a cura di Cornelio Galas
Numerosi (circa 2000) furono gli ebrei che parteciparono attivamente alla Resistenza (1000 inquadrati come partigiani e 1000 in veste di “patrioti”), con la massima concentrazione (circa 700) in Piemonte.
La percentuale, pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana, è di gran lunga superiore a quella degli italiani nel loro complesso. Circa 100 ebrei caddero in combattimento o, arrestati, furono uccisi nella penisola o in deportazione; cinque furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria (Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Eugenio Calò, Mario Jacchia e Rita Rosani).
Tra gli esponenti ebrei di maggior rilievo della Resistenza si annoverano: Enzo Sereni, Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto Terracini, Leo Valiani, e Elio Toaff. Fra i caduti, vanno ricordati il bolognese Franco Cesana, il più giovane partigiano d’Italia, i torinesi Emanuele Artom e Ferruccio Valobra, i triestini Eugenio Curiel e Rita Rosani, il milanese Eugenio Colorni, il toscano Eugenio Calò, gli emiliani Mario Finzi e Mario Jacchia, e l’intellettuale Leone Ginzburg. Valgono per tutti le parole che Ferruccio Valobra scrisse alla moglie e alla figlia a poche ore dalla sua esecuzione:
« Spero che il mio sacrificio come quello dei miei compagni serva a darvi un migliore domani, in un’Italia più bella quale io e voi abbiamo sempre agognato nel più profondo del nostro animo».
Di segnalare infine è la presenza della Brigata ebraica che nel 1944-45 operò sul fronte italiano e alla quale si unirono ebrei italiani dalla Palestina o dalle zone liberate.
Alessandra Chiappano, in Voci della Resistenza ebraica italiana, terzo volume della collana “Ebraica storie memorie” dell’editore aostano Le Château, racconta le vicende di sei giovani amici ebrei piemontesi, che sognavano una vita normale e invece dopo l’occupazione tedesca divennero ribelli o comunque aiutarono le bande partigiane.
Nel ’43, come testimoniò Primo Levi, «nel giro di poche settimane ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti» e dopo l’8 settembre arrivò per tutti la scelta di impegnarsi nella lotta: «Ci separammo per seguire il nostro destino, ognuno in una valle diversa». Euge (Eugenio Gentili Tedeschi) partecipò alla resistenza in Val di Cogne, Silvio (Silvio Ortona) divenne comandante garibaldino nel Biellese, Ada (Ada Della Torre, che sposerà Silvio), fece la staffetta tra il Biellese, Ivrea e Torino.
A loro si aggiungono i fratelli Franco e Mila Momigliano e Anna Maria Levi, sorella di Primo. Molti ebrei, per unirsi alla Resistenza, tornarono dall’estero, dove si erano rifugiati o erano emigrati.
È il caso di Enzo Sereni, uno dei primi sionisti italiani, poi morto in deportazione a Dachau, che si era stabilito in Palestina (biografia, curata da Ruth Bondi, in Italia per i tipi Le Château, traduzione di Sarah Kaminski), e di Gianfranco Sarfatti, morto in combattimento, che si trovava in Svizzera.
«Sapete già – scrive quest’ultimo in una lettera ai genitori, al momento di rientrare in Italia – che faccio quello che faccio non per capriccio o spirito di avventura; il mio modo di vivere e il perché del mio vivere da molti mesi non cerca di essere che un tuffarsi nell’umanità, partecipando alla sua vita, dura o lieta che sia.
Se non agissi così rinnegherei me stesso, rimarrei privo di guida, avvilito, annientato: e quindi rinnegherei anche voi che mi avete dato vita ed educazione».
La maggior parte degli italiani si disamorò del fascismo e di Mussolini solo negli anni della guerra, tra il 1940 e il 1943.
Per gli ebrei, invece, anche quelli convintamente fascisti, il momento del distacco avvenne un po’ prima, già nel 1938, a seguito delle leggi razziali, che svelarono ai loro occhi la vera natura del regime, anche se non ne scalfirono il forte attaccamento alla patria, che aveva solide radici nella partecipazione alle lotte del Risorgimento.
L’allontanamento anticipato dal fascismo e le persecuzioni subite fecero sì che, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e dell’occupazione di oltre mezza Italia da parte dei tedeschi, gli ebrei furono tra i primi ad arruolarsi nelle file partigiane, salendo in montagna o aderendo ai Gap e alle bande cittadine.
Già il 9 settembre 1943 il torinese Emanuele Artom annotava nel suo diario, ristampato di recente (Bollati Boringhieri, a cura di Guri Schwartz): «La radio tedesca annunzia che verranno a vendicare Mussolini. Così bisogna arruolarsi nelle forze dei partiti e io mi sono già iscritto».
Tra i combattenti romani a Porta San Paolo e nelle altre zone della città poste sotto assedio dai tedeschi il 9 e 10 settembre, vi era anche un gruppo di ebrei del Ghetto, guidato da Elena di Porto. A Napoli, durante le Quattro Giornate che portarono alla liberazione della città, fra i rivoltosi vi erano diversi ebrei, come Bettino Voghera, Osvaldo Tesoro, Ferruccio Ara e Mosè De Fez (come risulta dal fondo Moscati presso l’Insmli).
Tra l’altro la ribellione della popolazione napoletana evitò la retata della comunità ebraica cittadina, già progettata dai tedeschi. A Cuneo, i fratelli Enzo e Riccardo Cavaglion fecero parte del primo gruppo antifascista che diede inizio alla lotta partigiana sulle montagne del Piemonte, regione che vide una vasta partecipazione di ebrei al movimento di liberazione. Tanti rientrarono in Italia dall’estero proprio per battersi contro i nazifascisti.
Claudio Coen, rifugiato in Svizzera, a Losanna, motivò così in una lettera al suo professore Alessandro Levi, data 11 maggio 1944, la “decisione” di arruolarsi nelle file partigiane: «Lei è al corrente della sorte toccata alla mia Nonna, che adoravo, e ai miei zii, che pure mi erano tanto cari (erano stati deportati nei lager ndr).
Quindi, molte sono le circostanze che hanno influito nella mia determinazione e che, anzi, l’hanno resa definitiva, se ce n’era bisogno».
L’adesione degli ebrei alla Resistenza non fu dettata solo dalla reazione all’antisemitismo nazifascista – che ebbe ovviamente una parte importante nella loro lotta – ma, come per gli altri partigiani, si fondò anche su motivazioni politico-ideologiche e sull’avversione più in generale verso un regime dittatoriale che soffocava la libertà.
«E quando viene la tristezza ed il peso diviene duro a portare, bisogna dire: Vita! Vita! e tirare avanti con serenità e coraggio, – afferma Eugenio Curiel in una lettera alla famiglia – ringraziando che tutto il tumulto non riesca a spezzare la nostra fiducia nelle cose fondamentali della vita, ma anzi ci tempri a sperare e a volere cose migliori e una vita più ricca».
«W L’Italia Libera», scrive nel suo diario Giulio Bolaffi. «Io ho viva speranza – si legge invece nella lettera del genovese Davide Pugliese allo zio nonché tutore Giacomo – che questa guerra debba terminare presto e tutti i miei voti sono perché tutti noi ci possiamo ritrovare per poter iniziare la creazione di una nuova Italia in cui veramente la giustizia e la fratellanza vi regnino sovrani».
La percentuale degli ebrei che militò nelle bande partigiane (in particolare quelle garibaldine e quelle di Giustizia e Libertà) fu pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana, superiore a quella degli italiani.
Circa 1000 ebrei italiani clandestini entrarono nella Resistenza, tra i quali Eugenio Curiel, Vittorio Foa, Primo Levi, Pino Levi Cavaglione, Liana Millu, Enzo ed Emilio Sereni, Elio Toaff, Vanda Maestro, Leone Ginzburg, Umberto Terracini e Leo Valiani.
Molti ebrei ebbero ruoli fondamentali nella guida della Resistenza, come Leo Valiani ed Emilio Sereni, che fecero parte del comitato insurrezionale nominato il 29 marzo 1945 dal CLNAI. Ad altri fu affidato il delicato compito di tenere i contatti con gli Alleati e di cercare finanziamenti per il movimento di liberazione, come Raffaele Jona.
La militanza nelle file della Resistenza comportò un costo notevole in termini di vite umane. Circa 100 ebrei caddero in combattimento oppure furono arrestati e uccisi nella penisola o in seguito alla deportazione nei lager nazisti, in nome della libertà dell’Italia.
Nel dicembre 1944 l’ebreo Ferruccio Valobra, in procinto di essere fucilato per aver preso parte al movimento partigiano, scrisse nella sua ultima lettera che morire per la patria equivaleva ad essere vissuto «assai».
Sette di loro furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria: Eugenio Calò, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Sergio Forti, Mario Jacchia, Rita Rosani e Ildebrando Vivanti. Diversi partigiani ebrei, una volta catturati, furono deportati nel Reich.
Accanto ai casi noti di Primo Levi e Vanda Maestro, va ricordata la vicenda del magistrato Emilio Sacerdote, classe 1893, a cui è stata intitolata il 19 maggio scorso un’aula di Tribunale, nella sua città natale, Vibo Valentia, con l’affissione sulla parete di una targa con un francobollo che riproduce il suo volto (fornito dal collezionista e studioso dell’antisemitismo Gianfranco Moscati), impreziosito dalla applicazione di una piccola stella di Davide con scintillanti lapislazzuli.
Sacerdote, reduce della Grande Guerra, che a seguito delle leggi razziali era stato costretto a lasciare la magistratura, dopo l’armistizio entrò nella formazione autonoma della Valle di Viù, una delle Valli di Lanzo vicino a Torino, con il nome di battaglia di “Dote”. Per la sua alta formazione giuridica divenne Presidente del locale Tribunale Partigiano e Capo di Stato Maggiore, mantenendo questi incarichi anche quando passò alla XIX Brigata Garibaldi e poi alla IV Divisione Giustizia e Libertà.
Anche la moglie Marina e la figlia Consolina, nata a Torino nel 1919 e scomparsa di recente, militavano nella Resistenza, come staffette partigiane. Fu una delazione a tradire Sacerdote, il 30 settembre 1944, quando venne arrestato dai fascisti a Lemie (Torino), rinchiuso alle Carceri Nuove di Torino e poi trasferito nel campo di Bolzano. La sua condizione di ebreo fu nel frattempo scoperta per denuncia dello stesso delatore.
Da alcune lettere clandestine che riuscì a scambiare con i suoi familiari grazie all’aiuto di un autista della Lancia (i cui originali sono stati recuperati da Gianfranco Moscati e donati, insieme alla sua vastissima collezione di documenti sulla Shoah e sulla storia ebraica, all’Imperial War Museum di Londra) apprendiamo dell’aggravarsi della sua situazione a Bolzano.
«Soffro moralmente tanto, tanto, tanto come non potete immaginare, e patisco anche la fame, proprio così, la fame», scrisse. Lamentandosi della pesantezza del suo lavoro “di pala e picco” sulla strada. Il 14 dicembre 1944 fu lui stesso ad annunciare con un biglietto a casa la sua partenza per i Lager del Reich, di cui certo ignorava l’orrore:
«Carissime, lascio oggi Bolzano e parto per la mia nuova residenza. Di salute sto benissimo; vi ho in cuore con me; non posso scrivere di più; cari baci, mie adorate; tutti i miei baci Emilio». La sua destinazione era Flossenbürg, in Germania, dove resistette quasi fino alla liberazione.
Venne quindi trasferito a Bergen Belsen, come risulta da una Transportliste dell’8 marzo 1945. Questo documento, che porta chiara l’indicazione “it. Jude” (italiano Ebreo), precedente di due mesi alla fine del conflitto, è l’ultima traccia di vita che abbiamo di lui. Un altro partigiano ebreo, Marco Moscati, soprannominato “Marchello”, figura tra i 335 delle Fosse Ardeatine.
Commerciante ambulante, nato a Roma il 1° luglio 1916, all’epoca dell’eccidio aveva 27 anni. Dopo l’armistizio si era dato alla macchia e, assieme ad Alberto Terracina, era entrato a far parte della banda partigiana dei Castelli Romani, guidata dall’ebreo Pino Levi Cavaglione, di cui era diventato grande amico e che lo cita più volte nel suo diario.
Nel marzo ’44 Marco fu arrestato, probabilmente su delazione, sulla scalinata di Trinità dei Monti. Venne rinchiuso nel carcere delle SS in via Tasso, dove – come testimonia il fratello Angelo – “fu picchiato selvaggiamente ma con grande onore riuscì a non dire nulla della sua rete operativa partigiana dei Castelli Romani”.
Portato a Regina Coeli, il 24 marzo 1944 Marco fu prelevato dal carcere e portato col fratello Emanuele, trent’anni ancora da compiere, alle Ardeatine, dove furono entrambi barbaramente assassinati dai tedeschi.
Negli anni ’70 il Comune di Roma, su proposta di Carla Capponi, conferì una Medaglia d’Argento ai genitori di Marco Moscati per l’attività partigiana del figlio. Tuttavia tra i nomi degli ebrei assassinati alle Ardeatine compariva solo il nome di Emanuele e non quello di Marco, la cui identità non aveva potuto essere stabilita al momento dell’esumazione delle salme.
Solo nel marzo scorso il Reparto investigazioni scientifiche dell’Arma dei Carabinieri, attraverso l’esame del Dna, ha potuto identificare il suo corpo, i cui resti si trovavano nel sepolcro n. 283 delle Fosse Ardeatine. Sempre a Roma si distinse nei Gap comunisti l’ebreo napoletano Giorgio Formiggini, che partecipò alla lotta partigiana meritando la croce al merito di guerra.
Gappista era anche l’ebreo Mario Fiorentini, nato a Roma nel 1918, poi diventato matematico di fama internazionale, che progettò l’azione di via Rasella del 23 marzo 1944. Il nome di battaglia di Fiorentini era “Giovanni”, curiosamente dal nome di uno degli Apostoli di Gesù, mentre il suo compagno Rosario Bentivegna, quello che accese la miccia dell’esplosivo travestito da spazzino, si faceva chiamare “Paolo”.
Un’altra figura eroica è quella di Luigi Davide Da Fano, nato a Milano nel 1924. A venti anni lasciò il comodo rifugio svizzero per combattere i nazifascisti in Francia e in Val d’Aosta. Nel dicembre 1944, dopo un viaggio avventuroso, superò le linee Alleate e raggiunse Bari e nel gennaio 1945 fu paracadutato con un comando inglese in Piemonte, diventando comandante della Brigata Cattaneo della VII Divisione Pedro Ferreira di Giustizia e Libertà, che operava, nel Biellese, con il nome di battaglia di “Giotti”.
La sua brigata liberò Ivrea prima dell’arrivo degli Alleati. Molte di queste storie, spesso dimenticate, sono incluse nell’ultima raccolta di documenti di Gianfranco Moscati, intitolata Gli ebrei sotto il Regno Sabaudo. Combattenti, Resistenza, Shoah, appena pubblicata, che è anche una mostra itinerante in tutta Italia, in occasione dei 150 anni dell’Unità.
Nella collezione Moscati figura anche l’ultima lettera del più giovane partigiano italiano morto in combattimento, anche lui un ebreo: il mantovano Franco Cesana, classe 1931, membro della banda del Capitano Marcello, nome di battaglia “Balilla”, ucciso dai tedeschi a Picciniera di Gombola, nel Modenese, il 14 settembre 1944, quando non aveva ancora compiuto 13 anni.
Fuggito da casa per unirsi ai partigiani, nel suo messaggio aveva assicurato alla madre: «Per chiarire un increscioso incidente ti avverto che non ho detto quella cosa che mi hai fatto giurare». La promessa era quella di non rivelare a nessuno di essere israelita.
Era noto infatti che i partigiani ebrei, se catturati e identificati, erano i primi ad essere passati alle armi o deportati dai tedeschi. Ma non fra tutti i combattenti ebrei della Resistenza vi era la percezione del pericolo che correvano in quanto israeliti.
Primo Levi, ad esempio, arrestato durante un rastrellamento nazifascista sui monti della Val d’Aosta, preferì dichiararsi “ebreo” alle autorità per paura delle conseguenze della sua attività di “ribelle” e finì ad Auschwitz come deportato razziale invece che come deportato politico.
In alcune occasioni la presenza di ebrei nei gruppi partigiani comportò anche azioni militari dirette in favore dei perseguitati, come avvenne a Servigliano nelle Marche, con l’eccezionale attacco del maggio 1944 contro il locale campo di concentramento condotto dal gruppo autonomo partigiano di Monte San Martino, comandato dall’ebreo Haim Vito Volterra, nato ad Ancona nel 1921, che consentì di liberare un centinaio di ebrei stranieri internati (oltre che numerosi prigionieri di guerra) e di sottrarli alle grinfie dei tedeschi.
Nelle sue memorie Giorgio Nissim ricorda un’altra azione partigiana volta ad evitare la deportazione degli ebrei concentrati in un campo di concentramento vicino Lucca. Di recente, infine, lo studioso Leopoldo Boscherini ha riportato alla luce l’episodio del salvataggio degli ebrei internati nella provincia di Perugia, aiutati nella fuga dai partigiani locali al momento dell’arrivo degli alleati.
E se all’epoca vi fosse stata piena consapevolezza del terribile destino a cui andavano incontro gli ebrei rinchiusi a Fossoli e a Bolzano, la Resistenza, oltre ad organizzare comitati clandestini di assistenza ai detenuti in quei campi, avrebbe probabilmente ordinato anche azioni militari per liberarli.