NICOLO’ RASMO
Trento, 6 luglio 1909 – Bolzano, 5 dicembre 1986
a cura di Cornelio Galas
Nicolò Rasmo nasce a Trento il 6 luglio 1909. Mostra già da adolescente uno spiccato interesse per la storia dell’arte come dimostra una sua pagella di liceo: accanto ad una serie di sei in tutte le materie, dall’italiano alla ginnastica, spicca il dieci in storia dell’arte. Si laurea nel 1933 a Firenze in storia dell’arte medievale, con Mario Salmi, discutendo una tesi sul Castello del Buonconsiglio di Trento.
L’anno successivo consegue, presso la stessa Università, il diploma di perfezionamento. Nel 1939 prende servizio come Ispettore presso la Soprintendenza alle Belle Arti di Trento, di cui diverrà titolare nel 1960 e che dirigerà fino al 1974. Dal 1940 al 1981 è anche direttore del Museo civico di Bolzano.
La sua attività di studioso s’intreccia indissolubilmente alla sua attività di tutela sul territorio e del territorio (anche le competenze di difesa ambientale, infatti, erano allora affidate alle Soprintendenze) che svolge con una passione e una tenacia caparbie, cosicché nei suoi scritti, accanto alle più colte disquisizioni a carattere stilistico ed attributivo, non mancano riferimenti puntuali alle tecniche esecutive, ai problemi legati alla conservazione, alla pratica e alla teoria del restauro, molto spesso a carattere pionieristico.
Quello che colpisce nei suoi scritti è pertanto la complessità degli approcci e la capacità, rara a trovarsi nella storia dell’arte praticata dai suoi contemporanei, di affrontare la materia davvero sotto ogni punto di vista, partendo, tra il resto, dalla puntuale lettura dei documenti d’archivio.
Il suo itinerario scientifico e culturale si segue bene scorrendo le ventidue annate della rivista Cultura atesina-Kultur des Etschlandes, da lui fondata nel 1947. Inizialmente il sommario è molto movimentato: presenta saggi di studio e ricerca; preziose miscellanee; recensioni che diventano occasione per approfonditi dibattiti e disamine storico-artistiche; editoriali su temi scottanti e di attualità (Toponomi e buon senso, 1954) e i notiziari d’arte, fonte preziosissima di informazioni di prima mano, spesso risultato di ricerche sul campo o di restauri effettuati. Dal 1960 diminuisce il numero dei collaboratori e nella rivista trovano maggior spazio studi complessivi e finali dello stesso Rasmo.
Nel 1966 inizia anche la pubblicazione di un’opera fondamentale nella sua produzione, il Dizionario degli artisti atesini. Lettera A, edito quindi in volume autonomo nel 1980. Del Dizionario, di cui è stata pubblicata postuma, nel 1998, la Lettera B, a cura di Luciano Borrelli e di Silvia Spada Pintarelli, e di cui poi fu preparato il volume con le Lettere C e K, esiste in nuce l’intero alfabeto conservato tra i materiali della Fondazione sotto forma di schede onomastiche, raccolte dall’autore in una vita di studio.
Quello che ancora una volta stupisce è l’attenzione di Rasmo verso un’arte diffusa, in cui è azzerata ogni artificiosa distinzione tra arti maggiori e minori, nella consapevolezza che, soprattutto trattando di luoghi periferici, tutto concorre alla creazione del paesaggio artistico e che anche l’episodio emergente si alimenta di tanti piccoli contributi.
Così gli “artisti” che trovano spazio nel suo Dizionario sono architetti, pittori, scultori ma anche armaioli, ceramisti, illustratori, doratori e fabbri, falegnami, stippetai, fonditori di campane, litografi, tagliapietre e muratori, orologiai, peltrai e ricamatori e così via. Il loro rapporto con il territorio è inteso in senso estensivo: possono essere nati in queste zone, averci abitato per lungo o breve tempo, ma esserci stati anche solo di passaggio.
Nella sua attività di studioso d’Arte scrive circa 500 fra libri e saggi di rilevante valore scientifico. Oltre alle opere già menzionate ricordiamo Michele Pacher (1969), Affreschi medievali atesini (1971), L’Età cavalleresca in Val d’Adige (1980). Di fondamentale importanza sono anche i testi Arte nell’Alto Adige (1974), Trentino Alto Adige: Gli aspetti artistici (1979), Storia dell’arte in Alto Adige (1980), Storia dell’arte in Trentino (1982), che illustrano in modo chiaro e completo, in una sintesi, la storia dell’arte della regione e forniscono la base fondamentale per l’acquisizione di una visione d’insieme sulla produzione artistica locale.
A lui, sia Trento che Bolzano hanno dedicato rispettivamente una piazza ed una via. Il comune di Bolzano gestisce inoltre una fondazione che porta il nome di Rasmo e della sua assistente Adelheid von Zallinger-Thurn, che raccoglie documenti, appunti di studio, le biblioteche e la documentazione fotografica raccolta dai due storici dell’arte.
Ma torniamo alla Tutela del Paesaggio nella quale Rasmo ebbe un ruolo fondamentale in Trentino. Con la nomina ministeriale a soprintendente ai Monumenti ed alle Gallerie per le Province di Trento e di Bolzano, avvenuta il 14 aprile 1960, Nicolò Rasmo assunse la responsabilità della tutela del patrimonio storico-artistico, archeologico, architettonico, archivistico e librario del Trentino – Alto Adige, unitamente alle competenze per la «protezione delle bellezze naturali» trentine.
Lo Statuto Speciale d’autonomia regionale del 1948 aveva sì conferito alle due province alpine la potestà legislativa e amministrativa in materia di tutela del paesaggio, ma serviva una norma provinciale per poterla applicare. Solo nel 1971 la Provincia di Trento approvò un’apposita legge, mentre a Bolzano si era già provveduto in tal senso con la legge n. 8 del 24 luglio 1957, pur in assenza di una norma d’attuazione.
Per altri ventitre anni, quindi, in Trentino rimase in vigore la legge nazionale n. 1497 del 29 giugno 1939, esercitata «mediante l’opera della Commissione provinciale delle Bellezze Naturali, e l’ausilio della Soprintendenza ai monumenti e gallerie”. Rasmo, come i suoi predecessori Guiotto e Rusconi, si trovò a gestire la tutela sulla base della legge Bottai del 1939 e del relativo regolamento d’applicazione del 1940.
Oltre all’attività ordinaria – in primis la compilazione degli elenchi delle bellezze naturali e panoramiche aventi notevole interesse pubblico – in poco più di un decennio (1960-1971) Rasmo fu costretto ad affrontare enormi problematiche ambientali: dalla speculazione edilizia nelle città e nelle valli alla nascita o all’ampliamento delle stazioni invernali in quota; dai progetti ENEL di sfruttamento idroelettrico in Val di Genova alla proposta di costruire una funivia tra Molveno e il massiccio del Brenta; dall’inquinamento del lago di Garda per gli scarichi delle cartiere all’urbanizzazione nella Valle di Tovel e al mancato arrossamento dell’omonimo specchio lacustre.
Come componente partecipò a commissioni e gruppi di studio, quali la Commissione provinciale per la Tutela delle Bellezze Naturali – presieduta fino al 1965 dal geografo Ezio Mosna (1896-1978) e poi dal giovane Francesco Borzaga (1934), all’epoca segretario della sezione trentina di Italia Nostra – la Commissione consultiva per la difesa della valle di Tovel (1962) e la Commissione di studio dei parchi naturali ed attrezzati del Piano urbanistico provinciale , istituita dalla Giunta provinciale di Trento nel 1968.
Mantenne cordiali e proficui rapporti con enti ed istituti scientifici – in particolare con il Museo Tridentino di Scienze Naturali diretto da Gino Tomasi (1927) – e con le associazioni dei protezionisti (sezioni locali del Movimento Italiano per la Protezione della Natura, di Italia Nostra e del WWF).
Dal suo ufficio al Castello del Buonconsiglio partivano periodicamente proposte di notifiche di zone d’interesse panoramico, compresi laghi e centri storici, denunce per abusi edilizi, richieste di chiarimenti sull’apertura di una strada forestale o sul taglio di un bosco pregiato, sollecitazioni alla stesura di piani territoriali paesistici, ecc …
Numerosissimi furono i sopralluoghi nelle più disparate località del Trentino per analizzare i problemi da vicino, in modo da trovare le soluzioni più idonee. Tra il 1956 e il 1970 furono vincolate «numerose zone d’interesse paesaggistico con 66 decreti ministeriali», la maggior parte dei quali emanati negli anni di Rasmo. Spesso fu il soprintendente in persona a suggerire le zone da sottoporre all’apposita commissione – di cui faceva parte di diritto – per un’eventuale provvedimento di tutela.
Nel 1968, ad esempio, scrisse a Francesco Borzaga: “Credo opportuno procedere alla notificazione del territorio comunale di Segonzano che offre notevoli motivi d’interesse per i suoi bellissimi boschi di castagni, i pittoreschi gruppi di costruzioni antiche ed un caratteristico paesaggio trentino nel quale si inserisce il castello di Segonzano. Il paesaggio che il Dürer ritenne degno di essere tramandato è rimasto fondamentalmente intatto nel suo aspetto d’allora. Finora solo le rovine del castello ed una breve zona circostante sono sottoposte a vincolo di tutela monumentale diretta, rispettivamente indiretta. Con tutto ossequio. Il Soprintendente Prof. Dott. N. Rasmo”.
Rasmo si preoccupò anche di tutelare alcune aree della Val di Fiemme, terra degli avi, come ad esempio «tutto il perimetro» del comune di Daiano, «che è limitato a sud e est dalla zona notificata di Cavalese e Varena e ad ovest da quella non ancora notificata di Carano».
Nel giugno 1969 il soprintendente respinse il progetto di massima, presentato dalla Società per azioni «Villaggi Turistici”, per la realizzazione di un villaggio turistico sulla Veronza, «un dosso prativo sopra Carano … dal quale si domina tutta la valle», che prevedeva la costruzione di «207 villini, cui si aggiungevano un ‘Centro di vita’ ed una zona per attività sportive», in attesa dell’approvazione del piano comunale di fabbrica.
Il progetto ripresentato l’anno successivo «con notevole ridimensionamento» fu approvato dalla Soprintendenza «con la riserva che esso fosse compatibile con la destinazione del terreno a parco attrezzato» decisa dal Piano Urbanistico Provinciale. Sul problema di una lottizzazione di tale portata in un parco attrezzato Rasmo scrisse al presidente Kessler: «se in zona di parco attrezzato sono permesse lottizzazioni massime come quella prevista per la Veronza, la definizione di parco attrezzato perde ogni suo significato e non differisce più sostanzialmente da quella di aree residenziali, perché dove i villini crescono come i funghi il “parco” è distrutto per sempre».
Sulla scrivania del suo ufficio al Buonconsiglio arrivavano di frequente segnalazioni allarmate di cittadini, associazioni e amministratori – alle quali prestò sempre grande attenzione – insieme a proteste, critiche e minacce per i “veti” posti dalle ‘Belle Arti”. Il 6 luglio 1970 ci furono anche due «tentativi di occupazione» della Soprintendenza, uno al mattino, l’altro al pomeriggio, da parte di un gruppo di persone di Rovereto, inteso «a forzare – come scrisse Rasmo – le decisioni di un ufficio pubblico», sventati dalla presenza davanti al castello di un brigadiere e un appuntato, inviati tempestivamente dalla Questura”.
Nel 1967 – come ha ricordato a suo tempo Mauro Lando, giornalista dell’«Alto Adige» ora «Trentino» – al Commissariato del Governo furono presentati quattro esposti contro le iniziative di Rasmo, «inviati da Rovereto, Riva del Garda, Arco ed Ala con in calce un totale di duecento firme», tra cui quelle di imprenditori edili, operatori economici, consiglieri comunali che accusavano la Soprintendenza di «cieco conservatorismo» e censuravano i «vincoli indiscriminati imposti alla proprietà privata».
In Val di Fassa si contestò più volte la legittimità degli interventi della Soprintendenza «alle Belle Arti». A Canazei nel 1965 furono revocate dal Pretore di Cavalese due condanne penali relative all’alterazione delle bellezze naturali locali, compiute nei due anni precedenti (uso di materiali plastici per la copertura di un tetto e costruzione di un chiosco in legno su un piazzale), per la mancata affissione per tre mesi all’albo comunale della Gazzetta Ufficiale n. 292 del 17 novembre 1956, che conteneva la dichiarazione di notevole interesse pubblico della zona della Val di Fassa, sita nell’ambito dei comuni di Vigo di Fassa, Pozza di Fassa, Mazzin di Fassa, Soraga e Canazei.
A commento dell’assoluzione dei due imputati «per non aver commesso il fatto» il settimanale d’informazione locale «Il Postiglione delle Dolomiti» del 28 febbraio 1965 scrisse: «Queste sentenze della Magistratura sono importantissime perché ci dicono che – in quanto il Decreto non è stato pubblicato come legge vuole – la Soprintendenza alle Belle Arti non ha veste legale per intromettersi nelle cose di Canazei – Campitello».
E concluse con un ironico «Addio, professor Rasmo!», che richiamava il titolo del film Addio Mister Cip, con la differenza sostanziale che nel tono del saluto rivolto al Soprintendentenon c’era «alcuna nota di rincrescimento e nostalgia». Osteggiato e criticato da alcuni per la sua rigorosa azione di difesa dei valori paesaggistici Rasmo fu però incoraggiato e stimato da altri che – come lui – avevano a cuore le sorti dell’ambiente e del paesaggio.
Nel 1965, ad esempio, un albergatore di Madonna di Campiglio scrisse al «distintissimo» professore per chiedere un «allargamento della zona soggetta al controllo della Sovrintendenza» e per informarlo di nuovi rischi di urbanizzazione selvaggia in «zone ancora vergini» nei dintorni della celebre località invernale della Val Rendena:
“Distintissimo Prof. Rasmo, mi rivolgo a Lei per segnalarLe un nuovo allarme che da qualche tempo serpeggia tra gli operatori turistici della zona di Madonna di Campiglio. Il sottoscritto fu, a suo tempo, uno degli iniziatori e sostenitori della necessità di sottoporre queste zone al controllo di codesta Sovrintendenza. La zona che allora si scelse da sottoporre a controllo, appare oggi, alla luce di quanto stò per esporle, notevolmente limitata ed insufficiente a salvaguardare le bellezze paesistiche di questa zona.
Abbiamo oggi la certezza che notevoli interessi speculativi hanno adocchiato e stanno controllando tutte le zone confinanti con quella oggi soggetta a controllo. Si sono fatti rilievi, si sono tracciati schizzi, eseguiti sopralluoghi, piani finanziari (oggi le banche hanno iniziato un indicativo, seppur lento, accesso a nuovi crediti per l’edilizia) costituendo Gruppi Azionari.
Si sono acquistati, permutati vasti terreni, oggi acquistati a prezzi irrisori (si parla di Lire 40 al mq. (Quaranta): Ritengo pertanto sia necessariamente urgente, e questo secondo il mio modestissimo parere di amante della montagna e delle sue bellezze, che Ella ponga la Sua competentissima attenzione su quanto brevemente esposto”.
Tra le zone a rischio di cementificazione l’albergatore campigliese elencò la «Conca di Vallesinella bassa e Vallesinella», tutta la zona denominata «Plaza», «da Mavignola al vivaio forestale a valle della Statale Pinzolo-Campiglio sino al torrente Sarca», tutta la «conca di Brenta Bassa e di Brenta alta (funivia in progetto) sino ad addentrarsi notevolmente nella Val d’Agola» e altre zone ancora verso Campo Carlo Magno.
Fortunatamente la destinazione a parco naturale di molte località citate nella lettera inviata a Rasmo – decisa dal primo Piano Urbanistico Provinciale – evitò gran parte delle paventate operazioni di edificazione intensiva e speculativa nelle valli ai piedi del massiccio del Brenta. Con gli amministratori pubblici il soprintendente di Trento ebbe non pochi scontri e non di rado subì pressioni – per ritirare una denuncia penale, per modificare un parere o per togliere un vincolo – da parte del Ministero, di politici, di alti funzionari statali e perfino di forze sindacali, alle quali reagì con tenacia e coraggio, ma anche con disappunto.
Le vicende più eclatanti sono legate alle iniziative di Rasmo contro l’insediamento e il potenziamento delle tre cartiere dislocate nell’Alto Garda trentino – a Riva, a Varone e al Linfano d’Arco – che rischiavano seriamente di danneggiare l’incantevole paesaggio lacustre oltre a contribuire a peggiorare il livello di inquinamento del Garda, per via degli sversamenti nel lago e nel suo immissario delle scorie dei procedimenti di lavorazione della carta.
Il primo progetto esaminato fu quello della costruzione ex-novo di una cartiera al Linfano, zona destinata dagli strumenti urbanistici ad ospitare stabilimenti industriali. Il 31 agosto 1962 la Soprintendenza, in sintonia con la Commissione per la Tutela delle Bellezze Naturali, bocciò la proposta di collocare in quella delicata area ambientale un complesso industriale cartario per il «rilevante e inevitabile danno estetico conseguente agli scarichi di acque colorate nel Sarca e di qui nel bacino del Garda».
Nonostante la contrarietà dell’ufficio periferico del Ministero della Pubblica Istruzione la cartiera fu costruita e inaugurata dal Ministro Trabucchi e pochi anni dopo ne fu chiesto l’ampliamento. Il progetto fu respinto nel gennaio 1968, in quanto la cartiera era ritenuta «abusiva».
Nel 1963 Rasmo si oppose alla demolizione di alcune pregevoli case del Settecento con affreschi e stucchi per ampliare la storica cartiera del Varone, risalente al secondo decennio del XIX secolo. Il parere negativo della Soprintendenza non bastò a fermare le ruspe, che rasero al suolo le abitazioni ritenute pericolanti per far posto ai nuovi capannoni.
Rasmo denunciò all’autorità giudiziaria il sindaco di Riva del Garda, l’imprenditore Fedrigoni, proprietario della cartiera e altre persone, ma per vizi formali e successive amnistie il processo si fermò. Il 20 luglio 1967 dal Castello del Buonconsiglio arrivò una nuova bocciatura per un’altra richiesta di ampliamento.
Più complessa fu la storia del potenziamento della Cartiera del Garda a Riva. Ad una prima richiesta, avanzata nel giugno 1964, Rasmo rispose di non ravvisare la possibilità di inserire «ulteriori installazioni di carattere industriale» in un ambiente di «conclamata rilevanza panoramica».
Pochi mesi dopo fu rilasciato il nulla osta per la costruzione di un impianto di depurazione e scarico delle acque di risulta della cartiera, condizionato dalla garanzia di un efficiente funzionamento del sistema di depurazione e scarico dei residui, «che non dovranno arrecare nocumento estetico alle acque di superficie del lago».
Come si vede la preoccupazione primaria del soprintendente era quella della tutela del paesaggio, anche perché le sue competenze non gli consentivano di interessarsi «del fatto che l’acqua del Garda stia diventando pericolosa». Nella primavera del 1965 le associazioni rivane degli albergatori, dei commercianti, dei barcaioli insieme a consiglieri comunali, operatori economici, pescatori scrissero al Ministero della Pubblica Istruzione e a Nicolò Rasmo affinchè «venga finalmente provveduto alla totale eliminazione degli inconvenienti causati dalla cartiera, che continuano ad arrecare rilevanti danni al turismo, al commercio, al lago di Garda, alla pesca ed al paesaggio e che venga definitivamente vietato qualsiasi ulteriore ingrandimento di detto complesso industriale in una zona così vicina agli alberghi, ai negozi, abitazioni, colonie ed attrezzature turistiche».
Incalzato, per opposte ragioni, dagli operatori economici del lago e dagli imprenditori della carta, Rasmo tentò di trovare un compromesso accettabile tra le esigenze industriali e il dovere di tutelare, anche a fini turistici, il paesaggio gardesano. Alla Cartiera del Garda avrebbe concesso – con il consenso del Ministero – l’autorizzazione a costruire una centrale termica (in viale Rovereto), a patto di una definitiva rinuncia ad ulteriori futuri ampliamenti dello stabilimento cartario.
Due anni dopo, nel luglio del 1967, la direzione della Cartiera presentò un progetto di ampliamento dell’immobile destinato al deposito della carta e al servizio spedizione. Richiamando i formali impegni assunti nella primavera del 1965 il soprintendente dichiarò che non era possibile autorizzare «proposte di ulteriori maggiorazioni volumetriche e altimetriche nel complesso della cartiera».
Nonostante il via libera della commissione edilizia comunale, il parere negativo fu riconfermato il 16 ottobre. Contro tale provvedimento la Società per azioni inoltrò un ricorso gerarchico al Ministero della Pubblica Istruzione, ma verso la fine di novembre sottopose alla valutazione della Soprintendenza una nuova soluzione tecnica. Rasmo valutò positivamente il progetto di massima, ma successivamente, di fronte alle notevoli differenze «in pianta, volume e altezza» dell’elaborato esecutivo, sentendosi raggirato, irrigidì le sue posizioni e respinse la proposta della Cartiera.
Da quel momento a Riva del Garda salì la tensione. Ci furono esposti, ricorsi, proteste a Roma negli uffici ministeriali, minacce al soprintendente. Il 5 aprile 1968 ci fu un sopralluogo alle cartiere di Riva e Varone dell’Ispettore centrale del Ministero Piero Gazzola, che approvò le decisioni di Rasmo, dopo aver «constatato sul luogo gli effetti deleteri dell’inquinamento e l’assenza di ogni misura cautelativa».
A metà novembre la Giunta Regionale nominò una commissione tecnica di studio «per i problemi derivanti dagli scarichi industriali delle cartiere di Arco, Varone e Riva del Garda», che sollecitò la realizzazione ad Arco e a Varone di vasche di sedimentazione e di impianti di filtraggio e depurazione delle acque. Verso la fine dell’anno il mancato sblocco della situazione, ormai nelle mani del Ministero della Pubblica Istruzione per via dei ricorsi, fece nascere la minaccia, poi rientrata, di una marcia sugli uffici trentini della Soprintendenza da parte degli amministratori locali, ma soprattutto delle centinaia di operai preoccupati di perdere il lavoro.
Nel frattempo il Consiglio comunale di Riva aveva approvato un ordine del giorno di protesta contro gli «ingiustificati ed arbitrari veti della Sovrintendenza», mentre il segretario locale della CISL aveva espresso preoccupazione per i continui ostacoli «sollevati dalla Sovrintendenza ad ogni e qualsiasi iniziativa che possa favorire lo sviluppo e con esso l’incremento dell’occupazione».
In questo clima di tensione nel gennaio 1969 Sandro Malossini, cronista del quotidiano «Il Giorno», andò a Bolzano per intervistare «la persona più impopolare in assoluto a Riva sul Garda e nel Basso Sarca»: Nicolò Rasmo. Il soprintendente lo accolse a casa sua, in una stanza «incredibilmente piena di libri fin quasi al soffitto», tra «carte, diapositive, fotografie sparse sulla scrivania, sulle sedie, su un tavolino, sul divano» e con una «pregevole scultura lignea in un angolo».
Dopo essersi seduto sul divano, liberandolo da qualche carta, disse al giornalista: “Sì, mi rendo conto, sono solo contro molti. Ma vi ho fatto l’abitudine. Stia sicuro che non mi spavento”. E alle domande sulle minacce ricevute per posta e per telefono il professore dichiarò fiero: “Si figuri. Io ho rischiato la pelle attorno al 1943 per impedire che i nazisti portassero via da Bolzano opere d’arte a centinaia. Mi sono opposto ai colonnelli di Hitler e sono stato messo sulla lista di quelli da far fuori. Mi sono salvato per un pelo. Ci vuol altro per spaventarmi, quindi”.
Poche settimane dopo l’intervista al «Giorno», il quotidiano locale «l’Adige» annunciò «notizie positive» giunte da Roma a proposito dell’ampliamento delle cartiere:
“Dopo la vasta azione condotta nei mesi scorsi dai parlamentari trentini, ed in particolare dall’ on. Flaminio Piccoli, segretario nazionale della DC, dall’on. Ferruccio Pisoni, dalla CISL rivana e dall’amministrazione comunale della nostra città, il ministro della P.I., presso il quale giaceva da tempo il ricorso presentato dalla cartiera del Varone contro il «veto» della Soprintendenza, ha firmato una lettera nella quale esprime il parere favorevole all’ampliamento del complesso del Varone ed invita il Soprintendente per le belle arti di Trento ad adeguarsi a tale decisione.
Nella comunicazione del ministro si fa notare, in base al rapporto della commissione che a suo tempo aveva compiuto il sopralluogo alla cartiera del Varone ed alle modifiche apportate al progetto di ampliamento, che i nuovi capannoni sono in regola e conformi alle norme per la tutela del paesaggio, nonchè all’art. 17 della Legge-ponte”.
Su sollecitazione del segretario nazionale di Italia Nostra Bernardo Rossi Doria – che Rasmo ringraziò vivamente «per il suo efficace interessamento alla questione del Garda» – l’onorevole Michele Cifarelli presentò un’interrogazione in Parlamento sul caso trentino. Qualche mese dopo, però, anche il progetto della Cartiera del Garda fu approvato dal Ministro. Rasmo aveva perso la sua lunga e tormentata battaglia!
Da un promemoria non datato, probabilmente inviato dal soprintendente al Ministero per predisporre la risposta all’interrogazione parlamentare, veniamo a conoscere qualche retroscena poco noto dell’intricata vicenda:
“Nel 1968 sia la cartiera di Riva che quella d’Arco presentarono dei progetti d’ampliamento che il Soprintendente respinse, chiedendo come condizione per un futuro riesame l’installazione degli impianti depuratori tuttora mancanti. Dell’esito delle due pratiche si interessò con insolita premura l’attuale Commissario del Governo della Regione, allora da poco in carica, che tentò ripetutamente di persuadere il Soprintendente a recedere dal suo legittimo rifiuto e ad approvare senza condizioni le due richieste.
In questi tentativi egli insistè ancora, e in forme sempre più pressanti, quando in seguito ai ricorsi degli interessati le pratiche erano passate all’esame del Ministero, esigendo verbalmente che il Soprintendente ritirasse – sconfessando tutta la sua precedente azione di tutela – il veto agli ampliamenti per rimuovere prevedibili perplessità degli organi ministeriali.
Nei contatti intercorsi col Ministero per una definizione delle possibili garanzie contro l’inquinamento il Commissario del Governo si assunse la parte dell’intermediario appoggiando incondizionatamente gli interessi dell’industriale Fedrigoni ed aumentando le proprie pressioni sulla Soprintendenza fino ad investirlo, in colloquio telefonico, con una veemenza inaudita nei rapporti fra pubblici funzionari.
Ciò costrinse il Soprintendente ad inviare al Commissario la lettera di cui qui è acclusa la fotocopia, ribadendo il proprio dovere di agire in conformità alle vigenti leggi ed il diritto ad essere rispettato in tale azione anzitutto da chi era preposto al controllo del corretto funzionamento degli organi statali nella Regione.
I progetti d’ampliamento vennero nello stesso tempo approvati dal Ministero con la sola richiesta di garanzie formali per la futura installazione di impianti depuratori che vennero date, ma finora non mantenute.
L’allarmante intensificarsi dei fenomeni dell’inquinamento in questi ultimi tempi, che ha suscitato le proteste di associazioni ed enti interessati all’economia turistica della zona gardesana e provocato recentemente una denuncia dell’industriale Fedrigoni da parte del Comune di Riva, conferma la legittimità degli sforzi di tutela invano compiuti dal Soprintendente che, richiesto ora dall’opinione pubblica d’intervenire in difesa del Garda e della minacciata integrità del suo ambiente naturale, ha dovuto confessare d’essere stato disatteso delle determinazioni del superiore ministero e di essere perciò impotente di fronte ai recenti gravissimi sviluppi della situazione”.
Dal carteggio sparso in biblioteche e archivi pubblici e privati e dagli articoli della stampa dell’epoca emergono con chiarezza sia la vastità e la serietà dell’impegno di Rasmo, che gli ostacoli e i limiti della sua attività oltre al disincanto per la situazione politico-culturale in cui operò. Molte battaglie furono perdute, ma non mancarono i casi in cui, grazie alla mobilitazione di una parte dell’opinione pubblica (associazioni protezionistiche e culturali, SAT, gruppi politici, istituzioni scientifiche e singoli cittadini) e all’appoggio della stampa nazionale (soprattutto gli articoli di Antonio Cederna sul «Corriere della Sera»), si riuscirono a evitare ulteriori gravi ferite, in particolare alla “montagna trentina”.
Cadde il progetto di funivia del Brenta, non si realizzarono gli impianti di risalita sull’Adamello, non si costruirono le infrastrutture idroelettriche in Val di Genova, che avrebbero sconvolto – come scrisse Cederna nel 1969 – «da cima a fondo l’equilibrio idrico-naturale della valle con la prospettiva a lunga scadenza di prosciugarla come una foglia in un vocabolario».
Nel caso della progettata funivia tra Molveno e il rifugio Tosa, il giornalista e scrittore bellunese Dino Buzzati (1906-1972) raccontò come, dopo mesi di aspre polemiche, nella primavera del 1967 «il professor Nicolò Rasmo, sovrintendente alle Belle Arti, intervenne ponendo il veto”, e determinando la definitiva interruzione dei lavori. Lo studioso e funzionario pubblico s’interessò pure al problema dell’utilizzazione per scopi idroelettrici delle acque della Val di Genova, non solo chiedendo di poter esaminare «l’elaborato esecutivo predisposto dalla SISM di Milano ora ENEL», ma partecipando anche ad un incontro a Roma il 14 ottobre 1966 presso la sede del Ministero del Lavori Pubblici.
Da un resoconto di Antonio Cederna – che aveva partecipato alla riunione «perché avvisato casualmente» e non perché invitato – indirizzato a Borzaga, sappiamo che si erano «già delineati gli schieramenti: da una parte il soprintendente di Trento, Ceschi come rappresentante del MPI (Ministero Pubblica Istruzione) e uno del CNR, (vecchio, biologo, cui non ho osato chiedere il nome): dall’altra i ministeriali vari, coi soliti argomenti, primo fra tutti che l’Enel ha già speso parecchi miliardi».
Rasmo, dunque, si era schierato con forza contro la grande derivazione delle acque del bacino della valle – che l’avrebbe prosciugata – in sintonia con gli enti locali (Regione, Provincia e Comuni), il BIM, la SAT, Italia Nostra, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Accademia delle Scienze di Bologna e altri ancora. E la battaglia fu vinta. Dopo l’approvazione nel 1967 del Piano Urbanistico gli amministratori provinciali si preoccuparono ad affrettare la stesura di una specifica normativa in materia di tutela del paesaggio, in modo da dare attuazione ad alcune previsioni del Piano e per assorbire le competenze statali.
Lo studio del disegno di legge era stato avviato nel 1966; nel 1969 fu presentata una prima versione, approvata un anno dopo, ma alcuni rilievi sollevati dal Governo resero necessarie varie modifiche. Fu presentato un nuovo testo, poi trasformato in legge il 6 settembre 1971. Rasmo non esitò ad esprimere la sua opinione sulla proposta di legge e lo fece al convegno – dal titolo “L’insediamento turistico e residenziale nell’ambiente montano dell’arco alpino” – promosso a Rovereto il 29 agosto 1970 dalla Regione, dall’Unione Nazionale Comuni ed Enti Montani e dalla Camera di Commercio di Trento, in occasione della XIX Festa nazionale della Montagna.
Nella memoria scritta intitolata Il paesaggio come bene di consumo, presentata quel giorno, Nicolò Rasmo pose l’attenzione sull’impatto del turismo di massa sul paesaggio e criticò alcune parti della relazione illustrativa della proposta di legge provinciale.
«La civiltà di massa – esordì – ha portato anche nel campo estetico a delle innovazioni di cui non possiamo tener conto: l’arte di massa, l’antiquariato di massa, la villeggiatura di massa. In conseguenza di questo fenomeno – proseguì – gli oggetti d’arte, di antiquariato ed il paesaggio stesso sono diventati praticamente beni di consumo, destinati cioè, dopo una breve moda, ad essere eliminati, ossia ad essere consumati e distrutti dall’uso».
In quella sede denunciò la mancanza di «adeguati mezzi di tutela» per difendere il paesaggio dal «consumo» favorito dal fenomeno del turismo di massa, precisando che «tale definizione, che a tutta prima parrebbe aberrante» non era frutto della sua fantasia. «Essa – chiarì – mi è stata suggerita da una frase colta nell’introduzione alla nuova legge provinciale sulla tutela del paesaggio che ora si dice sia all’esame dei partiti. La frase – certo poco felice, oltre che poco chiara – dice pressappoco cheil territorio montano è aperto all’utilizzo ed al consumo turistico e che il paesaggio è una componente essenziale e primaria al fine di rendere profittevoli, in ogni senso e direzione, le attività dell’uomo».
Se queste erano le premesse Rasmo suggeriva provocatoriamente di intitolare la nuova legge «dell’utilizzo e conseguente consumo del paesaggio» e non della sua «tutela». Il soprintendente chiese di modificare l’infelice definizione, sicuro che quanto scritto «non fosse nelle intenzioni dei legislatori». Dopo aver ripetuto che «noi non abbiamo il diritto di consumare una tale ricchezza [il paesaggio n.d.r.] togliendola alle future generazioni, ma abbiamo il dovere di tutelarla e di farne un uso discreto perché sia tramandata ai nostri figli», il funzionario statale suggerì di andare a rileggersi i principi, condivisibili, della legge urbanistica provinciale.
Invitò il legislatore a «meditare bene» se non fosse necessario – «prima di creare una legge del paesaggio» – predisporre un regolamento «che precisi i mezzi per tutelare con sollecita energia il paesaggio contro gli attacchi che esso quotidianamente subisce, attacchi che ne sminuiscono rapidamente la sostanza e ne compromettono la futura utilizzazione».
Rasmo suggerì, inoltre, interventi «tempestivi ed energici», sia preventivi (consulenza tecnica, contribuzioni) che repressivi (sanzioni, sospensione lavori, denuncia di amministratori responsabili), per evitare le demolizioni delle case tipiche antiche e le conseguenti sostituzioni con edifici moderni squallidi – fra i quali «non manca di solito il piccolo grattacielo (Dro, Cles)» – in modo da non snaturare «l’immagine tradizionale dell’abitato».
Di fronte ad eventuali inadempienze da parte dei Comuni, infine, proponeva l’intervento risolutivo della Provincia. Grazie alla trascrizione della «registrazione magnetica» dell’intervento tenuto al convegno – conservata presso la Fondazione «N. Rasmo-A.von Zallinger» – possiamo cogliere qualche altro frammento del pensiero del noto storico dell’arte sul tema del paesaggio e sui suoi difensori.
Per prima cosa Rasmo volle rispondere all’accusa di «mentalità troppo conservatrice» generalmente rivolta ai soprintendenti, titolo che considerava «bruttissimo» e al quale preferiva il termine tedesco Landeskonservator, «il conservatore del paese, dei monumenti, delle opere d’arte, del paesaggio».
«Al giorno d’oggi – argomentava – è pericolosissimo passare per conservatori, sia pure dei monumenti, è una cosa veramente pericolosa, si rischia di finire con una corda al collo e con un cartello davanti. Ci sarebbe quasi da vergognarsi, ma io non mi vergogno affatto».
Per Rasmo la proposta di legge della Provincia di Trento era stata fatta «con molta buona volontà anche se ci sono degli errori», ma utilizzava una terminologia poco chiara, a differenza delle spesso criticate leggi statali, dotate viceversa di «un modo di esporre preciso, conciso e veramente pertinente».
Il soprintendente dichiarò, inoltre, di non condividere le lodi espresse da vari relatori alla recente legge paesaggistica voluta dalla Provincia di Bolzano, perché «le varie leggi di tutela, fino all’ultima, non hanno fatto che procedere verso una specie di liberalizzazione – chiamiamola così con un termine buono. – Piano piano si sta consegnando il paesaggio al capo comune, al sindaco».
Difese, al contrario, lo spirito della legge nazionale del 1939, ritenuta «a suo tempo … in tutto il mondo civile una legge esemplare» per la considerazione del paesaggio non come bene del «capo comune e dei 500 abitanti del paese», ma come bene universale. Considerazioni queste di estrema attualità, anche a distanza di quasi tanti anni dal momento in cui furono elaborate.
Sulla base di esperienze altoatesine, come la costruzione del silos di Laces, che «ha distrutto completamente … uno dei paesi più belli dell’Alto Adige», Rasmo mise in guardia sulla scelta dei tecnici chiamati ad occuparsi di paesaggio nelle commissioni edilizie comunali: «un ingegnere o un architetto perché ha preso questa laurea credete che sia un tutore del paesaggio? Credete che sia uno specialista in questioni ecologiche? Ma neanche per sogno».
Suggerì di prevedere corsi di specializzazione e di perfezionamento in tutela del paesaggio e riconobbe che «se c’è un difetto nella legge nazionale […] è questo: che non doveva essere affidata ai sovraintendenti, ma si dovevano creare dei sovrintendenti alla tutela del paesaggio». Agli amministratori trentini Rasmo consigliò di non ripetere gli errori di Bolzano e di provare a superare i limiti della legge nazionale, senza cascare però «in questo difetto fondamentale di annullare praticamente la tutela del paesaggio».
Molte delle raccomandazioni del soprintendente regionale ai Monumenti e alle Gallerie non furono accolte dal legislatore provinciale. Solo molti anni più tardi, ad esempio, il tema della formazione permanente del personale nel campo della tutela paesaggistico-ambientale e degli insediamenti storici e della pianificazione territoriale fu chiaramente definito in un articolo di legge.
Con l’entrata in vigore, il 27 ottobre 1971, della prima legge provinciale sulla tutela del paesaggio le competenze in materia passarono dallo Stato alla Provincia di Trento e i vincoli paesaggistici imposti dalla Soprintendenza vennero revocati «per quelle località o zone non individuate nelle planimetrie 1:40.000 del Piano Urbanistico provinciale», tutelate ai sensi dei commi 3 e 4 dell’articolo 1 della legge nazionale n. 1497/1939.
Restarono in vigore, invece, le dichiarazioni di interesse pubblico o di bellezza naturale su singoli beni immobili (ville, giardini, parchi, punti panoramici ecc..), ma si trattava di «pochissimi casi» – come si premurò di precisare Bruno Kessler (1924-1991), presidente della Giunta provinciale, in una comunicazione inviata ai Comuni – «in quanto la quasi totalità dei vincoli imposti dalle dichiarazioni ministeriali riguardano estesi territori».
Non pochi esultarono per il passaggio di queste competenze; altri, invece, espressero preoccupazione per la sostanziale estromissione di una figura così autorevole e capace come Rasmo. Al soprintendente di Trento o ad un suo delegato venne unicamente riservato un posto nella nuova Commissione per la tutela del paesaggio – presieduta dall’architetto Ezio Miorelli –, organo di consulenza della Giunta provinciale, a cui spettava «un potere generale di vigilanza, di coordinamento e di stimolo per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio».
Nel giorno d’insediamento della commissione (23 novembre 1971) Rasmo formulò l’auspicio che «il passaggio delle competenze in questa delicata materia dallo Stato alla Provincia, con le modalità che la legge prevede e con il suo stretto aggancio alla pianificazione urbanistica, possa essere un’occasione per continuare un’attiva presenza nel settore e Nicolò Rasmo, Castelvecchio verso la fossa, acquaforte, 1930 242 garantire l’impegno a favore di una tutela attiva».
Un mese prima Kessler sulle pagine de «l’Adige» aveva commentato: «da oggi in avanti la tutela del paesaggio viene quindi esercitata direttamente dalla Provincia… La legge che entra oggi in vigore è sostanzialmente diversa ed innovativa rispetto alla legislazione vigente nel resto del Paese; essa ha tentato di recepire le istanze più avanzate e l’esperienza dirà se vi è riuscita o meno».
Alla fine del 1972 sempre Kessler indicò Rasmo come «esperto nella materia» per una commissione chiamata ad esprimere pareri «su talune domande di contributo per la sistemazione o il restauro di edifici caratteristici esistenti nell’ambito dei parchi attrezzati».
il soprintendente ringraziò per l’invito e si dichiarò «ben volentieri disposto a collaborare». Suoi colleghi, in quest’ultimo incarico ufficiale in materia paesistica svolto in Trentino prima del pensionamento, furono il giornalista e scrittore Aldo Gorfer, il naturalista Gino Tomasi e gli architetti Mario Tomasi e Fulvio Nardelli.
Una lettera del 13 settembre 196981, indirizzata al geometra milanese Claudio Michetti, ci permette di conoscere meglio la personalità di questo funzionario dello Stato, che si distinse per dignità, scrupolosità, schiettezza e anche ironia. Al tecnico lombardo, che si lamentava con la Soprintendenza trentina per non aver fatto abbastanza contro le nuove iniziative edilizie a Madonna di Campiglio e per il mancato coordinamento tra tutte le «Autorità e gli Enti interessati alla salvaguardia del paesaggio», Rasmo rispose:
“Criticare è facile quando si ignora a quali leggi e disposizioni sia sottoposta l’opera di una Soprintendenza, particolarmente in una Regione autonoma, e come sia difficile far rispettare le leggi vigenti con l’andazzo attuale di ignorarLe e di non collaborare affinchè esse vengano osservate. Tanto più quando, come oggi, la critica a persone ed uffici responsabili è di alta moda”.
Dopo questa «doverosa premessa» – quasi uno sfogo liberatorio di chi da nove anni quotidianamente combatteva, spesso in solitudine o in ristretta compagnia, piccole e grandi battaglie per la tutela delle bellezze naturali – Rasmo entrò nel merito delle questioni sollevate dal suo interlocutore, difendendo con fermezza l’operato del suo Ufficio ed esprimendo giudizi severi sulla situazione politica ed amministrativa in cui si trovava a dare battaglia.
A Michetti spiegò che la «legislazione urbanistica spetta alla Provincia Autonoma e non alla Soprintendenza cui compete, provvisoriamente, la sola tutela paesistica, disciplinata da una legge di cui Lei non può ignorare le limitazioni». Lo studioso sostenne che «sarebbe stato meglio non costruire l’edificio di cui si lagna»(Villa Principe a Madonna di Campiglio), ma precisò «che sarebbe stato meglio non costruire gran parte degli edifici – case, alberghi e condomini – che ora affollano Madonna di Campiglio e grazie ai quali peraltro Lei ha probabilmente potuto godere dell’ospitalità del luogo e di conseguenza gratificarsi delle Sue critiche».
Al geometra tanto interessato ai «problemi estetici del paesaggio», il soprintendente trentino suggerì di prendere in esame «problemi ben più gravi nati nell’ambito di tutela di questa Soprintendenza», quali «la distruzione del fenomeno, unico al mondo, dell’arrossamento del Lago di Tovel, il progressivo inquinamento del Lago di Garda per opera delle cartiere, la strada che sta rovinando il Lago di Caldonazzo».
“Sono problemi – scrisse Rasmo prima di congedarsi – «che meriterebbero un’inchiesta in sede nazionale ed anche internazionale, ma essa potrebbe essere fatta – col plauso di questa Soprintendenza che si è tanto battuta per essi – soltanto da chi non temesse di imbattersi in nomi di personaggi importanti».«E qui – concluse lo studioso – sta il nocciolo della questione».
Una vicenda, tra le tante che nel corso degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta lo videro protagonista, illustra bene l’impegno profuso da Rasmo per difendere «un patrimonio di tutti», quale il paesaggio, la cui tutela era stata dichiarata prioritaria dall’articolo 9 della Costituzione: la difesa della valle di Tovel.
Già nei primi mesi di lavoro come soprintendente Rasmo iniziò ad occuparsi di questa valle «in parte ancora selvaggia che da Tuenno (Val di Non) porta in una ventina di km. fino al passo del Grosté nel cuore del Gruppo di Brenta». Il 25 luglio 1960 il Ministro Badaloni firmò la dichiarazione di «notevole interesse pubblico della zona della Valle di Tovel, sita nell’ambito del comune di Tuenno».
Il decreto ministeriale recepiva la proposta – avanzata il 3 febbraio 1959 dal Movimento italiano per la Protezione della natura e approvata un mese dopo (12 marzo) dalla Commissione provinciale per la Tutela delle Bellezze Naturali – di «estendere il vincolo a tutta la testata della valle», in quanto la «Conca del Lago rosso di Tovel» si trovava «già soggetta a regime di tutela panoramica ai sensi della legge 22 giugno 1922, n. 778 e della legge 29 giugno 1939, n, 1497».
Qualche mese dopo, riferendosi al «recente scambio d’idee in merito alla situazione ed alle possibilità di sviluppo della zona vincolata di Tovel», Rasmo ribadì al Comune di Tuenno la «ferma necessità che rimanga intatto e nella intera proprietà e disponibilità» dell’amministrazione comunale la fascia di terra di cento metri attorno al lago e l’importanza di regolare la «restante superficie» mediante un particolare Piano territoriale paesistico, in sostituzione di quello provvisorio approvato il 22 marzo 1951.
Nel settembre 1962 si riunì al lago la commissione provinciale consultiva per il piano regolatore di Tovel «per dare il proprio indirizzo alle autorità comunali di Tuenno e agli architetti Enrico e Claudio Odorizzi che cureranno la stesura del piano regolatore». All’incontro parteciparono Nicolò Rasmo, il sindaco di Tuenno Leonardi, il dott. Ducati nella veste di presidente del comitato regionale del Movimento Italiano per la protezione della Natura, il direttore del Museo di Scienze Naturali Gino Tomasi, l’ispettore forestale Zorzi e l’architetto Odorizzi.
La stampa locale sottolineò enfaticamente che «per la prima volta nel Trentino e in Italia le autorità comunali si sono trovate d’accordo con i rappresentanti dei movimenti naturalistici nell’assumere posizioni di netta intransigenza verso ogni tentativo di corrompere la bellezza di un’oasi di natura intatta qual è Tovel». La commissione decise di mantenere allo «stato primitivo attuale» la riva orientale del lago e la zona dove si manifestava l’arrossamento estivo delle acque, di chiudere alle automobili «la strada attuale lungo il lago» e di consentire la realizzazione di «qualche albergo e un certo numero di capanne o villini mimetizzati nel bosco», ma solo in val Cialoia (riva occidentale).
In quell’occasione i convenuti dichiararono, invece, «inaccettabili le proposte fatte dai signori Giovannazzi, Borzaga e Pedrotti con uno studio recentemente compilato, sia perché trascuravano qualsiasi possibilità di valorizzazione turistica, sia perché improntate a criteri si eccessiva severità».
In questa fase, dunque, Rasmo non si unì a quei protezionisti – che di lì a pochi mesi (marzo 1963) avrebbero fondato la sezione trentina di Italia Nostra – che chiedevano una «difesa integrale» della valle, ma considerò possibile uno sviluppo turistico della zona se rispettoso delle leggi vigenti. Il che non sempre accadde, anzi. Già nel 1963, infatti, il soprintendente iniziò a fare i conti con l’intensa urbanizzazione della zona intorno al lago, denunciando abusi edilizi e diffuse irregolarità nei fabbricati oggetto d’intervento negli ultimi mesi.
Si trattava di undici costruzioni, tra villette in muratura, casette prefabbricate in legno e un albergo, appartenenti a persone di Tuenno e dei comuni vicini, «abusivamente ampliate, modificate o comunque alterate rispetto al progetto a suo tempo sottoposto al visto di questo uffici». Durante un sopralluogo Rasmo si trovò di fronte a rilevanti aumenti di cubatura e di altezza, a modifiche dei prospetti, ad aggiunte non autorizzate, a trasformazioni del terreno ottenute anche a mezzo di mine.
Partirono alcune denunce che si conclusero in Pretura nell’ottobre 1964 «con una condanna ad un’ammenda di 50.000 lire e con tre assoluzioni». Il più alto responsabile provinciale della tutela accusò l’amministrazione comunale di Tuenno di carenze amministrative e di non aver ancora approntato un «pur necessario piano territoriale paesistico della zona del lago di Tovel».
Rasmo comunicò al sindaco che questo «Ufficio non rilascia, ne rilascerà ulteriori nulla osta per nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche strutturali e ambientali nella zona del lago di Tovel», fino all’avvenuta repressione di tutti gli abusi, alla stesura del piano paesistico e allo sgravio di uso civico della conca del lago». Nel 1964 – anno in cui si verificò l’ultimo arrossamento del lago – il soprintendente fu il protagonista di una vera e propria “guerra rustica” sulle rive del lago, scatenata dal taglio della sponda per la derivazione dell’acqua a scopo irriguo.
La vicenda, che attirò l’attenzione anche dei giornali nazionali, fu così ricostruita dallo stesso Rasmo cinque anni dopo:
“Se dopo il magnifico arrossamento nell’estate del 1964 il fenomeno non è più tornato a manifestarsi neppure in modestissima entità, ciò non si deve al progressivo inurbamento delle sponde del lago ma ad un fatto particolare, sul quale si cerca di calare un velo di silenzio per la gravità che riveste e per le pesanti responsabilità di personalità amministrative e politiche, anche di notevole rilievo, in esso coinvolte.
Il 1 agosto 1964 il Genio Civile di Trento concedeva al Consorzio agrario generale di Cles, Tuenno, Nanno e Tassullo l’autorizzazione a deviare dal lago di Tovel a scopo irriguo cento litri di acqua al secondo con sistema di prelievo a sifone per un periodo di due mesi. Tale autorizzazione veniva data senza che ne fosse informato questo Ufficio, in evidente contrasto con quanto dispone la legge.
Analoga richiesta presentata a questo Ufficio in data 6.8.1964, veniva respinta in base al parere del Direttore del Museo Provinciale di Scienze Naturali, prof. Gino Tomasi, il quale sottolineava la necessità di non influire in alcun modo e per qualsiasi scopo sulle naturali condizioni idrologiche, chimiche e fisiche del lago per non mettere in pericolo la sopravvivenza del microrganismo «glenodinium sanguineum», responsabile dell’arrossamento estivo, di cui non erano ancora chiariti l’ecologia ed il ciclo biologico.
Tuttavia nella notte sul 6 agosto si era preceduti abusivamente al taglio della sponda del lago provocando un deflusso di circa 500 litri d’acqua al secondo. Avutane notizia, la Soprintendenza chiese l’intervento dell’Arma dei Carabinieri e, interessato il Commissario del Governo, il Soprintendente si recò sul luogo con degli operai per chiudere la falla. Il lavoro però veniva interrotto dall’aggressione di alcuni individui, ben conosciuti dal maresciallo e dai carabinieri presenti che però non intervenivano per proteggere l’operato della Soprintendenza.
Il giorno 8.8. si aveva notizia che il Commissario del Governo, dott. Bianchi di Lavagna, aveva non soltanto sancito il fatto compiuto, ma anche autorizzato l’approfondimento del taglio della sponda, e ciò senza darne avviso, né prima né dopo, a questo Ufficio. Il taglio veniva quindi approfondito nella mattina del 9.8. Il giorno 11 agosto, sotto la presidenza del dott. Pontalti rappresentante il Commissario del Governo, si riuniva nel Municipio di Tuenno una commissione della quale facevano parte anche parlamentari della Regione.
Davanti ad essa il Soprintendente protestava energicamente contro l’operato del Genio Civile e del Commissario del Governo, sottolineando la vanità, da tutti del resto riconosciuta, di un prelevamento d’acqua per rottura della sponda, dato il carattere morenico del terreno a valle, ed insistendo sull’estremo pericolo rappresentato dall’inconsulta azione in corso per il fenomeno, unico al mondo, dell’arrossamento delle acque allora giunte al suo massimo sviluppo stagionale.
Il rappresentante del Commissario del Governo chiudeva la seduta col voto che l’acqua venisse lasciata scorrere ancora per circa 15 giorni. A ciò si opponeva il solo Soprintendente, che intimava al Sindaco di Tuenno di provvedere alla chiusura della falla entro 48 ore. Questo ottemperava nei termini.
Il Ministero della Pubblica Istruzione, avvertito da questo Ufficio con telegramma 9.8.1964 n. 3538 della concessione Commissariale al taglio della sponda, elevava con telegramma 11.8.1964 diretto allo stesso Commissario del Governo «vibrata protesta richiamando l’attenzione sulle responsabilità per eventuale non reparabilità dei danni derivanti dall’abuso commesso», che veniva confermata allo stesso con successivo telegramma 12.8.1964.
A questo Ufficio non era rimasto che stendere regolare denuncia contro gli autori, mandanti ed i responsabili del taglio ormai compiuto. Inviti e pressioni rivolti al Soprintendente perchè ritirasse la denuncia non avevano alcun esito. Essa peraltro veniva archiviata, per ragioni su cui non spetta a questo Ufficio indagare. Dopo l’estate del 1964 il fenomeno dell’arrossamento, che prima ricorreva con frequenza annuale, sia pure con variazioni d’intensità determinate da fattori metereologici, non si è più verificato e si ha motivo di temere che difficilmente tornerà a verificarsi in futuro.
Le cause della cessazione di questo fenomeno che, si ripete, era unico al mondo, vanno ricercate quindi a parere di questo Ufficio, confermato dagli esperti, nel parziale svuotamento del lago avvenuto nel periodo in cui l’arrossamento aveva raggiunto la sua massima intensità, come al solito, in una zona poco profonda del lago verso la sponda meridionale che venne in quell’occasione prosciugata. Colpevoli, mandanti ed esecutori materiali dell’abuso commesso non sono stati fino a tutt’oggi perseguiti”.
Studi recenti, condotti da un équipe di esperti coordinati da Basilio Borghi dell’Istituto agrario di San Michele all’Adige, hanno fornito nuove spiegazioni scientifiche sulla scomparsa di questo singolare fenomeno naturale, che ha reso celebre in tutto il mondo il piccolo specchio lacustre, racchiuso a quota 1178 metri in una conca boscosa nell’omonima valle.
La causa del mancato arrossamento dipenderebbe dai cambiamenti intervenuti nella gestione dell’alpeggio e non dall’eccessiva antropizzazione attorno al lago o dallo svaso eccessivo delle acque del lago effettuato nell’estate del 1964, come sostenuto per decenni da molte persone, Rasmo compreso. Come ha scritto Gino Tomasi, «chi attribuì a questo tipo di svaso l’alterazione riduttiva del popolamento algale responsabile del fenomeno» lo fece «in tutta ignoranza delle leggi biologiche» ma certamente «in tutta buona fede».