GIACOMO BRESADOLA
Ortisé (Mezzana), 14 febbraio 1847 – Trento, 9 giugno 1929
Dopo avere svolto le scuole elementari a Mezzana (e non «nel paese nativo» come hanno invece scritto alcuni biografi), a nove anni fu mandato dal padre a Cloz, in Val di Non, presso uno zio prete affinché ne continuasse l’educazione. Qui non rimase neppure un anno perché, a causa del «suo temperamento troppo vivace» e della «sua indole troppo sbarazzina», lo zio «lo rispedì ai genitori».
Nel 1857 è a Montichiari (Brescia), dove la sua famiglia si era trasferita e il padre aveva aperto un negozio di oggetti di rame, tradizionale commercio degli alpigiani della Val di Sole. A dodici anni cominciò a frequentare l’Istituto Tecnico di Rovereto, con indirizzo ingegneristico.
Poi, al 4° anno, anche per essergli stato assegnato il secondo posto nella graduatoria degli alunni migliori (precedentemente aveva sempre conseguito il primo posto), per risentimento abbandonò improvvisamente gli studi con l’intento di seguire un’altra vocazione. Così lasciò gli studi pubblici e, dopo una veloce preparazione nelle materie letterarie classiche (greco e latino), venne ammesso nel Seminario Vescovile di Trento.
Finito il sacerdozio fu nominato cappellano o coadiutore nelle parrocchie prima a Baselga di Pinè, poi a Roncegno (Valsugana) e dopo un anno a Malè (Val di Sole). Nel 1878 andò parroco o curato a Magràs (Val di Sole) dove rimase cinque anni. Nel 1884 fu chiamato a fare parte della curia vescovile di Trento, nell’ambito della quale ricoprì la carica di amministratore dei beni patrimoniali della cattedrale dal 1887 al 1910.
Il trattamento pensionistico del clero asburgico prevedeva una forte differenziazione tra i sacerdoti «in cura di anime e quelli adibiti a servizi amministrativi». Giacomo Bresadola apparteneva a questi ultimi e pertanto veniva a fruire di una pensione «assolutamente inadeguata alle sue necessità di studioso».
Grazie all’interessamento di vari amici, però, «che avevano aderenze nelle alte sfere ministeriali», riuscì, «attraverso un iter assai laborioso», a ottenere un tratta- mento soddisfacente.
Dopo la guerra del 1915-1918, tuttavia, la sua pensione perse gran parte del valore di acquisto e così, per vivere e mantenere la nipote e la governante, fu costretto a vendere periodicamente molti libri della sua ricca biblioteca, erbari, stampe. disegni originali.
Nel 1927 e subito dopo, l’università di Padova lo nominò dottore honoris causa in scienze naturali, il governo italiano Cavaliere Ufficiale della Corona d’Italia e il Capitolo della Cattedrale di Trento canonico onorario.
I suoi funerali si svolsero a spese del municipio di Trento, che volle subito dopo collocare una piccola statua a pezzo busto del Nostro, opera dello scultore Davide Rigatti, nei giardini davanti alla stazione ferroviaria.
Autodidatta e naturalista appassionato, fu prima florista (dopo che a Roncegno conobbe e frequentò Francesco Ambrosi), poi briologo, ovvero studioso dei muschi (stimolato in tal senso dal botanico Gustavo Venturi, con il quale, tramite l’Ambrosi, era entrato in relazione).
La grande quantità e varietà di funghi che incontrava nelle sue passeggiate nell’alta Val di Sole, e il casuale incontro nei boschi con i frati Placido Giovanella e Pedrotti del convento di Malè, attivi raccoglitori di funghi, lo convinsero a interessarsi di micologia.
Si mise così in contatto epistolare con il trevigiano Pier Andrea Saccardo (1845-1920), celebre micologo e professore di botanica all’università di Padova, il quale, rendendosi conto che i desideri del Bresadola erano soprattutto o unicamente rivolti ai macromiceti, lo indirizzò allo specialista francese Lucien Quelet, medico di Hérimoncourt (Doubs, fra il Giura e i Vosgi), che allora era quotato come il numero uno della micologia europea.
I fitti carteggi che da allora Giacomo tenne con i due illustri micologi sono di eccezionale importanza per «farci conoscere anche l’uomo Bresadola, con le sue tendenze, i suoi slanci, le sue generosità e qualche volta con le immancabili ostinazioni da buon montanaro, […]; nonché tutti i suoi problemi di uomo, di scienziato, di prete».
Probabilmente divenne il più insigne micologo del suo tempo, maestro ascoltatissimo (ebbe una fitta corrispondenza, con circa 400 studiosi sparsi in tutti i continenti, oggi perlopiù all’università di Washington), descrisse 1.017 specie di funghi, più una quindicina di generi, in circa 60 pubblicazioni scritte quasi tutte in latino.
Mise mano più volte a nuove collezioni di funghi che oggi si trovano in pubbliche istituzioni di Stoccolma (la maggiore, oltre 30 mila specie), di Washington, di Trento, di Uppsala, di Leida, di Parigi, di Berlino, di Kiew, di Roma, eccetera.
A Trento,” viveva in una casetta, situata in una via secondaria, costituita da due stanzette. E o chino sul vecchio microscopio, poggiato sopra il piccolo tavolino nella sua camera da letto, o sul davanzale della finestra utilizzato come leggio, Bresadola trascorse gran parte della sua umile e schiva esistenza”.
Questo modesto, affabile, scherzoso e colto trentino fu anche – «e data la vasta conoscenza che ebbe della Natura» non poteva essere diversamente – un erpetologo dilettante e i serpenti (con annesse superstizioni popolari) erano tra gli argomenti di conversazioni che aveva, per esempio a Margone e a Mendola, nel salotto dei baroni Isidoro e Valentino Salvadori o dopo una o più delle frequenti conferenze sui funghi da «lui tenute alla buona e per lo più all’aperto» in alcuni paesi del Trentino.
I riferimenti alle «bisse» dell’abate Bresadola subirono varie vicende: quelli parzialmente «radunati» dall’agronomo, fitopatologo e micologo trentino Giulio Catoni (1869-1950) – a cui premeva però la parte «fungina» del testo – si trovano dispersi in archivi, più privati che pubblici, di Bologna, di Livorno, di Roma e di Trento, altri sono a Washington.
A Ortisé esiste tutt’ora (con tanto di targa turistica) la sua casa natale.