a cura di Cornelio Galas
Siamo sempre nel periodo immediatamente seguente l’8 settembre 1943. Vediamo, sempre facendo riferimento agli studi di Carlo Palumbo, che cosa succede in Italia e nelle altre zone rosse del secondo conflitto mondiale.
di Carlo Palumbo
L’Italia centro-settentrionale sotto il dominio germanico
Con il ritorno di Mussolini in Italia il 23 settembre del 1943 e la nascita della Repubblica sociale italiana, i tedeschi tornano ad avere un interlocutore ufficiale. Essi, come poche altre nazioni alleate, riconoscono immediatamente il nuovo stato; il duce stesso, che Hitler incontrerà ancora nei mesi successivi, sarà trattato, almeno formalmente, con il rispetto di un capo di stato amico.
A capo dell’ambasciata tedesca in Italia, che da Roma sarà trasferita a Fasano del Garda, viene nominato l’energico Rudolf Rahn che terrà sotto stretto controllo il governo di Salò e lo stesso Mussolini, preoccupandosi di riferire costantemente della situazione italiana a Berlino.
Un ruolo importante è poi quello del capo delle SS in Italia, il generale Karl Wolff, a cui farà capo la rete di controllo diffusa sul territorio. Da lui dipendono la Kriminalpolizei e la Gestapo. Il Comando Supremo delle forze armate tedesche in Italia spetta invece al maresciallo Albert Kesserling, che svolgerà il suo compito con decisione ed efficacia, trasformando la campagna d’Italia degli anglo-americani in una faticosissima e costosa, oltre che lenta, avanzata.
A Roma vi sono due diverse autorità tedesche: un comandante militare della città, il generale Kurt Maelzer, e il comandante della polizia tedesca in Roma, il tenente colonnello Herbert Kappler, fiduciario di Himmler. Vi sono inoltre due settori autonomi: il servizio di sicurezza diretto dal generale Wilhelm Harster, che dipende sempre da Himmler e serve anche a controllare Wolff, e il gruppo operativo denominato Einsatzkommando, addetto alla cattura degli ebrei e alla loro deportazione in Germania.
Se formalmente i due paesi mantengono rapporti di alleanza e di amicizia, nella realtà le cose stanno diversamente e non si può parlare di una vera sovranità della repubblica di Mussolini. È vero che i tedeschi hanno bisogno di un governo riconosciuto almeno da una parte della popolazione, ma la realtà è quella di un paese occupato: i padroni sono i tedeschi, che a partire dall’11 settembre controllano tutta la penisola ad eccezione delle province meridionali passate agli anglo-americani.
Nei mesi successivi il fronte si assesterà all’altezza della linea segnata dai fiumi Garigliano-Sangro; a nord i tedeschi considerano il territorio italiano come «territorio di guerra» soggetto alle leggi di guerra tedesche, come recita la prima ordinanza del feldmaresciallo Kesserling. Lungo la linea del fronte la responsabilità della conduzione della guerra sarà esclusivamente tedesca e Kesserling non permetterà agli italiani di interferire in alcun modo.
Al governo della Repubblica sociale italiana è richiesto un contributo di guerra, dato che in attesa della ricostruzione delle Forze Armate italiane spetta a quelle germaniche la difesa della penisola dagli anglo-americani.
Un accordo firmato il 21 ottobre dal ministro delle Finanze di Salò Giampiero Pellegrini prevede il pagamento di sette miliardi di lire al mese, diventeranno dieci con il successivo accordo del 17 dicembre. Con questo contributo il governo tedesco dovrebbe provvedere all’alimentazione e all’approvvigionamento delle truppe, alla ricostruzione di opere militari fisse, al pagamento dei materiali bellici di provenienza tedesca e dei beni requisiti in territorio italiano, al rimborso dei buoni di occupazione.
Sommando queste uscite alle altre spese di guerra e al disavanzo della gestione ordinaria, si ha un pauroso deficit di bilancio con un conseguente rialzo dei prezzi che ricade sulla popolazione.
Rapidamente i tedeschi organizzeranno un sistema di prelievo, in parte frutto di accordi ufficiali, in parte forzoso, che farà dell’Italia uno dei paesi fornitori di risorse per lo sforzo bellico germanico, al pari degli altri paesi occupati. Se l’agricoltura produce per il vettovagliamento delle truppe, l’industria integra quella tedesca, sia per usi civili che per quelli militari.
La produzione italiana contribuisce così per il 12% all’intera produzione di guerra tedesca. Si crea, inoltre, una cassa di compensazione attraverso cui si regolano i conti delle importazioni e delle esportazioni tra i due paesi: dopo l’8 settembre il credito dell’Italia continua ad aumentare rapidamente.
Un altro segno dei rapporti economici tra i due paesi è l’accordo del 30 gennaio 1944, relativo alle rimesse dei lavoratori italiani in Germania: le somme inviate alle famiglie in Italia saranno trattenute a Berlino e immobilizzate in un conto speciale intestato al governo italiano, che provvederà a corrispondere con proprie risorse il valore delle rimesse ai destinatari.
Se la subordinazione delle risorse italiane agli interessi tedeschi è evidente già nei rapporti ufficiali, nella realtà di un’occupazione militare di un paese in guerra si va ben oltre con requisizioni forzate, spoliazioni violente, lavoro coatto di centinaia di migliaia di cittadini italiani asserviti alle necessità dell’occupante.
Nell’Italia occupata opera l’organizzazione Todt, utilizzata per i lavori militari e civili sia in Germania che nei territori soggetti. A coordinare queste attività è il generale Hans Leyers. Queste misure vengono prese anche in risposta alle azioni di lotta della popolazione, come durante gli scioperi operai del marzo 1944.
Il 9 marzo giunge alle autorità tedesche in Italia l’ordine di deportare il 20% degli scioperanti e di metterli al servizio di Himmler in Germania, per il «servizio del lavoro». Lo stesso Mussolini deve protestare con il plenipotenziario tedesco, Rahn, contro la durezza di queste richieste.
In generale, tuttavia, nell’uso della manodopera viene data la precedenza all’impegno, coordinato da Rahn, di sviluppare la produzione industriale nell’Italia occupata, visti i positivi risultati ottenuti, e alle richieste di Kesserling che ha bisogno di lavoratori per approntare le opere difensive, prima nell’Italia centrale, poi lungo la linea gotica.
Per questi motivi, relativamente pochi saranno i lavoratori trasferiti in Germania: nel 1944 circa 75.000 a fronte della richiesta totale di 1.500.000. I tedeschi non si fidano dei nuovi governanti italiani, troppo deboli e privi di autorità; vi è poi il disprezzo per la popolazione e la convinzione di essere stati traditi dall’Italia, che è quindi meritevole di punizione.
I tedeschi finiscono per essere il vero puntello della Repubblica sociale italiana e questo li porta a controllarne ogni aspetto della vita politica e amministrativa e a moltiplicare le interferenze nei confronti delle autorità italiane, spesso umiliate nel confronto. In alcuni casi sono loro che nominano i prefetti, come succede a Torino, o istituiscono nelle singole province «un funzionario superiore dell’amministrazione militare germanica quale controfigura del prefetto italiano» (rapporto Hufnagel del 20 febbraio 1944).
Un caso particolare è costituito dalle province del Nord-Est: la Venezia Giulia con Trieste e la Venezia Tridentina col Cadore. Esse vengono sottomesse direttamente al Reich escludendo completamente le autorità italiane. Già il 1° ottobre del 1943 il Gauleiter Friedrich Rainer è investito dal Führer della carica di supremo commissario del Litorale adriatico o Kunstenland: nelle province di Trieste, Friuli, Gorizia, Istria, Lubiana e Carnaro eserciterà tutta la potestà civile.
Successivamente Rainer avocherà anche la potestà giudiziaria e nominerà un commissario tedesco per ciascuna provincia. Contemporaneamente il Gauleiter Franz Höfer assumerà le stesse funzioni nelle province di Merano, Bolzano e Trento, denominate Voralpenland.
Nel febbraio del 1944 la Guardia nazionale repubblicana delle province occupate è informata che ogni sovranità italiana è «sospesa per accordi tra Hitler e il duce», ma Mussolini si affretta a smentire di essere a conoscenza dell’accordo e protesta direttamente con Berlino, senza però ottenere alcuna risposta.
L’8 SETTEMBRE E LA RESISTENZA DELLE FORZE ARMATE
Le forze italiane e tedesche alla data dell’armistizio
Alla data dell’armistizio le forze armate italiane sul territorio nazionale rimangono ancora consistenti, trenta divisioni e sette brigate costiere, anche se scarsamente operative. In tutto circa 1.500.000 di uomini. Possono infatti essere considerate efficienti solo sette divisioni, più due in corso di costituzione, di cui una corazzata.
L’afflusso di truppe dalla Francia e dalla Croazia è solo all’inizio. Contro queste forze i tedeschi schierano due armate, la B nell’Italia del nord e la A a sud dell’Appennino, comprendenti diciassette divisioni, di cui sette corazzate. A vantaggio dei tedeschi vi sono i carri armati più pesanti e potenti, l’efficienza dei rifornimenti di carburante, dell’artiglieria e delle armi automatiche.
Già nel mese di agosto, durante l’afflusso di truppe tedesche dalla Germania in Italia, vi sono episodi isolati ma violenti di scontri con i reparti italiani di stanza ai confini (a Gorizia, Tolmino e Caporetto).
Tra il 2 e il 7 settembre, con la Memoria 44, giungono ai comandi dipendenti dallo Stato maggiore dell’Esercito le istruzioni sul comportamento da tenere in caso di armistizio; esse, però, non dànno indicazioni chiare e univoche ai reparti in caso di conflitto con le truppe tedesche. La Memoria, inoltre, subordina la sua applicazione all’emanazione di un ordine successivo, che arriverà solo l’11 settembre, quando è ormai troppo tardi.
Quando l’8 settembre giunge la notizia dell’armistizio, le truppe italiane sono impreparate ad affrontare lo scontro con i tedeschi e sono lasciate senza ordini dagli alti comandi. Alle 23,00 il generale Ambrosio chiede di avviare l’applicazione di quanto contenuto nella Memoria 44, ma Badoglio rifiuta, cosicché gli stessi ufficiali dello Stato maggiore sono lasciati privi di disposizioni operative.
La parte più efficiente delle divisioni italiane, al comando del generale Roatta, è posta a difesa di Roma e del governo. Si tratta delle divisioni autotrasportate Piave e Piacenza e delle divisioni corazzate Ariete e Centauro, a cui si aggiungono reparti di granatieri e del corpo d’armata territoriale di Roma.
I tedeschi possono schierare due divisioni rinforzate, la 3a corazzata di fanteria nella zona di Viterbo e la 2a di paracadutisti in via di costituzione a Pratica a Mare, con circa 15.000 uomini.
L’esercito italiano dopo l’armistizio
Nella notte tra l’8 e il 9 settembre, i paracadutisti tedeschi avanzano verso Roma e incontrano l’accanita resistenza dei granatieri italiani sulla via Ostiense. Tra le 2,00 e le 4,00 di notte il governo e lo Stato maggiore decidono di lasciare la capitale abbandonando senza ordini le truppe al loro destino, col solo divieto, emanato dal Comando Supremo, di difendere Roma. Inoltre viene imposto alla divisione Piave di ripiegare su Tivoli per difendere la fuga del re.
È solo dopo quest’ordine che inizia il confronto diretto tra il grosso delle truppe italiane e i tedeschi. Il comandante della divisione Piave decide in un primo momento di non eseguire gli ordini e di contrastare i tedeschi; ma poi deve abbandonare i granatieri e la popolazione, che comincia ad armarsi, alla loro sorte.
Anche il generale Cadorna, comandante dell’Ariete, decide di impegnare i tedeschi, che vengono respinti con gravi perdite. I combattimenti sono ancora in corso quando giunge la notizia della firma della capitolazione che costringe le truppe a consegnare le armi ai tedeschi e che dichiara «Roma città aperta».
La mancanza di disposizioni precise e l’abitudine degli alti ufficiali all’obbedienza impediscono comunque l’organizzazione di una risposta generalizzata all’attacco dei tedeschi. In tutta l’Italia del nord, soprattutto nelle grandi città, mancano direttive militari oppure i comandi si accordano con i tedeschi per consegnare le armi; quasi mai vengono consegnate ai civili che le richiedono. Rari sono gli episodi di resistenza organizzata, con l’eccezione di La Spezia e di Piombino.
La 4a armata, che rientra dalla Francia, viene sorpresa al confine occidentale e sbaragliata. In Trentino, nella Venezia Giulia, in Friuli, le città vengono consegnate ai tedeschi senza combattere, con qualche eccezione, come a Trento, dov’è la guarnigione a reagire.
Nel sud vi sono numerosi casi isolati di resistenza, sia di ufficiali che di soldati; in Puglia la reazione dell’esercito è più estesa, anche perché si spera di contare sulle truppe alleate sbarcate nel frattempo a Taranto. È soprattutto in Sardegna che l’esercito italiano mantiene una sua compattezza e riesce, seppure in ritardo, a impegnare le truppe tedesche che stanno ritirandosi, costringendole ad abbandonare un grosso quantitativo di armi e di mezzi. Dai corpi d’armata rimasti in Sardegna, Badoglio potrà ripartire per ricostituire un esercito del Regno del Sud.
Se l’Aeronautica non manifesta particolari segni di resistenza, la Marina riesce a mantenere compattezza e funzionalità operativa eseguendo l’ordine di abbandonare i porti di La Spezia e di Taranto per consegnarsi agli alleati nel porto di Malta.
Mentre la flotta di Taranto riesce nell’intento senza sostanziali perdite, quella di La Spezia, senza copertura aerea, viene attaccata da aerei tedeschi che colpiscono e affondano la corazzata Roma, i morti sono circa 1.350, mentre la corazzata Italia è solo danneggiata. Altre navi minori sono affondate.
Alla data del 14 settembre i tedeschi hanno messo fuori causa l’esercito italiano e detengono il controllo effettivo della penisola. Dei 2.400.000 soldati delle forze armate italiane, di cui 1.500.000 sul territorio nazionale, circa 1.000.000 abbandona i reparti; rimangono però inquadrati 450.000 uomini, in Sardegna, in Corsica e nell’Italia meridionale, sotto il controllo anglo-americano. Una minoranza passa all’attività clandestina anche armata.
Tuttavia questa conclusione non era affatto scontata al momento dell’armistizio. Kesserling è rinchiuso nel suo Comando di Frascati e all’alba del 9 settembre è convinto di avere poche carte da giocare. Si aspetta un attacco al suo quartier generale e che Badoglio faccia uso delle truppe a disposizione, oltre che ricorrere ai civili da armare attraverso la mediazione dei politici antifascisti con cui il primo ministro si era incontrato nelle settimane precedenti.
Dopo poche ore, la situazione appare decisamente cambiata: le truppe italiane vanno sbandandosi rapidamente e solo pochi fuochi di resistenza sono presenti sul territorio italiano; il re e i comandi militari stanno abbandonando Roma, lasciando il Paese senza guida e senza indicazioni. Dal comando dell’Esercito italiano, nel frattempo, viene diramato un ordine del generale Gambara secondo il quale «Eventuali tentativi sedizione disordine et indisciplina siano immediatamente et radicalmente repressi», nonostante siano ancora in corso diversi episodi di resistenza, per lo più grazie a ufficiali inferiori, mentre la stragrande maggioranza degli alti ufficiali si è adoperata per consegnare i reparti ai tedeschi.
Dietro la disastrosa dissoluzione delle forze armate sembra esserci stata una precisa volontà di Vittorio Emanuele III e di Badoglio. Vi è, probabilmente, la convinzione che i tedeschi non avrebbero comunque potuto resistere a lungo all’offensiva alleata e che l’assenza da Roma sarebbe stata breve. Quindi viene considerato più pericoloso il rischio di dar vita a una resistenza su vasta scala all’occupazione tedesca, sia attivando ufficiali e soldati sia armando consistenti settori di civili fuori del controllo della monarchia e del governo.
La paura di vedersi sfuggire di mano la situazione politica e sociale è la maggiore preoccupazione del re subito dopo la destituzione di Mussolini, la stessa che lo guiderà nei mesi successivi, fin quando le condizioni obbiettive non si saranno modificate in senso decisamente sfavorevole alla monarchia e a vantaggio dei partiti antifascisti e della resistenza.
Nel settembre del 1943, tuttavia, questa incapacità di uscire da una visione grettamente conservatrice finisce per avere un esito disastroso per l’Italia.
Per i tedeschi i soldati italiani sono «franchi tiratori»
Il comportamento del governo Badoglio in occasione della firma dell’armistizio è tale da non lasciare scampo alle forze militari italiane. Secondo il generale Ambrosio «La preoccupazione principale di Badoglio fu quella di mantenere il segreto sulle trattative di armistizio presso gli enti periferici, anche a costo di inevitabili crisi e sacrifici […]. Il capo del governo metteva nelle previsioni la perdita di mezzo milione di uomini, facenti parte delle truppe di oltremare».
Come abbiamo visto la previsione si rivelerà errata per difetto. Particolarmente significativa risulta, per la comprensione generale delle vicende, la collocazione ambigua in cui vengono a trovarsi le truppe italiane nei confronti dei tedeschi. I soldati italiani, in caso di resistenza, sarebbero stati trattati come «franchi tiratori», ovvero non avrebbero potuto contare sulle garanzie previste dalle convenzioni internazionali in caso di guerra.
Tra l’8 settembre e il 16 ottobre, data della dichiarazione di guerra da parte del governo Badoglio alla Germania, esiste un vuoto formale che mette i soldati italiani alla mercé delle decisioni tedesche. Lo stesso generale Eisenhower è cosciente di questo rischio, tanto da farlo presente nell’incontro di Malta del 29 settembre al maresciallo Badoglio: «Desidero sapere se il governo italiano è a conoscenza delle condizioni fatte dai tedeschi ai prigionieri italiani in questo intervallo di tempo in cui l’Italia combatte la Germania senza averle dichiarato guerra» e che per questo erano passibili di fucilazione.
Alla risposta affermativa dell’interlocutore italiano, Eisenhower replica: «Dal punto di vista alleato la situazione può andare bene anche così, ma per difendere questi uomini, nel senso di farli divenire combattenti regolari, sarebbe assai più conveniente per l’Italia dichiarare guerra alla Germania».
Quando ciò avverrà, sarà ormai troppo tardi per la divisione Acqui e per migliaia di altri soldati italiani. Al processo di Norimberga, il punto di vista tedesco sarà esposto dall’avvocato Hans Laternser: «Con la resa del governo italiano, l’Italia cessò di essere un alleato del Reich tedesco. In quel momento non esisteva alcun stato di guerra fra Italia e Germania, quindi nessuna divisione italiana aveva il diritto di combattere contro le truppe tedesche, e i soldati che lo fecero non potevano pretendere il riconoscimento dello stato giuridico di combattenti. […]
Il diritto di disarmare gli italiani derivava principalmente dal fatto che nel teatro di operazioni di un esercito, soltanto combattenti “legali” hanno il diritto, secondo le convenzioni internazionali, d’impugnare le armi. A tale riguardo le truppe italiane non possedevano più questo “status”, dopo che il loro governo si era arreso agli anglo-americani».
Da parte tedesca il trattamento dei soldati italiani era regolato da un ordine del 15 settembre firmato dal maresciallo Keitel, del Quartier generale tedesco, che al punto 3 prevede:
«I soldati italiani che avessero resistito attivamente o passivamente, che o fossero alleati con il nemico o con le bande partigiane, o che avessero lasciato cadere le loro armi nelle mani degli insorti o che in qualsiasi modo avessero fatto causa comune con loro, dovevano ricevere il seguente trattamento:
- Gli ufficiali devono essere fucilati dopo sommaria corte marziale.
- I sottufficiali e gli uomini di truppa devono essere trasferiti all’Est per essere impiegati come lavoratori tramite il capo degli affari per i prigionieri di guerra presso il Comando Supremo delle forze armate germaniche. […]
- Un ultimatum a breve scadenza deve essere inviato alle truppe italiane che oppongono ancora adesso resistenza».
La reazione delle forze italiane all’estero all’annuncio dell’armistizio
La notizia della firma dell’armistizio tra il governo italiano e il Comando anglo-americano viene captata, come in Italia, nel pomeriggio dell’8 settembre dai radiotelegrafisti dei reparti italiani di stanza fuori dei confini e comunicata rapidamente alle truppe e ai comandi.
Le reazioni sono innanzitutto di sorpresa, perchè i soldati italiani, diversamente dai tedeschi, sono del tutto all’oscuro dell’evolversi della situazione italiana e del quadro generale del conflitto. A causa di una propaganda ottimistica le truppe restano disorientate, l’8 settembre, dalla genericità degli ordini pervenuti di cessare le ostilità contro le forze anglo-americane e di reagire «a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Ovviamente prevalgono le reazioni di gioia per una guerra che sembra terminare, ma diversamente che in Italia i reparti all’estero, che in genere hanno combattuto e operato fianco a fianco con i tedeschi contro il comune nemico in un territorio ostile, devono superare forti problemi di coscienza e scegliere se abbandonare (o «tradire») il più forte alleato e porsi subito la questione del rimpatrio.
Questo vale soprattutto per le truppe dislocate nei Balcani e nelle isole dell’Egeo, per le quali sarebbe stato necessario predisporre in tempo un piano per il rimpatrio, mettendo a disposizione gli indispensabili mezzi di trasporto ferroviario e navale. Alla Conferenza di Tarvisio del 7 agosto, il generale Ambrosio aveva proposto di far rientrare parte delle unità per rafforzare le difese sul territorio italiano, ma aveva ottenuto un netto rifiuto dai tedeschi.
In molte situazioni, soprattutto dove i rapporti con gli abitanti sono più cordiali, la truppa si sbanda rapidamente, cercando ospitalità e protezione tra la popolazione locale e i comandi si trovano nell’impossibilità di assumere una qualsiasi iniziativa. Ma, in genere, i comandi sono costretti a rispondere alle rapide iniziative dei tedeschi, che sono invece da tempo preparati all’eventualità di un abbandono da parte dell’alleato.
Così i tedeschi assumono il controllo della situazione dove vi è superiorità di forze, ritardando l’azione in attesa di rinforzi negli altri casi. Gli ufficiali italiani devono in pochissimo tempo prendere la decisione di accettare le promesse tedesche di rimpatrio in Italia oppure di resistere con le armi.
Le disposizioni operative impartite dal Comando Supremo alle armate all’estero il 6 settembre e successivamente dal governo italiano riparato a Brindisi, per motivi legati soprattutto alle difficoltà di comunicazione non vengono recepite dai comandi di settore, per cui la risposta sarà frutto di iniziative di singoli comandanti inferiori piuttosto che dei comandi stessi.
Gli esempi di resistenza saranno numerosi e riveleranno un coraggio e uno spirito di sacrificio insospettabili per un esercito sconfitto e disperso come quello italiano. Certamente, vi è in questa ribellione una risposta alle umiliazioni e alle prepotenze imposte dal più forte alleato nei mesi di guerra combattuti fianco a fianco; vi è la presa di distanza dai comportamenti tenuti dalle truppe di occupazione tedesche nei confronti delle popolazioni locali; vi è la volontà di riconquistare all’esercito italiano un onore militare perduto nelle recenti vicende nazionali; oppure una ricerca di libertà e di protagonismo che anticipa di poco lo spirito della resistenza.
La situazione delle truppe italiane all’estero
Tra il 1942 e il 1943 l’esercito italiano si è trovato impegnato su molteplici fronti in seguito alle decisioni di Mussolini, con una notevole dispersione di forze. Anche dopo la fine della spedizione in Russia e il rimpatrio delle truppe combattenti in Nordafrica, al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia nel luglio del 1943 vi sono quarantanove divisioni in Francia e nei Balcani, di cui trentatre di linea e quattordici costiere, oltre a vari altri reparti, riunite in quattro comandi d’armata.
Nelle settimane precedenti all’armistizio è iniziato il rimpatrio di alcune divisioni, in particolare del Comando d’armata di stanza in Francia, ma l’operazione è ancora in corso all’8 settembre. In totale sono presenti circa 900.000 uomini tra i Balcani e la Francia, in particolare 230.000 in Provenza e in Corsica, 300.000 in Iugoslavia, 300.000 in Albania e in Grecia, 53.000 nell’Egeo.
La dislocazione delle forze è, a grandi linee, quella che segue. La 4a armata presiede la Francia meridionale, sorpresa dall’armistizio mentre è in corso il rientro in Italia attraverso i passi alpini, è attaccata dai tedeschi e si dissolve rapidamente, nonostante qualche tentativo di reazione; vi sono episodi di resistenza a Grenoble, a Chambery, al Moncenisio, alla stazione ferroviaria di Nizza.
La Corsica è occupata dal novembre del 1942 dal 7° corpo d’armata; con l’armistizio giungono sull’isola reparti dell’armata francese; i soldati italiani, dopo aver subìto l’iniziativa tedesca attorno a Bastia, riescono a liberare l’isola entro il 4 ottobre.
Nella penisola balcanica troviamo le forze seguenti. La 2a armata con sede di Comando a Sussak, su tre corpi d’armata (5°, 11°, 18°), comprendenti sette divisioni più la 1a divisione Celere e due brigate costiere; presidia la Venezia Giulia, la Slovenia, parte della Dalmazia; dipende dallo Stato maggiore dell’Esercito.
Il Gruppo armate Est, al comando del generale Ezio Rosi con sede a Tirana, dipende dal Comando Supremo e occupa parte dei Balcani; è costituito dalla 9a armata, con i corpi d’armata 4° (divisioni Parma, Perugia, Brennero) e 25° (divisioni Arezzo e Firenze) in Albania; dai corpi d’armata 6° (divisioni Marche e Messina, 28a brigata costiera) in Dalmazia, e 14° (divisioni Venezia, Ferrara, Emilia e alpina Taurinense) in Montenegro, Croazia ed Erzegovina; il settore Scutari-Kossovo è presieduto dalla divisione Puglie e da reparti albanesi.
Nella Grecia continentale e nelle isole vi è l’11a armata mista italo-tedesca, con i corpi d’armata italiani 3° (divisioni Pinerolo e Forlì), 8° (divisioni Acqui, Casale e 104a corazzata tedesca), 26° (divisioni Modena e 1a alpina tedesca). Sulle Isole Ionie vi sono le divisioni Acqui e Casale. La 117a cacciatori tedesca è dislocata nel Peloponneso ma non fa parte dell’armata.
Nell’isola di Creta vi è un corpo d’armata tedesco costituito dalla divisione Siena, dalla 51a brigata Lecce e dalla divisione tedesca Sebastopoli. Il Dodecanneso e le Sporadi sono presidiate dal Comando superiore delle forze armate delle isole dell’Egeo, con sede a Rodi, composto da due divisioni italiane, Cuneo e Regina, oltre a una tedesca, la Rhodos.
Si noti che il territorio albanese non è formalmente area di occupazione militare dell’Asse, per cui i movimenti effettuati dalle truppe tedesche subito dopo l’armistizio verso i porti albanesi in Adriatico, diversamente dalla situazione greca, costituiscono sicuramente atto ostile verso l’Italia, tuttavia essi non sono contrastati dal Comando italiano, nonostante il controllo delle installazioni portuali sia vitale per un eventuale imbarco di truppe italiane verso i porti della Puglia, non solo per i reparti di stanza in Albania ma anche per quelli dislocati in Montenegro e nella Grecia settentrionale.
La Grecia è occupata dall’11a armata mista composta da sette divisioni italiane e da cinque tedesche, con sede di Comando ad Atene; essa dipendeva, fino al 28 luglio, dal Comando del Gruppo armate Est con sede a Tirana, ma su richiesta tedesca viene resa autonoma; ha uno stato maggiore operativo tedesco affiancato a quello italiano che permette ai tedeschi di controllare tutte le iniziative dell’alleato, tanto che, nelle settimane che precedono l’armistizio, essi hanno avuto modo di infiltrare le vie di comunicazioni vitali, soprattutto porti e aeroporti .
Al momento dell’armistizio le truppe italiane rimangono ferme e prive di iniziativa, mantenendo, tranne qualche eccezione, la distribuzione sparsa sul territorio, così quasi sempre si ritrovano in condizione di inferiorità mentre i tedeschi possono operare rapidamente con unità operative compatte e decise.
Al momento dell’armistizio è in corso uno spostamento delle truppe verso le coste adriatiche e ioniche per facilitarne l’imbarco, riducendo l’occupazione del Montenegro e dell’Albania, trasferendo il 3° corpo d’armata dalla Grecia all’Albania, rimpatriando due divisioni dalla Croazia.
Questi movimenti sono però attuati in minima parte. Le modalità con cui l’Italia giunge all’armistizio – ovvero senza aver diramato ai grandi reparti di stanza in Italia e all’estero, nei Balcani soprattutto, ordini precisi per predisporre le truppe ad affrontare la scontata reazione dell’ormai ex alleato – fanno perdere quasi dappertutto l’iniziativa, anche dove i rapporti di forza sarebbero decisamente a favore degli italiani che, per giunta, hanno l’obbligo di comunicare ai tedeschi i movimenti di truppe con due giorni di preavviso.
Con la piena libertà di movimento bastano 48 ore ai tedeschi per disattivare la più importante struttura di comando italiano fuori del territorio nazionale, ovvero il Comando del Gruppo armate Est di stanza in Albania. Nonostante questo esito disastroso, secondo l’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, sono circa 60.000 i soldati che nei Balcani e nelle isole greche resistono all’ordine di disarmo dei tedeschi, in particolare le divisioni Cagliari, Casale, Forlì, Modena e Piemonte.
I comandanti che si schierano subito contro i tedeschi, anche senza ordini o contrariamente agli ordini ricevuti, sono in particolare il generale Ernesto Chiminiello della divisione Perugia, di stanza ad Argirocastro nel sud dell’Albania, il generale Giuseppe Amico della divisione Marche, il generale Arnaldo Azzi della divisione Firenze nella zona di Corcia, il generale Adolfo Infante della divisione Pinerolo, il generale Attilio Amato della divisione Messina.
Quelli che ricevono gli ordini del Comando Supremo e li eseguono nell’Egeo sono il generale Mario Soldarelli e gli ammiragli Inigo Campioni e Luigi Mascherpa. Complessivamente, nei Balcani e in Grecia, vengono fucilati circa 200 tra ufficiali superiori e inferiori. Tuttavia, solo a Cefalonia vi sono stragi di massa. A Corfù vengono fucilati 27 ufficiali e 280 sono i sopravvissuti; a Lero, dopo 57 giorni di combattimenti, vengono fucilati 12 ufficiali su 254; episodi simili avvengono a Coo, nelle Cicladi, nelle Sporadi, nel Dodecanneso (in particolare a Samo, Simi, Casterosso).
Settori Venezia Giulia, Croazia e Dalmazia
Per quanto riguarda il settore della 2a armata, in Venezia Giulia, Croazia e Dalmazia, l’8 settembre le truppe italiane si trovano tra due fuochi: da una parte devono subire la reazione dei tedeschi, che sono appoggiati dagli ustascia croati di Ante Pavelic, dall’altra continuano gli attacchi dei partigiani di Tito.
Il Comando di Lubiana viene immediatamente occupato dai tedeschi, mentre il generale Gastone Gambara, comandante dell’11° corpo di stanza a Lubiana, sorpreso dall’armistizio mentre è in viaggio da Roma, cerca di organizzare le truppe italiane nella zona di Fiume, ordinando alle divisioni Murge e Macerata di convergere sulla costa.
Ricevuto l’ultimatum germanico, consegnare le armi in cambio del rimpatrio, il generale dà ordine di resistere agli attacchi dei partigiani di Tito fino all’arrivo dei tedeschi e dei croati che a partire dall’11 settembre assumono il controllo di Fiume, di parte dell’Istria e delle isole del Quarnero. La stessa situazione si ripete il giorno 10 a Sebenico e a Zara, dove le guarnigioni preferiscono arrendersi ai tedeschi piuttosto che cedere le armi ai partigiani comunisti.
Diverso è invece il comportamento della piazza di Spalato, comandata dal generale Giuseppe Cigala Fulgosi, dove la divisione Bergamo resiste agli attacchi dei tedeschi che hanno circondato la città, collaborando coi partigiani slavi; solo i bombardamenti aerei e l’intervento di una divisione corazzata, la Prinz Eugen, costringe gli assediati ad arrendersi il 27 settembre.
Un tribunale militare tedesco, dopo un processo sommario, condanna a morte i generali Cigala Fulgosi, Pelligra e Policardi, oltre a 46 ufficiali. L’esecuzione avviene il 1° ottobre. In tutti questi casi i soldati italiani sono disarmati e deportati in Germania. Una parte dei superstiti riesce a riunirsi e a formare il battaglione partigiano Garibaldi.
In Venezia Giulia il rapido afflusso di truppe tedesche impedisce il rientro in patria delle divisioni di stanza oltre il confine. Nella zona di Gorizia, la divisione Torino si oppone all’aggressione tedesca tra il 9 e il 12 settembre; a Tarvisio il presidio italiano viene sopraffatto dopo aspri combattimenti.
Settori Albania, Montenegro, Kossovo-Scutari
A Tirana, sede del suo Quartier generale, il generale Rosi, comandante del Gruppo armate Est, che ha trenta divisioni, di cui sei in Albania, inizia le trattative col capo dell’ufficio di collegamento tedesco, accettando la consegna delle armi pesanti intrasportabili e iniziando a riunire le truppe. L’11 settembre, però, i tedeschi incominciano una serie di operazioni coordinate che portano alla cattura dei comandi di gruppo a Tirana, a Ragusa e a Podgorica, quindi iniziano a disarmare le truppe, con la promessa del ritorno alla vita civile.
Contemporaneamente i tedeschi puntano su alcuni comandanti italiani, tra cui lo stesso generale Rosi che viene trasferito da Tirana a Monaco di Baviera per incontrare Mussolini appena liberato. È intenzione dei tedeschi utilizzare parte delle divisioni italiane per ricostituire un esercito dell’Italia del duce.
Anche il generale Gandin avrebbe fatto parte di questo progetto. Alla partenza, Rosi passa le consegne al generale Renzo Dalmazzo, comandante della 9a armata. Il 12 settembre, prima di partire per Monaco di Baviera, egli emana quest’ordine d’operazioni secondo le direttive tedesche:
Oggetto: movimento verso nord-est: prot. operazioni, N. Op. 9049.
- 1) Le truppe della IX Armata, della II e del XIV C.A. debbono trasferirsi verso nord-est, movimento da effettuarsi fino alle stazioni di carico per via ordinaria, indi per ferrovia. Probabile data di inizio del movimento 13 corrente.
- 2) Sarà portato al seguito soltanto l’armamento individuale e i mezzi strettamente indispensabili per la vita dei reparti. Ogni brigata avrà a disposizione due autocarri; ogni divisione o comando di C.A. avrà automezzi per il trasporto di 40 tonn.
- 3) La disciplina dovrà essere mantenuta con la massima fermezza. Durante la permanenza in territorio d’occupazione tedesco per le sanzioni penali, vigente il codice marziale tedesco. In particolare: in caso di sottrazione di armi, munizioni, carburanti, viveri, saranno fucilati non solo i responsabili ma anche un Ufficiale del Comando della divisione e 50 uomini della divisione stessa; chi venderà o regalerà armi ai civili o le distruggerà senza apposito ordine, verrà fucilato. Chi giungerà alla stazione senza l’arma che aveva in consegna sarà fucilato col suo comandante; per ogni automezzo reso inutilizzabile viene fucilato un Ufficiale e 10 uomini. Tali sanzioni dovranno essere senza indugio a conoscenza di tutti i militari. Riserva di ordini dettagliati per il movimento».
In Dalmazia, a Ragusa, la divisione Marche oppone una certa resistenza finché non è costretta alla resa; il generale Giuseppe Amico, che ha guidato i combattimenti, viene ucciso dopo la cattura. Stessa sorte per il comandante della divisione Messina, il generale Guglielmo Spicacci, arrestato e scomparso in Germania, mentre le sue truppe si battono per quattro giorni contro i tedeschi nel tentativo di riunire i diversi distaccamenti.
In Montenegro, il generale Ercole Roncaglia, comandante del 14° corpo, prima di essere catturato riesce a trasmettere alle divisioni dipendenti l’ordine di radunarsi sulla costa, tra Cattaro e Podgorica, e di opporsi ai tedeschi. La divisione Emilia riesce a riconquistare il presidio delle Bocche di Cattaro, difendendosi con successo dall’attacco della divisione tedesca Prinz Eugen nei giorni 14 e 15 settembre e ad imbarcarsi per l’Italia.
Il 3° reggimento alpini, che ha contribuito alla difesa, si disperde sulle montagne dove si nascondono anche le divisioni Venezia del generale Giovanni Battista Oxilia e Taurinense del generale Lorenzo Vivalda, che iniziano la lotta contro i tedeschi. Le truppe di Oxilia combattono dal 25 settembre al 5 ottobre sui capisaldi di Jeva, Rijeka e Matasevo; il 10 ottobre la divisione sarà riconosciuta unità combattente a fianco delle Nazioni unite.
Quelle del generale Vivalda si concentrano a Danilov Grad per dirigersi poi verso le Bocche di Cattaro dopo aver respinto un durissimo attacco tedesco; il 16 si ritirano nella zona di Polje dove entrano in contatto con i partigiani del comandante Peko Daprevic.
Il 20 novembre i sopravvissuti delle divisioni Venezia e Taurinense costituiscono il corpo d’armata del Montenegro, dal 2 dicembre divisione Garibaldi, su quattro brigate. La divisione raggiungerà una forza di oltre 18.000 uomini. Di questi solo 4.148 rientreranno in Italia. Successivamente la formazione si unirà al battaglione Matteotti nato in Dalmazia, a costituire la divisione Italia, impegnata in Bosnia e in Serbia.
Si tratta della più positiva collaborazione attuata tra i nostri soldati e le forze degli eserciti di liberazione nei Balcani, in quanto la formazione italiana mantiene una propria identità, una relativa autonomia amministrativa e un collegamento col proprio Comando.
In altri casi, come in Albania e in Grecia, i risultati saranno assai deludenti. Nel settore Kossovo-Scutari lo sbandamento delle truppe è facilitato dalla decisione dei reparti albanesi di passare con i tedeschi. La divisione Arezzo, dopo aver preso accordi coi tedeschi per cedere le armi pesanti, è disarmata e deportata in Germania, mentre alcuni ufficiali vengono fucilati. La divisione Firenze, invece, si rifiuta di cedere le armi e dopo essersi radunata nella conca di Burrelli per puntare su Tirana, venuta a conoscenza della sua occupazione, decide di attaccare i tedeschi a Kruje.
300 ufficiali e 10.000 soldati, tutti volontari, impegnano il nemico per tre giorni. Il 24 settembre, la divisione, attaccata da ingenti forze tedesche, per evitare la disfatta, dopo aver preso accordi con la missione britannica e col Comando dell’Esercito di liberazione albanese, inizia un’attività bellica per bande sulle montagne nelle zone militari di Dibra, Peza, Elbasan, Berat, e rimarrà in Albania fino alla sua liberazione.
Tuttavia vi sono grosse difficoltà a mantenere uniti i reparti italiani nel corso dell’inverno 1943-44, perché i tedeschi rafforzano il controllo sul territorio e la povertà delle risorse del paese rende difficoltosa la sopravvivenza; molti soldati finiscono così con l’entrare nelle formazioni albanesi, altri sono utilizzati come lavoratori nelle famiglie contadine o rimangono isolati sui monti, in condizioni di estrema indigenza.
Diversa è la sorte delle divisioni che provenendo dalla Grecia rientrano in Albania per imbarcarsi sulle coste albanesi: la Brennero, la Parma e la Perugia mantengono temporaneamente il controllo della fascia costiera, ovvero parte del retroterra della divisione Acqui di stanza nelle isole di Corfù e Cefalonia.
I reparti, ancora in marcia e molto frazionati, sono catturati dai tedeschi dopo sporadiche azioni di resistenza e deportati in Germania. Non è del tutto chiara la vicenda della divisione di fanteria motorizzata Brennero, comandata dal generale Aldo Princivalle, che presidiava l’importante retroterra di Durazzo: nel diario di guerra del 22° corpo d’armata tedesco da montagna risulta che sarebbe stato raggiunto un accordo tra il generale Lanz e il comandante italiano circa il passaggio dell’unità italiana all’esercito tedesco come «reparto organico».
Egli tratta con i tedeschi fino al 22 settembre. Il 25 la divisione viene imbarcata a Durazzo, direzione Trieste e quindi Venezia. Durante la traversata alcuni reparti si impadroniscono della torpediniera Rosolino Pilo e riescono a dirottarla verso il porto di Brindisi dove giunge il 27 settembre. Il resto della divisione viene trasferito a Padova in attesa di raggiungere la Germania via Treviso-Udine-Tarvisio, ma molti soldati riescono ad allontanarsi evitando la deportazione. L’episodio ancora oggi non è stato del tutto chiarito, comunque il disarmo della divisione comporta un grave danno per lo schieramento italiano.
Particolarmente drammatica è la fine della divisione Perugia, di stanza nel sud dell’Albania, al confine greco: raccoltasi sulla costa tra Santi Quaranta-Porto Edda e Valona, resiste all’attacco tedesco, riuscendo a far partire per l’Italia gli ammalati di malaria (un terzo degli effettivi), poi cade nel tranello dei tedeschi che la convincono a concentrarsi a Porto Palermo con la promessa di reimbarco; qui viene attaccata sia dalle forze albanesi sia dal presidio tedesco, perdendo un quarto degli uomini; i sopravvissuti alla data del 3 ottobre sono catturati quasi tutti, ma 140 tra ufficiali e sottufficiali vengono passati per le armi.
Altri superstiti, imbarcatisi su un piroscafo a Valona dopo aspri combattimenti, muoiono nell’affondamento della nave, colpita da un siluro subito dopo la partenza. Circa 3.000 uomini riescono a raggiungere la zona del Pindo, in Grecia, dove sta costituendosi il raggruppamento Truppe italiane della montagna, che avrebbe combattuto per qualche tempo a fianco dei partigiani greci.
Settore greco: ordini contraddittori e collaborazionismo
del Comando italiano
Benché il Comando dell’11a armata che occupa la Grecia sia italiano, dopo il mese di luglio i tedeschi hanno disposto i loro reparti in modo da controllare tutti i punti strategicamente importanti. Diversamente dalle altre situazioni, il Comando italiano aveva ricevuto con un giorno di preavviso la notizia generica della possibilità di armistizio, attraverso il cosiddetto Promemoria n. 2, portato ad Atene dal generale Cesare Gandini.
Nel documento si invitava il Comando a contattare i tedeschi per assicurarli che non vi sarebbero stati atti ostili contro di loro, che gli italiani non avrebbero fatto causa comune con i ribelli né con eventuali truppe anglo-americane sbarcate; in contrasto con le clausole di armistizio, si invitava a predisporre la sostituzione delle truppe impegnate nella difesa costiera con truppe tedesche, anche in deroga, eventualmente, agli ordini del governo centrale.
Non si può dire, pertanto, che il generale Carlo Vecchiarelli, comandante d’armata, sia stato preso alla sprovvista dalla notizia dell’armistizio, ma le indicazioni pervenute sono tali che la loro applicazione determina la rapida disattivazione del dispositivo militare italiano.
Vecchiarelli, infatti, dà l’ordine di non accordarsi con le formazioni partigiane e concorda con le autorità militari tedesche la consegna degli armamenti pesanti, in genere di provenienza germanica, e delle postazioni, man mano che vengono abbandonate dagli italiani. Alle ore 20,00 dell’8 settembre viene diramato il seguente messaggio:
«Seguito conclusione armistizio truppe italiane 11a armata seguiranno questa linea di condotta. Se i tedeschi non faranno atti di violenza, truppe italiane non rivolgeranno armi contro di loro. Truppe italiane non faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero, reagiranno con la forza ad ogni violenza armata.
Ognuno rimanga al suo posto con compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare. Comando tedesco informato quanto precede. Siano immediatamente impartiti ordini cui sopra a reparti dipendenti. Assicurare. Firmato generale Vecchiarelli».
Poche ore dopo, alle 0,20 del 9 settembre, giunge ad Atene un altro messaggio dal Comando italiano, un telescritto del generale Ambrosio che aumenta la confusione e giustifica lo stato d’inerzia:
«Non deve essere presa iniziativa di atti ostili contro i germanici».
Questa ulteriore disposizione pone forti limitazioni all’organizzazione di misure offensive contro i tedeschi che pure erano state previste in comunicazioni precedenti e facilita ulteriormente, dov’è stato ricevuto, il disarmo italiano. Dove quest’ordine non può giungere sarà più facile per singoli comandanti assumere la decisione di opporsi al disarmo da parte tedesca.
Successivamente, alle ore 11,45 del 9 settembre, il generale dirama un’ulteriore disposizione che impone la cessione dei presidî costieri entro le ore 10,00 del giorno successivo, la sostituzione graduale delle grandi unità, la cessione ai reparti tedeschi delle armi collettive, di tutte le artiglierie con relativo munizionamento, mantenendo solo le armi individuali.
«Seguito mio ordine dell’8 corrente. Presidî costieri devono rimanere attuali posizioni fino al cambio con reparti tedeschi non oltre ore 10 del giorno 10. In aderenza clausole armistiziali, truppe italiane non oppongano da questa sera resistenza a eventuali azioni anglo-americane. Reagiscano invece a eventuali azioni di forze ribelli. Truppe italiane rientreranno al più presto in Italia.
Una volta sostituite, grandi unità si concentreranno in zone che mi riservo fissare unitamente a modalità di trasferimento. Siano lasciate a reparti subentranti armi collettive e tutte le artiglierie con relativo munizionamento. Siano portate al seguito armi individuali ufficiali e truppa con relativo munizionamento in misura adeguata a eventuali esigenze belliche contro ribelli. Consegneranno parimenti armi collettive tutti altri reparti delle forze armate italiane in Grecia conservando solo armamento individuale. Consegna armi collettive per tutte le forze italiane in Grecia avrà inizio a richiesta comandi tedeschi, a partire da ore 12 di oggi».
Il giorno 10 Vecchiarelli stipula con il Comando tedesco un accordo di resa. In pochi giorni le forze italiane ancora in Grecia, 7.000 ufficiali e 165.000 sottufficiali e truppa, cessano di costituire una realtà organizzata militarmente efficiente. In cambio i tedeschi promettono il rimpatrio delle truppe italiane, ma non essendo queste dotate di proprî mezzi di trasporto, l’imbarco sarebbe stato comunque improbabile.
I reparti decidono di eseguire gli ordini del Comando d’armata, per cui i comandi inferiori non dànno vita, se non in rari casi, a forme di resistenza. Nel corso del giorno 10, numerosi ufficiali protestano contro la consegna delle armi, mentre in molti casi i soldati cedono i materiali a civili greci, per cui il Comando tedesco decide di chiedere la consegna delle armi individuali, con l’eccezione di quelle in dotazione ai carabinieri.
Sarà lo stesso Vecchiarelli a diramare quest’ultimo ordine alle ore 21,00 del 10 settembre. In Epiro e nel Peloponneso i soldati italiani sono caricati su treni e illusi di essere diretti verso l’Italia; saranno invece deportati in Germania ad eccezione dei pochi che riusciranno a disperdersi sul territorio greco grazie all’aiuto della popolazione locale. La resa della divisione Casale, a presidio del territorio di Agrinion-Missolungi e della costa a ridosso delle Isole Ionie, permette ai tedeschi di impossessarsi degli aeroporti di Prevesa, Patrasso e Agrinion, che serviranno come basi per i bombardamenti aerei su Corfù e Cefalonia.
A Creta le disperse truppe italiane della divisione Siena sono rapidamente sopraffatte, tranne alcuni reparti col comandante della divisione che sfuggono alla cattura e si uniscono ai partigiani attivi sulle montagne. In Tessaglia e nelle Isole Ionie la risposta italiana sarà invece molto diversa, grazie al comportamento di due divisioni: la Pinerolo e la Acqui. In Tessaglia, nei pressi di Larissa, tra l’8 e il 9 settembre reparti della Pinerolo respingono il tentativo tedesco di conquistare l’aeroporto, nonostante l’ordine del Comando dell’11a armata di cedere le artiglierie e le armi pesanti della fanteria.
La divisione Pinerolo e il reggimento Lancieri d’Aosta, ritiratisi sul Pindo per iniziativa del generale Infante, l’11 settembre raggiungono un accordo coi partigiani comunisti dell’Elas e con la missione inglese per combattere insieme contro i tedeschi. I reparti italiani mantengono le armi e sono riconosciuti quali «truppe alleate» agli ordini del generale Wilson, comandante in capo delle forze alleate del Medio Oriente.
Per qualche settimana i soldati della Pinerolo partecipano ad azioni armate in collaborazione con la resistenza greca, ma questa, divisa tra le forze comuniste e quelle monarchiche, particolarmente interessata alle armi italiane e preoccupata che lo stato di cobelligeranza dell’Italia possa costituire un ostacolo alla loro acquisizione, mentre è poco interessata alla presenza di formazioni italiane organizzate, decide, il 14 ottobre, di ordinare il disarmo della divisione.
I soldati italiani, ormai stanchi e isolati, di fronte alla decisione dei partigiani comunisti decidono di cedere le armi, anche se vi sono eccezioni coraggiose che provocano diversi caduti. Tragica sarà la sorte di questi soldati: gli ufficiali sono concentrati nel monastero di Dusku, mentre i soldati sono trasferiti in campi di concentramento posti lungo i fianchi del Pindo, il principale è quello di Karpenisio, dove giungono 8.000 uomini in condizioni inumane, umiliati e spogliati di ogni avere; in molti sopravviveranno in condizioni difficilissime fino al marzo del 1944, nonostante l’altissima mortalità per la fame e le malattie.
Nel corso dell’inverno gli inglesi propongono di far lavorare i sopravvissuti presso le famiglie contadine della zona in cambio di mezza sterlina d’oro al mese per il vitto e l’alloggio; in realtà molti soldati sono sfruttati come schiavi. Nell’agosto del 1944 i superstiti sono rimpatriati, ma dai greci saranno considerati solo prigionieri di guerra invece che «liberi collaboratori», com’era negli accordi sottoscritti nel settembre
In totale la divisione Pinerolo e i reparti aggregati hanno avuto 1.150 caduti, 1.500 dispersi, 2.500 feriti o inabili. Da notare che con la riorganizzazione del luglio 1943, i generali Vecchiarelli e Lanz, il comandante tedesco che si occuperà del disarmo degli italiani, e ovviamente Gandin, dipendono tutti dal generale Alexander Löhr che comanda le armate germaniche nei Balcani.
Secondo i tedeschi anche il generale Gandin avrebbe dovuto eseguire l’ordine di Vecchiarelli di lasciare a Cefalonia le armi pesanti per «rientrare in Italia con le sole armi individuali». Invece proprio Gandin, considerato uno dei più filotedeschi tra i comandanti di divisione italiana, metterà in crisi il progetto di affidare il disarmo ai comandanti di armata italiana, come in effetti era avvenuto nella quasi totalità dei casi.
Comando superiore forze armate Egeo
Il settore è considerato strategicamente importante dal Comando alleato del Medio Oriente ai fini della guerra aeronavale, tuttavia le preoccupazioni di Eisenhower per lo sbarco di Salerno fanno prevalere la scelta di abbandonare i presidî italiani alla loro sorte, con qualche parziale eccezione.
Gli inglesi decidono infatti di soccorrere solo i presidî italiani che da subito si impegnano a combattere i tedeschi, nelle Sporadi, nelle Cicladi e nel Dodecanneso. Il governatore del Dodecanneso, delle Cicladi e delle Sporadi settentrionali, l’ammiraglio Inigo Campioni, alla notizia dell’armistizio, dopo avere trasmesso a tutte le isole del Dodecaneso il proclama di Badoglio che imponeva di reagire «a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza», prende contatto col comandante della divisione tedesca Rodhos, generale Ulrich Kleemann, che ha a disposizione circa 8.000 uomini.
Le forze tedesche attive nell’Egeo sono parte del Gruppo d’armate E del generale Löhr. A Rodi vi è una consistente presenza italiana: 34.000 uomini del Regio Esercito, 3.000 dell’Aeronautica e 2.100 della Marina. I tedeschi – dopo avere catturato il generale Michele Scaroina, comandante della divisione Regina, e avergli imposto di ordinare ai proprî uomini la resa – dopo alcuni sporadici combattimenti iniziano subito la sostituzione degli italiani nelle diverse postazioni e il giorno 10 attuano l’isolamento dei comandi italiani.
La resistenza è sostenuta soprattutto dai reparti della Marina e dell’Aeronautica. Campioni contatta gli inglesi che, però, non possono fornire aiuti concreti, e l’11 settembre sottoscrive la resa delle truppe di Rodi ma si rifiuta di emanare lo stesso ordine per le altre isole che ancora resistono: Coo e Lero. Entro il 14 settembre i tedeschi assumono il controllo dell’isola.
Diversa è la reazione a Lero, base marittima attrezzata per i sommergibili, dove sono di stanza 8.320 militari italiani, in prevalenza addetti ai servizi e alla difesa costiera e contraerea della Regia Marina oltre a un battaglione di 1.200 uomini della divisione Regina.
Il comandante, il capitano di vascello Luigi Mascherpa, riesce a mettersi in contatto col Comando inglese del Medio Oriente e a ottenere l’invio di un contingente di rinforzo. Dopo alcuni violenti attacchi tedeschi, col bombardamento sistematico delle postazioni dell’isola, vi sono altri sbarchi inglesi, fino a un totale di circa 4.000 uomini.
Il 12 novembre, dopo un lungo bombardamento, si verifica un massiccio sbarco tedesco e la guarnigione, il giorno 16, dopo due mesi di resistenza, è costretta a cedere, pur avendo inflitto all’attaccante 520 perdite e abbattuto con la contraerea centosedici apparecchi nemici e undici imbarcazioni. Gli italiani contano 87 morti e 167 dispersi, gli inglesi circa 600 morti. In totale i tedeschi faranno 9.000 prigionieri di cui 3.000 inglesi.
L’ammiraglio Campioni e il capitano di vascello (poi contrammiraglio) Mascherpa sono trasferiti in un campo di concentramento in Germania e successivamente consegnati alla Repubblica di Salò; processati dal Tribunale speciale di Parma per alto tradimento vengono fucilati il 24 maggio del 1944. Era stato lo stesso Mussolini a chiedere la condanna capitale per i due ufficiali.
Il caso di Lero è eccezionale per la durata della resistenza, oltre due mesi, periodo in cui le truppe mantengono fino all’ultimo l’inquadramento militare e dimostrano una fortissima combattività, fatto che contraddice i giudizi dati su queste truppe durante la guerra, secondo i quali esse erano dotate di un morale estremamente basso.
Questa reazione sorprenderà sia i tedeschi che gli inglesi; per Eisenhower «la guarnigione italiana non era in grado di combattere contro nessuno». Una situazione analoga si sviluppa a Coo, seconda isola del Dodecaneso per estensione. Vi sono circa 4.000 uomini del 10° reggimento di fanteria della divisione Regina comandati dal colonnello Felice Leggio. Vi sono anche alcuni aerei efficienti, ma manca una difesa contraerea.
Il 2 ottobre giungono circa 1.300 soldati inglesi di rinforzo al presidio italiano, con loro anche nove aerei e ventiquattro cannoni antiaerei. Coo è importante per la presenza di un campo di aviazione da cui gli aerei possono partire per coprire tutto il Dodecaneso. Il giorno successivo un massiccio sbarco tedesco coglie di sorpresa i difensori e riesce a ribaltare la situazione, costringendo gli assediati alla resa.
Solo alcuni reparti italiani oppongono una limitata resistenza, mentre i reparti inglesi già nel pomeriggio dello sbarco sono evacuati parzialmente, 900 saranno fatti prigionieri. Tra gli italiani 3.145 sono i soldati catturati; il 5 ottobre, dopo un processo sommario vengono fucilati 103 ufficiali, secondo un’altra fonte 96, tra questi il colonnello comandante.
Italiani e inglesi resistono ancora nella piccola isola di Simi, – fino al 2 novembre, quando gli ultimi difensori riescono ad abbandonarla – a Santorino, a Icaria e a Samo; dopo la resa di Lero, dal 20 novembre anche in queste isole cessa ogni azione.