a cura di Cornelio Galas
Hopkins disse una volta, durante i primi anni del New Deal: “Se vuoi fare strada a Washington, non perdere tempo a coltivare i favori dei pezzi grossi. Fatti amico dei fattorini. Sono i veri factotum. Se ti occorre qualcosa da un Dipartimento, ti devi rivolgere a loro. Se gli vai a genio, arriverai diritto all’uomo che ti serve. Se no, passerai da un ufficio all’altro e seguiterai a correre senza costrutto finché sarai stanco e confuso e avrai dimenticato quello che volevi chiedere”.
Durante la guerra, Hopkins abitò alla Casa Bianca e diceva spazientito ai sollecitatori più insistenti: “Ma perché venite da me a parlare di queste cose? Io non sono più che il fattorino qui”. Sono certo che egli non credeva di contraddirsi: ma la contraddizione con quanto aveva detto prima è evidente. Si può dire che Hopkins era diventato là dentro, per sua definizione, il capo fattorino.
Era l’intermediario diretto fra il Presidente e i vari organi dell’amministrazione effettiva, specialmente il ministro della Guerra e l’emissario più fedele di Roosevelt nei contatti con i dirigenti stranieri. (Un funzionario inglese mi disse un giorno: “Abbiamo finito quasi con il persuaderci che Hopkins è il ministro degli Esteri di Roosevelt!”). Egli agiva anche da paraurti e da freno. Alleggeriva Roosevelt del peso di tutte o quasi le questioni d’ufficio: uno dei suoi più frequenti intercalari era questo: “Ma guarda un po’ che il Presidente dovrebbe essere oppresso da tutte queste stupidaggini, se no ci badassi io!”.
Ciò, naturalmente, dava ombra a più di una persona e faceva andare d’accordo amici e nemici di Roosevelt nel dir male di Hopkins. Ickes, per esempio, che da dieci mesi non riusciva ad avere un colloquio con il Presidente, se la prendeva con lui, come se Hopkins avesse voluto vendicarsi.
Fosse giusto od ingiusto questo, era certo un conforto per Roosevelt avere vicino a sé un uomo dalle “spalle grosse”. Né si può dire che Hopkins non avesse ragione di lamentarsi per l’incarico poco simpatico che gli toccava. L’avervi perseverato è un bell’esempio di lealtà e di amicizia in Roosevelt, che egli servì sempre con slancio e devozione assoluta.
Come scrisse Childs:
Se un bel giorno il Presidente avesse detto all’amico e confidente Harry Hopkins che per il bene del Paese, bisognava buttarsi giù dall’alto del monumento a Washington, non ci avrebbe pensato né uno, né due.
Se poi dovesse buttarsi con il paracadute o senza, questo sarebbe dipeso unicamente dalla volontà del Presidente, che Hopkins avrebbe conosciuta certamente, perché la sua occupazione era precisamente di interpretare, d’intuire, prevenire, spesso anticipare – azzeccandoci quasi sempre – i pensieri di Roosevelt.
Ne fece una carriera che lo portò dalla routine dell’assistenza sociale ai più alti vertici della diplomazia, in cui ebbe la più chiara percezione degli avvenimenti che stavano maturando e di cui la storia dirà che fu attore e personaggio di primo piano.
Essere il confessore e il divinatore dei pensieri di Roosevelt non gli costava gran che. Viveva alla Casa Bianca e non aveva che da scendere le scale e attraversare in vestaglia la hall, per entrare nella stanza del Presidente e chiedere quali fossero i suoi desideri e le sue intenzioni su un dato problema, per comportarsi poi secondo le risposte, senza dover rivelare a nessuno che sii faceva guidare non dal suo giudizio o pregiudizio personale, ma dalle espresse istruzioni di Roosevelt.
Il quartierino occupato da Hopkins era un appartamento del secondo piano della Casa Bianca, sul lato sud-est. Consisteva in una vasta camera da letto con un enorme letto massiccio e una stanzetta adibita dapprima ad ufficio della segreteria di Hopkins, con un piccolo bagno.
L’intero appartamento era stato in origine un’unica stanza con tre alte finestre che davano sul lungo viale verso il monumento a Washington, il mausoleo Jefferson e i colli della Virginia. Era stato lo studi di Abramo Lincoln e sopra il camino c’era una targa che ricordava appunto come là dentro fosse stato firmato l’atto di emancipazione. La si considerava la migliore stanza degli ospiti ed era stata assegnata a Giorgio VI quando era venuto in visita nel 1939.
Uguali appartamenti erano su ciascun angolo del secondo piano. Nell’angolo sud-ovest, la sala più grande serviva da salotto alla signora Roosevelt e la più piccola era la sua camera da letto.
L’appartamento a nord-est era pure riservato agli ospiti. Vi dormì la Regina Elisabetta ed era stato particolarmente decorato per l’occasione di bellissime stampe della Corte della Regina Vittoria. Fu anche la stanza da letto di Winston Churchill, durante le visite negli anni di guerra: ottima per lui, perché era sullo stesso lato e attigua a quella di Hopkins.
Il secondo piano era attraversato da est a ovest da un lungo andito, scuro e lugubre. Il lato est, non so per quale ragione, era rialzato di qualche gradino sul lato opposto e lungo la rampa era stata distesa una passatoia di linoleum per permettere al Presidente di salirvi e discendere con la sua carrozzella.
La sala centrale era ammobiliata senza ordine né stile. C’erano bassi scaffali di libri per lo più moderni, offerti a Roosevelt dall’Associazione Librai Americani, gli unici che ci fossero alla Casa Bianca, la quale non possedeva di suo altra libreria.
Sopra gli scaffali erano appese cornici d’argento, con fotografie di teste coronate, la maggior parte delle quali ormai senza regno. Vi si poteva fare del cinema tirando un telone da una parte all’altra e impiantando un apparecchio di proiezione (prima che venisse costruita una sala cinematografica lungo il colonnato che conduceva al lato est, all’esterno dell’edificio).
Il lato ovest, chiuso in parte da uno spesso tendone e da alcune palme in vaso, serviva alla signora Roosevelt per i suoi tè e qualche volta vi pranzava anche il Presidente per trovarsi tra i suoi e con il proprio personale.
Sul lato sud, vicino alla camera di Hopkins, c’era un altro salottino mal aerato, che era chiamato la “stanza di Monroe”, perché è qui che egli aveva scritto la famosa dottrina. E vicino ad esso, la studio ovale del Presidente, da cui si andava nella sua camera da letto e nel bagno. Partendo dallo studio, a nord, vi erano due stanze da letto più piccole, ciascuna con bagno, occupate di solito da Sam Rosenman e da me quando venivamo alla Casa Bianca.
Sulla parete della, diciamo così, mia stanza, vi era l’originale di un disegno a colori, apparso credo, nell’Esquire. Mostrava l’esterno di una casa suburbana. La madre era sul portico a terreno. Una bimba ne richiamava l’attenzione, indicando un birbantello che scriveva sul muro con diabolica malizia: “Guarda mamma! Wilfred scrive una parolaccia!” e la parola era “Roosevelt”.
Prima di mettere piede alla Casa Bianca, m’ero immaginato che essa fosse tutta ammobiliata come al piano terreno e vi si dovesse vivere come in un museo. Ma non era così.
Pareva che ogni famiglia che vi fosse passata avesse portato una nota personale, cambiando di posto le cose secondo i propri gusti, trasformando una camera da letto in un ufficio o viceversa e mutando non solo l’apparenza, ma la stessa atmosfera dell’ambiente.
Lo studio ovale del Presidente – che era il “centro” di tutta la nazione e in un certo senso, del mondo intero – durante tutta l’amministrazione Hoover, che l’aveva preceduto, era servito a tutto fuorché da sala di ricevimenti ufficiali.
Sulle pareti vi era una grande quantità di vecchie stampe di mare, ritratti della madre di Roosevelt e della moglie: e vi troneggiava un orribile organo meccanico a canne, giuntogli in regalo, ma su cui nessuno aveva mai posto le mani.
Il “modernismo” di Franklin e di Eleonor Roosevelt non giungeva certo fino all’arredamento della casa. Non andavano molto d’accordo con le moderne tendenze americane, per cui le tendine e i mobili in genere, hanno prima un ufficio ornamentale e poi pratico, né importava loro granché di conservare una certa uniformità di stile, nella linea o nei colori dei mobili o della tappezzeria.
Per loro, una sedia era un oggetto su cui ci si dovesse sedere e l’importante era che fosse comoda, una tavola un mobile su cui appoggiare gli oggetti e la parete un muro da coprirsi con il maggior numero di quadri di valore sentimentale.
Così le stanze occupate dal Presidente e dalla signora Roosevelt alla Casa Bianca, divennero più o meno, la copia fedele delle stanze di Hyde Park, che sembrava essere rimaste quelle che erano cinquant’anni fa, salvo qualche ampliamento resosi necessario per far posto ai bambini, ai ponies, o alle barche a vela.
Le altre camere da letto del piano superiore della Casa Bianca, potevano benissimo essere scambiate per quelle di un rispettabile e vecchio albergo estivo e qualcuna pareva perfino un relitto di qualche mostra dell’artigianato.
Ma benché l’aspetto di quelle stanze potesse provocare un moto d’orrore in qualsiasi decoratore del scuola del Petit Trianon, o della scuola d’Adam, del vecchio stile americano o del rococò e del moderno nazionale, vi aleggiava tuttavia, un senso di spontanea comodità e anche di liberalismo democratico.
Molte erano buie come gli appartamenti a sud, dove la luce del sole non entrava, perché n’era impedita dal colonnato antistante e da grossi alberi, ma la luce che mancava alla Casa Bianca era compensata più che a sufficienza dal calore dell’ospitalità.
Vi aleggiava una simpatica atmosfera provinciale e cortese che si apprendeva a tutti i membri del vasto personale, senza escludere gli uomini del Secret Service, di solito arcigni e sospettosi e le guardie armate in uniforme. Vi sentivate davvero ben accolti e subito a vostro agio.
Al terzo e ultimo piano vi erano più camere per gli ospiti, molto usate come sfogo dei nipoti a Natale o in altre feste familiari: e c’era una piccola stanza da letto con salottino, per Missy LeHand. Era per noi che lavoravamo alla Casa Bianca, un piacevole luogo di rifugio e di riposo.
Missy era una cara persona ed una donna estremamente intelligente; l’artrite deformante che la colpì improvvisamente nel 1941 e la morte che ne seguì, furono due gravi colpi per il Presidente.
Roosevelt inizia la sua giornata, facendosi portare la colazione a letto; indossava abitualmente una vecchia maglia azzurra sopra il pigiama e una cappa pure azzurra con in rosso il monogramma F.D.R.
Vestiva la cappa perché indossare un accappatoio era troppo difficile per lui e per la stessa ragione fuori casa nella stagione fredda portava il mantello, invece del solito pastrano.
L’usciere di sevizio – Crim, Searles o Claunch – gli portava i dispacci della mattina e la nota delle udienze ufficiali, cosa che in tempo di pace basta a rovinare lo stomaco più forte e abbattere il carattere più tenace e che egli abbandonò volentieri durante la guerra.
Mentre faceva colazione dava una scorsa ai dispacci e leggeva rapidamente, ma accuratamente i giornali di Washington, leggeva il Chicago Tribune, il New York Times, l’Herald Tribune e il Baltimore Sun.
Per parecchi anni gli amici tentarono di sconsigliargli la lettura del Chicago Tribune, ma non cedette, perché voleva sapere il male che dicevano di lui.
Finita la colazione entravano i membri privati del suo personale – erano di solito il generale Edwin Watson, Stephen T. Early, Marvin McIntyre, William D. Hassett, Rosenman e Hopkins – per discutere il programma di lavoro della giornata (appuntamenti, conferenze stampa, ecc.). veniva pure il medico di fiducia del Presidente, ammiraglio Ross T. McIntyre, per seguire da vicino le condizioni di salute.
Queste riunioni mattutine erano assai fruttuose, perché egli conosceva così bene i suoi aiutanti e questi conoscevano bene lui, che non avveniva nessun battibecco e si prendevano le disposizioni nella più perfetta armonia. Comprendevano di solito, di primo acchito l’umore del Presidente e sapevano trarne gli indizi per la giornata.
Quando lasciavano la stanza, li si poteva sentir mormorare: “Dio scampi e liberi quelli che oggi gli chiederanno dei favori!”, oppure “Sta così bene da essere persino capace di dire a Cotton Ed Smith che il sud può ribellarsi quando vuole e tirare avanti per conto suo”.
Oltre ai suoi segretari, c’era poi una fitta schiera di assistenti dell’amministrazione, gruppo anonimo e mutevole, di cui fecero parte, volta a volta, James Forrestal, James Rowe, Davide K. Niles, Lauchlin Currie e Jonathan Daniels.
Il loro compito consisteva essenzialmente nel raccogliere informazioni e nel condensarle e riassumerle ad uso del Presidente.
Essi non godevano di alcuna autorità ufficiale presso nessun ente o Dipartimento ed avevano l’assoluto divieto di interferire fra il Presidente e qualsiasi altro funzionario governativo. La miglior descrizione degli incarichi di questi assistenti – noti per la loro “passione per dell’anonimato” – è stata fatta da uno di essi, il Daniels, nel suo libro: Frontier On The Potomac.
L’impiegato più in vista della Casa Bianca era Rudolph Forster, che, con il suo assistente e successore, Maurice Latta, era responsabile della tenuta dei documenti e della corrispondenza e dirigeva tutto il vasto servizio della cancelleria. Tanto Forster quanto Latta erano alla Casa Bianca fin dalla amministrazione McKinley.
I singoli Presidenti andavano e venivano, ma loro due restavano e le dozzine e le centinaia di documenti di Stato, leggi, decreti, nomine, continuavano ad essere archiviati , firmati e distribuiti giornalmente.
Fu un gran momento per Roosevelt quello in cui, mentre partiva per un viaggio di propaganda elettorale, nell’ottobre 1944, venne da lui Forster e gli strinse forte la mano, con l’aria di uno che violava tutti in una volta i dieci comandamenti, ma era pronto a subirne le conseguenze, augurandogli buona fortuna.
Poi Forster uscì dal proprio ufficio e fece di gran cenni di saluto alla macchina del Presidente, che si metteva in moto. Roosevelt ne fu commosso e disse: “È forse la prima volta che Rudolph esce dal suo riserbo e mi parla come ad un essere umano e no a uno dei tanti Presidenti”.
Del resto tutti alla Casa Bianca potevano considerarsi parte del “personale privato” del Presidente e non di un ram o di un determinato ufficio. Ecco perché, prima del 1939, Roosevelt non ebbe nessun organo esecutivo vero e proprio. Non c’era nessuno fra lui e i vari funzionari del Gabinetto, a fare da intermediario.
Si dovrebbe ritenere che il Vice-Presidente assolva le funzioni di delegato del Presidente di suo capo di stato maggiore; la Costituzione prevede tuttavia che il Vice-Presidente assuma la presidenza del Senato e che le funzioni e i poteri presidenziali gli siano attribuiti soltanto in caso di morte, di dimissioni o d’incapacità ad assolvere, da parte del Presidente tali funzioni e poteri.
L’evanescente figura del Vice-Presidente faceva sì che la gran matassa dell’amministrazione dovesse venir dipanata tutta direttamente dal Presidente, il quale era privo di ogni strumento costituzionale che gli facesse da “intermediario” con i dieci membri del Gabinetto e con le dozzine di capi di enti e missioni che facevano capo direttamente a lui e si mostravano raramente disposti a fare qualche passo importante senza la sua autorizzazione scritta.
Quando nasceva un contrasto tra due Dipartimenti, toccava al Presidente risolverlo, basando il suo giudizio sulle informazioni ufficiali che gli potevano venire soltanto dalle parti in contrasto (ciò non escludeva, naturalmente, che assumessero altre informazioni dalla stampa o dagli amici più in contatto con la “vigna” di Washington).
Era un sistema che non sarebbe esistito in nessun grande organismo privato bene amministrato. Quando il Dipartimento “A” chiedeva un’assegnazione di 300 milioni di dollari e il Dipartimento “B” protestava perché l’esagerazione della richiesta avrebbe indotto il Congresso a falcidiare analoghe richieste da esso avanzate per 100 milioni, il Presidente si trovava in un bel impiccio a dover decidere, valendosi solo dei bilanci dei due Dipartimenti e dovendo analizzare fino all’ultimo centesimo le rispettive esigenze.
Naturalmente poteva passare l’incarico al Dipartimento del Tesoro, ma poteva darsi che proprio questo fosse uno dei due Dipartimenti in lite; e se non lo era e decideva a favore di “A”, allora “B” poteva appellarsi, come s’appellava spesso, al Presidente.
Nel 1938 Roosevelt aveva proposto una radicale riorganizzazione del Gabinetto allo scopo “di rendere più efficiente l’esecutivo ed evitare ogni interferenza o doppione”, come spesso capitava, degenerando negli abituali conflitti di competenza tra Dipartimenti e fra funzionari.
Ma la proposta del Presidente non incontrò fortuna, perché il suo prestigio era allora molto in ribasso dopo la vana lotta e la tentata epurazione della Corte Suprema.
Non si era ancora finito di gridare e di urlare “Vuol fare il Dittatore!” e il Presidente non otteneva ascolto se protestava: “Ho troppa esperienza di vita e di storia per desiderare d’imporre una qualsiasi forma di dittatura in una democrazia come quella degli Stati Uniti”. Venne sconfitto dal Congresso e solo l’anno dopo trovò il modo di varare un parte del progetto.
L’8 settembre 1939, contemporaneamente alla proclamazione di un periodo di “limitata emergenza nazionale”, il Presidente poté diramare anche un decreto, che passò stranamente inosservato alla stampa e di cui nemmeno il popolo americano comprese a pieno tutta l’importanza.
Si riorganizzava, infatti, su nuove basi l’ufficio esecutivo del Presidente, trasferendovi, dal Dipartimento del Tesoro, l’ufficio del Bilancio. Era certamente una riforma decisiva.
Nel direttore del Bilancio egli si procurava un funzionario d’amministrazione che aveva dietro a sé una larga e potente organizzazione ed era responsabile solo di fronte a lui dell’andamento della cosa pubblica.
In pari tempo, i suoi doveri non si limitavano alla buona tenuta dei registri, ma aveva l’incarico di tenere informato il Presidente dell’attività degli altri enti del Governo, riguardando a nuove iniziative, a lavori in corso o condotti a termine.
L’ufficio del Bilancio, di cui era direttore Harold Smith, poteva e doveva mandare agenti in ogni Dipartimento del Governo e presso ogni missione americana all’estero o su teatri d’operazione, per riferire esattamente al Presidente come si spendessero le somme, da chi e con quali risultati.
L’ufficio era insomma una specie di Intelligence Service personale del Presidente, o, come fu anche chiamato da qualcuno con una punta di ostilità, “la sua Gestapo privata”.
Harold Smith ha detto: “Prima che sorgesse questo ufficio, la casa Bianca mi sembrava una sorta di residenza coloniale in cui viveva e lavorava l’individuo più potente della più potente nazione della terra. Ma questa residenza aveva pilastri di dubbia consistenza come l’ufficio esecutivo, su cui poggiava assai instabilmente il peso di tutta l’opera del nostro potentissimo personaggio.
Quando ebbe vita il nostro ufficio, fu un’altra cosa, perché riuscimmo a puntellare saldamente la costruzione e ad innalzare una nuova ala moderatamente ammobiliata e disimpegnata, per assolvere parte del lavoro. Ci sarebbe ora da costruire un’altra ala e credo che Roosevelt vi avrebbe pensato se avesse avuto il tempo necessario per condurre a termine il proprio compito”.
Harold Smith morì di esaurimento nel gennaio del 1947, ed io non sono mai riuscito a sapere da lui che cosa volesse dire con “l’altra ala” ancora da costruire. Mi pare, tuttavia, che non sarebbe fuori di luogo interpretare il suo pensiero, nel senso di regolarizzare per legge le funzioni che erano state improvvisate per Hopkins nei rispetti di Roosevelt.
Fra i due, Hopkins e Smith, non vi fu mai un’intimità molto stretta, perché il primo era del tutto indifferente ai problemi finanziari di cui si occupava Smith. Ad uno come lui, cui piaceva avere tutto in ordine, la genialità e l’improvvisazione di Hopkins non potevano andare a genio e Hopkins non capiva il desiderio di Smith che i conti tornassero sempre fino all’ultimo centesimo.
Ma avevano molto rispetto uno dell’altro e i pochi contrasti che ebbero non furono mai tali da dare la minima preoccupazione al Presidente. Secondo Smith, le funzioni di Hopkins erano quelle di un ministro senza portafoglio – una posizione cioè che chiedeva l’urgente ratifica del Congresso – quelle di un capo di Stato maggiore civile senza stato maggiore, ma con costante accesso presso il Presidente e una indubbia influenza su di lui; di un consigliere politico, libero da particolari interessi e preconcetti d’ogni funzionario.
Hopkins occupò precisamente questo genere di carica, se così si può chiamare, dato che non aveva la minima autorità né autorizzazione per ricoprirla. Roosevelt poteva attribuirgli ogni specie di poteri, ma i membri del Gabinetto che lo volevano ignorare, potevano farlo senza che nessuno potesse impedirlo, come capitò effettivamente molte volte.
Era straordinario che il secondo personaggio d’importanza negli Stati Uniti, per tutto il periodo critico della seconda guerra mondiale, non rivestisse cariche ufficiali e non possedesse di suo nemmeno un ufficio, fuorché la scrivania della sua camera da letto. Senonché la camera da letto si trovava nella Casa Bianca. Come ho detto, Hopkins non svolse una politica personale.
Era troppo intelligente e troppo rispettoso del capo per assumersi il ruolo di “eminenza grigia”. Egli non faceva che preparare il terreno e i mezzi per discutere come meglio raggiungere le mete prefisse. Roosevelt aveva l’abitudine di pensare a voce alta, ma gli era difficile trovare un ascoltatore che lo comprendesse pienamente e nel quale fidasse completamente.
Ecco che cos’era Hopkins e quello era il modo che dovevamo tenere Rosenman e io nel preparare messaggi e discorsi nei quali Roosevelt voleva far conoscere alla nazione e al modo le direttive della sua politica.
Il lavoro richiesto da quei discorsi era improbo, perché Roosevelt aveva un acuto senso della storia e sapeva che ogni parola costituiva il seme di un patrimonio che egli avrebbe lasciato alla posterità; più ancora che la piena misura del suo valore sarebbe stata nella rispondenza tra le parole e i fatti.
Perciò le parole da dirsi in pubblico diventavano della massima importanza e si poneva ogni cura nel disporle. Ho ricordato il discorso di Cleveland, che costò un giorno ed una notte di preparazione, ma tanta rapidità era eccezionale anche per un discorso elettorale, che era per sua natura legato alle circostanze.
I discorsi più importanti richiedevano spesso una settimana e più di duro lavoro, alternato da un infinito numero di discussioni prima di iniziare il lavoro vero e proprio. Non so dire di preciso quante bozze richiedesse la redazione di un singolo discorso, ma erano bene una dozzina e più e nella redazione definitiva poteva non trovarsi più una parola del testo primitivo.
C’erano naturalmente anche i discorsi d’occasione che non erano considerati di primaria importanza, ma specialmente durante la guerra, Roosevelt prestava anche a questi una certa attenzione, perché non voleva assolutamente che le sue parole potessero prestarsi al gioco del nemico ed essere sfruttate dalla propaganda mondiale sulle vie dell’etere.
Se uno di questi discorsi apriva una sottoscrizione al prestito nazionale, il primo abbozzo veniva steso dal Dipartimento del Tesoro, se invece doveva lanciare una nuova compagna per raccogliere fondi per la Croce Rossa, per la Cassa delle Comunità o per la Settimana della Fratellanza Nazionale e simili, era l’organizzazione in questione a fornire suggerimenti su quel che il Presidente avrebbe dovuto dire.
Ma il materiale inviato era quasi sempre così retorico e così affettatamente letterario che non trovava rispondenza nello stile di Roosevelt e doveva quindi essere sottoposto ad un processo di semplificazione o di ultra semplificazione, in armonia con i suoi gusti.
Era felicissimo quando poteva esprimersi alla buona, anche con le frasi più trite e ritrite, come: “è chiaro come il sole”, “semplice come l’ABC”, “a mira di naso”, “strateghi da poltrona”, “né più né meno” e simili.
Quando voleva fare un discorso cui attribuiva particolare importanza, prima lo discuteva ampiamente con Hopkins, Rosenman e me, chiarendo i punti principali da toccare, il pubblico cui si rivolgeva e anche il numero massimo di parole (un limite che era normalmente sempre molto basso).
Dettava pagine su pagine, accostandosi al punto saliente, insistendovi talvolta oppure divagando sin quasi a non sapersi più riprendere. In tal caso diceva: “Bene ragazzi, presso a poco così, potete continuare voi”.
Penso che le nostre riunioni gli andassero a genio, perché erano gli unici momenti in cui poteva dire ciò che gli piaceva, sfogandosi a lanciare ogni sorta di insulti e di invettive, ben sapendo che nulla di tutto ciò si sarebbe trovato nella redazione finale.
Quando cessava di dettare, perché aveva altri appuntamenti o doveva andare a letto, ci ritiravamo nella sala delle riunioni di Gabinetto sul lato est e davamo inizio alla lettura del materiale raccolto.
Il Presidente teneva una speciale “Cartella Discorsi” in cui raccoglieva tutti i ritagli di giornale da lui sottolineati con punti esclamativi o di domanda, con segni di lode o di riprovazione, di cui non sembrava ricordare il significato.
Vi si trovavano inoltre lettere d’ogni specie, di gente nota ed ignota, piene di suggerimenti per quel che avrebbe dovuto dire e fogli e appunti scritti di suo pugno o da lui dettati occasionalmente e che potevano tornare utili.
Tutto questo materiale veniva esaminato minuziosamente e si lavorava di forbici per tagliare o aggiungere i passi più significativi alla bozza del discorso che ci aveva dato il Presidente, incollando, scollando, con asterischi di richiamo e crocette di riferimento, finché non si metteva insieme qualche cosa che poteva assomigliare ad un discorso coerente.
Se ne facevano allora copie lunghe generalmente il doppio o il triplo del necessario. Il Presidente, non appena trovava il momento per riceverci, voleva leggere il discorso e guardava subito qual’era l’ultima pagina, per concluderne che almeno il 92 per cento poteva venire tagliato senza danno.
Cominciava poi a leggere facendo pause frequenti per dettarci qualche nota o appunto da inserire nel testo. E accompagnava spesso il suo dire con il ritornello: “Grazia – prendi una legge” che egli parodiava dalla rivista musicale di Kauffman-Hart-Rodgers “Ho ragione io!” in cui George M. Cohan faceva la parte di Roosevelt. Egli non l’aveva mai vista, ma si divertiva un mondo quando gliene parlavano.
Spesso finito di dettare le aggiunte il discorso era più lungo di prima e lungi dall’essere coerente. Tornavamo nella nostra sala di lavoro e cominciavamo una nuova copia. La cosa poteva durare giorni e giorni. E capitava che durante il lavoro qualche nuovo avvenimento buttasse tutto all’aria.
Per esempio, una sera di domenica del 1943, eravamo a Shangri-la per finire un discorso dedicato soprattutto a problemi di ordine interno ( stabilizzazione dei prezzi, razionamento, mano d’opera, ecc.), quando giunse la notizia della caduta di Benito Mussolini e il discorso dovette essere rifatto da cima a fondo. Ma quella volta fu un vero piacere per noi, il rimetterci di nuovo al lavoro.
La maggior parte del lavoro di preparazione dei discorsi veniva fatta di sera. Roosevelt ci riuniva per l’aperitivo nello studio ovale, verso le 19,15. Si sedeva al tavolo, con il vassoio davanti a sé.
Mischiava gli ingredienti con l’abilità di un alchimista, che degenerava però in una certa imprecisione quando cominciava a parlare. I suoi vecchi liquori erano eccellenti, ma io non avevo molta simpatia per i suoi “Martini”, perché usava troppe qualità di Vermut (quando ne aveva) e spesso vi univa una goccia d’assenzio.
Hopkins poi, gli consigliava di fare delle misture di whisky scozzese e lo faceva solo per compiacenza, perché non gli andavano affatto a genio. Venivano poi i soliti cannoncini e le tartine al formaggio o alla pasta d’acciuga, con sottaceti.
Roosevelt non era un gran bevitore. Non prendeva mai vino durante i pasti se non proprio ai grandi pranzi ufficiali e non ricordo di averlo mai visto bere un cognac o altro liquore, ma certo gli piaceva l’ora dell’aperitivo e il fiume di chiacchiere che ne seguiva.
Il pranzo veniva generalmente servito nello studio verso le 19,45. Non sta bene dirlo, da parte di un ospite, ma la cucina della Casa Bianca non godeva di molta fama. Il cibo era abbondante ed anche buono, quando era semplice, ma il cuoco voleva abusare di salse e di insalate.
Ce ne era una preferita che pareva uno di quei prodotti che si trovano nelle rosticcerie più andanti con una montagna di maionese, fette di ananas cotte al forno, rapanelli affettati, ecc. La servivano di frequente e il Presidente dava appena un’occhiata, poi scuoteva la testa e mormorava: “No, grazie”.
Una volta Sam Rosenman si mise a ridere e disse: “Ma signor Presidente, sono otto anni che siete alla Casa Bianca e vi potrete restare altri otto, ma non riusciranno mai a farvi gustare quell’insalata”.
Roosevelt era sempre grato delle ghiottonerie offertegli e gli piaceva soprattutto la selvaggina inviatagli da amici per variare la sua dieta. Non l’ho mai sentito lamentarsi del vitto o del servizio in genere, ma si lamentava continuamente che i viveri offertigli fossero sottoposti ad un esame preventivo.
Una volta disse: “Mi piacciono molto le noccioline torrefatte. Ma se qualcuno me le mandasse, il Secret Service le vorrebbe passare ai raggi X e il Dipartimento dell’Agricoltura le aprirebbe per accertarsi che non contengano veleno o esplosivi. Così, per evitare impicci, le getterebbero addirittura via e non mi direbbero neanche che me le hanno mandate”.
Ricordo anzi, che Rosenman ed io andammo quel giorno all’angolo tra l’Avenue di Pennsylvania e la 15 esima strada a comprare un grosso pacco di noccioline, portandole di nascosto al Presidente, che le nascose sotto il mantello divorandole tutte una dietro l’altra.
Dopo pranzo, egli sedeva sul divano alla sinistra del fuoco, appoggiando i piedi sopra un apposito sgabello. Cominciava quindi leggere l’ultima stesura del discorso. Vicino sedeva Grace Tully, scrivendo sotto dettatura finché non le davano il cambio Dorothy Brady o Toinette Bachelder.
Spesso Roosevelt leggeva ad alta voce per vedere che effetto facesse, perché giudicava ogni parola non dall’effetto che avrebbe avuto stampata, ma da quello che avrebbe fatto per radio. Verso le dieci, portavano un vassoio pieno di bibite.
Il Presidente prendeva di solito un bicchiere di birra, ma non di rado anche un “collo di cavallo” (birra di zenzero con buccia di limone).
Allora cominciava a sbadigliare, deponeva i fogli del discorso e dava la buonanotte a tutti, andando a dormire verso le Per tutta la sera il telefono squillava ben di rado. Di quando in quando gli veniva portato qualche dispaccio, che Roosevelt leggeva di sfuggita e passava regolarmente e Hopkins senza una sola parola di commento. E se non fosse stato questo, la Casa Bianca avrebbe potuto dirsi il luogo più pacifico e tranquillo della terra in un mondo sconvolto dalla guerra.
Lasciato lo studio, noi passavamo il resto della notte nella sala del Gabinetto a stendere una nuova copia da fa vedere al Presidente la mattina dopo, a colazione. Qualche volta mandavamo a chiamare per aiutarci Archibald Mac Leish, il bibliotecario del Congresso, il quale veniva a notte tarda per aiutarci a “centrare” il discorso.
Capitava spesso, prima che le finestre della Casa Bianca fossero oscurate dopo Pearl Harbour, che la luce brillasse ancora nella sala del Gabinetto alle tre di mattina e che la signora Roosevelt ci telefonasse per dirci che lavoravamo troppo e che era ora di andare a dormire. Segno naturalmente che anch’essa lavorava fino a quell’ora.
Al mattino dovevamo alzarci presto per essere pronti alla chiamata, se il Presidente voleva lavorare al suo discorso prima di iniziare le udienze. Di solito facevamo colazione nella camera di Hopkins, senza particolare allegria o cordialità. Avevamo finito la nuova coppia del discorso solo poche ore prima e alla luce del giorno ne eravamo sempre piuttosto scontenti.
I nostri commenti più frequenti erano: “Speriamo che la reputazione di Franklin D. Roosevelt non sia affidata a questo discorso”. Usciti quindi dalla camera da letto del Presidente, dovevamo esserne stati ricevuti, Rosenman ed io tornavamo nella nostra sala, per ascoltare la nuova chiamata.
La campana annunciava che il Presidente s’avvicinava all’ufficio e noi ci affacciavamo alle finestre che guardavano sul colonnato, per vederlo passare nella scomoda carrozzella senza bracciali e senza cuscini, spinta dal cameriere negro, il sottufficiale di marina Arthur Prettyman.
Lo accompagnavano gli uomini del Secret Service, trasportandogli spesso il voluminoso pacco degli incartamenti su cui era stato a lavorare la notte prima e i dispacci giunti nelle mattinata.
“Fala” si faceva incontro alla carrozzella mentre passava e Roosevelt si chinava, grattandogli la nuca. Il tornare al lavoro quotidiano di un uomo politico, come Roosevelt, era una scena che colpiva l’immaginazione e commuoveva.
Questo era l’aspetto del Presidente che il popolo preferiva: col mento alzato e con il bocchino della sigaretta sempre nella posizione consueta, con l’aria di incoercibile fiducia di risolvere qualsiasi problema gli si fosse presentato durante il giorno. Il fatto che la sua fiducia non fosse sempre giustificata, non la rendeva meno autentica e rassicurante.
Quando lo vedevo passare la mattina, mi pareva che nessuno di quelli che lavoravano per lui avesse il diritto di sentirsi stanco. E non era un’impressione solamente mia: la provavano tutti gli uomini dell’amministrazione a Washington durante la guerra e tutti coloro che pure si erano trovati in disaccordo con lui.
Fu Henry Pringle, mi sembra, che lavorava in un ufficio del Governo dopo Pearl Harbour a suggerire questo motto “murale” per gli uffici: “Sentirsi esauriti non è niente!”. I discorsi dovevano essere vagliati e controllati poi dai vari Dipartimenti ed enti, soprattutto quelli dell’Esercito e della Marina: capitava così che molti di essi, inviati in visione al Dipartimento della Guerra, ne tornassero con correzioni e suggerimenti a matita, di pugno stesso del generale Marshall.
Il lavoro degli “scrittori ombra” diventava allora una penosa e laboriosa opera di revisione e di controllo di fatti e di cifre. Pensavamo infatti che il New York Times può sbagliare e può sbagliare il World Almanac, ma non il Presidente degli Stati Uniti.
La preoccupazione ci dava un acuto senso di responsabilità, finché, dopo il 1940, la Casa Bianca non ebbe i suoi esperti di statistica del lavoro, con a capo Isidore Lubin, commissario per le statistiche del lavoro, che fu di sommo aiuto così a Roosevelt come a Hopkins, nel controllo di ogni cifra.
Vi erano però discorsi che erano tenuti nella massima segretezza. Né il Dipartimento della Guerra, né quello della Marina e tanto meno il Dipartimento di Stato ne avevano preventiva conoscenza.
Perciò era un voler sapere, un voler rendersi conto, un continuo insistere di funzionari e di uomini particolarmente interessati, per conoscere se il Presidente aveva dato ascolto ai loro suggerimenti o aveva tenuto presente le pagine e pagine di raccomandazioni scritte per conto dei vari Dipartimenti.
Tutti costoro sapevano benissimo che da Hopkins non avrebbero cavato un ragno dal buco e si rivolgevano a Rosenman o a me, che ce ne liberavamo asserendo che “il Presidente prestava la massima attenzione” a quanto propostogli e riferito.
Sentivamo dentro di noi brillarci non so che gioia o soddisfazione pensando a tutti gli importanti personaggi di Washington che avrebbero ascoltato per radio il discorso del Presidente e ci sembrava di vederli brontolare alla fine, quando le note dello “Star Spangled Banner” lo avessero chiuso: “non ha detto una sola parola di tutto quel materiale che gli ho mandato”.
Ma ancora più bello era immaginarsi invece l’espressione di qualche anonimo cittadino, il quale aveva scritto una lettera al Presidente e ne udiva un brano inserito in una delle famose conversazioni al caminetto.
I due ultimi giorni di preparazione di un discorso rappresentavano per Roosevelt una fatica improba, finché la gran congerie di parole che sembrava ancora senza forma e senza scopo non cominciava a diventare acuta ed eloquente.
Egli studiava l’effetto che le sue parole potevano fare sulle varie classi della popolazione, sugli alleati, sui nemici e sui neutrali. Poneva la massima cura nella punteggiatura, non per smania di correttezza, ma per averne aiuto nelle pause e nella lettura ad alta voce.
Grace Tully aveva la mania di infiorare di virgole i suoi periodi e il Presidente si divertiva a toglierle tutte. Una volta le disse: “Grazia, quante volte ve lo devo dire di non sprecare le virgole dei contribuenti?”. Preferiva le lineette, che gli davano un aiuto visivo e odiava i punti e virgola e le parentesi. Non credo che abbia mai usato la frase sonora: “Come dice il tal dei tali”.
Prima di giungere a quella che sarebbe stata la stesura definitiva di un discorso, Roosevelt contava parola per parola e infine decideva il numero preciso di quelle che poteva pronunciare in 30 minuti.
Il senso del tempo in per lui fenomenale. La sua velocità normale era di 100 parole al minuto, ma diceva: “Ci sono alcuni periodi del discorso che posso dire più in fretta, si può arrivare così ad un totale di 3.150 parole” e non erano che 3.162.
Altre volte gli pareva di dover essere più chiaro e preciso e quindi le parole da pronunciarsi dovevano essere ridotte a 2.800. Tagliare era la parte più difficile di tutto il nostro lavoro, perché, dopo essere giunti alla nona o decima redazione del discorso, ogni parola era già stata soppesata fino all’ultima sillaba, ma facevamo ugualmente come ci era detto e non perché Roosevelt fosse il Presidente, ma perché aveva ragione; ben di rado gli capitava, nel calcolare il tempo della trasmissione, di commettere un errore che superasse il secondo.
Quando si trattava di discorsi da dirsi in pubblico, il conto era naturalmente più difficile, perché erano imprevedibili le reazioni della folla. Anche qui tuttavia egli si preoccupava della lunghezza del discorso.
Capitò, per esempio, che nel discorso ai “Teamsters”, furono così frequenti gli applausi e le interruzioni della folla, che il discorso durò quindici minuti più del fissato, ma Roosevelt non si impensierì, nonostante che il Comitato nazionale democratico – era un discorso elettorale – dovesse assumersi l’aggravio delle spese, ch’era piuttosto forte.
Quando finalmente un discorso era finito, all’incirca verso le sei di sera, il Presidente si faceva condurre nello studio dottor McIntyre, per la solita inalazione, cosa che faceva parte del programma fisso della giornata.
Poi saliva a prendere un aperitivo o a pranzare, chiacchierava o lavorava alla corrispondenza e ai suoi album di francobolli, senza dimostrare dii dare molto ascolto alla copia finale del discorso che veniva battuta su speciali fogli pieghevoli per evitare il fruscio delle pagine voltate e rilegate infine, in una cartelletta di pelle nera.
Ma quando cominciava a parlare alla radio, pareva che il discorso lo sapesse a memoria. Se dava uno sguardo al manoscritto, no era per seguire quello che andava pronunciando, ma per leggere il periodo successivo e decidere dove fare una pausa e quale inflessione dare alla voce.
Io che ho molta esperienza di teatro, mi sono sempre meravigliato dell’infallibile precisione con cui faceva le sue pause e della grazia con cui sapeva conciliare il sublime con il ridicolo, quasi si fosse esercitato per settimane e mesi a recitare in pubblico.
Chi lavorava con lui ai suoi discorsi, sapeva perfettamente che egli non era schiavo del testo preparato. Ne usava a piacere ed era una delle cose di cui si compiaceva maggiormente.
Durante i giorni della preparazione, metà scherzando e metà sul serio, Hopkins, Rosenman ed io facevamo spesso opposizione a qualche riga che il Presidente vi voleva includere. Era questione di dignità da parte nostra, per non essere sempre “quelli che dicono di sì” e perciò gli tenevamo testa fino a persuaderlo a togliere quelle righe: ma se gli piacevano, se le teneva a mente e le ficcava poi nel discorso. Più tardi era capace di farci un mondo di scuse, deprecando in tono piuttosto canzonatorio, il suo disgraziato lapsus linguae.
Era sempre pronto a coglier ogni occasione per fare la parte del perseguitato e lamentarsi che “non gli volevamo lasciare dire nulla di suo nel discorso”. Vi erano tuttavia, dei momenti quando era di cattivo umore o preoccupato per altre cose, che diventava litigioso anche con noi, perché eravamo l’unico bersaglio contro il quale potersi sfogare.
Ancora per la mia esperienza di teatro, posso testimoniare che di solito era il tipo meno irascibile che mi sia occorso di incontrare. È uno dei motivi per cui dormiva così bene. Un giorno durante la campagna del 1940, Carl Sandburgh, invitato alla Casa Bianca, ebbe un lungo colloqui con il Presidente, il quale gli disse: “Ma perché non vai giù da Missy LeHand e non le detti le cose che hai detto a me?”. Sandburgh non si fece pregare e dettò tra l’altro:
Il discorso di Abramo Lincoln a Gettysgurgh, o quello dii addio di Robert E. Lee al suo esercito, non sono nel nostro gergo americano, che un “mucchio di parole”, ma se ne consideriamo la sostanza e misuriamo la lunga ombra gettata nella storia, vediamo sorgere in piena luce il miracolo dell’uomo consacrato ad una causa mistica…
Se ricordiamo la storia d’America troviamo che il nostro Paese, nazione fra le nazioni, non ha mai tenuto segreto per chi si batta o per chi parteggi. Per centocinquanta anni e più abbiamo detto al mondo chela Repubblica americana si regge su un certo modo di vivere.
Qualsiasi cosa accada della carta d’Europa, capovolgimenti o rivolgimenti di governi, caduta di troni o di dinastie, nuove dottrine o nuove sfere d’influenza, l’America non sta in silenzio.
Nonostante la più assoluta mancanza di solennità e la bonarietà dello stile quando parlava amichevolmente, Roosevelt sapeva di essere per il resto del mondo la voce dell’America.
Nei giorni più oscuri, prima e dopo Pearl Harbour, egli espresse le speranze del mondo civile. La voce di Churchill era la voce cavalleresca e ardita del guerriero indomito ed indomabile, ma quella di Roosevelt era la voce della libertà, della liberazione, della dignità stessa dell’uomo.
Il suo slancio, il suo coraggio, la sua fiducia rinnovavano le speranze di chi temeva di perdere per sempre dignità e libertà. Roosevelt sembrava prendere alla leggera i suoi discorsi, ma nessuno meglio di lui sapeva che, davanti ad un microfono, egli parlava per l’eternità e che le sue parole, come diceva Sandburgh, “avrebbero gettato lunga ombra”.