocco  «il personale della Marina lasciò i comandi e il porto per prendere  posizione nei due capisaldi della batt. E-208 e nella SP-33. Quando  tutto sembrava pronto per l’attacco, giunge l’ordine che le truppe  dovevano ritornare alle posizioni primitive».

Di fronte all’ultimatum tedesco Gandin risponde con una  richiesta di «Chiarimenti».  Al punto 3 c’è la protesta del generale:
«La consegna delle armi ad Argostoli assumerebbe l’aspetto e il  reale carattere di una umiliazione che la divisione Acqui non  merita in alcun modo, in quanto ha sempre collaborato in pieno e stretto cameratismo e fraterno accordo militare con le truppe  tedesche».
Ma il generale entra poi in alcuni particolari della trattativa.  «Cosa si deve intendere per esclusione dal disarmo di quelle  unità che dànno affidamento di continuare a combattere sotto il  comando e a fianco delle truppe tedesche? Gli attuali comandanti  debbono essere sostituiti?; […] Cosa deve intendersi per “truppe  disarmate”.

Al vostro punto 1 si parla solamente della cessione delle  armi pesanti e non di quelle individuali. I soldati riuniti per  battaglione al comando degli ufficiali si dovrebbero riunire nei loro  attuali settori. Sarebbe auspicabile indicare chiaramente le località  o quanto meno la zona all’interno dei due settori da noi indicati  dove i soldati si dovrebbero radunare».
Al punto 7:
«Cosa si deve intendere per “Ufficali e soldati disarmati”. Si  pensa forse di togliere agli Ufficiali e ai soldati anche il rispettivo  armamento individuale? Cosa si deve intendere per “trattamento  cavalleresco” che deve essere riservato agli ufficiali e ai soldati?  Sarebbero comunque necessari chiarimenti sui seguenti punti:  Posizione morale: – trattamento dei gradi di servizio eguali o  inferiori per quanto riguarda comportamento e rispetto  reciproco, – il trattamento economico, retribuzioni e compensi in  natura (stipendio o soldo, viveri, oggetti di vestiario, ecc.);  verrebbero lasciate le assegnazioni di viveri, medicinali,  combustibile solido e liquido, mezzi di trasporto? […]».

Come si vede Gandin entra nel merito delle condizioni di  utilizzo di ufficiali e soldati nel caso di un possibile rapporto  con l’esercito tedesco. Sono richieste che non avrebbero senso se fossero semplici  trattative di resa. Nella relazione del 1945 del capitano Bronzini
si conferma che questo è il senso della trattativa avviata  da Gandin:
«Il generale Gandin, vuole che, dopo il disarmo, egli sia lasciato  al comando della Acqui; che tutti gli ufficiali della divisione vengano mantenuti nel loro attuale posto, vuole che il Comando tedesco  definisca chiaramente il trattamento alimentare ed economico che riserverà a tutti i militari della Acqui».

Secondo il capitano Tomasi, che fungeva da interprete nella  trattativa, alle ore 19,00 dell’11 settembre: «il Comando divisione  accettava in linea di massima la deposizione delle armi»,  e continuava a trattare «per definire le modalità di consegna  delle artiglierie».

Ancora recentemente studiosi come Rochat e Aga Rossi  confermavano la convinzione prevalente che Gandin si fosse  subito rifiutato di passare con i tedeschi. Però esiste un’articolata  documentazione, soprattutto di fonte tedesca, che fa pensare  il contrario. I documenti tedeschi sono conservati a Friburgo.  A partire dal 1986 essi cominciano a essere tradotti e  pubblicati da Apollonio, quindi da Gerhard Schreiber nel  1993 e utilizzati dalla Commissione ministeriale per lo studio  della Resistenza in Grecia presieduta da Giovanni Giraudi. Questi documenti saranno utilizzati nella nostra ricostruzione.

Vi è inoltre la testimonianza presente nella relazione del  console fascista Seganti del 1944, pubblicata integralmente in  Nuova Storia Contemporanea nel 2001. Vediamo prima cosa dice  Seganti:
«Le trattative tra italiani e tedeschi continuavano e tutto lasciava  supporre che si sarebbe giunti a un’intesa, nonostante si  moltiplicassero gli incidenti antitedeschi. Tale speranza dell’intesa  coi tedeschi era basata sulla convinzione che il generale Gandin  nutrisse effettivamente quei sentimenti che professava almeno in  mia presenza. Egli infatti mi aveva assicurato che tutta l’opera sua  mirava appunto a un pacifico accordo con i tedeschi».
E ancora:
«Il generale Gandin si era mostrato lieto che un gran numero di  ufficiali non attendevano altro che una sua decisione di intesa con  le truppe germaniche. […] Il mio commissariato era diventato il  centro di rifugio di tutto il personale civile dell’isola di idee non  sovversive e di alcuni ufficiali che si rivolgevano a me o per essere  aiutati a passare con i tedeschi o per mettersi al corrente della  situazione e del corso delle trattative […]».

Anche nella relazione di Apollonio del 1944 ci sono parole  che vanno in questo senso. Di fronte alle rimostranze dell’ufficiale  dopo la perdita delle batterie di Chavriata e San Giorgio  del 12 settembre,  «il generale Gandin ribatté dicendo che si poteva salvare l’onore continuando a combattere a fianco delle truppe tedesche».

I tedeschi vogliono il disarmo di gran parte della divisione  per formare compagnie lavoratori dei servizi ausiliari della  Wehrmacht, la minoranza di sicuro affidamento avrebbe combattuto  per loro; Gandin, secondo la ricostruzione di Paoletti,  tratterebbe invece per il passaggio dell’intera divisione in armi  dalla parte tedesca e fascista. In effetti, egli accettò nei primi giorni tutte le richieste tedesche  di ridispiegamento dei reparti a nostro svantaggio.

Gandin è disposto a lasciare ai tedeschi le armi pesanti, ovvero  le artiglierie, ma pretende di tenere quelle individuali col  relativo munizionamento, i tedeschi, al contrario, non hanno  alcuna intenzione di mantenere armata la divisione, di cui  non si fidano, a meno che non siano ufficiali, sottufficiali e  truppa disposti a passare con loro e sotto i loro ordini, ma  solo dopo un periodo di addestramento in Germania, come  del resto avverrà per quei militari che aderiranno alla causa  tedesca tra coloro che saranno disarmati dopo l’8 settembre.

In genere, la richiesta di chiarimenti del generale è stata  considerata dagli studiosi come un tentativo per guadagnare  tempo. Ma il contesto delle richieste sembrerebbe spingere verso questa direzione: conoscere il comportamento tedesco  nei confronti dei due gruppi in cui sarebbero stati divisi ufficiali  e soldati, tra quelli che avrebbero continuato a combattere  per i tedeschi e quelli che sarebbero stati disarmati per essere  utilizzati nei servizi ausiliari.

Alle 17,30 il generale Löhr invia un telegramma al generale  Lanz a proposito delle trattative con Gandin:
«Viene trasmessa la direttiva di trattare il comandante della  divisione italiana Acqui, generale Gandi [sic], in modo  particolarmente rispettoso e cavalleresco per la sua particolare  tedescofilia».

Nel pomeriggio giungono dall’isola di Santa Maura alcuni  soldati sfuggiti ai tedeschi, tra questi il sergente Baldessari,  che comunicano che i tedeschi hanno ucciso il comandante colonnello Ottalevi e altri due ufficiali, perché si erano rifiutati  di consegnare le armi pesanti, e che i soldati venivano fatti  prigionieri per essere inviati non in Italia ma sul continente,  verso i campi di concentramento in Germania.

Gandin aveva già ricevuto l’ultimatum tedesco di resa e,  quasi sicuramente, l’ordine da Brindisi di considerare i tedeschi  nemici, ma alle ore 17,00 convoca i sette cappellani militari  della divisione, vuole avere il polso dei suoi uomini.  Sono rapidamente presentate le tre possibili risposte: 1) con  i tedeschi; 2) contro i tedeschi; 3) cedere le armi; tutti tranne uno, don Luigi Ghilardini, propongono di cedere le armi. Sarà  don Formato a portare la risposta dei cappellani, dopo una rapida  consultazione. Così ricostruisce il discorso di Gandin:
«Combattere contro i tedeschi? Perché senza grave motivo né  provocazione bisognerebbe rivolgere quelle armi contro un popolo  che ci è stato a fianco, come alleato per tre anni, combattendo la  nostra stessa guerra, condividendo i nostri stessi sacrifici, e  agognando alla nostra stessa vittoria? Non vi sembrerebbe  sommamente immorale rivolgere la punta della spada – oggi –  contro un fratello, che – fino a ieri – si è battuto con noi e per noi, a fianco per una causa comune?

Vi prego di considerare che, in  conseguenza dell’armistizio concluso, tra il nostro governo e le  autorità angloamericane, non siamo diventati automaticamente nemici dei tedeschi. Abbiamo soltanto sospeso ogni ostilità. Non  combattiamo più. Noi, dunque, non abbiamo nessun diritto di attaccare per primi i nostri antichi alleati e non ne abbiamo per ora neppure un motivo sufficiente».

Alle 18,00, il generale riceve i responsabili dei reparti, di  nuovo prevale la terza ipotesi, solo Romagnoli e Mastrangelo  sono contrari, come già due giorni prima.  Per convincere i suoi interlocutori, il generale ricorda la  sproporzione delle forze:
«I tedeschi hanno oltre 300.000 uomini sulla terraferma […] se resistiamo avremo 350 aerei tedeschi sulla testa e quindi saremmo  sempre costretti a combattere senza copertura aerea».

Gandin scrive a Barge per chiedere precisazioni e per puntualizzare  alcune richieste non decisive circa le condizioni di  resa; la risposta definitiva non potrà arrivare nei tempi stabiliti  per le difficoltà sorte nella consultazione dei reparti. A Cefalonia  le posizioni favorevoli alla collaborazione con i tedeschi  sono presenti sia all’interno del Comando divisione, sia a  livello politico, dove il principale riferimento è il console Vittorio  Seganti.
Questi, nella sua relazione, parlando del periodo che precede  l’armistizio affermava:
«Continuavo a mantenere contatti con quegli ufficiali che, per il  loro passato e il loro contegno presente, mi consentivano di aprire  con loro l’animo e di tenere delle utili discussioni sulle ripercussioni  della situazione politica negli ambienti militari […]. Solo il Comandante del Genio, maggiore Filippini e il tenente colonnello  di Sanità Briganti erano per fraternizzare con i soldati tedeschi. Il  direttore dell’ospedale da campo n. 37 capitano Pietro Viganotti e  il chirurgo capitano Nino Cunico mi erano devoti per i loro sentimenti politici».

Tra i filotedeschi vi sono anche il tenente colonnello Uggé  del 17° (già comandante della 19a brigata Camicie nere divisionale)  e il colonnello Sebastiani, aiutante di campo del generale  Gherzi, responsabile della fanteria divisionale e numero due  di Gandin. Anche secondo la ricostruzione dell’Ufficio storico  del 1975 condotta da Torsiello, nel Consiglio di guerra dell’11  settembre  «la maggioranza dei convenuti insistette perché venisse presa la  decisione di cedere le armi e a ciò si opposero solo i comandanti  dell’Artiglieria e della Marina».

L’unico sopravvissuto di quella riunione sarà il colonnello  Ricci, comandante del 317° reggimento fanteria, poi volontario  nella Repubblica sociale italiana fino alla fine del conflitto.  Il Consiglio di guerra era composto in quel momento dai  comandanti di corpo, Gherzi per la Fanteria, Romagnoli per  l’Artiglieria, Filippini per il Genio, dal capitano di fregata  Mastrangelo per la Marina, dal capo di Stato maggiore Fioretti,  dai comandanti del 17° e 317° reggimento colonnelli  Cessari e Ricci, ed era presieduto dal generale Gandin.

In serata, dopo avere avuto il permesso dal suo superiore, il  colonnello Romagnoli, il capitano Apollonio consegna una  cinquantina di moschetti e alcune casse di bombe a mano ai  partigiani dell’isola. Evidentemente essi sono ormai considerati,  in base alle disposizioni provenienti da Brindisi, nostri alleati.  A partire da queste ore Apollonio diventa uno dei riferimenti  della lotta ai tedeschi per i reparti, i greci e gli inglesi.

Se gli italiani continuano a procrastinare una decisione definitiva,  Barge è invece pressato dai suoi superiori del 22°  corpo d’armata da montagna, il cui quartier generale si trova a Ioannina, sul continente, perché la vicenda di Cefalonia abbia  rapidamente termine. Il Comando Gruppo armate E del generale Alexander Löhr,  a cui è affidato il compito di disarmare l’armata italiana in  Grecia, è preoccupato per i focolai di resistenza sul continente,  a Cefalonia e Corfù, nel Dodecanneso.

Ha la sensazione che  un cedimento sui fianchi orientale e occidentale della Grecia  possa avere pericolose ripercussioni per il mantenimento del  suo controllo. Gli inglesi potrebbero avere un piano di invasione  dei Balcani che troverebbe un naturale appoggio nelle  Isole Ionie: Corfù, vicinissima al continente greco, è a poca distanza dall’Italia, all’imboccatura del Mar Adriatico; Cefalonia,  più a sud, rappresenta una base per il controllo del  golfo di Patrasso, da cui è possibile raggiungere il cuore della  Grecia.

Rimane, per i tedeschi, l’incognita inglese: avrebbe portato  il suo aiuto agli italiani che resistevano, in modo da costituire  delle teste di ponte da utilizzare per l’invasione della Grecia?  In caso di continuazione della resistenza italiana, e nonostante  il successo iniziale dell’operazione di disarmo prevista dal  piano Asse, si sarebbe creata una reazione a catena tra le  truppe italiane in grado di mettere in crisi il dispositivo militare  tedesco in Grecia?

La risposta tedesca arriva sempre nella giornata dell’11:
«Le unità e i reparti, fino al livello di reggimento, mantengono  temporaneamente oltre alle loro armi anche i loro ufficiali e i loro  Comandanti, se questi vogliono continuare a combattere sotto il  Comando tedesco […]. Tutte le armi portatili e le munizioni  devono essere tolte ai soldati da disarmare entro le ore 18,00 del 12  settembre e riunite battaglione in locali sorvegliati. […]

Il  raduno delle truppe disarmate deve avvenire per il settore nord-est  nella zona di Sami (esclusa), Vlachata, Pulata, Chaliotata, e Kurulata; per il settore sud-occidentale nella zona di Valsamata,  Frankata, Dilinata, Troianata. […] I soldati o le unità che sono  pronti a continuare a combattere agli ordini e al fianco dei reparti  tedeschi devono essere segnalati numericamente in Ufficiali,  Sottufficiali e Truppa entro le ore 17,00 del 12.9.1943.»

Barge si reca al Comando italiano per avere la risposta definitiva.  Gandin ha già inviato ai reparti le disposizioni per  preparare la consegna delle armi e chiede tempo fino al mattino
successivo. Chiede a Barge di fermare l’arrivo dei rinforzi al presidio di Lixuri, in cambio completa il ritiro dei reparti  italiani dalle alture di Kardakata, che permettono di controllare  la rotabile Sami-Divarata-Kardakata-Lixuri e la baia di  Kiriaki. La definizione dei particolari della trattativa è lasciata  al tenente colonnello Fioretti e al tenente Fauth.

La consegna  delle armi dovrebbe avvenire entro lunedì 13 settembre. Alle 20,30 Barge comunica a Lanz:
«La maggior parte della Acqui sarà disarmata. Il resto della  formazione continuerà a combattere sotto il comando tedesco. La  consistenza di quest’ultima parte verrà in seguito comunicata».

Alle ore 4,00 del 12, il capitano Tomasi porta a Fauth il  messaggio che la resa è accettata, ma non se ne precisano i  termini. I tedeschi la considerano una resa senza condizioni. Nella relazione del capitano Bronzini del 1944 si riassume lo stato delle trattative con i tedeschi all’11 settembre:
«Dovendo i tedeschi sostituirsi agli italiani nella difesa dell’isola  sarebbe intanto necessario che tutta la Acqui lasciasse le coste e si  ritirasse nell’interno dell’isola. La zona di raccolta potrebbe essere  la conca di Valsamata; il Comando di Divisione, con il Quartier  Generale, potrebbe trasferirsi a Sami».

Sempre Bronzini scrive:
«Il Comando Divisione ordinava il trasferimento del III/317°  Ftr. da Kardakata nella zona del cimitero di Argostoli. Per  ricostituire un fronte al nostro settore nord-occidentale si ordina nel  contempo il trasferimento del II/317° Ftr. da Frankata a Razata.  Così il grosso del 317° viene a trovarsi schierato sulla linea  Argostoli-Razata- Sami».

I reparti abbandonano quindi le alture attorno a Kardakata  per ritrovarsi sulla baia di Argostoli. Nel frattempo però non si provvede a creare un servizio informazioni per tenere sotto  controllo le truppe tedesche.  Il tenente colonnello Picozzi dell’Ufficio storico dello Stato  maggiore dell’Esercito scriverà al suo ritorno dal sopralluogo  a Cefalonia del 1948:
«Nel corso delle trattative il Comando italiano cedette ai  tedeschi, quasi come pegno delle sue concilianti intenzioni, la  posizione di Kardakata. Ma se l’intenzione era quella di combattere appena possibile, Kardakata rappresentava una delle  posizioni da difendere ad ogni costo. […] L’azione dei tedeschi è  stata tecnicamente ben condotta. Si sono fatti cedere Kardakata e  una volta iniziate le operazioni sono andati diritti sugli obiettivi  vitali».

11-12 settembre. Le comunicazioni col Comando Supremo  italiano. «Considerate le truppe tedesche  come nemiche».  L’11 settembre dal Comando di Brindisi viene inviato l’ordine  di resistenza ai tedeschi ai reparti ancora efficienti delle  isole del Mediterraneo. Solo Sardegna, Corsica, Corfù e Cefalonia  ricevono le nuove disposizioni. Ma a differenza delle  prime due isole, dove sarà possibile far convergere l’aiuto delle  truppe alleate, a Corfù e a Cefalonia la situazione, provvisoriamente  favorevole agli italiani, non lascia, nel medio periodo,  vie di scampo. In particolare a Corfù giunge il Messaggio N.  1023/C.S. che dice:
«Riferimento quanto comunicato circa situazione isola maggiore  Capra dovete considerare le truppe tedesche come nemiche et  regolarvi in conseguenza punto Rossi».
Firmato dal generale Rossi, fa riferimento al maggiore Capra  inviato il giorno prima da Lusignani a Brindisi. È assai probabile  che Lusignani fosse in contatto con Gandin e gli abbia  comunicato quanto ricevuto da Brindisi già nella mattinata  del giorno 11.

Si hanno numerose conferme, per i giorni considerati,  del rapporto continuo tra i comandi di Corfù e di  Cefalonia, sia per radio che per telefono, per cui è verosimile  che i due comandanti si siano sentiti anche in questa occasione.  Secondo il capitano di corvetta Barone, già all’inizio di settembre  il personale di Marina aveva allestito due locali nella  villa comunale di Argostoli, a poca distanza dal Comando di  Gandin, per il centralino telefonico, l’apparato telegrafico e  l’ufficio cifra, per cui Cefalonia era in collegamento radio con  Brindisi e telefonico con Corfù.

Secondo il sottotenente Di Rocco, uno dei superstiti, che  afferma di avere decrittato il messaggio, la notizia arriverebbe  «verso le 11,00 dell’11 settembre». Il capitano di vascello Mastrangelo  avrebbe quindi consegnato l’ordine di «considerare  i tedeschi nemici» poco dopo le ore 11, in conseguenza del  quale seguirebbe quindi sia la decisione di Gandin di mettere  in preallarme i reparti, sia la reazione dei marinai, che lasciano  il porto, e degli artiglieri, quando arrivano la notizia e la disposizione  del comandante.

Nel diario storico del Comando Supremo risultano più messaggi  giunti da Cefalonia tra il 10 e l’11 settembre. Invece  sono due quelli inviati da Brindisi ad Argostoli il giorno 11, trasmessi per telecifra radio, ovvero messaggi cifrati inviati via  radio.  Alle 11,20 e alle 15,30 Gandin invia due messaggi al Comando  Supremo di Brindisi. Questo il testo del primo, inviato poco dopo che il tenente colonnello Barge gli aveva consegnato  l’ultimatum tedesco:
«Mittente Marina Argostoli – 81018 – Qualora possibile pregasi far conoscere disposizioni superiori circa modalità eventuale  evacuazione militari et armi isola Cefalonia».

Nel secondo, il 41414, invece si comunica:
«41414 Comando tedesco chiede che Divisione qui decida  subito aut combattere unitamente tedeschi aut cedere armi at esso  alt Mancando ogni … et ignorando situazione generale prego dare  urgentemente orientamento … risposta alt».

Il ricevente lo batterà a macchina alle 20,40 del giorno 11.  I due messaggi aprono dubbi sulle reali intenzioni di Gandin:  possibile che egli non fosse a conoscenza della situazione generale  che a tre giorni dalla comunicazione dell’armistizio  era nota attraverso le comunicazioni radio? Perché non comunica  al Comando Supremo che le trattative con i tedeschi  sono in realtà in corso da due giorni e che sono già state fatte  molte concessioni, tali da modificare gli equilibri di forze sul  terreno e da non controllare più il settore nord-occidentale  dell’isola? Perché chiede di essere sgomberato quando il porto  di Argostoli è di fatto sotto il controllo nemico?

Nella riunione del suo Stato maggiore del pomeriggio i comandanti  gli fanno presente che il tempo gioca a favore dei  tedeschi che continuano a rafforzare le proprie posizioni. Paolo Paoletti ricostruisce meticolosamente le date di ricezione  dei due messaggi radio inviati da Brindisi, che la gran  parte degli studiosi fa arrivare solo il giorno 14. Il primo, il N. 1027/C.S., riprende il contenuto di quello  arrivato in mattinata a Corfù (N. 1023/C.S.):
«A Comando divisione Acqui – in risposta al radio 41414 si  comunica che le truppe tedesche devono essere considerate  nemiche».

Esso è l’allegato 21 del diario storico del Comando Supremo  al giorno 11 settembre ed è la risposta, compilata alle 23,10  dell’11 settembre, al messaggio radio 4414, ma anche a quello  inviato in mattinata da Gandin. È probabile, cioè, che i due  messaggi di Gandin siano stati consegnati al sottocapo di Stato  maggiore la sera dell’11 settembre.

Il secondo, il N. 1029/C.S. è l’allegato 48 del 12 settembre,  inviato dal generale Francesco Rossi:
«Comando Supremo a Marina Cefalonia tramite Stazione  Tavola N. 1029/C.S. Comunicate at Generale Gandin che deve  resistere con le armi at intimazione tedesca di disarmo at Cefalonia  et Corfù et altre isole. Marina Brindisi».

Il messaggio dovrebbe essere stato inviato alle ore 9,45 del  12 settembre, anche se vi è un errore nella trascrizione della  data sul documento. Risulterebbe infatti consegnato il giorno  11 invece del 12, ma nella richiesta di precisazioni di Gandin,  inviata alle ore 14,05 del 12, ci si riferisce al messaggio ricevuto  in data «odierna», cioè appunto il 12. Considerando che si  tratta di un messaggio cifrato inviato per radio, l’arrivo dovrebbe  essere avvenuto in tempo reale. Pertanto appare più  che verosimile che Gandin conoscesse ambedue i messaggi  pervenuti da Brindisi prima delle 14 del giorno 12.

C’è da aggiungere che su richiesta del generale Eisenhower,  il giorno 11 vengono diramati via radio un annuncio del re:  «Per assolvere i miei doveri di Re, col Governo e colle autorità militari mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero  suolo nazionale» e un proclama di Badoglio alla Nazione, in  cui si precisano i nuovi rapporti con le truppe anglo-americane  e con i tedeschi. I messaggi vengono ricevuti in tutto il Mediterraneo centrale e orientale.

Lo stesso giorno da Roma il feldmaresciallo Kesserling dichiara  che l’Italia centro-meridionale è sottoposta alla legge  di guerra tedesca. Gandin dovrebbe avere almeno nelle linee  essenziali consapevolezza della nuova situazione strategica, in particolare per la nuova distribuzione delle forze in Italia.  Nel 1995 Giovanni Giraudi, presidente della Commissione  istituita dal ministro della Difesa Virginio Rognoni, a proposito  degli ordini provenienti da Brindisi e delle scelte di Gandin,  afferma:
«La mattina dell’11 settembre pervenne al generale Gandin  l’ordine del Comando Supremo “Considerate le truppe tedesche  nemiche”. […] L’11 settembre Gandin emanò le disposizioni per  resistere a qualsiasi iniziativa tedesca e poi le revocò. Per quali  ragioni? Che cosa avvenne l’11 settembre di così grave da indurre il  generale Gandin a non ottemperare al reiterato ordine di opporsi  con le armi alle intimazioni tedesche, come fece il colonnello  Lusignani a Corfù? L’ordine imponeva di rifiutare la resa e di non cedere le armi».

E sulle trattative:
«L’arrendevole atteggiamento del generale Gandin, certamente dovuto alla speranza di giungere a una onorevole composizione  della contesa, finì per convincere i tedeschi che era possibile […]  giungere al disarmo della Divisione per via pacifica».

12 settembre. Di fronte agli ordini di Gandin gli uomini  della Acqui non vogliono cedere le armi  A Bari, il 12 settembre, si insedia la Commissione militare  alleata presso il Governo italiano, in codice Fatima, comandata  dal generale inglese Noel Mason-MacFarlane. Il capo di Stato  maggiore è il generale statunitense Maxwell Taylor. La Commissione  terrà sotto osservazione la situazione nelle Isole Ionie  nelle settimane successive.

Al mattino Gandin dà alle truppe l’ordine di preallarme,  dopo che era giunto da Brindisi il secondo comunicato che  imponeva di «resistere con le armi». Nel pomeriggio i tedeschi si impossessano con la forza delle due batterie della penisola  di Paliki, quelle di Chavriata e San Giorgio, dopo aver dato  l’ultimatum di un’ora per consegnare le postazioni; i reparti che chiedono quale comportamento assumere non hanno ordini  precisi; alla telefonata da San Giorgio, giunta durante un  Consiglio di guerra, Gandin risponde: «di fronte a forze preponderanti,  cedere».

Per iniziativa del tenente Pigorini e di alcuni soldati, perché  dal Comando non è stato dato quest’ordine, i pezzi vengono sabotati durante la notte, dopo che il grosso degli artiglieri era stato trasferito dai tedeschi a Lixuri. A parte la richiesta  formale a Barge di restituzione degli uomini e delle batterie,  Gandin non prende altre iniziative, se non quella di annullare  il preallarme diramato al mattino.

I tedeschi si impossessano anche della batteria della Marina  da 120/40 di capo Akrotiri, la punta meridionale della penisola  di Paliki, che controlla l’accesso alla baia di Argostoli e domina  un’altra spiaggia che potrà essere utilizzata per eventuali sbarchi  in caso di invasione dell’isola. Le caserme dei Carabinieri  della penisola di Paliki passano sotto il controllo tedesco, mentre la bandiera italiana viene ammainata a Lixuri.

Il capitano  Giovanni Gasco, comandante dei Carabinieri, e il colonnello  Romagnoli, comandante dell’Artiglieria, hanno perso uomini  e hanno forti perplessità sul comportamento del generale, pur  continuando a obbedire agli ordini. Gasco, però, per protesta contro la presenza di un semovente tedesco collocato a difesa  del Comando divisionale ritira gli uomini che sorvegliano  l’edificio.

Nel pomeriggio ad Argostoli i tedeschi compiono  un’altra provocazione, ammainando la bandiera italiana in piazza Valianos, a poche decine di metri dal Comando divisionale. Al suo posto viene issata quella tedesca. Per primi  sono i Carabinieri ad accorgersi dell’accaduto, alcuni di loro,  assieme a un gruppo di marinai, tutti armati di fucili mitragliatori, mitragliatrici e bombe a mano, riescono a sostituire il  tricolore al posto della croce uncinata nazista, alla presenza  di un distaccamento tedesco che non interviene.

Lanz ha concesso tre giorni per la consegna delle armi personali,  ma pretende che le artiglierie siano consegnate immediatamente. Si tratta delle batterie della Marina, dell’Artiglieria  e della contraerea che sarebbero rimaste sull’isola e che costituiscono la principale carta di scambio nel corso della trattativa di Gandin che, conoscendo l’opposizione della Marina e degli  artiglieri alla cessione delle armi, non lo chiederà mai formalmente.

Nel pomeriggio del 12, però, il Comando di divisione invia  ad alcuni reparti l’ordine di depositare le armi nei magazzini.  Tuttavia, secondo le fonti italiane manca un vero e proprio  ordine di resa, anche se quanto avvenuto il giorno 12 a Lixuri  – le batterie italiane vengono disarmate senza che il Comando  di divisione ingiunga di resistere e, soprattutto, l’ordine del pomeriggio di portare le armi nei depositi e di concentrarsi  successivamente nelle zone richieste dai tedeschi – va in questo  senso.

Per le fonti tedesche, invece, Gandin si sarebbe accordato  per la resa e per la consegna delle armi, Barge comunica che  3.500 italiani si sarebbero raccolti presso Sami per l’imbarco,  altri 4.500 presso Argostoli.  Infatti, al punto 3 della lettera di Barge di risposta a Gandin  si legge:
«Tutte le armi da fuoco portatili con relative munizioni debbono essere ugualmente ritirate a tutti i soldati da disarmare entro le ore  18,00 del 12 settembre e raccolte per battaglione in aree  sorvegliate».

La notizia dell’ordine di consegna delle armi si diffonde tra  i battaglioni di fanteria tra le ore 16,00 e le ore 17,00 del  giorno 12. Anche i marinai della batteria E-208, quella di Faraò,  riuniti in assemblea dal capitano di fregata Mastrangelo, ricevono l’ordine di prepararsi a consegnare le armi ai tedeschi  e la raccomandazione «di non lasciarsi andare ad atti inconsiderati  né prima né dopo la consegna» (testimonianza del tenente  Diamantini).

Anche la relazione di Apollonio del 1944 conferma che la  notizia della consegna delle armi si era diffusa tra gli artiglieri, tanto che lo stesso Apollonio si reca al Comando d’Artiglieria
dal colonnello Romagnoli, che sottolinea come non ci sia più  nulla da fare, in quanto nella riunione dei comandanti egli  era stato il solo a opporsi a questa decisione, quindi afferma:
«Siamo soldati e bisogna obbedire agli ordini».  Nonostante ciò, gli ufficiali che hanno capito che l’ordine  di deposito delle armi permetterebbe ai tedeschi di assumere il controllo dell’isola nonostante la loro inferiorità numerica –  oltre ad Apollonio, il tenente colonnello Deodato, il capitano  Gasco e il capitano di fregata Mastrangelo – decidono di avvertire  i reparti delle conseguenze di quella decisione.

Nella sua relazione del 1944, il tenente Giuseppe Triolo ricorda:
«Verso le ore 16 del 12 settembre mi perveniva dal Comando 1°  Battaglione, d’ordine del Comando Divisione, l’ordine di  accompagnare i miei soldati a Sami nel magazzino del Comando  Gruppo Capisaldi Sami Est. In tale magazzino dovevo depositare  tutte le armi: fucili, fucili mitragliatori, mitragliatori, mortai da 49 e  81. Una volta depositate le armi dovevo rientrare con i miei uomini  nei capisaldi in attesa di ulteriori ordini».

Si tratta in effetti dell’applicazione del punto 3 dell’ultimatum  tedesco dell’11 settembre. La contrarietà dei reparti di fanteria a eseguire l’ordine provocherà  il fallimento del progetto di resa concordato.  Il colonnello Ricci scriverà:
«Il II/317° si rifiuta di trasferirsi da Francata a Razata perché i  soldati vedono in questo movimento un primo passo verso la  cessione delle armi e perciò si rifiutano di eseguire l’ordine».

Ma in realtà i reparti, con l’eccezione del tenente Triolo  che non accetta di depositare le armi nei magazzini, accolgono  con rassegnazione l’ordine di Gandin, tanto che i cinque battaglioni  di fanteria iniziano i movimenti per il trasferimento,  marciano tutta la notte, per poi ricevere all’alba del 13 l’ordine  di tornare sulle posizioni di partenza.

Il capitano Pampaloni conferma:
«Credo di poter parlare per quegli ufficiali che come me  pensavano di doversi schierare da subito contro i tedeschi. Quando  ci fu preannunciato l’ordine di spostamento nell’area di Sami,  capimmo cosa ci aspettava. Ma non ho mai pensato di non eseguire  l’ordine né ho mai sentito dire che qualche altro avesse intenzione  di disubbidire. […] Nessuno si sognò mai di mettere in discussione  la guida del generale. Una ipotesi del genere era semplicemente  impensabile a quei giorni».

La notizia che sarebbe stato firmato l’accordo per la resa  si sparge rapidamente tra i soldati; si accusa Gandin di aver  ceduto alle richieste tedesche; c’è tensione, non solo tra gli  artiglieri, come già nei giorni precedenti; anche la fanteria, dopo l’abbandono delle posizioni di Kardakata, inspiegabile  dal punto di vista militare se non in vista della resa, è in subbuglio.

Nel pomeriggio del 12 settembre, secondo la relazione del  capitano Bronzini, giungono al Comando i comandanti di  compagnia del 3° battaglione del 317° reggimento fanteria  Siervo, Pantano, Freddi, con il comandante di battaglione:
«Sono tutti ufficiali che in previsione che il generale ceda le armi,  vengono a far presente che loro e i loro uomini non eseguiranno  l’ordine, ma si batteranno – sia pure da soli – contro i tedeschi».

I primi a reagire sono i reparti che hanno subìto le conseguenze delle provocazioni tedesche dei primi giorni e gli ordini  di Gandin che annunciavano la resa : i marinai, i carabinieri,  gli artiglieri, i fanti del 3° battaglione del 317°. Il tenente Petruccelli  con una ventina di carabinieri pensa addirittura di  arrestare il generale Gandin per tradimento.

Il capitano Apollonio si ritrova al centro della rete di coloro che vogliono contrapporsi all’ordine di resa, in primo luogo  le tre batterie del 33° reggimento; incontra i capi della resistenza  locale, in particolare dell’Eam, e i membri della Missione  alleata, che promettono consistenti aiuti e chiedono subito  armi. La batteria di Apollonio diventa il punto di riferimento  di quanti vogliono combattere i tedeschi. Anche il personale  del Comando Artiglieria si mette a disposizione. Sono tutti  suddivisi in squadre ognuna con un proprio compito in caso  di battaglia. Si preparano i piani per l’attacco al gruppo Fauth
ad Argostoli e al presidio tedesco nella penisola di Paliki.

I  partigiani promettono almeno 300 uomini, oltre a consistenti rinforzi dalla terraferma. Il Comando inglese di Malta, intanto, mentre chiede di resistere  e di non cedere le armi, non prepara alcun appoggio  agli uomini di Cefalonia.  I tedeschi, che controllano le comunicazioni, sono al corrente  di questi contatti. Alle ore 12,00, dopo che da due giorni continuavano  le manifestazioni organizzate dall’Eam davanti ai  comandi italiani, il capitano Gasco, comandante dei carabinieri,  decide la liberazione dei circa 300 detenuti politici delle  carceri di Argostoli, arrestati per le violazioni agli ordini del  Comando italiano di occupazione; in questo modo non cadranno,  dopo la resa, in mani tedesche.

I soldati si convincono rapidamente che si debba affrontare  i tedeschi e, grazie ai rapporti di forza del momento, di poter  vincere; si diffonde un clima patriottico e risorgimentale che  richiama i momenti epici della storia d’Italia.  Alle ore 16,00 Barge incontra di nuovo Gandin per chiudere le trattative. Mentre si discute, giunge per telefono la comunicazione
che a San Giorgio una batteria da 105/28 è stata circondata dai tedeschi. Gandin autorizza la resa. In poco tempo  i tedeschi catturano tutti i reparti lasciati isolati nella penisola  di Palixi. La convinzione che la resa sia vicina aumenta ancora,  se possibile, la diffusione di un clima di tensione.

Alcuni reparti,  soprattutto del 33° reggimento, sono in agitazione. Si ha l’impressione che la situazione stia sfuggendo al controllo dello  Stato maggiore.  L’atteggiamento dei reparti nei confronti dei tedeschi comincia  a chiarirsi nelle prime ore del pomeriggio. Il comandante  della Marina, Mastrangelo, invia al Comando di divisione  due lettere, in cui risponde negativamente alla richiesta  di comunicare il nome degli ufficiali che avrebbero accettato  di passare con i tedeschi, mentre nella seconda fa presente la  volontà degli ufficiali e della truppa di non voler cedere le  armi e di essere disposti ad attaccare i tedeschi nell’eventualità  di una loro aggressione.

I capitani Apollonio e Pampaloni convincono il colonnello  Romagnoli a chiedere un incontro al Comando per comunicare  gli orientamenti della truppa. Si tratta di una richiesta  non protocollare, ma anche lo Stato maggiore divisionale ha  bisogno di capire e di condividere la decisione finale.  Da una parte sono Gandin, con Gherzi e Fioretti, dall’altra  Cessari, Ricci, Romagnoli, Mastrangelo, Apollonio, Pampaloni, Ambrosini, Pantano. Una delegazione fuori ordinanza, ci sono giovani capitani, ma anche ufficiali superiori come  Romagnoli per l’Artiglieria, Ricci e Cessari per la Fanteria.

Lo scontro è duro, le posizioni nette.  Nella sua relazione del 1944 Apollonio ricorda di avere  detto:
«“Signor Generale, nonostante sia contrario alla disciplina  militare, sento il dovere di rendermi interprete del dolore e dello sdegno di tutti i nostri soldati nell’apprendere l’ordine di  consegnare le armi. Devo farvi presente che tale ordine, in  contrasto con l’onore militare, provocherà rifiuto d’obbedienza  […]”. Il generale Gandin ribatteva dicendo che si poteva salvare  l’onore continuando a combattere a fianco delle truppe tedesche».

Così ricorda l’episodio l’allora capitano Pampaloni:
«Ai suoi argomenti venne controbattuto che noi eravamo al  servizio del governo e del Re e non al servizio del governo di  Farinacci; che per un militare non vi erano che due vie, o andare  con i tedeschi, o andare contro, ma la terza via suggerita dal  generale, quella di consegnare le armi era fuori dai nostri  sentimenti di onore; che ai nostri soldati era stato sempre insegnato  di morire sui pezzi piuttosto che cederli a chicchessia».

Il generale li assicura che le trattative sarebbero continuate sulla base della non cessione delle armi e che sarebbero stati  contrastati col fuoco i tentativi tedeschi di modificare lo status  quo. In particolare si rivela assai persuasiva la relazione del  colonnello Romagnoli, comandante dell’Artiglieria, non solo contrario alla cessione delle armi ma anche favorevole a rispondere  con le armi ai tedeschi.  Tuttavia, l’orientamento della maggioranza dei comandanti  sembra ancora una volta favorevole alla resa.

Gandin si convince  a continuare le trattative, a richiedere la consegna dei  soldati e delle batterie appena catturati, dà l’autorizzazione a «reprimere con il fuoco qualsiasi tentativo tedesco».  Tra i soldati, però, la situazione diventa sempre più tesa,  anche se il ritorno dei capitani dall’incontro con Gandin fa  rientrare i propositi più esasperati. L’automobile del generale  viene fatta segno da un tiro di bomba a mano lanciata dal carabiniere Nicola Tirino, che fortunatamente non esplode; la  bandierina del cofano viene strappata.

In un nuovo incontro con Barge il generale chiede di riaprire  la trattativa. A mezzanotte si mette in contatto con Corfù,  dove il colonnello Lusignani gli conferma la sua intenzione di
rispondere con le armi alle richieste tedesche. La mancata consegna delle nostre artiglierie nel pomeriggio del 12 settembre  spinge Lanz a cambiare il proprio atteggiamento, fino ad allora disponibile alla collaborazione, nei confronti del generale  Gandin.

13 settembre. Cresce la tensione tra italiani e tedeschi.  I tedeschi, da parte loro, si muovono per applicare l’accordo  del giorno precedente. Il 13 mattina, alle ore 6,30, alcuni ufficiali  tedeschi si presentano al Comando di divisione per  prendere in consegna l’artiglieria. Poco dopo, mentre il tenente  colonnello Fioretti sta consultando il generale Gandin per capire  cosa fare, si sentono colpi di artiglieria provenienti dal  golfo di Argostoli.

La situazione si fa improvvisamente drammatica.  La batteria di Pampaloni ha avvistato due grosse motozzattere  tedesche, la F494 e la F495, cariche di uomini e di  armi. Dopo aver doppiato capo Mounta si dirigono verso Lixuri,  ma all’altezza di punta San Teodoro virano verso il porto  di Argostoli.

Pampaloni, in quel momento vicecomandante del gruppo,  vede per primo i natanti, data la posizione della sua batteria  che domina l’accesso al porto, e comunica telefonicamente con Apollonio; questi contatta anche l’altro comandante di  batteria, il tenente Ambrosini.  Prima dell’artiglieria sono gli uomini del 3° battaglione del 317° reggimento fanteria, dal cimitero di Argostoli, ad aprire il fuoco con i fucili, seguiti dai marinai che sparano dalla parte  opposta del golfo con le mitragliere.

Si pensa a un tentativo di sbarco coordinato col gruppo  Fauth ad Argostoli, a un colpo di mano per impossessarsi del  Comando divisione italiano.  Contemporaneamente i tedeschi stanno cercando di sbarcare  anche a Corfù in una zona a sud del porto. Apollonio concorda con la prima, la terza e la quinta batteria di fare  fuoco. Anche i cannoni di marina sparano da Faraò e da Minies:  la 208a batteria, comandata dal capitano di fregata Mastrangelo  e dal capitano di corvetta Barone, e quella da 152, comandata dal capitano Serafini.

Quando le imbarcazioni sono a cento metri dalla banchina  le armi italiane aprono il fuoco colpendo due volte l’F-495  sotto la linea di galleggiamento e provocando 8 morti e 8  feriti oltre all’affondamento del mezzo, mentre l’altro viene  solo danneggiato. Il resto dell’equipaggio e del personale imbarcato  si salva su una scialuppa.

Ancora oggi non vi è accordo tra gli studiosi: per alcuni si  tratterebbe di un’operazione a sorpresa per catturare il comando  italiano, per altri solo di rinforzi provenienti da Zante per il presidio tedesco del capoluogo. Lo stesso Paoletti concorda  nelle sue due pubblicazioni dedicate al capitano Apollonio  e al generale Gandin prima con l’una, poi con l’altra  ipotesi. I tedeschi rispondono dalla penisola di Paliki e con i semoventi di Argostoli.

Barge telefona al Comando di Gandin, chiede di fermare il  fuoco e di recuperare i soldati della motozattera affondata, in  cambio offre di riprendere le trattative. Dal Comando non si  riesce a contattare Apollonio, per cui si manda una motocicletta  con l’aiutante di Romagnoli, il capitano Postal, a imporre di cessare il fuoco. Si sfiora lo scontro, mentre arriva anche  Pampaloni. Alla fine le batterie smettono di sparare, il clima è di forte tensione ma solo tra gli artiglieri.

L’iniziativa dei tre comandanti di batteria ha aperto tra i  sopravvissuti e gli storici un ampio dibattito sulla legittimità  della loro azione. Ad esempio, per Rusconi «L’attacco degli  zatteroni non era autorizzato», oppure, secondo Massimo Filippini e Luciano Garibaldi, avveniva contro gli ordini del Comando di divisione e rappresentava «una vera e propria  ribellione agli ordini del generale Gandin».

La sentenza del processo del 1957 afferma invece:
«Tale iniziativa […] non fu per nulla arbitraria. L’azione di  fuoco contro le motozattere fu compiuta non soltanto in  ottemperanza di un ordine emanato dalle Autorità centrali ma anche in perfetta aderenza all’ordine analogo successivamente dato  dal generale Gandin. […] l’atto di ostilità fu commesso nella  certezza di compiere un atto pienamente lecito come esecuzione di  un ordine legittimo proveniente dal capo del Governo e ad essi diramato dal generale Gandin senza fini prestabiliti, ossia lasciando  libera anche l’iniziativa dei comandi in caso di necessità».

In effetti, nel pomeriggio precedente, Gandin aveva autorizzato  a contrastare iniziative tendenti a modificare la situazione  esistente. Sempre secondo la sentenza, il tentativo di sbarco tedesco avrebbe avuto  «il palese intendimento di concorrere con le forze tedesche già  dislocate nella stessa città, a un colpo di mano sul nostro Comando  di Divisione».

Alle ore 9,00 giunge a Cefalonia il tenente colonnello Busch, delegato del generale Speidel, comandante delle forze tedesche in Grecia – era partito da Atene in aereo prima delle 7,00 –  che informa Gandin della liberazione di Mussolini e gli offre  un incarico importante nel nuovo governo italiano fascista.  Secondo alcuni storici sarebbe latore di un messaggio personale  di Mussolini. Fa poi nuove offerte in caso di cessione delle  armi, si promette l’imbarco della divisione nei porti di Sami e  Poros per rientrare in Italia, fino a quel momento i reparti  conserverebbero l’armamento pesante; chiede quindi i nomi  degli ufficiali responsabili dell’attacco alle motozattere.

Su quest’ultimo punto Gandin rifiuta, ma non chiude la  porta all’offerta tedesca, ci sarà la sua risposta alle nuove  offerte entro le 12,00 del giorno dopo. Il generale Lanz non è a conoscenza delle promesse di Busch a Gandin.  Mussolini, che era arrivato frastornato a Vienna intorno  alla mezzanotte del 12, il giorno successivo sarebbe stato portato  in Germania, a Rastenburg, per incontrare Hitler. Per  cui sembra improbabile che Busch potesse portare una lettera  autografa del duce.

Solo il 18 settembre, a battaglia già iniziata,  Mussolini farà il primo discorso radiofonico rivolto alle Camicie  nere. Quindi è assai probabile che l’iniziativa di coinvolgere  Gandin sia stata presa direttamente dal Comando Supremo  tedesco, l’Okw, rivelando quanta importanza essi attribuivano  al generale. Paoletti ha presentato la testimonianza del generale Treust  von Buttlar Brandenfelt, capo del Comando Supremo operativo della Wehrmacht, secondo cui Gandin sarebbe stato invitato «a Berlino per discutere sulla costruzione del nuovo  esercito repubblicano».

Secondo la testimonianza del capitano  Gennaro Tomasi, invece, la lettera sarebbe stata un autografo  di Mussolini. Busch sarebbe anche intervenuto nel merito delle trattative in corso, per il generale Lanz «Sembra che  Busch abbia concesso a Gandin di tenere le armi». Questa  promessa sarà ricordata da Gandin nella «notifica» a Barge  del giorno successivo.

Il rifiuto di Gandin di lasciare Cefalonia alla volta di Vienna  o di Berlino viene generalmente interpretato come dichiarazione  di fedeltà al re e al governo Badoglio, come manifestazione  del suo impegno a rimanere alla testa della divisione  per riportarla a casa. Lo studioso tedesco Schreiber è convinto  che l’invito tedesco fosse solo lo strumento per lasciare la divisione  senza guida e poterla disarmare più facilmente. Paoletti  legge invece la risposta di Gandin come funzionale alla trattativa  in corso: la proposta tedesca sarebbe servita a strappare  «condizioni più favorevoli al suo disegno», ovvero «portare la divisione a fianco dei tedeschi nell’Italia del Duce».

Verso le ore 12,00, il capitano Apollonio, su richiesta degli  artiglieri della 2a batteria, si impegna a organizzare una colonna  per recuperare i pezzi di Chavriata e affida al sergente
maggiore Vender il compito di mettere fuori uso i semoventi  tedeschi che la mattina avevano sparato contro la sua batteria, ferendo uno degli uomini, ma viene fermato dal colonnello  Romagnoli su ordine del generale Gandin.

Nel frattempo in paese scoppia un’altra sparatoria. Alcuni  uomini dell’Elas attaccano a colpi di bombe a mano il Comando genio marina tedesco, uccidendo un ufficiale; interviene  allora Apollonio con i suoi uomini, assume il controllo  dell’edificio e cattura i 12 soldati sopravvissuti allo scontro armato.  L’intervento del capitano salva i soldati tedeschi dalla  reazione dei greci. Saranno scambiati con gli artiglieri della batteria di San Giorgio catturati il giorno prima. Ma di nuovo  la situazione sembra sfuggire al controllo di Gandin e del suo  Stato maggiore. Altri ufficiali, come Deodato e Gasco, con i  suoi carabinieri, si dichiarano nuovamente contrari alla cessione  delle armi.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento