ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 52

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Alpino Giovanni Pio Belotti
51ª Compagnia, Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Ero mitragliere. Il mattino del 26 gennaio ’43 iniziò la battaglia di Nikolajewka. Il nemico era superiore di forze e mezzi, i russi con le katiusce iniziarono il bombardamento dalla città. La sorpresa fu enorme, perché nessuno sospettava di nulla, noi ritenevamo di essere ormai liberi e al sicuro. La linea divisoria tra noi e i russi era costituita da una strada ferrata che in quel tratto correva ad alcuni metri di altezza rispetto al terreno circostante. Il nemico si affacciava sulla ferrovia con tutte le sue forze.

Ebbe inizio il dramma eroico dell’armata alpina e il mio personale. Due ore di lotta acerrima e gravi perdite di vite umane ci costò il varco che riuscimmo ad aprire nello schieramento nemico, per il quale i più fortunati passarono. La mia arma, una mitragliatrice Breda, era talmente rovente che per sostituirne la canna dovetti usare i piedi. Ovunque c’era una grande confusione e per un periodo di circa quattro ore rimasi in balia di una folla di soldati diretta verso il passaggio obbligato aperto nel cuore dello schieramento nemico. Ad un certo punto ci imbattemmo in un vero e proprio arsenale di munizioni.

Ci appostammo e ricominciammo a sparare contro 5 russi che cercavano di attaccarci dai fianchi. Sparammo senza interruzione dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio, pensando di poterci accodare più tardi a coloro che si stavano ritirando. Purtroppo una mossa dell’esercito russo, che nel frattempo aveva richiuso la sacca, non ci permise di attuare il nostro progetto.

Quando meno ce l’aspettavamo una decina di soldati russi ci prese alle spalle, e a noi tre non restò altro da fare che arrenderci. La speranza di ritornare a casa che ci aveva sorretto fino a quel momento ci abbandonò. Fummo costretti a ripercorrere, incolonnati con molti altri, la stessa strada che avevamo percorso precedentemente e che aveva costituito la via della speranza.

Durante il trasferimento (capii solo più tardi che la meta erano i monti Urali) uno dei due compagni, il Cecchino, fu abbandonato perché era morto per assideramento. Agli Urali ci avevano destinato al trasporto del materiale aurifero dalle miniere. In febbraio, non ricordo bene il giorno, congetturai con l’amico Maffessoli la fuga. Io la tentai, il Maffessoli no. Da allora di lui non seppi più nulla. Vagai a lungo per le steppe senza possibilità alcuna di orientarmi.

Fui ripreso da un ufficiale russo e portato in un campo di concentramento, e da qui in Siberia al campo n. 100. Ricordo con raccapriccio un episodio cui assistetti durante il trasferimento. Sul mio stesso carrozzone si trovavano due fratelli, della provincia di Bergamo. Ci era stato dato l’ordine che qualora qualcuno morisse fosse gettato dai finestrini della tradotta. Caso volle che proprio uno dei due fratelli morisse e, siccome nessuno di noi aveva avuto l’ardire di eseguire l’ordine datoci, vidi l’altro fratello aprire il finestrino e con disperazione abbandonare alle steppe russe il proprio congiunto. Fu per me quella una scena terribile che neppure oggi mi riesce di dimenticare.

Dalla Siberia fui trasferito a Mosca per aver fatto la firma di comunista, e da qui a Francoforte sul Meno a far la guardia ai prigionieri. La vicinanza dell’Italia mi diede nuove speranze di poter rimpatriare. Preparai una nuova fuga e anche questa volta la fortuna e la salute mi diedero il loro aiuto tanto da riuscire a varcare il confine al Brennero e poter rientrare finalmente in patria. Ricordo il 25 agosto 1945 come il giorno più bello della mia esistenza per aver potuto riabbracciare i miei cari e mio figlio Gian Antonio che non avevo
mai visto.

Alpino Fernando Sala
52ª Compagnia, Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Sono un reduce della campagna di Russia. Vi partecipai con la 52ª Compagnia dell’Edolo. Non presi parte, però, alla ritirata che portò a Nikolajewka i miei compagni d’arme. Ferito sulla riva del Don mentre ero di pattuglia, dopo lunga degenza all’ospedale di Rossosch venni trasportato a Stalino ove un treno mi portò in Italia. Eravamo in linea all’estrema sinistra del Corpo d’Armata Alpino.

L’Edolo era in linea con la 50ª e la 51ª. La 52ª era di rincalzo. La sera del 4 novembre 1942 dal Comando di Battaglione (maggiore Belotti) venne l’ordine che la 52ª inviasse sulla riva del Don una pattuglia. La scelta della missione cadde sul 3^ Plotone (tenente Tomasi) 3^ Squadra (la mia). Si partì verso le ore 15, già era buio. Per arrivare sul luogo fissatoci bisognava passare attraverso le postazioni della 50ª. Tomasi incontrò il tenente Brambatti della 50ª che volle accompagnarci affinché non andassimo a cadere in qualche campo minato.

Con il tenente Brambatti uscì anche il caporal maggiore Donato Ballerini di Bienno (Brescia), pure della 50ª. In testa alla pattuglia Brambatti seguito da Tomasi, 14 uomini, il caporal maggiore Ballerini, io chiudevo la pattuglia. Giunti sulla riva del fiume il tenente Brambatti finiva in un campo minato e con lui il tenente Tomasi e tutta la pattuglia. Da quel momento scoppiò l’inferno. Un pattuglione russo, già sulla nostra sponda aprì il fuoco. I nostri della 50ª e 110^ fecero lo stesso.

Noi in quel lembo di terra di nessuno eravamo fra due fuochi con quasi tutti gli uomini fuori combattimento. Sparammo sul pattuglione che si ritirò. Ma in quella sparatoria anch’io rimasi ferito, e con me Ballerini e Rosati, gli unici fino a quel momento rimasti illesi. Quando nella notte avanzata tornò la calma arrivarono i portaferiti. Ma per il tenente Brambatti, Balduzzi, Ballerini e Rossi la guerra era finita. Per gli altri iniziava un nuovo calvario. Purtroppo non tutti ritornarono in Italia.

Quelli che tornarono (5 con me) per causa delle ferite morirono uno alla volta. Sono l’unico sopravvissuto di quella squadra. Invio due lettere che alpini dell’Edolo scrissero al loro parroco di Cividate Camuno (Brescia). Quelli che portano la croce da me fatta sono morti in Russia. Gli altri sono ancora viventi e risiedono in Cividate Camuno. 6 dicembre 1942.

Signor reverendo, vi ringrazio degli auguri che mi avete mandato, sempre desidero un vostro scritto. Ora essendo in questo posto non posso neppure alla festa partecipare alla S. Messa. Ma bensì il pensiero mi è sempre nella speranza del Signore che mi proteggerà fino al mio ritorno fra i miei cari. Ed intanto mi resta solo, con l’aiuto di Dio, la fierezza di difendere la nostra cara Patria e la nostra Fede. Inviandovi con sincero affetto buone feste Natalizie e buona fine e migliore capo d’anno, vostro parrocchiano Antonio Zandorri. Invio saluti e auguri buone feste S. Natale et un arrivederci presto pregate per noi. Caporale Remo Bonafini; Giacomo Menolfi Paradisi

Signor reverendo, mi vorrete perdonare del mio silenzio. La mia salute è ottima, come desidero per voi e parrocchiani. Da trincea a trincea abbiamo fatto passare la lettera e ognuno ha messo gli auguri delle sante feste di Natale e buona fine e buon principio d’anno, e spero che sia più migliore. Faremo di tutto a Natale, per prendere la santa Messa, benché nevica, e le palle fischiano. Ma sempre avanti fino alla vittoria. Spero presto tornare coi miei cari bimbi e famigliari e parrocchiani se il buon Dio vorrà. Termino inviandovi di nuovo buone feste a tutti. Sergente Stefano Damioli 5 gennaio 1943.

Signor reverendo, vengo a ringraziarlo con il profondo del mio cuore per l’affettuoso ricordo che anche lontano avete avuto per me. Questo, signor reverendo, è per me in queste lontane terre il più grande conforto per rendermi più forte nel mio spirito e con le vostre preghiere Dio mi darà la forza di sorpassare tutti questi duri ostacoli che ogni giorno si presentano. Ma con fede viva e con sicuro volere cercherò sempre di essere forte fino a quel giorno che forse non sarà lontano, che anche per me tornerà quella stella che brillerà luminosa nel mio cuore e nel cuore della mia famiglia.

Signor reverendo è passato il Santo Natale e il capo d’anno, vi assicuro che la mia fede non è venuta meno perché mi sono anche qui confessato e comunicato. Benché siano terre che da tempo non risuona la voce di Cristo perché molti di coloro non sanno chi sia il vero Dio. Ma noi soldati italiani abbiamo anche qui portato e dimostrato la nostra grande fede perché sicuri che con Dio raggiungeremo la vittoria. E Lui solo mi può salvare dai colpi nemici e far sì che venga presto quel giorno del beato ritorno per riabbracciare i miei cari che ansiosi mi attenderanno. Io signor reverendo lo ringrazio del caro ricordo e con questo le assicuro il mio buon stato di salute. Affettuosamente lo saluto riconoscente, alpino Pietro Damioli

Alpino Giovanni Zanoletti
52ª Compagnia, Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Sul fronte russo io ero portaordini della mia compagnia. Il 26 gennaio, già alle prime luci della mattina mi trovavo fermo sul costone che scendeva a Nikolajewka, mi era stata affidata una slitta con un mulo e portavamo avanti due alpini dell’Edolo, uno ferito e uno congelato che mi erano stati affidati con l’ordine di non abbandonarli mai. Le ore passavano, e si succedevano uno dopo l’altro gli attacchi degli altri battaglioni della Tridentina nel tentativo di vincere la resistenza e occupare il paese. Ma i russi erano molti, e bene armati, facevano un fuoco d’inferno sparando con cannoni e mitragliatrici e mortai da posizioni ben difese.

Mancavano ancora le altre compagnie dell’Edolo che in quella giornata erano rimaste di retroguardia alla colonna lunga molti chilometri, e tutti le aspettavano perché le forze erano ormai poche e i morti e i feriti erano molti, aumentavano sempre di più ad ogni attacco che si faceva. Mi ricordo il generale Martinat che per un pezzo sostò vicino a me prima di scattare anche lui all’assalto e morire. Ricordo il generale Reverberi sull’autoblindo, a gridare Tridentina avanti e trascinare tutti a un nuovo assalto. I due miei
alpini sulla slitta ogni tanto temevano che anch’io scattassi, e mi gridavano: Giovanni, non abbandonarci!

Finalmente nelle prime ore del pomeriggio corse la voce che stava arrivando tutto l’Edolo, e davvero a un certo punto vedemmo avanzare il nostro comandante del battaglione, maggiore Belotti, con la 50ª e la 51ª Compagnia, questo arrivo fece rinascere le speranze, si sentiva altissima la voce del maggiore Belotti che incitava tutti a stare uniti e pronti, e da sola rincuorava e dava forza e speranza mentre si attendeva l’ultimo attacco. Ricordo che anche i soldati tedeschi che erano fra noi gridavano con entusiasmo: “Avanti l’Edolo!”.

E anche l’Edolo finalmente si spiegò e attaccò con le forze che rimanevano della Tridentina, il maggiore Belotti con il suo battaglione diedero il contributo definitivo, Nikolajewka venne conquistata e la battaglia fu vinta. Adesso, a distanza di anni penso sempre con orgoglio e con tristezza a quei giorni e a quelle vicende, e ai tanti alpini miei amici fraterni che sono caduti lassù combattendo per aprire la strada a noi che ci salvammo. Penso soprattutto con dolore alla recente scomparsa del nostro comandante dell’Edolo Dante Belotti, al quale volevamo molto bene perché era un grande comandante.

E mi pare impossibile di non poterlo rivedere più, lo vedo sempre come l’ho visto ancora l’anno scorso, poco prima di morire, quando è venuto tutto allegro e sempre uguale come allora a casa mia a mangiare la trippa. Di uomini così ce ne vorrebbero tanti, per il bene di tutti, per l’esempio che sanno dare.

Capitano Giuseppe Maffessanti
Compagnia Armi Accompagnamento, Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Era di statura appena al di sotto di quella comunemente detta normale; era forte, tutto scatti tesi a fare sempre e bene e meglio nella cura del mulo che gli era stato affidato e per il quale aveva quasi un’idolatria. Non conobbi mai un conducente migliore di lui. Ne ricordo, con tutta chiarezza, la fronte già solcata dalla fatica oltre che dall’abitudine di corrugarla, quasi volesse imporsi una maggiore volontà; rivedo le sue gambe forti, leggermente arcuate, decisamente alpine; le rivedo muoversi in cadenza alterna con quelle del suo mulo, lungo le piste interminabili.

Venne un tempo che i conducenti furono comandati a dare di notte il loro aiuto agli alpini dei capisaldi avamposti per la costruzione di un fosso anticarro, laggiù, vicino al grande fiume e da allora, ogni volta che doveva lasciare il mulo nel comune rifugio, affidato alle cure altrui, il buon Pietro partiva con mal celata apprensione per un segreto timore che al suo amico venissero a mancare le cure cui egli ormai l’aveva abituato.

Si sa, pericoli ce n’erano sempre ed ovunque; magari un’imboscata o semplicemente un banale involontario calcio del vicino. Non c’era sicuramente da temere per le mosche o i tafani poiché si era d’inverno ed il mercurio del termometro non poteva certo scendere oltre… il bulbo; tuttavia serpeggiava anche tra i quadrupedi, ogni tanto, un nervosismo diffuso. Forse anche loro pensavano al foraggio odoroso e saporito, ai bei tempi di Alpignano; poi qui, invero, le scuderie sapevano di forestiero; non era il loro odore insomma, e ci voleva tempo per abituarvisi.

E per le stesse ragioni e tante altre ancora, pure gli alpini, talvolta, non si sentivano ben disposti a somministrare, con le biade, quelle parole morbide che i muli dimostrano sempre di saper tanto apprezzare e per le quali sanno essere riconoscenti a luogo e a tempo, quando cioè l’odor di stalla è solo un dolce ricordo e ad esso si è improvvisamente sostituito quello acre della battaglia.

Erano questi i pensieri che accompagnavano il mio bravo conducente quando si dirigeva verso il vallo in costruzione per la difesa di tutti dopo aver ripetuto ogni sera, quasi come un rito, il commiato dal suo amico: una sonora carezza sul dorso, uno sguardo di benevolenza ed un complimento nel gergo nostrano. E una sera, eravamo a dicembre, i picconi rimbalzavano furiosamente sull’argilla diventata dura come la pietra e le scintille che ne uscivano brillavano maggiormente nella completa oscurità di un cielo coperto: sembravano fuochi fatui.

Dall’altra sponda del fiume le pallottole traccianti arabescavano il cielo con la loro fosforescenza. Alcune, dopo aver descritto una parabola sopra le nostre teste, andavano a configgersi sul frontale di una chiesa e si spegnevano a mano a mano, come fiammelle votive. Era vicino il Natale e quel cielo, solcato da quei lumi, era il nostro grande albero… La ridda fosforescente s’interruppe come per incanto due ore dopo la mezzanotte; allora il lavoro si fece più alacre per quel senso di maggior sicurezza che prendeva ciascuno di noi. E qualche battuta fu scambiata fra gli alpini che, lenti ma decisi avanzavano nella loro ciclopica impresa.

Si sentiva molto lontana, laggiù, assai fuori del nostro settore, una mitragliatrice che borbottava con pedante intermittenza, simile ad un latrato uggioso che poteva infastidire senza dare timore. Poco prima che terminasse il turno di quella squadra, il sommesso parlottare degli alpini ed il rumore degli attrezzi si spensero improvvisamente come se fosse passata una parola d’ordine. Volli accertarmi di questo insolito fatto avviandomi verso il punto dove il silenzio e l’immobilità dei miei alpini mi avvertivano che qualcosa di tragico era avvenuto.

Pietro, appoggiato alla parete del camminamento che lui stesso aveva fatto profondo per l’immediata protezione, era privo di vita. La pallottola assassina, forse l’unica giunta a noi da quella mitragliatrice lontana, gli aveva fermato il pensiero e le membra colpendolo al centro di quella fronte corrugata. Il compagno di lavoro accortosi dell’immobilità insolita del vicino, lo aveva scosso ed incitato all’azione ben sapendo che cosa significasse lo star fermo con quei 40^ sotto zero. Ma ormai non aveva più da temere il freddo nel gelo della morte.

Faticai un poco a rianimare gli alpini ammutoliti dinanzi al primo di loro che era caduto; dovetti scuoterli e richiamarli alla dura realtà della guerra, quella guerra che poco tempo dopo si palesò nella crudezza più spietata. Due portaferiti sollevarono quel corpo già irrigidito che pur conservava ancora l’atteggiamento dell’azione che stava compiendo e, depostolo con la soave delicatezza, propria delle mani ruvide di forti soldati, sul telo grigio della barella, lo trasportarono su per la balka per affidarlo all’ultima pietà del cappellano.

Il lavoro notturno volgeva ormai al termine. Dietro ai portaferiti mi avviai verso il comando di battaglione dove ogni mattina mi recavo a relazionare sugli avvenimenti della notte. Quanto silenzio sul sentiero del fondobalka! I due alpini portatori faticavano a reggersi sulla pista di ghiaccio e ad ogni mossa brusca l’elmetto ed il moschetto dell’alpino morto urtavano il legno della barella. Primo caduto della 110^ Compagnia: alpino Pietro Curnis…

A Nikitowka, il 25 gennaio, un sole luminoso e quasi caldo schiuse gli animi a speranze da tempo sopite; alcuni aerei volavano bassi sopra le nostre teste lasciando cadere con i paracadute, armi e viveri destinati, come sempre solamente ai reparti tedeschi. Un forno ove si confezionava pane per le truppe russe venne preso d’assalto da un gruppo di artiglieri; due dei civili russi che vi lavoravano tentarono inutilmente la fuga su per il fumaiolo; vennero risparmiati; così buffi e neri di fuliggine tramutarono il dramma in farsa.

Si videro presto molti soldati che addentavano con la medesima voracità sia le grosse pagnotte asportate sia le forme tonde del panello per le bestie. Altri, dopo aver fatta piazza pulita in alcune arnie, brandivano telaini carichi di miele, di cera e di api assiderate. Spirava un’aria di vigilia. Un soldato mi porse una latta contenente una specie di ricotta e, strada facendo, consumammo insieme quel prodotto acido scambiandoci poche parole; mi
disse che la sua squadra la teneva ancora in pugno con il pezzo anticarro efficiente e con al sèguito una slitta carica di munizioni, di coperte e di alcuni feriti. Gli mancavano due uomini che credeva finiti nel rogo di un’isba.

Soltanto dopo che si tolse dal viso la maschera di ghiaccioli fatti di peli, di fiato e di gelo, riconobbi nel soldato il sergente Ulisse. Al termine di un’estenuante attesa lungo la strada del fondo balka, riuscii, grazie ad una disciplina provvidenzialmente impostaci nonostante il marasma incalzante degli sbandati, ad occupare, all’estremità del paese, le poche isbe assegnate alla mia compagnia. Intanto si era fatta notte un’altra volta. Disposto un turno di sentinelle ci lasciammo andare su un pezzo di terreno con tutto il peso della stanchezza e del sonno.

Ma tutt’attorno a quella umanità sfinita, s’annidava, vigile ed invisibile, un nemico; erano truppe regolari e partigiani, forti e decisi a chiuderci definitivamente nel cerchio di ferro. Da piccole alture, ai primi incerti chiarori di un’alba che i sopravvissuti non dimenticheranno mai, spuntava l’alba del 26 gennaio 1943, l’alba della giornata di Nikolajewka; si sprigionò, improvviso e violento, il carosello dei mortai in tutta la gamma dei calibri.

Poi, nel mezzo degli scoppi resi più mortiferi dalle schegge di suolo ghiacciato, si inserì il crepitio secco delle mitragliatrici carrellate; una raffica più rabbiosa raggiunse alcuni alpini mentre tentavano di superare un fosso. Vengono inchiodati contro la crosta di neve. Mi pare ancora di vederli nella loro immobilità quasi grottesca, già fatti piccoli dal gelo.

Ah, i maledetti mortai! Non vedi nulla, non senti nulla; quando senti qualcosa è irrimediabilmente tardi e, se ti trovi sotto il loro tiro, ti cercano, ti scovano, ti inseguono; ordigni che hanno esasperato i nostri sensi oltre ogni limite, ovunque allo stesso modo, sulle Alpi, in Albania, in Russia; ad ogni colpo corrisponde uno schianto che lacera i nervi, ogni colpo crea una corolla bianca, fatta di ghiaccio e di neve e di scheggioni che miagolano…; dopo un poco osservi che la bianca distesa è cosparsa di macchie e ad ogni macchia corrisponde indubbiamente la sagoma scura di un alpino caduto.

Superati alcuni attimi di smarrimento e contenuto lo sbandamento dei quadrupedi, ci preparammo a superare il passaggio obbligato del ponte su un torrente. Bisognava passare ad ogni costo sul ponte di legno già preso di mira da una mitragliatrice dannata che rimaneva invisibile. Non si poteva fare altrimenti. Ci distanziammo, cercando protezione a ridosso dei muli. La 110^ Compagnia, lenta nei movimenti a causa dei pezzi e dei muli che sprofondavano nella neve, offrì, prima fra le compagnie dell’Edolo, che era di retroguardia a tutta l’interminabile colonna, il suo contributo di sangue.

Il pezzo della squadra del sergente Ulisse precipitò, col mulo colpito da una raffica, nel mezzo del torrente gelato; il sergente Ulisse rimase ferito, gravemente. La notizia corse rapida lungo la sconvolta colonna degli alpini; tutti ripeterono: “Il sergente Ulisse è ferito!”. Sembrava una parola d’ordine che racchiudeva in sé il proposito di farla finita con quella mitragliatrice di cui si scorgevano finalmente le fiammelle. Pochi colpi perforanti ben aggiustati contro l’isba dove era annidata l’arma, la misero a tacere… Il sergente fu deposto su quella slitta che seguiva il suo pezzo.

Sul viso del compagno vicino, ciascuno misurò il proprio sgomento. Con uguali sentimenti
tutti pensavano a lui, alla sua bontà, al suo coraggio, alla sua purezza di cuore; tutti gli volevano bene più di quanto se ne può volere al fratello, tutti gli alpini della compagnia amavano chiamarlo semplicemente “sergente Ulisse”. La battaglia continua. Poco lontani da noi, sulla sommità di un appiglio tattico, undici ufficiali e tanti, tanti alpini del Tiràno, urtando contro una barriera di fuoco, cadono tutti da eroi. Più a nord i battaglioni del 6^ Alpini si dissanguano in ripetuti attacchi contro la più agguerrita roccaforte avversaria.

Il combattimento divampa ormai tutt’attorno; è il preludio di Nikolajewka. Durante una delle più cruente fasi di quella battaglia, il sergente Ulisse, che consapevole della gravità di una ferita in quei momenti, sente ormai prossima la fine, chiede di poter vedere il suo capitano. A lui che in quel momento riassume ogni affetto ed ogni richiamo alla patria, rivolge la sua ultima parola ed il suo ultimo sguardo. Al tramonto, davanti alle porte di questa città che stanno per schiudersi al ritorno dei superstiti, in una ridda diabolica di fuochi incrociati sopra la fluttuante marea umana che precipita sul nodo ferroviario, il sergente Ulisse, nuovamente colpito, raggiunge la schiera di eroi che l’hanno preceduto.

La steppa non renderà mai le sue spoglie perché essa è più crudele del ghiacciaio, più crudele dello stesso mare che talvolta riporta a riva i corpi strappati alla vita. Ma noi ancora oggi ti ricordiamo tutti, sergente Ulisse! E quelli che più di tutti hanno voluto onorarti sono i tuoi compagni che hanno condiviso le tue sofferenze: quelli che, consumatisi ancora in altre battaglie e poi nei Lager germanici, hanno potuto rientrare alle loro case per riprendere il lavoro duro della miniera o dei boschi, della fabbrica o dei campi.

Essi sono accorsi un giorno al paese dove tu hai lasciato i tuoi genitori. Ivi una via porta il tuo nome e ricorda il tuo sacrificio. Là i tuoi compagni d’arme ti hanno ritrovato ed esaltato nel loro ricordo. Nella casa che non ha visto il tuo ritorno, appeso ad una parete, brilla il segno del tuo valore. Davanti ad esso, come davanti ad un altare, qualcuno prega. Usciti dal pauroso sbandamento di Nikitowka i reparti si ricompongono e marciano in colonna forzando a stento l’ostacolo degli sbandati. Sono uomini senza reparto, privi di armi, inerti, senza colpa per questo loro stato; tuttavia nessuno li vuole accogliere e vengono ricacciati spietatamente ai margini delle piste.

Il continuo addensarsi della incoercibile orda è causa di numerose ed estenuanti soste e per creare un varco onde riprendere il cammino, mai come ora estremamente necessario, non resta altro mezzo che l’uso delle armi. Le leggi della guerra sono sempre così crudeli! Per alcune ore il procedere è di una lentezza esasperante, a singhiozzo. L’Edolo che è di retroguardia, ha davanti a sé il Tiràno, il battaglione che ha copiosamente arrossato con il suo sangue le bianche alture di Arnautowo.

Più avanti, oltre la cortina umana ed al di là di un vasto colle, i battaglioni del 6^ sono da tempo in sanguinoso contatto con il più agguerrito dei capisaldi russi. Laggiù, oltre quel colle ed al di là di una ferrovia, è Nikolajewka, la città di fronte alla quale gli alpini della Tridentina, nella chiara giornata del 26 gennaio 1943, affrontano e superano l’undicesimo
combattimento, l’ultimo in dieci giorni e dieci notti di inferno bianco lungo un percorso di trecento chilometri. Oltre quella città rimarranno ancora da percorrere quegli altri interminabili quattrocento chilometri di steppa nevosa ed ostile lungo i quali i nostri compagni cadranno ancora a migliaia per il gelo, per gli stenti, nuovamente accerchiati, incolonnati per una marcia senza ritorno.

Alcuni colpi di artiglieria russa provocano spostamenti subitanei ed improvvisi nella massa. Un colpo più centrato avvolge nel fumo alcuni alpini che erano intenti a soddisfare certe loro necessità; vengono poi osservati miracolosamente illesi in atteggiamento attonito e buffo. I motti di scherno a loro rivolti e le risate isteriche collettive si smorzano presto alla vista di due soldati ungheresi che, pur a distanza insospettabile, giacciono di già
riversi, là sulla neve, uccisi dalle schegge di quello stesso colpo. Erano anziani, parlottavano fra di loro, sicuramente dei loro figli, delle loro case…

“Avanti Edolo”, gridano con voce rauca le staffette portaordini, “fate largo all’Edolo”, gridano imprecando i più animosi, “Edolo avanti” urla il maggiore Belotti. E quando il battaglione dalle nappine verdi, già copertosi di gloria nelle battaglie di Bassowka, di Skororib, di Scheljakino, fa la sua irruente comparsa alla sommità dell’altura, allora avviene il miracolo senza del quale la moltitudine composta di decine di migliaia di uomini si sarebbe ridotta ad una ecatombe di morti e ad una colonna senza fine di prigionieri.

Preceduta dall’unico carro armato sul quale si agita la figura del generale Reverberi una prima colonna di uomini, al grido di “Tridentina avanti”, precipita verso la ferrovia; a quella poi si affiancano una seconda colonna ed ancora una terza. Le artiglierie russe sparano con alzo a zero sul facile bersaglio della piena in movimento. Ogni altra arma avversaria fa breccia sicura ovunque e con qualsiasi alzo venga puntata. Grida di dolore si alternano a quelle di incoraggiamento ed a quelle di raccapriccio.

Cadono a centinaia i soldati d’Italia e davanti a loro, eroi sconosciuti di un’epopea che forse non si ripeterà mai più sulla terra, cadono gli ufficiali, nella ferma decisione di aprire a tutti la via della salvezza. Si innesta rabbioso il mitragliamento e lo spezzonamento degli aerei comparsi improvvisamente nel cielo della battaglia, uomini e muli e cavalli e cannoni
sprofondano nella neve, le slitte sfuggono ad ogni controllo e si rovesciano disperdendo il carico dei feriti, ciascuno cerca istintivamente protezione camminando vicino al compagno.

Poi, come giganteschi tentacoli, altre colonne si formano di nuovo e dilagano per il pendio cosparso ovunque di corpi già irrigiditi dalla morte e pietrificati dal gelo. Il bastione della ferrovia è raggiunto, la piena preme sempre di più lungo quell’unica posizione defilata. Un ultimo balzo in avanti allo scoperto ed eccoci alle prime case ove si ripete il carosello dei corpo a corpo in una rovente atmosfera di mille episodi di singolo valore che mai nessuno potrà descrivere.

Parecchi dei nostri compagni, fatti prigionieri dai russi nei giorni antecedenti ed asserragliati in capannoni alla periferia della città, hanno assistito, trepidi ed impotenti, alla battaglia nelle sue alterne vicende del mattino ed ora si riuniscono a noi mentre anche il sole insanguina, al tramonto, quel vasto campo di morti e di feriti. La notte, cadendo improvvisa, ci porta via dallo sguardo quegli orrori e quei dolori. La stanchezza ci vince con un sonno breve ed interrotto dai ripetuti crepitii di armi automatiche che ancora, per tutta la notte, frustano i nostri nervi già duramente provati durante la sanguinosa giornata…

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