a cura di Cornelio Galas
Un uomo di 62 anni, prigioniero della sua ombra, del suo ruolo, con un’amante di 33 anni, ombroso, depresso, con sbalzi di umore, circondato da un microcosmo di sopravvissuti che gli danno sempre ragione (salvo smentirlo alle spalle) e, soprattutto ostaggio dei tedeschi. È il racconto degli ultimi giorni di Benito Mussolini come emerge dal libro di Mimmo Franzinelli “Il prigioniero di Salò. Mussolini e la tragedia italiana del 1943-1945” (Mondadori) al quale abbiamo già fatto ampi riferimenti nelle precedenti puntate.
L’unico vero referente del dittatore che, a 38 anni, era diventato il più giovane presidente del consiglio della storia d’Italia, è ora la sua amante Claretta Petacci. Il suo esclusivo e reale interesse è spostare la sede del governo lontano da Salò, da quel lago di Garda che – sue parole – lo deprime.
Dice infatti di amare il mare, i fiumi, sempre in movimento, ma di non sopportare l’immobilità lacustre. Si fa dettare l’agenda politica dai nazisti, il vero capo di stato ombra è l’ambasciatore del Reich, Rudolf Rahn, il generale Karl Wolff è una sorta di cane da guardia messo al suo fianco. «Mussolini pensa solo al suo piacere», fa sapere a Berlino.
Il duce non può nemmeno mandare un telegramma cifrato, perché i tedeschi non glielo permettono, l’Italia settentrionale viene germanizzata, fino al punto che un pezzo di territorio (l’arco alpino triveneto e il litorale adriatico triestino e istriano) viene sottratto alla giurisdizione della Repubblica sociale e annesso direttamente al Reich. «Le linee telefoniche non sono più italiane», rivela in una lettera all’amante.
Dal documentatissimo racconto di Franzinelli emerge dunque, come abbiamo già visto, un Mussolini fuori dalla realtà, depresso per la perdita di Roma fino al limite del suicidio, incapace di confrontarsi con la nuova situazione politica, ben lontano dal porre un muro contro l’invasività tedesca come una certa benevolente vulgata continua a sostenere. Il mito del «tener fede alla parola data» viene del tutto smentito dalla costruzione mussoliniana che emerge dalle pagine del libro.
Il capo del fascismo ha continui pensieri di morte, è convinto di essere un «cadavere vivente» e lo ripete a Claretta Petacci con la quale continua a intrattenere un’intensa corrispondenza (infatti i diari della Petacci, resi pubblici soltanto in tempi recentissimi, sono un’importantissima fonte di questo libro). Il duce sogna, sogna di lasciare una buona immagine di sé. Come dice il politologo Giorgio Galli: «È intimamente disperato, sa che il suo tempo nella storia è finito. È come se Mussolini dicesse: Non conto più niente. Ma a questo punto, quel che davvero conta per me è proiettare il mito nel futuro».
Dalle carte emerge che il ruolo della Petacci va ben al di là di quello di una giovane amante. Incita Mussolini a tornare allo spirito della Marcia su Roma, a farsi nazista. Gli scrive: «Guardo te: te come uomo, te come Duce, e dico che precipiti verso la completa rovina. Sei – inconcepibile, ma vero – nello stato di nervi di prima. Sei travolto dagli avvenimenti: non li domini. Sei soffocato nel marasma, perduto nella nebbia di una serie di pettegolezzi, di giudizi mal dati, di affermazioni infondate, immiserito in un ambiente che senti inadatto al tuo spirito di comando, e che invece di provocare in te una giusta reazione calma e fredda e decisa ti sopraffà e ti sconvolge il sistema nervoso, per cui tu ti dibatti come l’aquila contro la rete».
Ma ormai il tempo è passato e infatti Herbert Kappler ed Erich Priebke, gli uomini di Hitler in Italia, scrivono a Berlino che il consenso di Mussolini è definitivamente perduto e che nulla di ciò che provenga dal regime di Salò potrà avere una qualche efficacia. C’è un giorno in cui Mussolini torna a essere duce, nel dicembre 1944, al Teatro lirico di Milano, già culla del fascismo. Tra gagliardetti e camice nere ritrova lo smalto di un tempo; si muove tra la folla senza particolari protezioni. Forse cerca «la bella morte», ma nessuno gliela dà. I partigiani guardano accigliati quanto sta accadendo, ma è gloria di un giorno: proclami, petti in fuori, «duce, duce», ma poi tutto torna come prima, nella più nera depressione.
Dice Mimmo Franzinelli: «La nuova documentazione ci permette di conoscere il tratto più intimo, le più vere aspettative: ora sappiamo che Mussolini praticò l’esatto contrario del motto “credere, obbedire, combattere”. Non credette nel tanto sbandierato amor di patria, non combattè, ma invece obbedì al diktat dei tedeschi. Era impegnato in una nuova battaglia per tutelare la propria raffigurazione pubblica.
Per cercare di mantenere il suo carisma si impegnò in un’accurata opera di propaganda nascondendo la tragedia interiore. Lo terrorizzava una fine ingloriosa, la perdita della dignità nel caso in cui fosse finito nelle mani degli inglesi che lo avrebbero esposto al ludibrio e alla gogna anche ideologica e culturale. Era determinato a gettare le basi del mito postumo».
Alla fine è ormai un’ombra, preda di malattie immaginarie, indeciso a tutto, anche alla fuga (altro che «ridotto della Valtellina» come estrema resistenza). Ormai gli è ostile persino la maggioranza degli abitanti di Salò, come rivela un rapporto stilato dall’apparato amministrativo della Repubblica sociale. «È in balia degli eventi», conclude Franzinelli, «con un notevole carico familiare. Al momento della cattura, oltre all’amante, sono con lui due figli naturali: Virginio Pallottelli, pilota inquadrato nella Guardia nazionale repubblicana, e Elena Curti, ausiliaria della Rsi.
E quella di Claretta di rimanere con lui fino alla fine non è stato un atto d’amore, ma la scelta razionale di rimanere nella storia, dove sapeva di essere entrata. Lo aveva scritto al suo amante in una lettera: “Tu non meriti il mio sacrificio, ma voglio rimanere nel posto che mi sono conquistata”. In definitiva tutta la storia di Mussolini a Salò è una vicenda schizoide tra un’apparenza di duce e la realtà di un moribondo».
Ma approfondiamo i rapporti tra Clara Petacci e Mussolini in quel di Salò. Tanto per cominciare si chiama Clara, non Claretta. Clara lei si fa chiamare. Cosi la chiama Mussolini nelle oltre trecento lettere che le scrive durante i circa seicento giorni di Salò. Quasi una lettera al giorno. Libera da quel diminutivo affibbiatole dalla madre, la figura di Clara Petacci comincia a liberarsi seguendo un nuovo contorno, storiograficamente inedito. E si spolvera di dosso con energia quella patina di fatuità e leggerezza impressa sulla sua storia da chi l’ha dipinta come la sciocchina amante dal Duce, tanto vanesia da voler morire con lui.
Dalle migliaia di pagine contenute nei faldoni del fondo Petacci emerge un fitto epistolario, l’epistolario di Salò, basato sulle 318 lettere che scrisse Mussolini e le centinaia di lettere, spedite e non spedite, copiate e ricopiate che riportano le risposte di Clara. Che molto sanno dirci sulle idee e i sentimenti del Duce nei seicento giorni di Salò, che bene spiegano i suoi dubbi e le sue indecisioni, i suoi timori e le sue preoccupazioni e soprattutto permettono di entrare sotto la pelle dei fatti per ricostruirli cosi come davvero si sono svolti e non come si vorrebbe che fossero stati. Amore e politica, militanza e passione, sesso e ideologia: la relazione tra Clara e Benito a Salò non è stata una semplice storia d’amore, perché la politica ne è stata il motore fino alla fine, quando la scena madre di piazzale Loreto, imprimendole il sigillo della storia, la trasmuta in un legame indissolubile.
Nelle parole di Clara a Benito, più che in quelle di Benito a Clara, si sente viva l’eco delle loro conversazioni, un riflesso dei loro incontri ravvicinati, un riverbero delle telefonate continuamente interrotte. Non è assurdo, quindi, pensare che l’argomentare di Clara sia anche il precipitato del ragionare di Benito, un debito che talvolta si impone con la forza della coincidenza di idee. Clara si trasforma in un personaggio storico inaspettato e insospettabile: non solo confidente sentimentale ma anche consigliere politico per Mussolini, non solo corrispondente privilegiata ma anche interprete del suo pensiero, non solo prima amante in carica ma anche soggetto politico di rango nelle trame che si giocano nei palazzi del potere della Repubblica sociale italiana.
Non occorre immaginare Mussolini come il Pigmalione politico di Clara. Se non fosse donna, Clara sarebbe l’«uomo nuovo» immaginato dal fascismo per rigenerare gli italiani. La «fede fascista» in lei si può osservare allo stato di natura, è il risultato antropologico della rivoluzione culturale impersonata da quella generazione diventata maggiorenne nel pieno fascismo del consenso, la «generazione Mussolini», quella che fin da piccola, come le scrive lui, «tirava i sassi ai comunisti».
Clara però porta su di sé una colpa irredimibile. Una sofisticata strategia diffamatoria la tramanda colpevole del decadimento intellettuale del Duce, in ultima analisi responsabile della sua sconfitta. Fin da quando arriva a Salò, prima fuggevole ospite a Villa Feltrinelli in anticipo sul trasferimento a Gargnano della moglie del Duce, Rachele Guidi, poi insediata a Villa Fiordaliso a Gardone e infine alloggiata nella Villa Mirabella dei conti Cervis vicino al Vittoriale di d’Annunzio, Clara si trova sotto il fuoco incrociato – un non previsto fuoco amico – dei due potentati che governano la vita della Rsi e gestiscono il potere di Mussolini. Vale a dire: il clan famigliare da una parte e il fascismo intransigente dall’altra. Fino al punto che è in pericolo la sua stessa vita.
Dall’epistolario di Salò, emergono almeno due attentati di cui sarebbe stata vittima predestinata. Bersaglio di mille trame, obiettivo di spie e sicari, sicofanti e traditori, che costringono Mussolini a farle scudo, usando tutto il potere politico di cui pensa di disporre. In una lettera del 4 aprile 1944, nei giorni del primo attentato, Mussolini rivendica anzi il diritto di Clara a stargli accanto, misura del suo potere a Salò, e spiega ad Alessandro Pavolini – e a lui per tutti – che Clara «durante i famosi giorni ha avuto molto più coraggio di tanti uomini, anche gerarchi del partito, i quali sono stati dei grandissimi vigliacchi».
La paura di lei si trasforma presto in un sottofondo della vita quotidiana di lui. Quando di tempo non ce n’è più, proprio sul finale di partita, il 12 aprile 1945, scrive: «Tu mi hai condannata all’assassinio per mano fascista e sicaria – a me che ho portato alto il mio grido di fede».
Nelle lettere di Clara c’è una consapevolezza scientifica del sistema di potere che governa Salò. Al vertice non c’è Mussolini e il rifondato fascismo repubblicano, come nelle carte costituenti, ma in realtà il governo dipende dal complesso sistema di plenipotenziari, dal generale Karl Wolff all’ambasciatore Rudolf Rahn, attraverso i quali Hitler controlla l’Italia del Nord. Forse più che in lui, dalle lettere di lei emerge con acuminata chiarezza l’idea che Mussolini debba rafforzare il suo potere sul Garda, facendo leva sul mandato ricevuto a Monaco da Hitler stesso.
È Clara nei momenti cruciali, di fronte alle disattenzioni di Rahn o alle prepotenze di Wolff, ai traffici di Guido Buffarini Guidi, ministro dell’Interno, e ad Alessandro Pavolini, segretario del Pfr (Partito fascista repubblicano), a spingere il Duce a chiedere l’intervento risolutore del Führer. Mussolini piuttosto che antitedesco, secondo un luogo comune basato su documenti dubbi considerati falsi dagli storici, appare in competizione invece con il fascismo intransigente per accreditarsi presso Hitler come il più filotedesco dei filotedeschi di Salò. E Clara è con lui. Scrive: «Attraverso il tuo geniale senso realistico e politico degli avvenimenti il Führer deve comprendere nella sua levatura intellettuale che i piccoli uomini … non possono interpretare la coscienza vasta e complicata del nostro grande popolo».
L’ultima lettera di Mussolini a Claretta Petacci è del 18 aprile 1945. Manca poco più di una settimana al tragico epilogo che porterà i loro corpi allo scempio di Piazzale Loreto. Pure, nel marasma in cui si sta consumando il crollo della Repubblica Sociale, quella lettera è scritta solo per rassicurare l’amante, di frenarne la gelosia («Vedo che sei sempre bene informata. Ieri sera ho ricevuto la signorina Pia Piazzi – e naturalmente sono accadute tremende cose. Non è accaduto assolutamente niente…»), introducendo toni da commedia rosa in una tragedia che stava assumendo le tinte fosche della violenza e della morte.
Non c’è niente di epico in quella lettera, nessuna «ultima raffica di Salò», niente propositi di un’ultima disperata resistenza in Valtellina. Questa dimensione privata del Duce è uno degli aspetti più rilevanti delle lettere scritte tra l’ottobre del 1943 e l’aprile del 1945 da Mussolini alla Petacci. Il carteggio, depositato all’Archivio centrale dello Stato, ha già attirato l’attenzione degli studiosi ed è l’oggetto di un libro curato da Luisa Montevecchi, uscito nel 2011: Le ultime lettere di Mussolini.
Grazie alla disponibilità dell’Archivio centrale dello Stato è stato reso accessibile nella sua completezza agli studiosi ed è stato anche proposto in una trasmissione televisiva, dall’eloquente titolo “Mussolini il cadavere vivente”, con una selezione delle lettere più significative affiancate dalle risposte di Claretta, in un dialogo interpretato da Michele Placido e Maya Sansa.
Le lettere di Mussolini confermano molte certezze storiografiche sul suo ruolo di leader impotente (la definizione del titolo della trasmissione è dello stesso Duce), sul fallimento della Rsi, incapace di darsi un apparato istituzionale credibile, sul dominio assoluto esercitato dai tedeschi. In più, la scelta della trasmissione di intrecciarle con quelle di Claretta restituisce a quest’ultima un’immagine lontanissima dallo stereotipo dell’«amante del Duce». In particolare, quella del 20 luglio 1943 è assolutamente sbalorditiva.
Accompagnata da un appunto («Non distruggere: è storia! È la verità su di me e su di te») la lettera di Claretta Petacci comincia con un approccio dimesso ( «Ben – ascoltami … io sono una povera donna – una creatura semplice e che mai ha voluto occupare un posto oltre quello che spetta alla donna-mamma-amante e sorella…) ma poi va subito al sodo di questioni cruciali per la sopravvivenza del regime. Siamo alla vigilia del 25 luglio, nell’imminenza di quella riunione del Gran Consiglio in cui la «congiura monarchico-badogliana» prenderà la forma del colpo di Stato contro Mussolini.
E Claretta scrive: «Ben rifletti… rifletti prima di riunire il Gran consiglio… io sento che questo è il famoso passo verso la fine… Ricordati che tutti sono contro di te … L’esercito tradisce tutto – la massoneria lavora – i ministri che tutto ti devono sono venduti ai loro interessi alla loro smodata smisurata ambizione – quelli in cui tu hai fede. Casa Reale ti tradisce credimi – e ti tradisce perché mai ti perdoneranno di essere più grande di loro tu figlio di un fabbro – tu nato dal popolo Nessuna gratitudine in loro … solo interesse e freddo disprezzo … Tu non mi credi quando ti dico che Badoglio lavora … mi hai risposto – “a boBadoglio giuoca cce…” e io ti ripeto quanto ti dissi … “si gioca a bocce ma con la tua testa…!” ».
Possibile che Claretta abbia intuito tutto quello che Ben sembrava ignorare? «Io sento – continua – questo lavorio di forze contrarie – io sento che si prepara il grosso colpo … io sento che l’inglese Grandi credendo di sostituirti in un domani – ti tradirà …!!! ».
Si tratta di «previsioni» così esatte da far pensare che la lettera sia stata scritta «dopo» il 25 luglio, che Claretta l’abbia rimaneggiata «conoscendo» già quello che era successo. O si tratta quindi di un «falso» consapevolmente architettato nell’atmosfera mefitica di Salò per mostrare a posteriori la propria lungimiranza o siamo in presenza di una lucidità politica davvero notevole. Ma anche nelle lettere successive Claretta si mostra una consigliera sollecita per un Duce sempre più solo e che lei rassicura con l’impeto di una fiducia assoluta nell’uomo e nel fascismo.
Claretta, in realtà, non è solo la donna innamorata che perseguita il Duce con la sua gelosia; le si offre come una collaboratrice «alla pari», gestisce una sorta di potere parallelo con la sua corte di intrighi e di spie, sceglie di morire per essere fedele non solo all’amore ma anche a una fede fascista professata fino all’ultimo.
Da Mussolini, giustamente preoccupato per la propria immagine frantumata dalla crudele sincerità di quelle lettere, arriva in maniera ossessiva l’invito a distruggerle. Claretta invece le conservò gelosamente, così da offrirle oggi agli occhi impietosi degli storici. Ed è questo il suo unico, vero tradimento nei confronti del Duce.
ESTRATTI DI ALCUNE LETTERE:
10 aprile 1945 – «Clara, vi è qualcosa di sommamente antipatico nelle tue lettere e cioè l’ossessione del mio fatto sessuale e del tuo. Non sembri avere altro pensiero per la mente, la tua preoccupazione è questa: che io prenda altre donne. Tutto ciò è tremendamente stupido. Penoso, offensivo. Tu dici di conoscermi? Una volta. Oggi non più. Non sono questi giorni da donne, nemmeno se si trattasse di Veneri redivive … ».
29 marzo 1944 – «Delle tre nazioni totalitarie comunisti e nazisti hanno mostrato la loro tempra, la terza quella dei fascisti, è crollata. Non è il fascismo che ha guastato gli italiani, ma sono gli italiani che hanno guastato il fascismo. E le cose non sono granché migliorate, salvo che nelle immediate vicinanze del governo, il quale governa come può. Ti ringrazio delle parole che mi dici per quanto riguarda Edda. Nulla mi viene risparmiato e nulla mi verrà risparmiato. In fondo sarà in gioco questo miserabile straccio di vita che qualcuno si prenderà un giorno. Circondati da spie come siamo, è per questo che ti dico di distruggere tutto, di non lasciare in giro nemmeno la più innocente delle carte, che domani canaglie e malvagi potrebbero convertire in un documento. Addio, cara, vi è per ogni uomo un destino e il mio è segnato».
18 giugno 1944 – «Clara, quando io ti dicevo che io conto meno del due di coppe, tu protestavi. Era la verità. Questo è un governo che non dispone di armi. È disarmato. È peggio che disarmato: poiché il suo simulacro di armamento è ridicolo. Fucili senza cartucce e cartucce senza fucili. I ribelli riforniti dai nemici lo sanno e fanno quello che vogliono. Vaste zone del popolo italiano, sono entrate in uno stadio confinante colla vera e propria follia…»
“Cara piccola Clara, ti ringrazio per ciò che hai sopportato. Io sono ormai veramente un cadavere vivente… Ti amo, tuo Ben». «Caro Ben, sei troppo grande, il popolo non ti merita. Il destino dei grandi è di essere tradito. Tua Clara».
Lettere cariche di passione e di intimità. Cariche soprattutto di storia, perché documentano giorno per giorno, momento per momento, l’evolversi degli eventi politici e bellici.
L’aspetto curioso di questa vicenda è che Mussolini su ogni lettera aggiungeva in rosso “stracciare, stracciare”, cioè non voleva che Claretta conservasse il carteggio. Volontà assolutamente disattesa, perché non solo lei conservava le missive, ma trascriveva anche molte telefonate che intercorsero tra loro in quegli anni. Insomma, la Petacci non accetta il ruolo di amante relegata nell’ombra, ma vuole trasmettere ai posteri la sua avventura non solo e non tanto sentimentale, quanto politica».
Si dipana così una vicenda umana di profonda complicità. Si firma Ben, il capo della Repubblica sociale, come negli anni felici, ma non è più lui: si sente come un grande artista che vede distrutta la sua opera. È stanco, invecchiato, malato. «La mia tragedia è grande – scrive Mussolini – Nulla di ciò che ho costruito rimane. Ho 60 anni ormai e il tempo per ricostruire mi manca. Questo vecchio cadavere ti saluta». Claretta, che è innamorata di Benito ma soprattutto del Duce, cerca di incoraggiarlo, stimolarlo, lo incita al riscatto e reagisce alla cupa tristezza del suo uomo con frenetico vitalismo: «Tu ricostruirai – gli risponde – sei longevo, sei d’acciaio».
Ma il destino dei due amanti è segnato: al crepuscolo del dittatore si aggiunge la fine ingloriosa del famigerato ventennio.