“NON AMMAZZO UN INNOCENTE”

a cura di Cornelio Galas

Si chiamava Leonhard Dallasega, era un soldato tedesco. E fu ucciso dai propri commilitoni per essersi rifiutato di fucilare un prete. Ne abbiamo già parlato in una delle puntate sulla “Resistenza in Trentino”. Val la pena però, crediamo, approfondire meglio questo tragico episodio accaduto verso la fine della guerra, nel 1945, ad Ala, in Trentino.

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Nelle ultime giornate dell’aprile 1945, a Giazza Veronese nell’alta Valle d’Illasi, c’era, ad ogni ora, gente sulla piazza che osservava il passaggio di reparti tedeschi in fuga verso i valichi alpini. Con l’appoggio di massicce incursioni aeree che frantumavano sotto una valanga di ferro e di fuoco ogni resistenza le colonne corazzate americane e inglesi, superato il Po, dilagavano ora in Lombardia. È il momento del crollo definitivo del fronte tedesco, e chi può, fugge verso il Nord.

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Il 27 aprile, di buon mattino, è in marcia verso Giazza una compagnia germanica di circa cento uomini formata, in prevalenza, di paracadutisti e carristi e da alcuni elementi delle SS. È bene armata e vuole raggiungere Passo Pertica per scendere ad Ala, in Val d’Adige. Una formazione partigiana, nascosta nella zona, intende fermarla alle porte di Giazza e disarmarla.

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Avvertito che in questo modo un grave pericolo incombe sul paese, il parroco di Giazza, don Domenico Mercante, accompagnato da un brigadiere della milizia forestale, si fa incontro ai due gruppi, per convincere i partigiani a non provocare i tedeschi in ritirata e per invitare i tedeschi a non fare del male alla pacifica popolazione.

In testa alla compagnia vi sono due ufficiali che ascoltano i due “parlamentari” senza tuttavia dare alcun peso alle loro spiegazioni. A conoscenza che nella zona operano partigiani, obbligano i due a mettersi in cammino davanti ai soldati per farsi scudo con loro contro un improvviso attacco nemico. In particolare tengono d’occhio don Mercante, ostaggio prezioso che può assicurare loro via libera.

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All’altezza del cimitero di Giazza un comandante partigiano, Beniamino Nordera, balza sulla strada e ordina agli ufficiali di fermarsi e consegnare le armi, minacciando, in caso contrario, di far intervenire i compagni nascosti nel bosco. Per tutta risposta la raffica di un mitra lo stende a terra.

Dalla foresta si risponde con una nutrita sparatoria che non fa vittime ma che allarma ancora di più gli ufficiali. Adesso ritengono che don Mercante sia un capo partigiano o un loro stretto collaboratore e perciò lo trattengono, promettendogli di lasciarlo andare appena saranno al sicuro oltre il Passo Pertica, nella Valle di Ronchi.

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Mentre il brigadiere ed altri due ostaggi riescono a svignarsela durante una successiva sparatoria, don Mercante, tenuto continuamente sotto controllo e minacciato, è obbligato ad accompagnare i paracadutisti per ore ed ore giungendo con loro, sfinito, fino ad Ala: sono circa le cinque pomeridiane del 27 aprile 1945.

La compagnia si ferma nel rione di San Martino, al bivio di Ceré, dove parte la strada per Pilcante. Il capitano, ottenuta l’autorizzazione dal comando locale delle SS di fare quello che voleva con l’ostaggio, decide di fucilarlo lì, al bivio, sul cratere scavato da una delle tante bombe d’aereo cadute nei frequenti bombardamenti americani che dal novembre ’44 all’aprile del ’45 avevano martellato la stazione ferroviaria e i ponti di Ala.

Don Domenico Mercante, parroco di Giazza

Don Domenico Mercante, parroco di Giazza

Quando si forma il plotone d’esecuzione, un caporalmaggiore delle SS riceve l’ordine di farne parte; ma egli si rifiuta ed ha parole di difesa per il parroco don Mercante. “Qui si fucila un innocente, — afferma — questo è un assassinio!“. Il capitano gli chiede se parla così perché è un cattolico e, ricevuta risposta affermativa, gli ripete seccamente l’ordine. Il caporale rinnova il suo rifiuto. Un testimone presente lo sente dire: “Sì, sono cattolico, ho moglie e quattro figli, ma preferisco morire piuttosto che fucilare un sacerdote“.

Viene punito a norma della legge marziale di guerra che non tollera un atto di disubbidienza al comando di un ufficiale. Assiste alla fucilazione del parroco; poi è la sua volta: degradato, privato dei documenti personali, con le mani appoggiate dietro la nuca, ritto sul cumulo di terra sconvolta dalle bombe, lo si sente ancora ripetere: “ma ho quattro bambini“, quando la raffica del mitra lo abbatte nelle piccola fossa del cratere, accanto al corpo senza vita di don Domenico Mercante.

Leonhard Dallasega con l'uniforme delle SS

Leonhard Dallasega con l’uniforme delle SS

Le due salme vengono abbandonate lì, sommariamente coperte da alcune palate di terra. In seguito, alcuni contadini, informati dell’accaduto, pongono dei sassi a forma di croce su quel tumulo. Il 3 maggio, dopo la partenza delle truppe germaniche da Ala, le due salme vengono esumate dalla pietà locale e trasportate nella cella mortuaria dell’Ospedale Civile.

Da Giazza arrivano un paio di uomini a prendere la salma del loro parroco e, portando a spalle la bara appesa ad un palo, ripercorrono faticosamente la strada per Val di Ronchi fino a Passo Pertica e poi fino alla chiesa del paese, accolti dai mesti rintocchi a morto delle campane e dalla costernazione e dal pianto di tutta la popolazione.

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Il corpo dello sconosciuto soldato viene sepolto dapprima nel cimitero vecchio di Ala e poi nel nuovo, al cippo N. 5, ben distinto dalle tombe di altri otto caduti tedeschi. Il cappellano dell’Ospedale di Ala, fratello Stefano Girardi e il custode del cimitero, Giovanni Mabboni, dichiararono per iscritto di non aver trovato nelle tasche del soldato alcun documento di identità se non un rosario di grani neri, un astuccio di vetro con la fotografia di una donna e, sotto la camicia, una crocetta di legno e metallo bianco con catenina, oggetti che preferirono lasciare addosso al caduto.

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Fu seppellito con grande partecipazione di popolo e la sua tomba ebbe continuamente fiori da mani sconosciute, fino al 15 settembre 1956, quando i suoi resti, chiusi nel sacco catramato N. 567, furono trasportati da una Commissione germanica al cimitero tedesco di Merano e seppelliti sotto il cippo N. 1018. Tra le ossa c’era ancora un pezzo di duro panno grigio con la sigla metallica ad angolo corrispondente al grado di caporalmaggiore.

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Nel 1959, il 16 agosto, a Passo Pertica, il Vescovo di Verona, Monsignor Giuseppe Carraro, benedice un pilastro marmoreo dedicato alla memoria di don Mercante e a quella dell’ignoto soldato germanico. Sono presenti personalità italiane e tedesche.

L’avvocato Nerino Benedetti, presidente del Comitato per le Onoranze, tiene il discorso commemorativo che conclude con queste parole: “L’esile figura del sacerdote di Cristo, che per amore portato alle anime a lui affidate ha incontrato la morte, e l’immagine del fiero soldato tedesco, che senza batter ciglio e a testa alta ha affrontato il mitra spianato contro di sé per un supremo dovere di coscienza e di umana fratellanza, sono oggi unite nel nostro ricordo commosso, nella nostra gratitudine, nel nostro impegno solenne di essere meritevoli del loro sacrificio e del loro esempio… Vestivano la diversa divisa di due eserciti tanto fra loro dissimili, ma i loro cuori battevano i palpiti di una medesima fede. A loro sia gloria eterna!“.

Il monumento ad Ala a ricordo di don Domenico Mercante e di Leonhard Dallasega

Qualche anno dopo, anche in Ala, al bivio di Cere di S. Martino, il 27 aprile 1960, fu inaugurato un capitello con la seguente scritta:

“A DON DOMENICO MERCANTE

PARROCO DI GIAZZA

E ALLO SCONOSCIUTO SOLDATO TEDESCO

CHE IL 27 APRILE 1945

 QUI TESTIMONIARONO IN COMUNE

 OLOCAUSTO

IL TRIONFO DELLE LEGGI DIVINE

 SULLE BARBARIE DELLA GUERRA”

Per anni il nuovo parroco di Giazza, don Erminio Furlani, tentò, con paziente ricerca, di scoprire il nome dello sconosciuto soldato. Alla sua identificazione arrivò mons. Luigi Fraccari di S. Ambrogio di Valpolicella, al quale era stata passata la pratica. Mons. Fraccari, un generoso e coraggioso sacerdote veronese, aveva raggiunto Berlino nel 1944 come cappellano dei lavoratori italiani emigrati in Germania e si era interessato subito alle migliaia di nostri internati per rispondere alle famiglie che si rivolgevano a lui chiedendo notizie dei loro cari.

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Si era adoperato oltre ogni rischio per venirne a capo; seppe perfino dare un nome alle tombe di 537 soldati italiani rimasti vittime dei lager nazisti. Pregato d’aiuto dal parroco di Giazza, fece ricerche in primo luogo presso il Ministero della Guerra, presso la Croce Rossa Tedesca e la Lega Popolare per la cura delle tombe dei caduti in guerra.

Non approdò a molto, ma per esclusione, restringendo lo spazio della ricerca, sentì di trovarsi sulla pista giusta. Quando rientrò a Verona nel 1979 mise insieme pezzo per pezzo, come in un mosaico, i dati raccolti, ogni richiesta e ogni testimonianza.

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Leonhard Dallasega

Entrò in relazione con un giornalista di Norimberga, Theo Reuber Ciani, che sul fatto di Ala aveva scritto tre servizi per la rivista “Gong” e posto ai lettori tedeschi la domanda: “Wer ist der Held von Gazza?” (“Chi era l’eroe di Giazza“) e poi, ancora, con un regista bavarese, Mario Reinhard, che stava girando un film sulla vicenda. Ciò che all’inizio era semplice supposizione, divenne alla fine certezza: lo sconosciuto soldato tedesco non era più tale, aveva finalmente un volto e un nome.

Si chiamava Leonhard Dallasega: era nato a Proves, nell’alta Valle di Non, Decanato di Cles, il 15 ottobre 1913, al Maso “Clasett”, in una modesta famiglia contadina, formata dai genitori e da altre due sorelle. Chiamato a prestare servizio militare nell’esercito italiano nel giugno 1933, fece parte dapprima del VII Reggimento Alpini, poi dell’XI, con il quale si imbarcò a Livorno, il 6 gennaio 1936, alla volta dell’Eritrea per la guerra contro l’Abissinia.

Leonhard Dallasega con la moglie il giorno del matrimonio

Leonhard Dallasega con la moglie il giorno del matrimonio

Ammalatosi di tifo, rientrò il 17 giugno a Napoli con un trasporto di malati e feriti e passò un periodo di degenza all’Ospedale di Caserta, per raggiungere poi, guarito e congedato, la famiglia di Proves. Il Dallasega era un giovane per bene, capace, molto affezionato alla famiglia, buon suonatore di chitarra e ben visto in paese.

Non aveva frequentato che la IV elementare ma era sveglio e volonteroso. Lavorava di buona lena nell’azienda paterna che offriva lo stretto necessario per campare. Dopo il servizio militare, quando il governo germanico offrì lavoro nei settori dell’industria e dell’agricoltura, Leonhard si unì ai numerosi operai che partirono dall’Alto Adige e dal Trentino; trovò occupazione in Baviera in una fabbrica di tabacchi.

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Nel 1939 optò anche lui con i familiari per il Terzo Reich, non sappiamo se convinto assertore dei diritti della minoranza tedesca nel Tirolo del Sud contro l’oppressione fascista, oppure se travolto, come i più, dalla sfrenata e minacciosa propaganda nazista. In quell’epoca accettò volentieri il posto di contabile presso la Cassa Rurale di Proves che gli permetteva di restare a casa con una discreta posizione economica.

Nel 1941 si sposò con Maria Herbst, originaria di Nuova Ponente, ed ebbe la gioia di vedere, nel 1942, la famiglia arricchita dalla nascita di una bambina, Elisabetta (Lisl), e, l’anno dopo, di un maschietto, Ewald. Quando nel gennaio 1945 nascono i due gemelli, Helmuth e Othmar, che moriranno dopo due mesi di broncopolmonite, papà Leonhard è, da due anni, soldato dell’esercito germanico.

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Dopo il 13 settembre 1943 l’Italia del Nord restò terra d’occupazione sotto il pesante tallone nazista e il Trentino, con l’Alto Adige e il Bellunese, divenne «Zona di Operazione delle Prealpi» (Alpenvorland), praticamente annessa alla Germania.

Il 25 ottobre Leonhard, di lingua materna tedesca, fu richiamato alle armi ed obbligato ad immatricolarsi nelle SS. Dopo tre mesi di addestramento a Münsingen in Germania, la sua compagnia fu inviata in Italia alle dipendenze del Generale Wolff e comandata a Caldiero di Verona.

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Qui il Dallasega, per la buona conoscenza che aveva della lingua italiana, ottenne l’incarico di portalettere e di capocuoco, mansioni per le quali ebbe a disposizione una bicicletta. Fu presto promosso al grado di “Obergefreiter der Waffen SS” cioè di caporalmaggiore.

Quando il fronte tedesco crollò, la sua compagnia si ritirò parte verso il Lago di Garda e parte verso Vicenza, per non cadere prigioniera delle truppe corazzate americane che stavano per giungere a Verona. Lui scelse la montagna, meno bersagliata dai bombardamenti alleati ed arrivò così sul fare della sera, del 26 aprile 1945, alle porte di Giazza.

Roma, via Rasella, 23 marzo 1944. Subito dopo l'attentato, soldati del "Bozen" sorvegliano i piani alti della strada, mentre (a destra) un ufficiale del Kds di Roma (Franz Braun) esamina i resti della bomba (Kock, PK 699/BA Koblenz)

Roma, via Rasella, 23 marzo 1944. Subito dopo l’attentato, soldati del “Bozen” sorvegliano i piani alti della strada, mentre (a destra) un ufficiale del Kds di Roma (Franz Braun) esamina i resti della bomba (Kock, PK 699/BA Koblenz)

Pernottò in un casolare: pare intendesse al mattino del 27 barattare la bicicletta con abiti civili, quando fu raggiunto dalla compagnia dei paracadutisti che fecero poi prigioniero don Mercante. Forse si unì a loro visto il pericolo di essere bloccato dai partigiani della montagna o forse, più probabilmente, fu sospettato di diserzione e obbligato a proseguire il cammino con la compagnia.

Intanto a Proves, con la fine della guerra, cominciarono a rientrare alle loro famiglie i reduci dalle più disparate regioni d’Europa. Mancava Leonhard e nessuno sapeva dare spiegazioni. La sposa Maria si interessò subito presso i conoscenti, chiese informazioni presso i compagni del marito a Caldaro, a Bolzano e Merano. Raccolse ogni volta espressioni vaghe, brevi descrizioni dei pericoli incontrati dalle truppe tedesche in fuga, oggetto di feroci mitragliamenti da parte degli aerei alleati e di frequenti imboscate tese dai gruppi partigiani.

Rencio/Rentsch, 9 settembre 1943. Le truppe germaniche, ormai alle porte di Bolzano, vengono accolte dalla popolazione con frutta, fiori e vino (p. priv.)

Rencio/Rentsch, 9 settembre 1943. Le truppe germaniche, ormai alle porte di Bolzano, vengono accolte dalla popolazione con frutta, fiori e vino (p. priv.)

La donna tornava a casa col cuore rotto, profondamente amareggiata, perché si era convinta che più d’uno sapeva ma non voleva parlare. Anche l’anziano padre Angelo si mosse alla ricerca del figlio, andò a Caldiero di Verona da dove era partita l’ultima lettera destinata alla famiglia con data 22 aprile 1945; trovò gente che si ricordava benissimo del biondo portalettere tedesco che ogni domenica andava alla Messa in parrocchia e faceva la Comunione.

Gli dissero che era molto buono, che dava frequentemente ai ragazzi affamati del paese una fetta di pane spalmata di margarina o di marmellata. Molti lo avevano osservato con un sentimento di rispettosa ammirazione quando, sul tardo della sera, passeggiava con il rosario in mano nell’orto della macelleria requisita.

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Ma anche lui con tutti gli altri era partito il 26 aprile e il 28 erano arrivati gli Americani. Il vecchio genitore tornò al paese natale convinto che non avrebbe più visto il figlio, anche se nel cuore non sapeva rinunciare alla speranza d’un suo ritorno.

Nel 1946 la sposa Maria, insistendo nelle ricerche, ottenne una lettera da un sottufficiale austriaco di Linz, sul Danubio, che le comunicava brutalmente che suo marito Leonhard era stato fucilato in quel di Trento, perché durante la ritirata aveva abbandonato la sua unità. Fu l’ultima notizia, poi più nulla.

Bolzano, 9 settembre 1943. Un panzer nei pressi di ponte Druso, davanti alla Casa della GIL

Bolzano, 9 settembre 1943. Un panzer nei pressi di ponte Druso, davanti alla Casa della GIL

Nel 1952 Maria Dallasega si risposò con Angelo Kerschbamer, un bravo contadino, proprietario di un piccolo maso nella parte sud di Proves ed ebbe da lui quattro figli, tre maschi e una femmina.

In un numero del quotidiano “Dolomiten” del 20 agosto 1959, Maria lesse dell’inaugurazione del monumento a Passo Pertica in onore di don Mercante e dello sconosciuto tedesco. Ebbe immediatamente la sensazione che quel soldato potesse essere il suo defunto primo marito, perché lo riteneva capace di un gesto simile, ma non poté reperire alcuna prova. In seguito, nel 1965, la sua famiglia si trasferì a Sopramonte di Trento, a lavorare a mezzadria in un grosso podere del professor dott. Enrico Nardelli, rinomato chirurgo di Cles. E a Sopramonte verrà molti anni dopo, precisamente il 15 giugno 1985, mons. Luigi Fraccari a comunicare il giorno e l’ora della morte di Leonhard Dallasega.

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