PARTIGIANI FINITI IN MANICOMIO

a cura di Cornelio Galas

“Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio”: è un libro (uscito l’anno scorso) di Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, edito da Feltrinelli.

Si tratta di una pagina poco conosciuta della storia italiana postbellica, la ricerca si concentra sull’internamento in manicomio di molti ex partigiani che, macchiatisi di reati comuni, non riuscirono a beneficiare dell’amnistia promossa nel 1946 da Palmiro Togliatti, a differenza di quasi tutti i quadri fascisti e repubblichini.

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I documenti emersi dagli archivi dell’OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) di Aversa testimoniano tanto il paradossale ribaltamento giudiziario quanto l’opera meritoria di Angelo Maria Jacazzi – l’Angelo dei “pazzi per la libertà” – giovane militante comunista che si interessò alle vicende di questi internati provenienti da tutta Italia.  Ne propongo alcuni estratti.

(…) Per alcuni partigiani accusati di fatti di sangue, la strategia difensiva impostata da avvocati “militanti” quali Lelio Basso, Gian Domenico Pisapia e Umberto Terracini vuol mitigare le pene con il riconoscimento della seminfermità mentale.

La diminuzione del periodo di reclusione è controbilanciata dalla “misura di sicurezza” dai tre ai cinque anni di manicomio giudiziario, per un periodo di “custodia” in ottemperanza alle prescrizioni del Codice Rocco sulla pericolosità sociale (…)

Si prevede che, con il decorso del tempo e la decantazione delle passioni, provvedimenti di clemenza scongiureranno l’internamento tra i pazzi. Valutazione poi smentita dai fatti.

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Amnistie e indulti aprono infatti le porte alla massa dei fascisti, a quelli già condannati come ai tanti in attesa di giudizio; anche molti resistenti beneficiano del provvedimento, che tuttavia esclude la detenzione manicomiale.

Negli anni Cinquanta, i “pazzi per la libertà” sono pertanto rinchiusi in strutture opprimenti, privati di diritti e sottoposti a ordinarie vessazioni quotidiane. La macchina manicomiale mina la salute mentale dei partigiani, li debilita e in taluni casi li condurrà anzitempo alla tomba.

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Tra le destinazioni dei partigiani “seminfermi di mente” spicca il manicomio di Aversa, antica città normanna in provincia di Caserta, teatro di vicende fondamentali, di assoluto rilievo nel campo della psichiatria, con importanti risvolti storici e culturali, oltre che nella scienza medica (…)

Nel riordinare l’archivio della sezione, l’estate del 1954, Jacazzi trova due lettere inevase, scritte dal Comitato provinciale di Solidarietà democratica di Reggio Emilia e dalla segreteria della Federazione comunista di Venezia.

Angelo Maria Jacazzi

Angelo Maria Jacazzi

Entrambe segnalano l’internamento di ex partigiani nel Manicomio giudiziario di Aversa e chiedono un intervento solidaristico. Il veneziano Primo De Lazzari, già combattente della Brigata Garibaldi “Erminio Ferretto”, presenta il caso del garibaldino Guerino Pelizzari, mentre il reggiano Vivaldo Salsi illustra le disavventure di Romano Bosi, riconosciuto seminfermo di mente in un processo alla Resistenza.

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Siccome il messaggio di Salsi risale addirittura all’agosto 1952, Jacazzi si scusa dell’imperdonabile ritardo (“Inutile ora dolerci di questa trascuratezza dei compagni precedentemente responsabili, né fare degli addebiti; purtroppo il Partito nel Mezzogiorno ha ancora di queste lacune”) e, da uomo concreto qual è, si reca con un esponente del sindacato ospedaliero di Napoli dal direttore Giovanni Amati, cui prospetta l’opportunità di trasferire Pelizzari in un ospedale psichiatrico veneziano e Bosi in una struttura assistenziale di Reggio Emilia.

Il direttore appare sensibile e disponibile, “a differenza di tutta la direzione medica e amministrativa che è davvero un’indecenza”, annota il 21 giugno 1955 Jacazzi. E scopre con stupore che vi sono vari casi analoghi. Colpito da una realtà inimmaginabile, decide di approfondire la delicata questione.

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Giorno dopo giorno, si assume l’impegnativa mediazione tra i “pazzi”, la direzione dell’istituto, le strutture assistenziali della sinistra e le famiglie d’origine degli sventurati.

Il suo intervento allevia diverse situazioni, incrina il muro dell’isolamento che minaccia di precipitare gli internati nella follia, ottiene loro “licenze di esperimento” e in numerosi casi ne ottiene il rilascio anticipato da parte del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (…)

La complessa opera di “patronato” trova quali interlocutori alcuni parlamentari della sinistra (Umberto Terracini, Antonio Giolitti, Luigi Longo, Giorgio Napolitano, Gian Carlo Pajetta, Pietro Secchia (…), che cercano – invero senza grandi risultati – di sensibilizzare il ministero di Grazia e Giustizia.

Umberto Terracini

Umberto Terracini

Il 22 giugno 1957 Angelo Jacazzi chiarisce a Terracini – a margine dell’VIII Congresso del Pci – il senso del proprio impegno: “Mi sforzo di aiutare i compagni che capitano qui nel Manicomio o nella Casa di cura e custodia, in mancanza di avvocati volonterosi …”.

Nel dicembre 1958 Pajetta scrive al compagno di Aversa che gli ha trasmesso la lettera di un partigiano internato in manicomio, e pare scusarsi per l’inerzia del gruppo parlamentare comunista: “Se non ci siamo mossi in fretta, è stato perché non volevamo dare l’impressione che si trattasse di una questione soltanto di partito, e pregiudicare così un esito, che speriamo positivo”.

Giancarlo Pajetta, Giorgio Napolitano ed Enrico Berlinguer (foto Ginetta Miorelli)

Giancarlo Pajetta, Giorgio Napolitano ed Enrico Berlinguer (foto Ginetta Miorelli)

Nel commiato, il deputato piemontese (incarcerato durante il fascismo per una dozzina di anni) rileva in tono autocritico che, “particolarmente noi, che abbiamo provato il carcere, dovremo fare qualcosa di più, dimostrare meno di aver dimenticato la nostra esperienza” (…)

Il retroterra politico inchioda gli ex partigiani della detenzione manicomiale. Negli anni cinquanta si alternano alla guida del paese governi centristi, che hanno nei guardasigilli e nei funzionari ministeriali lo strenuo ostacolo a misure di clemenza.

Giuseppe Pella

Giuseppe Pella

Il gabinetto Pella (monocolore democristiano sostenuto da monarchici e missini) ha come guardasigilli Antonio Azara, già presidente di sezione della Cassazione e componente dei comitati scientifici delle riviste “La nobiltà della stirpe” e “Diritto razzista”.

Inquisito nell’immediato dopoguerra per apologia di fascismo, presenta una quantità di attestati da parte di alti ufficiali delle forze armate e di giuristi; prosciolto, lascia la magistratura per la politica e per un ventennio siede in Senato per la Dc.

Nel 1953 questo ineffabile ministro – in piena coerenza con il proprio passato – blocca qualsiasi misura favorevole agli ex partigiani, incarcerati o internati in manicomio che siano.

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Angelo Jacazzi serba un forte ricordo di quell’esperienza solidaristica. Ha conservato nel suo archivio la corrispondenza con i “pazzi per la libertà” e, sfogliandola a oltre mezzo secolo di distanza, ancora si emoziona: “Mi sono occupato di questi ex partigiani per un senso di solidarietà, umana e politica. Sono rimasto colpito dall’estrema dignità con cui affrontavano il loro problema, senza smanie né polemiche”.

Un internato gli ha detto, mestamente: “Fossi stato condannato all’ergastolo, sarei libero. Invece ho avuto la seminfermità, e sto qui dentro”.

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Quando Jacazzi riferisce quello sfogo a Terracini, il senatore comunista ci riflette per un attimo e poi ammette di sentirsi doppiamente in colpa: come avvocato, essendosi battuto per il riconoscimento del vizio di mente; come legislatore, per non aver saputo abrogare le norme che inchiodano al manicomio persone assolutamente sane, che avevano combattuto i nazifascisti (…)

Tra tante storie tragiche ce n’è anche una con “lieto fine” (se consideriamo tale l’epilogo di ben undici anni passati dietro le sbarre o in manicomio). Parliamo del partigiano Mario Della Balma, nome di battaglia “Barbis” o anche “Barbisùn”.

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Il 26 agosto 1944, sulle rive del Lago di Agaro, assieme a altri compagni delle brigate Garibaldi partecipa all’agguato che costa la vita a due agenti forestali della IV Legione della Guardia nazionale repubblicana, che sembra avessero una vecchia ruggine con il capo del commando partigiano, Massimo Schmit, pizzicato più volte a fare il bracconiere.

Schmit in seguito verrà ucciso dai nazisti, ma subito dopo la guerra i carabinieri avviano le indagini per vederci chiaro sulla morte dei due agenti forestali. Presto vengono individuati gli alti partigiani che avevano partecipato all’azione, fra cui appunto Mario Della Balma, il quale, interrogato, spiega di aver agito contro due fascisti, due nemici, in una normale azione di guerra.

Ospedale Psichiatrico Giudiziario "Filippo Saporito", Aversa (Ce)

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La motivazione non convince i giudici, che alla fine condannano Della Balma e gli altri garibaldini a dodici anni di reclusione per omicidio volontario continuato e aggravato.

A “Barbis” viene riconosciuta la seminfermità mentale, e l’ormai ex partigiano finisce nelle prigioni di Alessandria. Nel febbraio del 1954 la Corte d’Appello di Torino, in riconoscimento del servizio nella Resistenza, condona a “Barbisùn” la pena residua ma, considerato il “vizio parziale di mente”, gli infligge tre anni di internamento nel Manicomio giudiziario di Aversa, dove l’ex partigiano rimarrà fino al gennaio del 1957.

Dopo undici anni di detenzione fra carcere e manicomio Mario Della Balma potrà tornare a casa, sposare la sua fidanzata Angiolina, riprendere il lavoro dei campi, il suo mestiere di artigiano del legno e vivere serenamente fino all’età di settantaquattro anni.

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Scrivono Franzinelli e Graziano: «Nell’Italia del 1946, condizionata dalla Guerra fredda e dall’anticomunismo, centinaia di ex partigiani si ritrovano inquisiti, arrestati e processati come criminali comuni. Il disconoscimento della legittima belligeranza (…) rappresenta l’antefatto giuridico per la perseguibilità penale delle azioni resistenziali».

Franzinelli e Graziano partono dalla vicenda dei “pazzi per la libertà” per dimostrare come, dal ’46 in poi, l’amministrazione giudiziaria e buona parte degli apparati di polizia furono protagonisti di una vera e propria restaurazione, con il ricollocamento sugli scranni dei tribunali e ai vertici delle forze dell’ordine di uomini già compromessi con il regime. Una delle ragioni per cui la Cassazione arrivò ad annullare il 90 per cento delle sentenze contro fascisti e collaborazionisti.

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Almeno centomila ex partigiani, invece, finirono in un modo o nell’altro nelle maglie della giustizia subito dopo la guerra. E «nella primavera del 1955 – scrivono Franzinelli e Graziano -, decennale della vittoria sul fascismo, i Comitati di solidarietà democratica diramano le cifre della repressione antipartigiana: 2474 fermati, 2189 processati, 1007 condannati».

Oltre alla vicenda di “Barbisùn” il libro racconta i casi di Giuseppe Giusto, accusato di aver ucciso un prigioniero che cercava di scappare, e che rimarrà in manicomio fino al 1957, restandone segnato per sempre; di Aureliano Gabrielli, che uccise per reazione un dentista compromesso con le Squadre d’azione Mussolini.

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E poi i casi di Gian Piero Carnaghi, Gustavo Borghi, Guido Acerbi. E di una donna, la giovane Zelinda Resti, ingiustamente accusata di omicidio a guerra finita. Rinchiusa in carcere, venne spedita al manicomio di Aversa “per motivi di salute”. Qui ne passò di tutti i colori, comprese le insistenti attenzioni sessuali da parte di una delle suore, prima di essere assolta in appello con formula piena.

Ma questi, appunto, sono alcuni casi. Solo nell’archivio di Aversa, fra migliaia di incarti, gli autori ne hanno individuati altri dodici. E nel resto d’Italia? «Manca – scrivono gli Franzinelli e Graziano -, per gli altri manicomi della penisola, qualsiasi indagine a tale riguardo».

«La storiografia – concludono  – ha sino ad oggi ignorato il fenomeno dei “pazzi per la libertà”, confinato entro il recinto delle vicende personali e dei lutti familiari, mentre dispiega una valenza sociale e politica in un’Italia scombinata, ben più complessa e contraddittoria di quanto s’immagini».

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Il caso dei partigiani finiti in manicomio per seminfermità mentale completa dunque il contraddittorio dell’Italia impegnata nella ricostruzione postbellica, in un precario equilibrio tra innovazione democratica e persistenze fasciste.

Bisogna ricollegarlo a quanto avviene sull’altro fronte, ovvero all’atteggiamento della magistratura verso i crimini perpetrati dai sostenitori di Mussolini e Hitler. A fronte della severità verso gli ex “ribelli” sta la generalizzata clemenza verso gli ex fascisti.

Due pesi, due misure. Amnistiato il reato di collaborazionismo con il tedesco invasore, magistrati formatisi professionalmente sotto la dittatura utilizzano con le camicie nere criteri premiali, opposti a quelli applicati ai loro avversari.

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Negli anni cinquanta, mentre i “pazzi per la libertà” entrano in manicomio, una quantità di torturatori e pluriomicidi già arruolati nella Rsi e nei reparti nazisti (SS italiane in primis) sono liberi.

A un decennio dalla fine della guerra, vengono scarcerati gli ultimi responsabili di crimini fascisti, siano essi tra i maggiori responsabili della dittatura ventennale, oppure i volonterosi esecutori di omicidi e persino di eccidi, inclusi cacciatori e delatori di ebrei.

Junio Valerio Borghese

Junio Valerio Borghese

Ai responsabili della dittatura e della guerra civile non serve il “trucco” della seminfermità mentale; funzionano meglio le interpretazioni estensive dell’amnistia Togliatti.

Rodolfo Graziani

Rodolfo Graziani

Il comandante della X Mas, Junio Valerio Borghese, torna libero nel febbraio 1949; il capo militare della Rsi, maresciallo Rodolfo Graziani, è scarcerato nel settembre 1950; sono da tempo in libertà ex ministri del Duce e segretari del Partito nazionale fascista, ex presidenti del Tribunale speciale per la difesa dello Stato e caporioni della Milizia volontaria.

GLI AUTORI

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– Mimmo Franzinelli E’ nato nel 1954 in un piccolo paese della Valcamonica, in provincia di Brescia; ha studiato al liceo classico di Lovere e si é laureato nel 1979 all’Università di Padova, facoltà di Scienze politiche, indirizzo storico.

Ha successivamente conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Udine. Storico del fascismo e dell’Italia Contemporanea, è autore di numerosi libri, fra cui: I tentacoli dell’OVRA (premio Viareggio 20009; La sottile linea nera; Autopsia di un falso; I diari di Mussolini e la manipolazione della storia; Il giro d’Italia. Dai pionieri agli anni d’oro; Il prigioniero di Salò. Mussolini e la tragedia italiana del 1943-45; il Duce e le donne; “Bombardate Roma” Guareschi contro Degasperi: uno scandalo nella storia repubblicana.

Nello scorso anno è stato a Cremona in tre occasioni: per presentare “Bombardate Roma”, per un convegno in occasione del 70° della fucilazione del partigiano Carmen, per un confronto, organizzato da l’Eco del Popolo, su uno dei suoi più apprezzati lavori “IL PIANO SOLO- i servizi segreti, il centro-sinistra e il “golpe” del 1964”.

Nicola Graziano

Nicola Graziano

– Nicola Graziano Magistrato presso il Tribunale di Napoli, autore e curatore di numerose pubblicazioni di argomento giuridico ed amministrativo, collabora stabilmente con varie riviste di cultura, approfondimento e discussione.

Vive ad Aversa, dove ha sede l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, teatro delle vicende narrate nel presente volume ed è da sempre impegnato nella battaglia per la tutela dei diritti civili fondamentali.

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