a cura di Cornelio Galas
Torniamo ancora indietro, per cercare di capire in quale tragico, confuso, contesto avvenne la tragedia di Cefalonia. Stiamo sempre affrontando il cosiddetto “rebaltòm” dopo l’8 settembre 1943, data dell’annuncio dell’armistizio da parte di Badoglio.
di Carlo Palumbo
LA FUGA DEL RE E IL REGNO DEL SUD
Il governo e il re tra due fuochi
Nel pomeriggio dell’8 settembre la notizia dell’annuncio anticipato dell’armistizio giunge mentre è in corso una sorta di Consiglio della corona convocato dal re in Quirinale. Sono presenti, oltre al re e a Badoglio, il ministro Guariglia, i generali Ambrosio, Roatta, Carboni, Sandalli e Zanussi, l’ammiraglio De Courten, il maggiore Marchesi, il duca Acquarone e Puntoni, aiutante in campo del re.
È in questa sede che si discute della nuova situazione e si prendono le decisioni fondamentali, mentre non viene convocata nessuna riunione del governo, tenuto fuori da tutto, e non sono convocate riunioni di emergenza al ministero della Guerra per affrontare le eventuali misure militari da prendere.
L’annuncio dell’armistizio, dato alle 16,30 da Radio New York, coglie del tutto di sorpresa il re e Badoglio. Negli accordi di Cassibile del 3 settembre gli alleati hanno solo comunicato informalmente che gli sbarchi previsti sul suolo italiano sarebbero avvenuti entro due settimane. Il governo e i comandanti militari italiani sono convinti che l’armistizio verrà comunicato intorno al 12 settembre e, comunque, hanno cercato di convincere i rappresentanti alleati della necessità di spostare quanto più possibile nel tempo l’annuncio.
Eisenhower, per ridurre le paure degli italiani circa l’eventuale occupazione di Roma da parte dei tedeschi, ha promesso che lo sbarco sarebbe avvenuto il più a nord possibile, mentre la scelta effettiva è già caduta su Salerno, troppo lontana per influenzare la situazione militare romana.
Il governo italiano si trova così in mezzo a due spinte diverse: da una parte la paura della reazione tedesca all’annuncio del «tradimento» italiano (ancora l’8 settembre il re ha confermato a Hitler, attraverso l’ambasciatore germanico, la fedeltà ai patti sottoscritti con l’alleato); dall’altra la volontà di Eisenhower di rompere gli indugi, anche perché l’annuncio dell’armistizio va dato prima dello sbarco alleato, per impedire una resistenza delle truppe italiane assieme a quella, prevedibile, dei tedeschi.
Ma c’è soprattutto negli alleati una malcelata diffidenza nei confronti degli interlocutori italiani; per loro gli atteggiamenti di Vittorio Emanuele III e di Badoglio appaiono oscillanti, equivoci e pericolosi. Meglio, allora, costringere gli italiani a decisioni nette, per impedire loro di mantenersi in bilico tra i due campi.
In effetti, il Consiglio della corona discute, ancora nel pomeriggio dell’8, se accettare o meno l’armistizio, anche se la cosa può sembrare a quel punto assurda. Nella discussione emerge l’impossibilità di avvisare i comandi e diramare gli ordini per organizzare una difesa dalla sicura reazione tedesca. Per questo vi è chi propone di sconfessare l’armistizio, attribuendone la responsabilità al solo Badoglio, e confermare la fedeltà all’alleato tedesco.
A far pesare l’orientamento contrario sono la convinzione che Hitler reagirà comunque all’annuncio, che gli alleati faranno valere la loro forza militare, senza più la possibilità di trattative, che gli italiani non saranno in ogni caso disponibili a continuare a combattere.
La decisione del re di fuggire
Alle 19,45 Badoglio comunica per radio che l’Italia ha accettato l’armistizio imposto dagli alleati. Nel suo proclama ordina ai reparti di cessare le ostilità contro le forze angloamericane e di reagire a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza. Non vengono però date disposizioni precise ai comandi militari e l’opposizione ai tedeschi è sporadica e breve. Resistere ai tedeschi non è l’obiettivo del re e di Badoglio. Infatti, già da tempo il re ha parlato dell’eventualità di un suo allontanamento da Roma per poter continuare la sua azione di capo dello Stato.
Il 28 luglio ha ordinato a Puntoni, suo aiutante in campo, di predisporre tutto per un’eventuale partenza da Roma: «Non voglio correre il rischio di fare la fine del re dei Belgi. […] Non ho alcuna intenzione di cadere nelle mani di Hitler e di diventare una marionetta di cui il Führer possa muovere i fili a seconda dei suoi capricci».
Il 2-3 agosto i preparativi per un suo allontanamento da Roma sono terminati. Puntoni gli fa, però, presente che «un allontanamento non giustificato da ragioni pressanti, quali la dichiarazione della Capitale città aperta, o la minaccia di un’azione tedesca, [avrebbe potuto] avere ripercussioni gravissime e compromettere l’esistenza della stessa Dinastia».
È proprio questa la situazione che si delinea nella notte tra l’8 e il 9 settembre, quando, nonostante i combattimenti a porta San Paolo, le truppe corazzate e i paracadutisti tedeschi sembrano sul punto di entrare in Roma. I generali Ambrosio e Roatta consigliano Badoglio di lasciare Roma; il re, informato, non muove alcuna obiezione. Per Puntoni, il re sarebbe disposto «a malincuore ad abbandonare Roma e solo con l’intento di garantire la continuità dell’azione di governo in collegamento con gli alleati e di impedire che la Città Eterna [subisca] gli orrori della guerra».
Qualche perplessità viene invece dal principe di Piemonte, Umberto, che preferirebbe almeno lui rimanere, soprattutto per non dare spazio alle sicure reazioni delle correnti democratiche alla scelta del re. Comunque la decisione è già stata presa.
Nelle primissime ore del 9 settembre Vittorio Emanuele III, la famiglia reale, Badoglio e due ministri militari più altre persone del seguito, abbandonano Roma lungo la via Tiburtina, stranamente lasciata libera dall’avanzata tedesca, e si dirigono verso Pescara; a Ortona si imbarcano sulla corvetta Baionetta e si consegnano agli alleati nell’Adriatico meridionale.
Indipendentemente dalle motivazioni immediate che portano il re e il governo ad abbandonare Roma, questa scelta si accompagna al disastro politico e militare successivo all’8 settembre. Il Paese si trova in un momento tragico della sua storia, senza una guida e senza indicazioni. Le forze armate affrontano i tedeschi solo in casi limitati e senza coordinamento, il grosso dell’esercito è allo sbando; l’Italia perde la possibilità di contribuire come forza decisiva alla continuazione della guerra, vedendo fortemente ridimensionato il suo ruolo nell’opinione degli alleati.
Per i tedeschi gli italiani sono diventati «traditori» e saranno puniti con un’occupazione durissima e con una guerra che attraverserà la penisola per altri venti mesi. Non esiste più uno Stato italiano: né il Regno del Sud creato dagli alleati nel meridione né la Repubblica sociale italiana di Mussolini, sotto il controllo degli occupanti tedeschi, esercitano più un’effettiva sovranità.
Il re e la corona, oltre a Badoglio e al suo governo, finiscono per apparire, non soltanto ai partiti democratici e antifascisti ma alla maggioranza dell’opinione pubblica, a sud come a nord, responsabili della catastrofe, tanto più che hanno lasciato l’esercito e gran parte del Paese nelle mani dell’occupante tedesco e delle loro rappresaglie. Con la fallimentare gestione dell’armistizio il sovrano perde l’ultima occasione per riabilitarsi dalla responsabilità del coinvolgimento nel regime di Mussolini e nella decisione di entrare in guerra.
Da questo crollo di credibilità né Vittorio Emanuele III né la famiglia reale sapranno più riprendersi. Il 10 settembre del 1943, alle 14,30, sbarcano a Brindisi il re Vittorio Emanuele III, il principe Umberto, il primo ministro Badoglio e due ministri militari, De Courten e Sandalli, oltre a Piccardi, ministro delle Corporazioni. Vi sono poi alcuni membri della famiglia reale ed esponenti di corte e un discreto numero di alti ufficiali. Quel che resta della corte e del governo del Regno d’Italia è tutto qui.
Il giorno successivo il re rivolge da Brindisi un appello al popolo italiano: «Per la salvezza della capitale e per poter finalmente assolvere i miei doveri di re, col governo e le altre autorità militari mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero territorio nazionale».
All’alba del 9 intanto, gli anglo-americani sono sbarcati a Taranto e da qui hanno rapidamente raggiunto Brindisi, mentre navi della flotta alleata pattugliano il basso Adriatico, con il compito, tra gli altri, di garantire il passaggio delle unità italiane che trasportano gli esponenti della corte e del governo.
Le autorità alleate si trovano a questo punto di fronte a un’alternativa: sostituire le autorità italiane con un governo militare alleato delle zone occupate militarmente, oppure riconoscere il governo di Badoglio e Vittorio Emanuele III come i legittimi rappresentanti dell’Italia.
Gli alleati non dimenticano, però, che il sovrano e il primo ministro sono i rappresentanti di una potenza nemica, ora sconfitta e costretta alla resa incondizionata. Nei giorni successivi una parte dei dubbi comincia a chiarirsi. Già a partire dall’annuncio dell’armistizio, la sera dell’8 settembre soldati italiani hanno combattuto contro i tedeschi in Italia, nei Balcani, nell’Egeo. Le autorità militari cercano di collaborare dove possibile con quelle alleate.
È soprattutto nelle isole, in Sardegna e in Corsica, che la cooperazione ottiene dei frutti, permettendo di assumere abbastanza rapidamente il controllo del territorio e costringendo i tedeschi a imbarcarsi o ad arrendersi. Anche la flotta italiana, di stanza a La Spezia e a Taranto, si è immediatamente disposta a raggiungere Malta, come stabilito.
È però il fattore politico a convincere Eisenhower, comandante supremo alleato nel Mediterraneo, a premere sui governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna perché riconoscano la legittimità delle autorità italiane e lo status di «cobelligerante» all’Italia. Infatti, il 12 settembre, Mussolini viene liberato dai tedeschi e portato in Germania. Lo stesso giorno in cui il duce parla a Radio Monaco, il 18 settembre, annunciando l’intenzione di tornare alla guida di un’Italia repubblicana alleata coi tedeschi, gli anglo-americani affidano al governo del re le province di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto.
Nasce così il Regno del Sud o, come sarà chiamato dal presidente americano Roosevelt, King’s Italy, l’Italia del re che si contrappone all’Italia del duce. Scrive infatti Churchill a Stalin: «Ora che i tedeschi hanno messo il duce a capo del cosiddetto governo fascista repubblicano è importante parare questa mossa facendo tutto il possibile per rafforzare l’autorità del re e di Badoglio».
I rapporti tra gli alleati e il Regno del Sud: l’«armistizio lungo»
È chiaro, però, che l’autonomia del nuovo regno è pressoché nulla. Una missione militare alleata ha il compito di seguirne l’attività; la guidano l’inglese Noel Mason-MacFarlane e l’americano Maxwell Taylor. L’attività di governo si svolgerà a Brindisi fino all’11 febbraio del 1944, quando la capitale si trasferirà a Salerno, appena restituita al governo italiano dall’Allied Military Government, assieme alle province siciliane, calabresi e alla Basilicata.
I primi atti relativi ai rapporti tra il piccolo regno di Vittorio Emanuele III e i governi alleati riguardano la firma avvenuta a Malta il 29 settembre del 1943 del cosiddetto «armistizio lungo» che contiene clausole ancora più severe nei confronti dell’Italia, oltre alla espressione «resa incondizionata» che non esisteva nel testo firmato il 3 settembre a Cassibile.
Per esercitare le funzioni di controllo previste dall’accordo, in novembre viene istituita la Allied Control Commission che rimarrà in funzione fino al 31 dicembre del 1945. Due settimane dopo, il 13 ottobre, il governo italiano è costretto dalle pressioni dei rappresentanti alleati, nonostante la contrarietà del sovrano, a dichiarare guerra alla Germania, vedendo così riconosciuto lo status di cobelligerante ma non di alleato.
Nonostante la disponibilità dichiarata dal governo italiano di mettere in campo un esercito di quasi 400.000 uomini per partecipare al conflitto, le autorità militari di occupazione si mostreranno ostili al riarmo delle truppe italiane. Viene autorizzata solo la partecipazione di un reparto motorizzato di circa 5.000 uomini sul fronte di Cassino a partire dall’8 dicembre del 1943.
Sarà nell’aprile del 1944 con la costituzione del Corpo italiano di liberazione che il contributo italiano alla lotta contro i tedeschi comincerà ad acquistare un peso maggiore. Gli anglo-americani, inoltre, non riconoscono ufficialmente il nuovo stato. A modificare parzialmente il loro atteggiamento sarà la decisione dell’Unione Sovietica, presa il 14 marzo del 1944, di formalizzare i rapporti diplomatici col Regno del Sud; tuttavia gli inglesi e gli americani, pur inviando in Italia due alti commissari, non accetteranno ancora rappresentanti italiani.
Con la liberazione di Roma del 4 giugno 1944 inizia una fase politica e istituzionale nuova. Il giorno successivo il re cede i poteri al luogotenente del Regno, il figlio Umberto, mentre l’8 giugno si dimette Badoglio. Il 18 il nuovo governo Bonomi si insedia a Salerno, per trasferirsi a Roma il 15 luglio del 1944. Il 20 luglio anche le province di Foggia, Avellino, Benevento, Napoli e Campobasso vengono trasferite alle autorità italiane. Il 15 agosto tocca finalmente a Roma, a Frosinone e a Littoria (Latina).
Con il passaggio, anche formale, della città di Roma all’amministrazione italiana termina la breve vita del Regno del Sud. Il 29 settembre del 1943 il primo ministro Badoglio firma a Malta l’armistizio lungo che sostituisce quello già sottoscritto a Cassibile il 3 settembre. Il testo è più completo rispetto al precedente e contiene le indicazioni politiche ed economiche che regoleranno il regime di occupazione alleato.
È stato elaborato dalla diplomazia inglese durante la Conferenza di Québec e si compone di 44 articoli che definiscono le forme per attuare il totale controllo politico e militare alleato in Italia. Passano sotto il controllo dell’amministrazione alleata il settore economico (banche, cambi, relazioni commerciali e finanziarie); le comunicazioni e lo spettacolo (radio, cinema, stampa, teatri); le infrastrutture e le vie di comunicazione; le funzioni di governo.
Badoglio chiede che il testo dell’accordo non sia reso pubblico, ma i governi che si succederanno fino al termine della guerra saranno costretti a rispettarlo. I documenti relativi all’armistizio lungo erano stati comunicati al governo Badoglio alcuni giorni prima e provocano le forti perplessità del sovrano in quanto viene promesso il riconoscimento dello stato di cobelligeranza collegato alla dichiarazione di guerra alla Germania.
Nelle sue dichiarazioni al generale MacFarlane, comandante della missione anglo-americana presso il governo italiano, Vittorio Emanuele III esprime i suoi timori circa le possibili ritorsioni dei tedeschi sulle popolazioni dei territori da loro ancora occupati. Vi è, però, un’altra ragione su cui la polemica sarà meno evidente: il re continua ad appoggiarsi, nelle regioni del sud formalmente sotto la sua sovranità, al vecchio personale politico e amministrativo del regime fascista di cui si fida molto più che degli esponenti dell’antifascismo, anche solo liberale, provocando tra l’altro le forti perplessità degli alleati.
Una dichiarazione di guerra alla Germania comprometterebbe i rapporti con questi ceti. Benedetto Croce, nei suoi diari di questo periodo, scrive: «Dalle notizie ricevute e da documenti che ho visto ho tratto il convincimento che il re, e il servitorame che lo circonda, pensano alla salvazione della monarchia mercé il sostegno che troverebbe nel grosso degli ex fascisti, che essa protegge come può affinché non siano molestati e conservino stipendi e prebende».
In questo contesto il re pensa che Badoglio, partendo per Malta, non sappia difendere con la dovuta energia «gli interessi del Paese e della monarchia, interessi che in fin dei conti si identificano». I margini di manovra del governo e del re sono, a quel punto, molto ristretti e la volontà degli alleati finisce, come è ovvio, per prevalere. Col nuovo testo, infatti, essi impongono condizioni ancora più dure all’Italia sconfitta, come appare dall’inserimento dell’espressione «resa incondizionata» che manca in quello sottoscritto il 3 settembre.
Eisenhower, nella discussione con Badoglio, sarà irremovibile poi sulla questione dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle Nazioni unite posta come primo punto, pregiudiziale alla trattazione delle modalità di cooperazione. Tra gli altri impegni vi è il sostegno degli anglo-americani al re e al governo Badoglio, che deve comunque ampliare la propria rappresentanza a esponenti dell’antifascismo, mentre gli italiani, dei quali si riafferma in via di principio la sovranità, sarebbero liberi di scegliere la forma di governo al termine del conflitto.
Dopo la firma il re continua a manifestare le sue perplessità ancora per qualche giorno, infine, dopo un ultimatum degli alleati, è costretto a cedere e a firmare lo stato di guerra con la Germania, comunicato attraverso la Spagna alle ore 13,00 del 13 ottobre. Il giorno successivo Stati Uniti, Inghilterra e Unione Sovietica riconoscono l’Italia come «nazione cobelligerante ».
Questa qualifica, dal significato ambiguo, non modifica lo status internazionale dell’Italia che continua a essere considerata uno stato nemico fino alla firma del trattato di pace né le è concesso il riconoscimento di nazione alleata, come più volte richiesto dal governo Badoglio, decisione che comporterebbe, una volta finita la guerra, una serie di concessioni all’ex nemico.
Gli alleati, in questo modo, possono chiedere un contributo italiano al conflitto fidando sulla tenuta almeno parziale delle sue forze armate, speranza che si rivelerà presto illusoria, promettendo condizioni di pace migliori sulla base dell’effettivo contributo italiano al conflitto. Inoltre, con il riconoscimento del Regno del Sud come cobelligerante, si rafforzano il sovrano e il governo Badoglio e li si legittima contro la Repubblica sociale di Mussolini sostenuta dai tedeschi.
Il Governo militare alleato per i territori occupati o A.M.G.O.T., che detiene il controllo effettivo delle province sotto la sua autorità, si trasforma in A.M.G., ovvero Governo militare alleato, rinunciando cioè alla dizione di «territorio occupato», mentre la missione militare incaricata dei rapporti col re e con Badoglio assume il nome di Commissione alleata di controllo.
Alcune settimane dopo, il 30 ottobre, le questioni politiche poste dall’armistizio di Malta vengono riprese nel comunicato finale della Conferenza di Mosca, in cui i ministri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna e URSS affrontano, assieme ad altri problemi, il caso dell’Italia.
In particolare, la dichiarazione sottolinea la necessità che in Italia siano distrutte le basi del fascismo e che sia data al popolo italiano la possibilità di stabilire le proprie istituzioni su basi democratiche. Pur rinviando alla fine della guerra la soluzione delle scelte sociali e politiche, si chiede di procedere, nei limiti concessi dalla situazione di guerra, in tre direzioni: allargamento del governo in carica alla partecipazione delle correnti antifasciste; riaffermazione della libertà di parola, di culto, di opinione politica, di stampa, di riunione, di associazione; soppressione delle istituzioni e organizzazioni create dal fascismo.
Su questi punti si svolgerà, nei mesi successivi, il dibattito negli ambienti politici del Regno del Sud. L’aspetto più significativo della dichiarazione di guerra alla Germania, cioè la partecipazione di un esercito italiano a fianco di quello alleato ai combattimenti sul fronte, sarà realizzato con molte difficoltà, con ritardo e solo parzialmente nonostante la disponibilità più volte dichiarata dallo stesso Badoglio.
Mentre il governo italiano calcola che sarebbe possibile mettere in campo un esercito di 400.000 uomini e per questo chiede la collaborazione degli alleati per quanto riguarda l’addestramento e gli armamenti, questi ultimi si sono resi finalmente conto della realtà dello sfacelo delle forze armate italiane dopo l’8 settembre e segnalano la scarsa combattività di truppe troppo a lungo impegnate e demoralizzate dalla sconfitta, oltre al costo enorme che significherebbe riarmare un numero così alto di soldati.
Gli alleati, che inizialmente hanno fatto pressioni per avere a fianco l’esercito italiano, finiscono per porre una serie di difficoltà e permettono solo la creazione di un raggruppamento motorizzato che sarà impiegato in difficili condizioni a monte Lungo, sul fronte di Cassino, nel dicembre del 1943, e quasi completamente distrutto. Successivamente l’unità sarà riorganizzata assumendo la denominazione di Corpo Italiano di Liberazione, che sarà utilizzato sul versante adriatico del fronte. In totale le forze armate italiane raggiungeranno al massimo una consistenza di 50.000 uomini.
Più spazio avranno invece l’aviazione e le navi della flotta che saranno utilizzate in azioni di appoggio, ricognizione e scorta, oltre che nel rifornimento dei partigiani, anche in Iugoslavia. Tuttavia gli alleati non concederanno mai alle truppe italiane di agire autonomamente nè di mantenere la responsabilità delle iniziative, ma esse saranno inquadrate in formazioni più ampie agli ordini di comandanti delle Nazioni unite.
È un modo per mantenere in soggezione il vecchio nemico sconfitto e per impedire che possa far valere eventuali meriti al tavolo della pace. Le cose andranno, almeno in parte, diversamente per quanto riguarda la lotta di liberazione nelle zone del Centro-Nord occupate dai tedeschi.
La sorte dei militari italiani prigionieri degli alleati
Nel corso della Seconda guerra mondiale l’Italia ha attraversato vicende complesse e contraddittorie, determinate dalla diversa collocazione politica e militare che il Paese ha avuto rispetto alle parti in conflitto. Dal 10 giugno 1940 all’8 settembre 1943, essa ha combattuto a fianco della Germania contro le Nazioni Unite (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Unione Sovietica), subendo drammatiche sconfitte sui campi di battaglia ma anche innumerevoli perdite di civili dovute ai bombardamenti alleati su obiettivi civili o militari.
A questa prima fase della guerra corrisponde la situazione dei soldati italiani prigionieri di guerra catturati sui diversi fronti. Questi i gruppi più consistenti:
- 30.000 dagli inglesi in Africa settentrionale, dopo la prima offensiva terminata nel febbraio 1941, essi sono trasferiti in India, Australia e Sud Africa;
- 40.000 dagli inglesi in Africa orientale, tra il 1940 e il novembre 1941, con la resa finale di Gondar; sono trasferiti soprattutto in Kenia e in India;
- circa 60.000 soldati dell’Armir sono catturati dai russi nell’offensiva del Don di fine 1942, di questi circa 20.000 muoiono durante il trasferimento e altri 30.000 negli anni di prigionia, i rimpatriati, dopo la guerra, sono solo 10.000;
- 30.000 dagli inglesi in Africa settentrionale, nel novembre 1942, nel corso della battaglia di El Alamein, essi sono inviati soprattutto in Inghilterra, alcuni rimangono in Egitto;
- 160.000 dalle truppe inglesi, americane e francesi in Tunisia, nel corso della battaglia finale che porta alla perdita dell’Africa settentrionale, di questi 80.000 vengono in massima parte avviati verso gli Stati Uniti oppure consegnati ai francesi in Algeria e in Marocco, i rimanenti saranno impiegati come lavoratori presso l’esercito americano;
- 120.000 dalle truppe anglo-americane in Sicilia, nel corso della conquista dell’isola, tra luglio e agosto 1943, di questi 65.000 saranno rilasciati sulla parola.
In totale i prigionieri italiani degli anglo-americani ammontano a circa 600.000 unità. La loro condizione è estremamente variegata. Ad esempio quelli trasferiti negli Stati Uniti sono impiegati nell’amministrazione statale e nelle industrie belliche e ricevono un regolare trattamento economico; al contrario quelli assegnati ai campi del Nord africa sono impiegati in lavori estremamente faticosi e logoranti, nelle miniere o in cantieri, rinchiusi in campi molto simili a carceri, in condizioni climatiche pessime.
La sorte peggiore toccò probabilmente ai soldati dell’Armir fatti prigionieri dai russi nel pieno dell’inverno. La maggior parte perì nel corso dei trasferimenti effettuati in condizioni di clima estremo a causa della scarsa alimentazione e delle condizioni igieniche drammatiche provocate anche dall’enorme massa di prigionieri catturata in poche settimane, nella confusione generale delle retrovie e nella scarsità di risorse di ogni tipo, carenti per le truppe sovietiche stesse e per la popolazione locale.
Con la firma dell’armistizio e la dichiarazione di cobelligeranza la condizione di questi prigionieri non migliora; infatti le clausole sottoscritte, se prevedono la riconsegna di quelli alleati, non definiscono il futuro degli italiani nelle mani delle Nazioni unite. Del resto, l’Italia continua a essere considerato un paese sconfitto e in stato di occupazione e i soldati italiani solo manodopera da utilizzare nelle situazioni più diverse.
Così, saranno liberati prima della fine della guerra solo alcune decine di migliaia di prigionieri: quelli residenti in Sicilia e catturati nell’estate del 1943, 16.000 tra i malati e i più anziani, 15.000 per ricostituire unità italiane in sostituzione di truppe alleate trasferite sul fronte francese. La maggior parte dei 600.000 prigionieri potrà rientrare solo a guerra conclusa, a volte dopo cinque e più anni di detenzione.
La costituzione del Comitato di liberazione nazionale
Con la dichiarazione di armistizio e la fuga del re e di parte del governo da Roma, la situazione italiana si fa estremamente confusa. Mentre i tedeschi assumono il controllo del paese e le forze armate rimangono senza disposizioni, a Roma si riunisce, il 9 settembre, quello che resta del governo di Badoglio. La riunione si scioglie senza risultati, essendo i componenti all’oscuro degli avvenimenti in corso.
Due ministri, Piccardi e Severi, prendono contatti col Comitato nazionale delle correnti antifasciste che, nel vuoto di potere del momento, finisce col porsi come unico interlocutore politico nei territori in via di occupazione, di fronte alla dissoluzione di quel che resta del governo legittimo.
Nello stesso giorno il Comitato si trasforma in Comitato di liberazione nazionale sulla base di un ordine del giorno presentato da Bonomi, leader di Democrazia del lavoro: «Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per conquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni».
Si tratta di un ordine del giorno generico che riesce a mettere d’accordo sia coloro che vorrebbero introdurre una dichiarazione di principio antimonarchica come l’esponente del Partito d’azione Ugo La Malfa, sia i partiti moderati che non vorrebbero discutere la questione istituzionale.
Nei giorni immediatamente successivi appare in tutta la sua gravità la decisione del re e di Badoglio di lasciare Roma e di abbandonarla ai tedeschi. Anche le forze moderate, liberali e democristiane, oltre a Bonomi, sono in difficoltà e si trovano nell’impossibilità di negare l’evidenza: la causa di Vittorio Emanuele III sembra ormai perduta e lo stesso Bonomi deve riconoscere il giorno 12 che «Gli anglo-americani entrando in Roma constateranno che la monarchia e il Governo non funzionano più perché assenti e fuggiaschi, perciò il Comitato di Liberazione potrà essere considerato da loro come l’unica organizzazione capace di assicurare la vita del paese, cioè quasi come un Governo di fatto che governa nella carenza di ogni altro».
Lo stesso giorno il Comitato di liberazione romano approva un ordine del giorno in cui «constata dolorosamente che l’abbandono del loro posto da parte del sovrano e del capo del Governo ha intaccato e distrutto la possibilità di resistenza e di lotta da parte dell’esercito e del popolo, e decide per la riscossa e per l’onore italiano».
A rimettere in gioco la monarchia e Badoglio, apparsi indifendibili anche dai settori politici a loro più vicini è, il 21 settembre, il primo ministro inglese Churchill in un discorso alla Camera dei Comuni: nell’interesse generale e dell’Italia, è necessario che «tutte le forze della vita nazionale italiana superstiti si stringano attorno al re, al governo legittimo e a Badoglio”. È «d’importanza essenziale dare al re e all’amministrazione di Brindisi autorità di governo e unità di comando su tutta l’Italia», così si esprime Churchill in un messaggio inviato lo stesso giorno a Roosevelt.
Nella discussione alla Camera dei Comuni, anche su pressione dei laburisti, il primo ministro inglese deve insistere sul dovere del re di «costituire il più largo Governo di coalizione antifascista possibile»; ogni decisione presa sotto l’urgenza degli eventi bellici non dovrà «pregiudicare menomamente il diritto indiscutibile della nazione italiana di scegliere e decidere il futuro Governo del paese su linee democratiche» una volta finita la guerra.
Con queste dichiarazioni vengono messe a tacere le aspettative di parte del Comitato di liberazione nazionale di assumere di fatto le funzioni di un governo; sono rafforzate le posizioni dei partiti moderati e di destra, mentre sono ridimensionate quelle che avrebbero voluto da subito la sospensione delle prerogative regie per realizzare un’unità popolare su basi più avanzate e democratiche.
La nuova riunione del Comitato di liberazione nazionale romano del 28 settembre rivela i nuovi equilibri, più favorevoli alle destre: liberali e democratici del lavoro sono contrari a porre in stato d’accusa il sovrano, anche se sono favorevoli a un allargamento alle correnti antifasciste del governo Badoglio con cui vogliono mantenere i rapporti; su queste posizioni sono appoggiati dai democristiani che non hanno interesse a imporre la questione del re.
Dalla parte opposta sono i partiti di sinistra: gli azionisti più interessati alla sospensione delle prerogative regie; socialisti e comunisti puntano invece a costituire un governo in grado di condurre più efficacemente la guerra antitedesca e quindi vogliono fare del Comitato l’effettiva autorità del paese, mentre sono contrari a riconoscere il governo Badoglio come legittimo, per cui non sono disposti a scendere a compromessi.
Con questa contrapposizione inizia quella fase di difficoltà, se non di paralisi, che costringerà il Comitato a una serie di mediazioni interlocutorie che dureranno fino ai primi mesi del 1944. Di questa situazione è un riflesso l’ordine del giorno approvato il 5 ottobre e che definisce i due «doveri dell’ora»:
- 1) deferire al libero voto del popolo, convocato al cessare delle ostilità, la decisione sul problema istituzionale, e pertanto invitare alla concordia gli italiani […]
- 2) dar vita a un governo non militare, ma politico che, raccogliendo tutte le forze antifasciste, possa condurre la lotta contro i tedeschi e contro i fascisti.
Nei giorni successivi all’8 settembre, sull’esempio di Roma, vanno costituendosi altri Comitati di liberazione nelle varie province. Tra questi assumono una maggiore rilevanza quelli di Torino e di Milano. Il primo per gli impegni a cui deve far fronte per coordinare e dirigere una diffusa lotta armata che inizia a organizzarsi nelle valli alpine della regione, il secondo per il ruolo politico centrale che ricopre nel territorio occupato dai tedeschi.
Mentre a Roma si discute delle questioni istituzionali e del ruolo del Comitato di liberazione nazionale, a Milano prevale l’impegno per rispondere alle esigenze del momento: quale comando dare alle prime attività militari e come affrontare il problema dei prigionieri alleati che vengono nascosti nelle campagne o aiutati a raggiungere la Svizzera, anche se circa un quarto degli effettivi delle prime formazioni partigiane è costituito da ex prigionieri.
Sono inoltre stabiliti i collegamenti con i rappresentanti alleati in Svizzera: Allen Dulles dell’Office of Strategie Services americano e MacCaffery della Special Force inglese. Inoltre, al nord la questione monarchica si pone in maniera differente: il Comitato di liberazione nazionale deve tener conto che tra i primi a impegnarsi nella lotta contro i tedeschi sono stati soldati e ufficiali monarchici come in Piemonte; va quindi salvaguardata l’unità d’azione della resistenza, evitando di forzare le dichiarazioni di principio presenti nelle mozioni approvate in questi giorni.
Nel sud acquista invece importanza il Comitato di liberazione napoletano, su cui esercita una certa influenza il filosofo liberale Benedetto Croce. All’interno del Comitato prevalgono gli orientamenti repubblicani o contrari a Vittorio Emanuele III. Le mozioni di Milano e di Roma giungono in città solo ai primi di novembre e la maggioranza si esprime per l’abdicazione immediata del re, per la rinuncia del principe Umberto a favore del principe di Napoli e per la costituzione di un consiglio di reggenza.
Dopo l’ingresso nella città degli alleati, il 1° ottobre il re invia il duca Acquarone a Napoli per prendere contatto con alcune personalità della città appartenenti al vecchio ceto politico prefascista, tra questi il liberale Enrico De Nicola, il democristiano Giulio Rodinò, il repubblicano Carlo Sforza, in vista di un allargamento del governo com’era nelle richieste degli alleati, ma non trova nessuno disposto ad accettare.
Nei giorni successivi il sovrano fa contattare anche Dino Grandi in vista di una sua inclusione nel governo, ma viene bloccato dall’esplicito divieto di Roosevelt. Con la dichiarazione di guerra alla Germania, il 13 ottobre, le posizioni del re e di Badoglio si rafforzano ulteriormente, tanto da spingere il primo ministro a dichiarare che alla fine della guerra si sarebbe trattato di decidere della sola forma di governo, non della forma di stato.
Il 16 ottobre, sotto l’impressione di queste dichiarazioni, suffragate da altre analoghe di Eisenhower, si riunisce il Comitato di liberazione nazionale centrale romano che approva un ordine del giorno che costituisce lo statuto fondamentale del Comitato di liberazione nazionale in Italia.
Il documento, dopo avere condannato la costituzione della Repubblica sociale di Mussolini e aver preso atto delle scelte del re e di Badoglio, afferma «che la guerra di liberazione, primo compito e necessità suprema della riscossa nazionale, richiede la realizzazione di una sincera e operante unità spirituale del Paese, e che questa non può farsi sotto l’egida dell’attuale governo costituito dal re e da Badoglio; che deve essere promossa la costituzione di un governo straordinario che sia l’espressione di quelle forze politiche le quali hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista e fino dal settembre 1939 si sono schierate contro la guerra nazista”.
Il CLN dichiara che questo governo dovrà:
- 1) assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato, evitando ogni atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare;
- 2) condurre la guerra di liberazione a fianco delle Nazioni Unite;
- 3) convocare il popolo, al cessare delle ostilità, per decidere sulla forma istituzionale dello stato».
Badoglio, spinto anche dall’impressione per la ritrovata unità del Comitato di liberazione nazionale romano, prospetta al re l’opportunità di rinunciare al trono a favore del nipote, il piccolo principe Vittorio Emanuele, con la reggenza del figlio Umberto. Il primo ministro desidera salvare la monarchia compromessa, ma Vittorio Emanuele risponde con un deciso rifiuto: la questione istituzionale sarà rinviata alla fine della guerra.
LA LIBERAZIONE DI MUSSOLINI
E LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
La prigionia e la liberazione di Mussolini
Il 12 settembre 1943 Benito Mussolini viene liberato da un reparto di SS tedesche dalla sua prigione di Campo Imperatore, in Abruzzo, e trasferito in Germania dove si incontra con Hitler.
Era stato arrestato il 25 luglio, all’uscita da villa Savoia, dopo essere stato ricevuto dal re che gli aveva comunicato il licenziamento. Da quel momento era scomparso, trattenuto in stato d’arresto prima nell’isola di Ponza, poi nell’isola della Maddalena, nella villa dell’inglese Weber.
Mussolini ha appena compiuto sessant’anni, ma appare molto provato dagli ultimi avvenimenti; dalle notizie che si hanno non sembra illudersi di un ritorno al potere, anzi, pensa di ritirarsi nella rocca delle Caminate, vicino Forlì, «ed ivi aspettare tranquillamente la fine, che mi auguro sollecita, dei miei giorni», come scrive in una lettera alla sorella Edvige.
Ma saranno altri a decidere della sua sorte. Sia gli anglo-americani che i tedeschi hanno attivato i loro servizi segreti per conoscere la località in cui il duce è nascosto. In Germania, in particolare, si sta discutendo sulla sorte dell’Italia, nell’eventualità di un suo sganciamento dalla guerra. Già sono state fatte affluire divisioni tedesche nella penisola nel mese di agosto.
Si pensa a un’occupazione pura e semplice del paese, con la costituzione di un regime di occupazione; ma Hitler preferirebbe mantenere una parvenza di autonomia del futuro governo italiano, affidato agli elementi fascisti che si sono mantenuti fedeli all’alleato.
In Germania si sono rifugiati, dopo il 25 luglio, numerosi esponenti del dissolto regime, tra questi vi sono l’ex ministro della Cultura popolare Alessandro Pavolini, il ministro di Stato Roberto Farinacci, l’ex ministro Renato Ricci, uno dei figli di Mussolini, Vittorio. I tedeschi non si fidano di loro e li trattengono, sotto sorveglianza della polizia segreta, nella Prussia Orientale.
Dopo l’8 settembre si pensa a questi personaggi per formare un governo che agisca a nome del duce, ma sono considerati troppo poco importanti per affidare loro il compito; Mussolini appare il solo in grado di aggregare una base popolare nell’Italia settentrionale.
Il 18 agosto un aereo sconosciuto sorvola a bassissima quota la residenza di Mussolini alla Maddalena. Il giorno successivo il duce riceve un regalo personale di Hitler per il suo compleanno: l’opera completa di Nietzsche. Questi fatti preoccupano Badoglio che decide un ulteriore trasferimento del prigioniero: il 28 agosto Mussolini è prelevato da un idrovolante.
La sua destinazione è l’albergo-rifugio di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, dove riprende la sua vita appartata e sembra anche pensare al suicidio quando sente alla radio la notizia della firma dell’armistizio e pensa alla possibilità di cadere in mano agli anglo-americani.
Invece, pochi giorni dopo, saranno i tedeschi a liberarlo. Alle 14,00 del 12 settembre, otto alianti scendono nei pressi del rifugio; trasportano un reparto speciale delle SS guidato da Otto Skorzeny che, dopo aver messo in fuga i militari di guardia, preleva Mussolini e lo fa salire su un piccolo aereo che decolla con qualche difficoltà, rischiando di schiantarsi contro le rocce.
L’aereo atterra vicino Roma, alla base di Pratica di Mare; di lì, a bordo di un Heinkel, Mussolini arriva all’aeroporto di Aspen, nei pressi di Vienna. Qui lo raggiunge la telefonata del Führer che si congratula per la liberazione. Nei giorni successivi Mussolini si incontra con Hitler nel quartier generale di Rastenburg, poi vede Pavolini e gli altri gerarchi rifugiatisi in Germania.
Di fronte alle richieste dei suoi interlocutori, però, il duce è passivo o incerto. Hitler lo mette a conoscenza dei suoi propositi e gli chiede cosa intende fare per vendicarsi di coloro che lo hanno tradito il 25 luglio. Alla richiesta di Pavolini perché si metta alla guida del «governo provvisorio nazionale fascista», Mussolini risponde di non poter prendere decisioni, in quanto non ha elementi per formulare un giudizio.
Anche il giorno dopo, in un secondo incontro con Hitler, Mussolini dichiara che è sua intenzione ritirarsi a vita privata, il solo modo per evitare una guerra civile in Italia, provocando la reazione irritata del Führer. Se Hitler ha salvato Mussolini è stato certo per tener fede a un’amicizia di lunga data, ma ora conta soprattutto il senso politico dell’operazione: un governo fascista in Italia senza la guida del duce non avrebbe senso; il tradimento dell’Italia deve essere punito e i responsabili del 25 luglio devono essere processati e giustiziati; se sarà Mussolini a farlo, sarà riconfermata la solidarietà dell’Asse e «l’Italia sarà ristabilita nei suoi diritti».
«La condizione fondamentale è che il fascismo rinasca e faccia giustizia di chi ha tradito». Ciò faciliterebbe la conduzione della guerra in Italia molto più di un semplice governo di occupazione. La minaccia è chiara, Mussolini alla fine si convince a riprendere il suo posto. Due sono, forse, le motivazioni di questa scelta: la convinzione di poter ammorbidire l’intransigenza dei tedeschi nei confronti dell’Italia e la possibilità, colta nelle parole di Hitler, che la Germania possa ancora vincere la guerra.
Il 15 settembre l’agenzia Deutsches Nachrichten Bureau annuncia che Mussolini ha ripreso la direzione del fascismo e riporta alcuni ordini del giorno in cui si comunica la nomina di Pavolini a segretario provvisorio del nuovo Partito fascista repubblicano; si ripristinano le istituzioni del fascismo e la Milizia volontaria, affidata a Renato Ricci, con il compito di fornire aiuto ai tedeschi che combattono sul suolo italiano e di riesaminare le posizioni dei membri del partito in relazione al «colpo di stato» del 25 luglio; inoltre si dichiarano gli ufficiali delle forze armate liberi dal giuramento prestato al re.
Il 18 settembre Mussolini pronuncia il suo primo discorso pubblico dopo il 25 luglio alla radio di Monaco di Baviera. Nel discorso afferma la sua volontà di instaurare «uno Stato nazionale sociale» che riprenda le armi a fianco della Germania e del Giappone; riorganizzi le forze armate attorno alla Milizia fascista; elimini i traditori del 25 luglio; annienti le «plutocrazie parassitarie» e faccia del lavoro il soggetto dell’economia e la base dello Stato.
Il 19 Pavolini raggiunge Roma per raccogliere adesioni al progetto di nuovo stato: la Repubblica sociale italiana, e per costituire il nuovo governo. Nonostante le difficoltà incontrate, sia a causa dell’indifferenza che dei rancori e delle ripicche dei vecchi gerarchi, il 23 settembre può annunciare che «il duce ha costituito il nuovo governo assumendone la presidenza .
Quella mattina stessa Mussolini rientra in Italia a bordo di un aereo tedesco che atterra all’aeroporto di Forlì, da cui raggiungerà la rocca delle Caminate, sede provvisoria del nuovo governo. Ad attenderlo sono il plenipotenziario del Reich, Rudolf Rahn, e il capo delle SS in Italia, il generale Karl Wolff.
La nascita della Repubblica sociale italiana e i rapporti con la Germania
Con la liberazione di Mussolini, il 12 settembre del 1943, e il suo discorso da Radio Monaco, il 18 dello stesso mese, in cui viene annunciata la costituzione del Partito fascista repubblicano e di una repubblica nelle province dell’Italia centro-settentrionale occupate dai tedeschi, ha inizio la seconda fase del fascismo mussoliniano, quella della Repubblica sociale italiana.
Il 23 Mussolini rientra in Italia e annuncia dalla sua sede provvisoria della rocca delle Caminate la costituzione di un nuovo governo da lui presieduto. Il duce assume anche la carica di ministro degli Esteri e nomina Guido Buffarini Guidi all’Interno, Antonino Tringali Casanova alla Giustizia, Domenico Pellegrini alle Finanze, Scambi e Valute, il maresciallo Rodolfo Graziani alla Guerra, Silvio Gai all’Economia corporativa, Edoardo Moroni all’Agricoltura, Carlo Alberto Biggini all’Educazione nazionale, Giuseppe Peverelli alle Comunicazioni, Fernando Mezzasoma alla Cultura popolare, Francesco Maria Barracu sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
A novembre Tringali Casanova viene sostituito da Piero Pisenti e a gennaio Silvio Gai da Angelo Tarchi. È membro del governo anche il segretario del Partito nazionale fascista Alessandro Pavolini.
I tedeschi negano a Mussolini il trasferimento a Roma del nuovo governo, indebolendo così il suo prestigio. Essi considerano tutto il territorio italiano a sud della Toscana retrovia del fronte su cui esercita la sua autorità il solo Kesserling: dall’11 settembre, in un suo decreto, il territorio italiano è dichiarato «territorio di guerra», soggetto alle leggi di guerra tedesche.
Mussolini è quindi costretto a trasferire gli uffici del nuovo stato a nord, sul lago di Garda: a Salò si stabiliscono gli Esteri e la Cultura popolare; a Maderno l’Interno e la direzione del partito; a Desenzano la Guerra; a Bogliaco la presidenza del Consiglio dei ministri. Ma vi sono attività dei ministeri dislocate in molte altre città, da Venezia a Bergamo, da Verona a Brescia. Mussolini alloggia a villa Feltrinelli, vicino Gargnano, protetto da un reparto speciale delle SS, un distaccamento della Leibstandarte Adolf Hitler.
Il nuovo governo si trova in una drammatica situazione di precarietà: gran parte della burocrazia resta a Roma e solo pochi funzionari, sottoposti a pressioni, accettano il trasferimento al nord. Il nuovo stato manca di un esercito, dissoltosi dopo l’8 settembre. Il maresciallo Graziani, vecchio antagonista di Badoglio ed ex capo di Stato maggiore dell’Esercito, esautorato dopo la disfatta in Africa settentrionale, accetta la nomina di ministro della Guerra in seguito alle pressioni dell’ambasciatore tedesco a Roma, Rudolf Rahn.
Molti dei gerarchi e delle personalità più in vista del vecchio regime non accettano di collaborare con la Repubblica sociale o si defilano. Tra gli intellettuali fa eccezione il filosofo Giovanni Gentile che viene nominato presidente dell’Accademia d’Italia. I ministri provengono prevalentemente dal vecchio partito, ma sono spesso figure di secondo piano. A guidare il nuovo gruppo dirigente saranno tre uomini: Pavolini, Buffarini Guidi e Mezzasoma, accomunati dall’intransigenza verso i «traditori» del 25 luglio e dai buoni rapporti col Comando tedesco in Italia.
Sul piano istituzionale il nuovo stato si limita a un’esistenza di fatto, essendo rinviata alla fine del conflitto la convocazione di un’assemblea costituente, che non si terrà. Anche sul piano internazionale la Repubblica sociale non riesce a ottenere il riconoscimento diplomatico al di là di alcuni alleati della Germania: Giappone, Croazia, Bulgaria, Slovacchia e Ungheria.
Il Vaticano la ignora, come pure la Spagna di Franco, un tempo alleata dell’Italia fascista. La Repubblica sociale esercita la sua sovranità sulla parte dell’Italia occupata dalle truppe tedesche: tra ottobre e novembre del 1943 si tratta di un territorio con circa 28 milioni di italiani, comprendente tutte le province centro-settentrionali a nord della linea Sangro-Garigliano, quindi con una parte dell’Abruzzo e quasi tutto il Lazio.
Dal 1° ottobre, però, le province di Trento, Bolzano e Belluno sono sottratte all’Italia e annesse al Reich tedesco col nome di Alpenvorland, come le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, che costituiscono l’Adriatisches Küsterland.
Dopo lo sfondamento sul fronte di Cassino nel maggio del 1944, gli alleati conquistano tutta l’Italia centrale, fino alla linea gotica, sull’Appennino tosco-emiliano. Nell’autunno e nell’inverno del 1944-45 il fronte si stabilizzerà nuovamente fino all’offensiva finale, nell’aprile del 1945. Tra il 25 e il 26 aprile del 1945, dopo la proclamazione dell’insurrezione generale, il vertice della Repubblica sociale si disperde.
Molti gerarchi e lo stesso Mussolini vengono arrestati mentre cercano di raggiungere la Svizzera. Per la Repubblica fascista è la fine. A differenza della prima fase del fascismo italiano, quella che coincide col regime di Mussolini dall’ottobre del 1922 al 25 luglio del 1943, il fascismo repubblicano non si afferma grazie a forze interne al paese né può contare sull’appoggio di ampi settori della popolazione.
Esso è invece il frutto di decisioni prese in Germania, direttamente dal Führer, che punta sul residuo carisma del duce per dar vita a uno stato direttamente controllato dalla Germania, nonostante la finzione legale, ma in grado di ottenere ancora l’appoggio di consistenti settori sociali, mobilitati grazie a un programma populista e demagogico.
I rapporti tra i due uomini saranno sempre improntati a un certo rispetto: Hitler e Mussolini continueranno a incontrarsi, anche se il vecchio maestro assumerà sempre di più il ruolo di comparsa, accettando le decisioni del più forte capo della Germania, limitandosi a qualche protesta nei casi più evidenti di prevaricazione, come in seguito all’annessione dell’Alto Adige e di parte della Venezia Giulia al Reich.
Altri nazisti esperti della situazione italiana, come il generale Wolf, comandante delle SS, avrebbero invece preferito un governo tecnico, con compiti solo amministrativi, senza la finzione di uno stato autonomo e formalmente sovrano. Tuttavia, nella realtà, sono i tedeschi ad avere la responsabilità effettiva dei territori occupati. Sulle questioni decisive le autorità italiane non possono andare oltre le indicazioni dell’alleato-padrone.
Nelle prime settimane di vita della nuova repubblica, le questioni più urgenti da affrontare sono la ricostituzione dello stato, i rapporti con i tedeschi, la guerra. Ma il nuovo gruppo dirigente si divide su come ricostituire una base sociale che permetta di governare e di offrire ai cittadini una parvenza di normalità che superi il caos imperante.
Mussolini vorrebbe condurre un’opera di pacificazione, di concordia nazionale, che faccia appello al patriottismo e all’orgoglio nazionale, ma anche alla costituzione di uno stato sociale che ponga il lavoro al centro dei suoi interessi. Nella prima riunione del governo, il 27 settembre, Mussolini pone come direttiva il raggiungimento dell’integrità territoriale e l’indipendenza politica del paese; verso gli antifascisti non deve essere attuata nessuna repressione, mentre devono essere imposte severe sanzioni per i fascisti che hanno «tradito» il 25 luglio perché responsabili «dell’abisso nel quale la Patria è caduta».
Deve inoltre essere preparata la Costituente con due indicazioni essenziali: unità politica e decentramento amministrativo e un «pronunciatissimo contenuto sociale». Lo stesso Pavolini dichiara di puntare alla «collaborazione fra gli uomini di diversa provenienza politica».
Tuttavia, questa politica non ottiene molti appoggi negli ambienti del nuovo fascismo. I fascisti che si stanno raccogliendo nel nuovo partito (circa 250.000 sono gli iscritti dichiarati in novembre), sono mossi piuttosto dal desiderio di vendetta, sia nei confronti dei «traditori» del 25 luglio sia dei badogliani e della monarchia, accusati di essere i responsabili della drammatica crisi del Paese. A capeggiare questa corrente sono Farinacci e Pavolini.
Quest’ultimo scrive negli stessi giorni: «In materia di politica interna e di rapporti con gli avversari non si deve indulgere a troppi generici appelli all’abbraccio universale». Del resto, l’inizio di un’opposizione armata in alcune zone del paese e le necessità imposte dalla guerra, soprattutto le esigenze tedesche di utilizzare le risorse umane ed economiche dell’Italia per continuare a combattere, stimolano una reazione più dura da parte del partito e rafforzano le posizioni di coloro che vogliono imporre un nuovo regime totalitario, più rigido e intransigente che in passato.
Il «Manifesto» di Verona
Tutti questi problemi si ripropongono nel congresso costitutivo del Partito fascista repubblicano che si tiene a Verona, in Castelvecchio, nei giorni 14 e 15 novembre del 1943. La caotica assemblea è presieduta da Pavolini e vede prevalere la tendenza contraria alla «conciliazione» e favorevole all’istituzione del Tribunale speciale per giudicare «i traditori del 25 luglio».
Viene approvato un documento, che sarà noto come il «Manifesto» di Verona, in 18 punti, che costituisce la carta fondamentale dello Stato fascista repubblicano. Molte delle affermazioni che vi sono contenute sono contraddittorie o non avranno alcuna applicazione; esse puntano a vincere l’ostilità crescente tra la popolazione e a fornire il nuovo stato di un programma che dimostri che una rottura è stata consumata col vecchio fascismo di regime.
Se un collegamento può essere cercato è con l’esperienza del primo fascismo, quello del 1919-20, in cui erano forti le spinte anticapitaliste e populiste. In un colloquio col consigliere Dölfin del 25 ottobre, Mussolini aveva affermato: «Le masse hanno bisogno di un ideale che le soddisfi: come gli uomini singoli. Al vecchio mondo dei privilegi e delle caste noi sostituiremo lo Stato del Lavoro, con la L maiuscola. Ma, come fascisti, intendiamo innanzitutto riconquistare al popolo italiano il diritto di cittadinanza nel consesso dei popoli onorati ripristinando alla parola “onore” il suo inconfondibile significato».
Il primo punto del manifesto dispone che «Sia convocata la Costituente, potere sovrano di origine popolare, che dichiari la decadenza della monarchia, condanni solennemente l’ultimo re traditore e fuggiasco, proclami la repubblica sociale e ne nomini il capo».
Nel secondo punto se ne definisce la composizione, escludendo il ricorso al voto popolare e utilizzando le rappresentanze delle associazioni, delle circoscrizioni amministrative, della magistratura, eccetera. Il quinto punto si occupa del partito unico, che perde il carattere di massa del vecchio Partito nazionale fascista: « […] ordine di combattenti e di credenti, deve realizzare un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell’idea rivoluzionaria. La sua tessera non è richiesta per alcun impiego o incarico».
Nell’ottavo punto, dedicato alla politica estera, vengono ribaditi gli obiettivi tradizionali del fascismo italiano: necessità di conquistare lo spazio vitale «indispensabile a un popolo di 45 milioni di abitanti», l’eliminazione dal continente europeo dei «secolari intrighi britannici», l’abolizione del sistema capitalistico e la lotta alle «plutocrazie mondiali».
La parte più interessante del programma è quella successiva, dal punto 9 al punto 18, dove viene delineata la politica sociale del nuovo fascismo, tutta orientata a guadagnare il favore delle masse proletarie finora ostili. Il lavoro diviene la base della repubblica sociale; la proprietà privata è garantita dallo Stato ma non deve diventare «disintegratrice della personalità fisica e morale» del lavoro altrui.
Importante, come principio, è l’affermazione che nell’economia tutto ciò che è di interesse collettivo deve essere statalizzato; inoltre, in ogni azienda sono istituite le rappresentanze dei tecnici e degli operai che devono cooperare «intimamente all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli stessi per parte dei lavoratori».
Su questi aspetti la discussione si fa accesa. Alcuni si sbilanciano fino a chiedere l’abolizione della proprietà privata. Lo stesso Mussolini commenta così le conclusioni del dibattito: «È stata una bolgia vera e propria! Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi. Qualcuno, infatti, ha chiesto l’abolizione, nuda e cruda, del diritto di proprietà! Ci potremmo chiedere, con ciò, perché abbiamo, per vent’anni, lottato coi comunisti».
Gli stessi tedeschi sono perplessi; hanno paura che le eventuali decisioni sulla statalizzazione possano danneggiare lo sforzo per orientare la produzione di guerra a loro favore; per questo si preoccupano immediatamente di dichiarare «protette» le industrie di loro interesse, per escluderle dalla socializzazione.
Il 13 gennaio del 1944 il Consiglio dei ministri approva una «premessa fondamentale» per la creazione della nuova struttura economica dell’Italia. Sono considerate ai fini della statalizzazione i settori economici essenziali per l’indipendenza della nazione: fornitori di materie prime, energia e servizi indispensabili. Allo Stato spetterà il compito di gestione, a cui parteciperanno gli stessi lavoratori dell’azienda.
Pochi giorni prima, l’8 gennaio, si era riunito il Tribunale speciale incaricato di giudicare i gerarchi responsabili della messa in stato di accusa di Mussolini al Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio. L’11 gennaio 1944 vengono fucilati Emilio De Bono, Galeazzo Ciano, Giovanni Marinelli, Carluccio Pareschi e Luciano Gottardi.