a cura di Cornelio Galas
Incredibile ma purtroppo vero, come abbiamo già visto, accanto ai torturatori, il conforto della “fede” era portato da tre religiosi: l’ex prete Giovanni Castaldelli che era anche uno dei più feroci aguzzini, padre Epaminonda Troya e il cappellano delle SS don Gregorio Boccolini.
Alfredo Epaminonda Troya (detto don Ildefonso) nel 1944 era un monaco di 29 anni (nato ad Arcinazzo Romano). In veste di vice parroco del convento vallombrosiano di Santa Trinita a Firenze, aveva inizialmente dato soccorso ai prigionieri alleati (servizio organizzato dal parrucchiere Ferdinando Pretini), ospitando nel convento una missione badogliana e soldati del disciolto Regio Esercito.
Poi la Banda della Carità lo arrestò. La versione ufficiale dice che subì percosse e cedette al ricatto (nella sua stanza furono trovate lettere d’amore e pubblicazioni clandestine); altri sostengono che fosse stato lui, in quanto spia fascista, a far arrestare Pretini.
Di fatto il monaco passò al servizio attivo degli aguzzini. Mentre avevano luogo le torture, le urla dei prigionieri venivano coperte dal pianoforte suonato da questo monaco che intonava canzoni napoletane (a Firenze, e l’Incompiuta di Schubert a Roma quando passò al servizio di un’altra banda di criminali di Stato).
Troya, che all’epoca girava con documenti falsi intestati a Elio Desi, aveva sposato le teorie scismatiche del sacerdote fascista don Tullio Calcagno. Calcagno (prete scomunicato il 25 marzo 1945) si definiva crociato italiano e alla radio nel novembre ’44 disse tra l’altro:
“Per noi crociati italici, re d’Italia sarà Cristo e solo Cristo, che non tradisce. A lui e per lui all’uomo che con migliore diritto di ogni altro appare da lui mandato a guidarci, Benito Mussolini, noi ubbidiremo fino alla morte”.
Quando Troya, nel frattempo sospeso a divinis dalla Chiesa, lasciò la Banda Carità, seguì quella di Pietro Kock a Roma e a Milano prendendo parte alle torture e forse all’assalto dei tedeschi e della banda Koch alla Basilica di San Paolo a Roma.
Da gennaio all’agosto 1944 negli scantinati del palazzo di via Bolognese 67 a Firenze, (Villa Triste) la Banda Carità torturava gli antifascisti catturati, dividendo i primi due piani con il Servizio Sicurezza nazista del capitano von Alberti.
Da una di queste sessioni di sevizie non uscì più un ragazzo di 24 anni, Bruno Fanciullacci (a cui è dedicata oggi la piazza antistante). Fanciullacci era stato arrestato il 26 aprile dalla Banda Carità, sospettato di aver ferito lo squadrista Bruno Landi.
Dall’interrogatorio a Villa Triste uscì con diverse ferite da pugnale (a una mano, alle natiche, ai testicoli), ma gli strapparono anche le unghie di mani e piedi con le pinze e gli bruciarono gli occhi, tanto che dovette essere ricoverato in ospedale piantonato dai fascisti.
Dall’ospedale però un gruppo di suoi compagni gappisti l’8 maggio lo fece evadere nascondendolo in casa del pittore fascista Ottone Rosai dove scrisse un diario. Una volta guarito, Fanciullacci prese parte alla liberazione di 17 detenute politiche dal carcere di Firenze, ma venne ripreso il 14 luglio in seguito a una delazione.
Per evitare altre torture il giovane con le mani legate dietro la schiena si scaraventò giù da una finestra da un’altezza di 20 metri e morì dopo tre giorni per il trauma cranico e per un colpo di pistola a un fianco. Era lo stesso partigiano che il 15 aprile 1944 aveva ucciso l’ex ministro e allora presidente dell’Accademia d’Italia Giovanni Gentile, ma i suoi aguzzini non lo sapevano.
Nell’autunno del 1944 la Banda Carità portò a Palazzo Giusti l’intero CLN del Veneto, in tutto oltre 70 partigiani che, non essendoci più spazio disponibile, vennero collocati in 5 celle ricavate dalle scuderie. In ognuna, dentro uno spazio di 1 metro e 80 per 1 e 10, dormivano 3 prigionieri su brande sovrapposte, senza nulla per coprirsi. Ma quello era il meno: furono sottoposti alle torture più spietate della storia moderna italiana.
Tra i primi arrestati il prof. Antonio Zamboni, l’avvocato Sebastiano Giacomelli. Tra i delitti padovani della banda, ci sono quelli di Otello Pighin, Franco Sabatucci, Corrado Lubian. Secondo le testimonianze, nella Banda Carità agiva anche un’anziana chiamata la mamma perché era la effettivamente la madre di due scagnozzi della formazione nonché la moglie di un terzo: quella donna si incaricava di chiedere alle famiglie degli arrestati forti somme e forniva loro informazioni spesso false.
Forte consumatore di cocaina assieme ad altri del suo gruppo, Mario Carità soleva entrare all’improvviso durante l’interrogatorio di un nuovo prigioniero e, fingendosi buono, si preoccupava delle sue condizioni: E’ pallido, diceva, e quello era il segnale per una nuova scarica di pugni e calci in faccia.
Per estorcere confessioni e carpire informazioni usavano molti modi: dalle torture psicologiche (impedire il sonno per disorientarli e altro) ai pestaggi, ma il nucleo centrale del trattamento era quando i carnefici inveivano con scariche elettriche ai genitali o strappando le unghie con le pinze. Chi sopravviveva senza confessare veniva fucilato o deportato nei lager tedeschi.
Nella sede padovana, come in quella fiorentina, il maggiore Carità aveva tra i suoi più feroci collaboratori il tenente ed ex sacerdote Giovanni Castaldelli (rodigino di Bergantino).
TESTIMONIANZE
Erminia Gecchele, partigiana padovana rimasta per sempre invalida dopo un interrogatorio a Palazzo Giusti, raccontò che alle sevizie era presente Franca Carità di 19 anni (figlia del maggiore Mario Carità), che la prendeva in giro standosene comodamente in poltrona a fumare.
Il dirigente triveneto dei GAP partigiani Rino Gruppioni, rimasto 5 mesi nelle mani della Banda Carità a Padova, racconta che ogni giorno più volte (soprattutto di notte) lo torturavano:
Fecero ogni tipo di tortura a me e a Emma Guerra arrestata con me. Usarono la corrente elettrica ai polsi, alle orecchie, agli organi genitali; ci percuotevano per ore con nervi di bue, tondini di ferro, ci legavano supini perché il corpo e la pelle fossero tese e con bastoncini di ferro tamburellavano la schiena facendo un male atroce e provocando il rigonfiamento della pelle e le reazioni del corpo stesso, tanto che il sangue usciva dai pori, oltre che dalle ferite.
Spegnevano le cicche nelle ferite e nella pelle e a questa funzione era adibita anche la Franca Carità, figlia del capo della banda dei criminali fascisti: arrivava persino a spegnerci le cicche di «Serraglio» negli organi genitali, con orribile sadismo. Insieme a noi, a Palazzo Giusti, erano in istato d’arresto, anche se non erano martirizzati come noi, altri importanti esponenti del Comando regionale unico delle Tre Venezie: ricordo il prof. Meneghetti, il prof. Ponti, l’avv. Giacomelli (quest’ultimo, esponente liberale, lo ricordo perché, avendo ogni giorno dall’esterno il pranzo completo, tratteneva per sé solo la minestra e il resto lo passava a me, viste le condizioni gravi in cui mi trovavo), il prof. Cestari, il prof. Zamboni, il dottor Avossa ed altri.
Ogni giorno la situazione peggiorava. Gombia era calato metà del suo peso; il rancio era formato da acqua di pasta e qualche rimasuglio del pane della banda”.
Il ricordo di Adolfo Zamboni:
Appena entrato dal comandante vidi l’apparato che dava i brividi. Tutti gli ufficiali erano attorno al tavolo di Carità; ai lati dello stanzone erano disposti gli scherani; su un tavolo faceva mostra la triste “macchinetta”…
Mentre uno mi applicava i fili elettrici, gli altri mi schernivano dicendo: “Vedi che bella testa tonda da parroco”; e giù pugni. Entrò anche il più sanguinario, lo Squilloni, che senza pronunciare sillaba mi assestò due sonori schiaffi.
Io non potendo parlare perché sussultavo sotto le scosse elettriche. In quel momento, e non potrò perdonare questo supremo atto di vigliaccheria, l’ex prete Gastaldelli disse ironicamente ai degni compagni: “Ora gli facciamo dire anche il nome del tipografo”.
E mi fece applicare i fili elettrici agli orecchi. Dio solo può perdonare tale raffinata forma di martirio a chi l’ha fatta provare ai poveri sofferenti di Palazzo Giusti. Caddi dalla sedia lungo disteso e cominciai a urlare; man mano che la corrente aumentava di intensità avevo l’impressione che al posto della testa avessi una fonte luminosa sprizzante scintille.
E come gli urli divennero belluini, Carità ordinò che mi si tappasse la bocca. Il che fu fatto. Ma l’ex prete non fu appagato; il nome del tipografo non fu pronunciato sotto il martirio, come non era stato pronunciato la notte tra il 30 ed il 31 dicembre, dopo sei ore, dico sei, di interrogatorio. Per molti giorni portai i segni delle percosse con un gran livido sotto l’occhio destro; tutt’ora la mano sinistra ha dei tendini accavallati, effetto della applicazione elettrica”.
Il racconto di Emma Guerra:
“La sera del 27 novembre 1944 rientrando in bicicletta a Padova da una missione partigiana a Verona, la mia casa era già stata occupata dai fascisti della Banda Carità. Mi portarono al comando delle SS tedesche dove mi interrogò lo stesso Carità: voleva sapere i nomi dei partigiani e dove si trovavano.
Io dicevo no, ma sapevo che in casa avevano trovato abbondante materiale partigiano e anche una bomba. Su di me, inoltre avevano trovato una lettera di un amico colonnello veronese da consegnare al comando e avevo in tasca anche alcuni documenti compromettenti.
La mia posizione quindi era evidentemente difficile, ma io negavo e basta. Allora il capitano fascista Antonio Coradeschi (l’autista di Mario Carità, ndr) mi diede venti frustate ed io ben presto perdetti la sottoveste che era l’unico indumento che avevo addosso.
Lo stesso Carità mi diede dieci frustate dicendo che le sue valevano il doppio di quelle degli altri. Poi, via via, tutti gli altri mi frustarono. Così durò per circa dieci ore, durante le quali, in brevi intervalli, mi facevano assistere alla tortura degli altri compagni.
Vidi che picchiavano con spranghe di ferro le piante dei piedi di Rino Gruppioni e che gli mettevano mozziconi di sigarette nelle piaghe dopo averlo frustato.
Attilio Gombia lo torturarono bestialmente, persino con scossa elettrica alla gola e agli organi genitali. Visto che continuavo a negare anche dopo ore di frustate, mi attaccarono i fili elettrici ai pollici delle mani e nelle orecchie e cominciarono a dare le scariche. Si sentiva un dolore immenso.
Mi capitava però, che, dopo la tortura, mi sentivo ancora più ferma e quando staccavano per chiedere se mi ero decisa a parlare io rispondevo sempre di no e allora continuavano. Così durò fino a quando venne giorno”.
Il racconto di Aronne Molinari:
“Ricordo Attilio Gombia in un incontro a Palazzo Giusti dov’eravamo entrambi detenuti, non mi riconobbe, né io riconobbi lui, era il più seviziato da quella banda d’assassini… non scese mai a compromesso, si può dire che sia stato il più prestigioso dirigente della lotta partigiana nel Veneto”.
Dal libro “Attilio Gombia. Il partigiano “Ascanio”:
Verso mezzogiorno del 27 novembre 1944 Attilio Gombia venne arrestato insieme a suo fratello Walter, Rino Gruppioni, Mario Berion, Emma Guerra e Giuseppe Banchieri.
Dopo essere stato picchiato, Ascanio venne legato con le mani dietro la schiena con del filo di ferro. Verso le 19 i prigionieri furono portati nella sede del Comando delle SS tedesche.
Il primo interrogatorio si svolse in maniera bestiale. Mario Carità e il tenente Baldini, dopo avere fatto spogliare nudo Gombia, lo colpirono a sangue, armati rispettivamente di un nervo di bue e di una grossa cinghia.
Le percosse venivano rafforzate dall’applicazione della tristemente famosa “macchinetta”: un alternatore di corrente elettrica manovrato di solito dal tenente Giovanni Castaldelli. L’applicazione della corrente ai polsi e alle orecchie proseguiva finché il prigioniero cadeva a terra; allora gli altri ricominciavano a colpire con calci e pugni.
All’alba del 28 novembre i detenuti furono trasportati a Palazzo Giusti, in via San Francesco n. 55, sede della Banda Carità. Alle 12 Mario Carità si presentò e, dopo avere condotto Gombia di fronte ad altri membri della banda, minacciò: Io ho tutti i mezzi per farti piegare, se robusto, durerai un po’, ma alla fine ti piegherai. Vedrai a che cosa ti ridurrò.
Ti farò mettere al palo, non ti darò da bere, ti userò l’alcool sulla carne e ti farò appiccare il fuoco, ti farò mettere le schegge sotto le unghie, non ti darò da mangiare e, se te ne darò, ti darò della roba salata fino a farti morire di sete. L’interrogatorio proseguì fino alle 4 del mattino del 29.
Per 6 giorni Gombia venne lasciato senza bere né mangiare; la lingua si gonfiò al punto da rendergli quasi impossibile parlare. Anni dopo Ascanio ricordò alcuni momenti della lunga prigionia.
“Ricordo bene che Castaldelli, che fungeva da interprete, mi presentò agli ufficiali della polizia tedesca con le testuali parole: ”Das ist der Widerstandbewegungsfuhrer” (E’ il comandante del movimento della Resistenza).
Io capivo il tedesco, ma naturalmente non lo facevo intendere. Questi ufficiali mi sottoposero a uno strano interrogatorio. Riassumo brevemente le parti più importanti. Le parole sono testuali, sono rimaste incise nella mia mente.
Domanda: “Perché lottate contro la vostra patria e i suoi alleati?”
Risposta: “Io non lotto contro la mia Patria, ma la difendo e lotto per la sua liberazione. Voi non siete gli alleati della mia Patria ma i suoi nemici. Per la patria ho sacrificato tutta la mia giovinezza e per essa ora subirò quello che voi mi riserverete”
D: “Quale pensate che sarà la vostra sorte?”
R: “Conoscendo i vostri metodi sono preparato a tutto, a bere il calice del sacrificio fino in fondo”.
D: Non pensate alla vostra famiglia, alle belle giornate sotto il cielo azzurro d’Italia?”
R: “Io ho pensato alla mia famiglia e molto, siete voi che mi avete impedito di dimostrarle tutto il mio affetto. In quanto al cielo azzurro e a tutte le bellezze d’Italia che mi private di vedere, non è il momento di pensarci”.
D: “Insomma perché voi dall’Emilia siete venuto nel Veneto a dirigere il movimento partigiano?”
R: “Perché io sono un comunista e un garibaldino e come tale è mio dovere combattere ovunque e contro tutti quelli che impongono la tirannia. Io lotto per la libertà e l’indipendenza della mia patria”.
D: “Ma noi vogliamo bene agli italiani e se voi siete intelligente, potremmo accordarci su diverse cosette. Potreste avere la possibilità di ritornare alla vostra famiglia. Accettate di discutere su questo terreno, visto che siete tanto caparbio da non capire quello che noi intendiamo fare? Vogliamo aiutarvi capite! Siamo qui per questo”.
R: “Signori, io non credo che siate qui per aiutarmi; sono convinto che avete tentato di trascinarmi su un terreno infido e sul quale io non scenderò mai. Sono preparato a morire. Non tradirò mai il mio partito e il movimento della resistenza. Se volete veramente aiutarmi, liberatemi, ma non nutro speranze che voi lo farete. Ripeto, non chiedetemi di passare il Rubicone perché non lo farò mai”.
Al che un ufficiale tedesco chiese all’interprete: “Rubicone was soll es be deuten?” (Che cosa significa Rubicone?) e Castaldelli spiegò che il Rubicone era stato passato da Giulio Cesare quando marciò su Roma. Ad altre domande non risposi perché dichiarai che mi sentivo offeso dal loro modo di considerarmi.
Non potevo ammettere che si pensasse che io fossi disposto a trattative di nessun genere all’infuori della libertà incondizionata per me e per tutti gli altri, benché io fossi sicuro che ciò non lo avrebbero mai fatto.
Gli ufficiali tedeschi, andandosene, mi dissero: ”Noi volevamo aiutarvi, soltanto aiutarvi, non ne volete sapere? Peggio per voi”. Coradeschi, la belva umana dagli occhi stralunati e dalle pupille dilatate, mi diede un calcio in uno stinco dicendomi: “Verrò io a impallinarti”. “Sono già pronto, andiamo” gli risposi. “No- sbraitò la belva- No. Prima devi soffrire”. E, preso un manico di frusta da barocciaio, mi spezzò la quarta e la quinta vertebra, la tibia e il ginocchio della gamba sinistra. Di peso dovettero portarmi in cella. Non mi reggevo più.
Nei giorni seguenti, in particolare durante la notte, gli interrogatori e le torture proseguirono. Il 20 gennaio 1945 fui chiamato in presenza del sottotenente Trentanove e di Coradeschi.
Ambedue volevano che gli dicessi chi mi aveva sostituito nel comando della delegazione triveneta, e siccome io ignoravo chi mi avesse sostituito, anche se l’avessi voluto, non avrei mai potuto dirglielo, allora cominciarono a schiaffeggiarmi e farmi saltare per la stanza a suon di schiaffi, così forti che mi sembrava che mi spaccassero le orecchie.
Debbo dire che Coradeschi si comportò da vera bestia feroce. Afferrò un righetto di una porta e lo adoperò finché non me lo spezzò sulla schiena. Poi prese un manico di frusta da carrettiere e, senza guardare dove picchiava, con tutta la forza me l’adoperò addosso.
Ebbi forti contusioni alla schiena, alle braccia e alle gambe e rotto un osso della gamba sinistra. A tutt’oggi ne porto ancora i segni. Dovetti rimanere a letto immobile per parecchi giorni. Per voltarmi mi dovevano aiutare i miei compagni di cella Faccio e ing. Maule di Vicenza.
Nella stessa circostanza mi fu applicata la macchinetta elettrica con tale brutalità che non ebbi precedenti. Coradeschi era una belva, correva per la stanza con il manico della frusta, lo faceva girare nell’aria e poi giù sul mio corpo.
Più volte mi sputò in faccia. Ad ogni costo voleva applicarmi la corrente elettrica al membro virile. Ad ogni modo debbo dire che l’effetto della macchinetta era così doloroso che dopo un po’ che me l’applicavano non capivo quasi più nulla. Per diverso tempo rimanevo come istupidito.
Non riuscivo più a parlare. Ancora oggi soffro di mal di gola e col medesimo sintomo di quando avevo subito l’applicazione della macchinetta elettrica; io attribuisco a lei questo potente mal di gola di cui soffro ora.
Verso i primi di aprile, Mario Carità mi mandò a chiamare e mi disse: “Questa volta non ti picchio, ma voglio che tu risponda a quanto ti chiedo, che non ha nulla in comune con le tue brigate garibaldine o mazziniane che siano”.
E iniziò: “Se non ci foste voi comunisti, il Duce sarebbe già riuscito a sistemare l’Italia e a dare al popolo italiano il benessere sociale che tu dici di volergli dare, ma che non puoi perché sei legato al capitalismo angloamericano.
Voi siete diretti dal capitalismo angloamericano e anche se alla fine il Duce fosse sconfitto, il che non avverrà mai, per voi sarà un cadere dalla padella nella brace. E la Russia avrà da pensare alle cose di casa sua. Quindi, slegati da questi inceppi, dimmi quel che non hai voluto dire agli ufficiali tedeschi: sei disposto a trattare?”.
“Trattare di che?”. Replicai io. “Ma sì, tu alla fin fine, e poi anche gli altri compagni del tuo partito avete una fede, credete in qualcosa di bello. Io l’ho con quei pretacci porci, con quelli del partito d’azione, tutti avventurieri.
Con voi si può parlare ed è per questo che ti ho mandato a chiamare, ma di loro non voglio neanche sentir parlare. Io vorrei liberarti, ma devi metterti in una posizione che possa farlo. Guardami bene in faccia. Parola d’onore vorrei liberarti”.
Io risposi pressappoco: “Ripeto a lei quello che ho detto agli ufficiali tedeschi: liberandomi non fareste che un vostro dovere perché mi avete arbitrariamente arrestato, commettendo una violenza anche sul terreno giuridico.
Il governo d’Italia è quello rappresentato da Badoglio e non quello di Salò. Io riconosco quello e non voi. Dirmi di trattare? Ma io sono ormai un semplice vostro prigioniero, senza autorità alcuna. Dopo il mio arresto altri mi avranno sostituito.
Io non so, ma lo spero e ci credo, che mi avranno sostituito. In quanto al rispetto riservato a me e ai miei compagni di partito ho constatato a mie spese che cosa significa e come lo concretizzate: con sadismo e barbarie indegne di esseri umani”.
“Taci che ti mangio la gola” urlò Carità. “Non lo faccia, farebbe un’indigestione”. Risposi, con voce ferma. E lui: “Non è forse vero che ho rotto le costole al prete di Nove di Vicenza, e al prof. Apolloni dell’istituto Barbarigo di Padova?”.
“Ma questo non fa che dimostrare che voi godete nel torturare e nel seviziare le persone che sanno tenere alto il proprio ideale. In questa lotta contro di voi siamo uniti, comunisti, socialisti, liberali, democristiani, repubblicani e monarchici; e noi comunisti abbiamo sempre lottato per raggiungere questa unità che è condizione della nostra vittoria e cerchiamo di mantenerla più stretta che mai.
Non accetterò mai condizioni di discriminazione. I preti, ai quali lei si vanta di avere rotto le costole sono, ora, miei compagni di lotta e verso di loro va tutta la mia solidarietà, anche se si può manifestare in ben poca cosa, e il mio rammarico per il trattamento al quale furono sottoposti”. Carità mi mandò via.
Verso il 20 aprile, Carità mi mandò a chiamare. Mi fece togliere i ferri ai polsi e disse: ”Dimmi, Ascanio, tu sai che devi morire. Il fascismo ti ha dato 30 anni perché in 30 dovevi morire, ma io non ho tanto tempo da aspettare. Ma cos’è quello che ti fa dire di essere sicuro di vincere? Mi ricordo che nel primo interrogatorio tu mi dicesti che non ti importava di morire perché eri sicuro della vittoria. Ma di quale vittoria intendi parlare, che sempre lo ripeti?”.
“La vittoria della civiltà sulla barbarie che voi rappresentate, la vittoria della libertà sulla schiavitù! … Lui taceva, io continuai come se parlassi a mille persone: “Non ci sono armi segrete che contino; c’è la vostra disfatta. Ma non vede che l’America e l’Inghilterra hanno aperto il secondo fronte? Se l’hanno fatto è perché hanno giudicato che la Germania è già spacciata e non vogliono che l’URSS liberi tutta l’Europa.
Non vede che la Chiesa, che ha sempre puntato sul cavallo vincente, ha abbandonato l’”uomo della provvidenza” e Hitler e si è appoggiata all’Inghilterra e all’America, alleata dell’Unione Sovietica? Ci vuol poco a capire che siete già sconfitti”.
“Portatelo via”. Disse Carità, rivolgendosi a uno dei suoi sgherri. “Portatelo via”. Disse più sommessamente.”
Mario Carità fuggì il giorno successivo. Attilio Gombia fu rilasciato, insieme agli altri prigionieri, il 27 aprile e venne subito nominato vicequestore di Padova. Dopo qualche tempo alcuni dei fuggiaschi tornarono a Padova con le loro famiglie per costituirsi.
(da “Torturatori fascisti” di Roberto Brumat)