“LAGER” PER EBREI IN ITALIA – 2

a cura di Cornelio Galas

A metà degli anni Trenta il regime fascista adottò ufficialmente una politica razziale, sulla quale si innestarono le leggi anti-ebraiche del 1938.

La loro promulgazione non può essere interpretata solo come un riflesso dell’alleanza tra l’Italia fascista e la Germania nazista; al contrario, l’elaborazione della legislazione del ’38 è parte di un processo strettamente legato alle caratteristiche del regime mussoliniano e affonda le radici nella storia del nostro paese e del continente europeo.

Gli ebrei furono colpiti in quanto appartenenti a un’arbitraria “razza” inferiore e per questo messi ai margini della società italiana. Lo scoppio del conflitto determinò un ulteriore inasprimento della normativa: nei confronti degli ebrei, quelli stranieri in particolare, furono presi provvedimenti legati alle leggi e alle pratiche di un paese in  guerra.

Nacquero così in Italia e nelle zone occupate dall’esercito regio i primi campi di concentramento per persone d’origine ebraica. Col passare dei mesi, gli ebrei, stranieri e italiani, vennero sempre più individuati non soltanto come un elemento estraneo al paese, ma anche come veri e propri “nemici” dell’Italia fascista impegnata nel conflitto mondiale.

Valutazioni diverse concorsero a convincere Mussolini a imboccare la strada di una politica razziale: vi furono considerazioni di politica estera, legate soprattutto alle conquiste coloniali in Africa e al rapporto sempre più stretto con la Germania, ma anche di politica interna, conseguenza delle dinamiche di uno Stato che si voleva totalitario e per questo alla ricerca di una mobilitazione continua di uomini e apparati intorno al suo governo.

Sebbene costituisca un fattore molto importante, come detto, la scelta di adottare una politica antisemita non può essere ricondotta esclusivamente al progressivo avvicinamento dell’Italia alla Germania di Hitler: scaricando molte colpe  sui  nazisti, una simile interpretazione  della  vicenda ha contribuito infatti per anni ad alimentare l’immagine del “buon italiano“.

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La comunione d’intenti tra le due dittature era cominciata in occasione delle conquiste coloniali italiane, quando la Germania nazista si era trovata a essere l’unico interlocutore di Mussolini: l’Italia cercava un riconoscimento internazionale della sua politica in Africa, da contrapporre alle sanzioni della Società delle Nazioni dopo la guerra in Abissinia.

Fu con la guerra di Spagna che i due paesi giunsero a una significativa intesa politica, militare e, sotto molti aspetti, ideologica. Nell’attaccare le democrazie occidentali e la Società delle Nazioni, la propaganda fascista non rinunciò da quel momento in poi ad accusare gli ebrei di antifascismo e bolscevismo, quando non di tramare un complotto internazionale.

L’atteggiamento italiano, tuttavia, si inseriva appieno in una generale tendenza europea, caratterizzata in quegli anni da un risveglio dell’antisemitismo, utilizzato come efficace strumento di mobilitazione politica e di consenso.

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Come osserva Enzo Collotti, prima ancora di essere un fattore mobilitante utilizzato dai regimi europei negli anni Trenta, l’antisemitismo faceva parte di quegli aspetti culturali e politici che erano comuni alla gran parte dei paesi dell’Europa occidentale e orientale dopo la Prima guerra mondiale.

Questo conflitto, infatti, aveva destabilizzato i vecchi equilibri politici e gli avvenimenti del 1917 in Russia avevano diffuso in tutto il continente la paura della rivoluzione bolscevica. A questo si aggiungerà, in un secondo momento, la crisi economica del 1929, che lascerà drammatiche conseguenze a livello sociale e politico.

Nella ricerca di un colpevole “oscuro” e invisibile, causa di tutti gli sconvolgimenti di quei primi decenni del secolo, l’antisemitismo risultava così uno strumento molto adatto  per demagoghi e populisti, da utilizzare presso un pubblico ampio e spaventato.

Gli ebrei, cosa non nuova nella storia, erano infatti indicati come la sintesi dei mali che affliggevano gli Stati europei e che aveva portato a una sempre maggiore integrazione o addirittura assimilazione degli ebrei all’interno delle diverse comunità nazionali.

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Prima della “Notte dei Cristalli”, gli episodi di violenza e i pogrom antiebraici erano tuttavia un fenomeno tipico soltanto dell’Europa Orientale: si pensi ad esempio ai due drammatici pogrom del 1903 e del 1905 a Kišinev, in Moldovia, che provocarono un massiccio esodo degli ebrei da quei territori.continente europeo.

Incarnazione di pericoli opposti, potevano essere considerati allo stesso tempo un nemico interno ed esterno, simboli della modernità e di un passato intramontabile, un popolo primitivo e ipercivilizzato, una nazione straniera e cosmopolita, socialisti e plutocrati.

Tali stati d’animo erano ampiamente diffusi in Europa, anche come reazione al processo di emancipazione che si era diffuso nella seconda metà dell’Ottocento nei  principali

In Occidente, invece, la diffusione di un antisemitismo per lo più culturale e religioso non aveva dato vita a simili violenze: l’episodio più noto e rappresentativo restava infatti l’affaire Dreyfus, vicenda che divise proprio la Francia di fine Ottocento, il paese erede di una tradizione politica di tolleranza e di eguaglianza secondo i principi della Rivoluzione dell.

Le leggi razziali in Italia

Le leggi razziali in Italia

Un aspetto particolarmente influente nella diffusione dell’antisemitismo europeo tra fine Ottocento e inizio Novecento era stata la ripresa di consolidati motivi religiosi: espressione di un’antica tradizione antigiudaica cristiana, miti come l’accusa di popolo “deicida” o credenze quali la pratica degli omicidi rituali ebraici erano da sempre presenti all’interno della dottrina cristiana.

Del resto, in questi anni la Chiesa si era trovata costretta a pronunciarsi di fronte a episodi quali appunto la vicenda di Dreyfus o altre situazioni in cui, nel mondo cattolico, emergevano posizioni chiaramente antisemite.

La Santa Sede riconobbe l’opportunità di una funzione politica dell’antisemitismo nella propaganda dei partiti e dei movimenti cattolici che si stavano affermando in alcuni paesi europei: pur condannando sempre le manifestazioni di violenza, l’autorità ecclesiastica non si schierò mai su posizioni troppo nette di rifiuto o di critica rispetto agli attacchi, spesso feroci, che colpivano la popolazione ebraica.

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Il tradizionale antigiudaismo dottrinale, unito a un opportunistico uso politico del «giudizio negativo sugli ebrei» da parte della Santa Sede, funsero da modello per l’antisemitismo più radicale che si svilupperà nei decenni successivi.

In ogni modo, vi è certamente una differenza non secondaria che distingue l’antisemitismo politico cattolico dagli orientamenti antisemiti che si sviluppano da premesse nazionalistico-razzistiche.

Per il primo infatti resta in linea di principio per gli ebrei la via d’uscita rappresentata dalla conversione al cristianesimo, perché la loro condizione e la loro inferiorità morale nascono nella storia, sono la conseguenza del loro rifiuto del Cristo.

Per i secondi invece “ebreo resta ebreo” perché il loro modo di essere non è il frutto di vicende storiche ma opera della natura, e tale quindi da non offrire vie di scampo. La vicenda relativa ai Protocolli dei Savi di Sion costituisce un esempio indicativo per spiegare le dinamiche che portarono, nel cuore dell’Europa occidentale, alla radicalizzazione dell’antisemitismo negli anni successivi alla Prima guerra mondiale.

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Questo celebre “falso” era comparso per la prima volta in Russia nel settembre del 1903 su un quotidiano d’estrema destra di Pietroburgo, fondato da un giornalista antisemita, istigatore tra l’altro del citato pogrom di Kišinev.

La pubblicazione di questi finti verbali di una pretesa riunione segreta dei capi delle 12 tribù di Israele voleva dimostrare e rendere pubbliche le oscure trame di una fantomatica Internazionale ebraica: il «complotto giudaico-massonico».

Nel 1919 i Protocolli furono tradotti in molte lingue e furono editi in vari paesi europei, quali la Germania, la Svezia, la Polonia, l’Inghilterra e la Francia.

Il mito di un’Internazionale ebraica, così come quello della cospirazione e della volontà di dominio del mondo da parte degli ebrei, attecchirono facilmente in una parte della popolazione europea.

A partire dagli anni   Venti,   questo   costituì   la   base,   per   così  dire   ideologica,   dell’affermarsi   di un antisemitismo radicale che, attraverso l’individuazione di un colpevole quanto mai forte ma allo stesso tempo vago e nascosto, forniva da un lato una risposta immediata alle inquietudini suscitate dai sommovimenti seguiti alla fine della guerra (si pensi, per non fare che un esempio, alla rivoluzione bolscevica) e alle delusioni seguite ai trattati di pace di Versailles, e, dall’altra, ritornava utile in occasione delle nuove destabilizzanti crisi economiche e politiche del periodo tra le due guerre.

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A questo risveglio post bellico dell’antisemitismo europeo contribuì anche la crescita del movimento sionista, seguita alla dichiarazione di Balfour nel 1917 e alla nascita dei primi focolai ebraici in Palestina, che sembrò così avvalorare la tesi di un complotto ebraico su scala mondiale.

Negli anni Trenta avvenne però un passaggio fondamentale, che segna il decisivo salto di qualità nella politica anti-ebraica di alcuni paesi europei: la regolamentazione statale dell’antisemitismo e la promulgazione di apposite leggi contro gli ebrei.

L’adozione di una legislazione discriminatoria comportò, infatti, l’individuazione concreta di un gruppo di persone da perseguitare in base a caratteristiche loro attribuite e a criteri arbitrari, decisi e applicati a livello amministrativo.

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Se la Germania di Hitler, nel 1935, è il primo paese a mettere in pratica una tale prassi politica con le leggi di Norimberga, tre anni dopo, durante quello che è stato definito un «anno terribile per gli ebrei», altri Stati decidono di adottare una legislazione antiebraica: la Romania, l’Italia, l’Ungheria e l’Austria appena annessa al III Reich.

Esclusa  l’Austria,  l’iniziativa  presa  da  questi  governi  non  può  essere spiegata esclusivamente con le pressioni esercitate da parte tedesca. Oltre che per la sua politica di potenza, infatti, la Germania rappresentava un esempio vincente perché l’emanazione di provvedimenti anti-ebraici non aveva incontrato un’opposizione decisa né all’interno del paese né nell’opinione pubblica europea.

Gli stessi ebrei europei non avevano dimostrato la tanto temuta solidarietà internazionale. Questo era un ulteriore segno che l’antisemitismo fosse divenuto negli anni Trenta «un composto obbligato per la politica fascista europea» e, in generale, per i governi reazionari, e non suscitasse reazione da parte degli altri Stati.

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Anche per l’Italia il 1938 rappresenta un momento di svolta: con la legislazione anti-ebraica, il processo  di  emancipazione  degli  ebrei iniziato  con  la  proclamazione  del  Regno  d’Italia subisce una brusca interruzione. Non che nell’Italia liberale non fossero diffuse, come negli altri paesi europei, posizioni e idee antisemite.

Oltre ai tradizionali stereotipi popolari, l’antisemitismo trovava espressione in due manifestazioni principali: l’anti-giudaismo  cattolico, a cui si è già accennato, e la tendenza antisemita del movimento nazionalista.

Caratterizzato da spinte anti-parlamentari, antidemocratiche e imperialistiche, il nazionalismo italiano di questi anni condivideva con i movimenti nazionalisti diffusi negli altri  paesi europei una forte venatura di razzismo e antisemitismo, nel quale motivi politici e culturali tradizionali si intrecciavano con impulsi più recenti quali l’antisionismo.

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Certamente tributaria di dottrine d’oltralpe e del repertorio antiebraico clericale, minoritaria e ambigua nella distinzione tra ebrei italiani (in maggioranza leali cittadini) ed ebrei stranieri (parte integrante di manovre politico-economiche sovra-nazionali), la polemica nazionalista tendeva a superare i labili confini tra  antisionismo e antisemitismo e a concentrare la sua attenzione sulle attitudini anti-italiane della “plutocrazia ebraica” e sui risvolti antinazionali dell’internazionalismo ebraico nei confronti dei quali doveva essere impegnata una impari ma affascinante, mortale ma decisiva battaglia, simboleggiata dal confronto tra il sangue e l’ebreo.

Prima della guerra, tuttavia, l’antisemitismo aveva trovato espressione solo nella pubblicistica e nelle pagine dei giornali, senza alcun riscontro a livello governativo. Anzi, il citato processo di emancipazione era stato suggellato dalla presenza di personaggi provenienti dal mondo ebraico in importanti ruoli politici (ad esempio, a Roma, l’«ebreo e massone» Ernesto Nathan).

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Con l’avvento del fascismo, invece, la situazione cambia. La costruzione dello Stato “fascista” passa per un differente approccio nei confronti delle minoranze all’interno del paese. Le prime vittime di questa politica furono in realtà le popolazioni slave dei confini orientali, contro le quali il fascismo aveva fin dall’inizio attuato un processo di snazionalizzazione linguistica e culturale.

L’italianizzazione forzata di quei territori di confine era stata perseguita con metodi oppressivi, intesi a far diventare gli allogeni elementi dello Stato fascista, partecipi dei sentimenti, dei valori e dei comportamenti del regime.

Non tutti gli storici sono concordi nel valutare se in questo contesto politico il pregiudizio antislavo fosse o meno caratterizzato da elementi razzisti, in particolare se la politica di snazionalizzazione poggiasse su presupposti biologici di separazione di una razza inferiore da quella italiana o avesse piuttosto la finalità di un’assimilazione “radicale” delle minoranze slave nell’Italia fascista.

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Per ciò che concerne la comunità ebraica italiana, i primi anni del governo Mussolini sono caratterizzati da un uso propagandistico di brevi polemiche sulla presenza degli ebrei nella penisola, comparse per lo più sui giornali e nella pubblicistica. Queste campagne di stampa sembrano essere funzionali alla ricerca di consenso in una fase di consolidamento del potere.

Ad esempio, la polemica del 1927 tra i giornali «Israel» e «La Tribuna» sul ruolo degli ebrei italiani all’interno del fascismo e in rapporto al sionismo, avvenne negli stessi anni in cui il regime stava combattendo una volta per tutte le voci critiche al suo interno, mediante lo scioglimento dei partiti antifascisti o la soppressione dei giornali di opposizione.

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Esclusi alcuni episodi isolati, questa fase vide al contrario una normalizzazione nei rapporti tra il fascismo e la comunità degli ebrei italiani, a dimostrazione che l’antisemitismo non ebbe quel ruolo centrale che il razzismo degli anni Trenta ricoprirà nel processo di costruzione dello Stato totalitario e nella politica estera fascista.

Una decisiva svolta si ha già a partire dalla definizione dei rapporti tra il Regime fascista e la Santa Sede nel 1929, con la firma dei Patti Lateranensi: il processo di emancipazione degli ebrei e il suo effettivo compimento dopo l’Unità d’Italia fu conseguente alla separazione tra lo Stato e la Chiesa cattolica che si consumò con la breccia di Porta Pia.

Il punto di rottura fondamentale dell’evoluzione in senso liberale dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose fu rappresentato dai Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929. […] La condizione privilegiata accordata alla confessione cattolica, che tornava a diventare religione di Stato […] rimetteva in discussione la posizione giuridica degli altri culti che erano stati posti sullo stesso piano dalle norme di tutela penale del codice Zanardelli del 1889.

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Nasceva così la formula dei culti ammessi che erano in una ideale scala di valori gerarchicamente inferiori alla Chiesa cattolica, in quanto portatrice della religione di Stato.

Nel percorso verso una «via totalitaria» del regime, tutto ciò che non era espressione dello Stato stesso e, dopo il Concordato, della Chiesa cattolica, doveva essere sottoposto a stretto controllo. Si spiega così l’emanazione delle norme riguardanti i cosiddetti “culti ammessi”.

Tra queste, il Regio decreto del 30 ottobre 1930 da una parte rappresentava un riconoscimento delle istituzioni ebraiche da parte dello Stato: il riordinamento giuridico delle comunità ebraiche e la creazione di una loro federazione, l’Unione delle comunità israelitiche italiane, diedero una rappresentanza ufficiale agli ebrei italiani di fronte all’opinione pubblica e al governo; dall’altra, però, tale riconoscimento doveva essere ricambiato da una promessa di lealtà al regime e, concretamente, si realizzava attraverso una limitazione dell’autonomia delle comunità ebraiche e una maggiore ingerenza governativa.

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Molto importante era ad esempio il fatto che, secondo tali norme, il governo potesse istituire e sopprimere le comunità, o che la nomina di rabbino dovesse ricevere l’approvazione del ministero dell’Interno.

Se dunque il 1938 rappresenta il momento di rottura definitiva fra lo Stato e la comunità ebraica, questa cesura si inscrive all’interno di un progressivo deteriorarsi delle relazioni avviato già negli anni precedenti, determinato non soltanto da un riavvicinamento alla Germania nazista, ma da fattori di politica interna ed estera.

Come vedremo, le conquiste coloniali della metà degli  anni Trenta accelerarono un processo di radicalizzazione nei confronti delle minoranze presenti all’interno del paese, soprattutto perché l’esperienza africana introdusse ufficialmente, nella politica governativa, dei criteri razzisti e strettamente legati alla preservazione di una immaginaria razza italiana.

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Lo studio della normativa anti-ebraica da parte della recente storiografia ha ridimensionato l’interpretazione che attribuiva all’influenza tedesca un ruolo determinante nella scelta antisemita di Mussolini e ha messo invece in evidenza i motivi di politica interna ed estera del regime.

Le leggi razziali si inserirono nel processo di radicalizzazione dei metodi repressivi e di controllo sociale del governo fascista; l’antisemitismo rappresentò uno strumento utile alla mobilitazione politica di cui aveva bisogno lo Stato totalitario alla fine degli anni Trenta.

L’introduzione della legislazione antiebraica seguì una dinamica particolare:  la promulgazione di decreti legge fu preceduta e/o accompagnata da disposizioni amministrative del ministero dell’Interno e degli uffici competenti in materia: la Direzione generale di pubblica sicurezza e la Direzione generale per la Demografia e per la Razza.

Circolari ministeriali e telegrammi diretti alle prefetture servirono cioè ad anticipare i provvedimenti legislativi o a fornire, in un secondo momento, chiarimenti riguardo le misure prese nei confronti degli ebrei.

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L’applicazione della normativa coinvolse nuovi soggetti politici, nati o rafforzatisi durante il Ventennio: nel 1938-39 la macchina persecutoria del regime prese forma basandosi non solo sull’apparato statale ordinario, ma anche sulle nuove strutture del settore pubblico cresciute negli anni tra le due guerre mondiali.

Ai tradizionali settori dell’amministrazione centrale, degli enti locali, della scuola e della difesa, si erano aggiunte infatti nuove burocrazie,  quelle  degli  enti  parastatali,  del  Partito  nazionale  fascista,  delle  amministrazioni sindacali e corporative, che già negli anni Venti erano state protagoniste della penetrazione del fascismo nel paese.

All’interno della legislazione razziale confluirono motivi antisemiti diffusi nei mesi subito precedenti dalla propaganda di regime. Tre aspetti, in particolare, servirono a identificare l’«ebreo» quale appartenente a una categoria distinta rispetto al resto della  popolazione italiana e a giustificare, dunque, le misure antisemite.

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Il primo concerne la centralità dell’elemento razziale come fattore discriminante: l’«ebreo» viene cioè separato dalla popolazione italiana perché appartenente a una categoria – razza – considerata inferiore sulla base di criteri non soltanto storici, religiosi e culturali, ma anche biologici e naturali, come il sangue e l’ereditarietà, propri delle teorie del razzismo coloniale.

Il secondo aspetto riguarda  il carattere xenofobo, oltre che razzista, dei provvedimenti: l’essere uno straniero, cioè, rappresenta un’aggravante nella valutazione dello status giuridico dell’individuo.

Gli «ebrei stranieri» furono considerati una categoria a parte fra gli ebrei presenti in Italia e le misure governative stabilirono nei loro confronti l’allontanamento dal territorio nazionale.

Infine, il terzo aspetto è una diretta conseguenza dello scoppio della guerra: da avversario “ideale” del fascismo, ora l’«ebreo» diventava un «nemico» reale e concreto all’interno dell’Italia, perché suddito straniero di uno Stato in guerra contro la nazione o perché italiano antifascista e disfattista.

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Questa condizione di «nemico» giustificò, nel periodo 1940-1943, le misure di internamento in comuni della penisola o in campo di concentramento per la massa degli «ebrei stranieri» presenti nel Regno e per una parte degli italiani: gli ebrei subirono cioè i provvedimenti  di controllo e repressione propri di un paese in guerra.

Anche il successivo ordinamento antisemita della Repubblica sociale si porrà, del resto, in continuità con quanto stabilito dal regime nei cinque anni precedenti.

Come vedremo più avanti, già nella prima dichiarazione ufficiale del ricostituito Partito fascista repubblicano, riunitosi in congresso nel novembre del 1943, si ritroveranno in un’unica formula i termini «razza ebraica», «straniero» e «nemico»: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».

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La questione dell’esistenza o meno di un razzismo fascista e del ruolo che l’antisemitismo ricoprì nel fascismo sono da molti anni al centro del dibattito storiografico italiano.

L’opera di Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, ha rappresentato per lungo  tempo l’unico punto di riferimento della storiografia sul tema e, per molti anni, ha avuto il merito di essere il solo contributo storico che trattasse in maniera specifica la persecuzione degli ebrei durante il regime fascista.

Nell’introduzione all’edizione del 1993 (il libro uscì per la prima volta a metà degli anni ’60), lo storico affermava, come già avvenuto nelle precedenti edizioni, che il fascismo non era stato né razzista né antisemita e che «con l’adozione dei provvedimenti razziali Mussolini si proponeva di conseguire una serie di obiettivi»: dare al fascismo nuovo dinamismo, compiere un gesto di amicizia nei confronti di Hitler, regolare i rapporti tra gli Italiani e le popolazioni africane.

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Secondo De Felice, quindi, sia l’antisemitismo che il razzismo erano elementi entrambi estranei al fascismo; il razzismo, in particolare, sarebbe stato introdotto con scopi opportunistici, con l’obiettivo di far accettare in Italia l’emanazione di una legislazione antisemita: il razzismo aveva il vantaggio di essere molto più impersonale e totalitario, di coinvolgere gli ebrei non direttamente, ma in un contesto di gran lunga più ampio, di presentarsi con una veste apparentemente scientifica  e di cadere, per la sua stessa estraneità alla cultura media italiana su un terreno meno premunito contro di lui.

Le ricerche sul tema uscite negli ultimi anni hanno in realtà messo in luce una specificità del razzismo italiano, soprattutto nei confronti dei sudditi delle colonie.

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Per Roberto Maiocchi, negli anni Trenta gli scienziati italiani non condividevano l’idea generale di un razzismo “biologico”: insistendo piuttosto su criteri spirituali, storici o religiosi, si ponevano in posizione critica rispetto alle teorie provenienti dalla Germania nazista, che propugnavano la purezza della razza o del sangue ariano.

D’altronde simili teorie avrebbero potuto difficilmente trovare seguito in un paese come l’Italia: per prima cosa, su basi prettamente biologiche, una supposta razza italiana correva il rischio di risultare essa stessa inferiore alla pura razza ariana germanica; in secondo luogo – il che non era peraltro affatto secondario –, era molto complicato far accettare l’idea che esistesse nella penisola un popolo fisicamente omogeneo.

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Allo stesso tempo però, se si sposta il discorso sulla percezione dei neri e dei sudditi africani, era comunemente riconosciuta da anni, a livello scientifico, antropologico o culturale, l’inferiorità delle razze “negre” rispetto a quelle bianche: il razzismo biologizzante quasi sempre respinto nelle enunciazioni teoriche, si manifestava concretamente operativo quando venivano analizzate le genti di colore, i negri in particolare.

Nei libri dei nostri africanisti, ma anche nelle opere letterarie, era presente una pressoché indiscutibile immagine delle razze negre quali razze inferiori. Nell’Italia degli anni Trenta praticamente nessuno sosteneva che i negri non fossero intellettualmente e moralmente inferiori ai bianchi.

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Nel momento in cui il fascismo intraprese la via delle conquiste coloniali, si presentarono problemi di gestione e amministrazione di quei territori.

Dopo la conquista dell’Abissinia, la politica fascista si indirizzò soprattutto contro la possibile contaminazione tra la popolazione italiana e quella africana.

In Italia il governo cominciò a pensare subito all’opportunità di provvedimenti che accelerassero le operazioni per rimpatriare i sudditi coloniali presenti nel Regno e di leggi che contemporaneamente ne limitassero al massimo l’ingresso.

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Nel 1938 fu ordinato dal ministero per l’Africa italiana, e eseguito dalle prefetture, un censimento dei sudditi coloniali presenti in Italia: si contarono in realtà solo 28 eritrei e 11 libici.

Già a partire dalla proclamazione dell’Impero, nel maggio 1936, furono stabilite una serie di misure improntate chiaramente a principi  razzisti  e  biologici,  volte  a  colpire  in  particolare la contaminazione e la promiscuità tra italiani bianchi e africani neri.

La “tutela” della razza italiana passava cioè attraverso il divieto delle unioni e dei matrimoni tra italiani e persone appartenenti alle inferiori razze africane. Il risultato di questi “inaccettabili” (ma frequenti) incroci era il meticciato, simbolo dell’impoverimento della razza italiana.

Il Regio decreto legge del 1 giugno 1936 n. 1019 «Ordinamento e amministrazione dell’Africa orientale italiana», che impediva al mulatto figlio di genitori ignoti di ottenere la cittadinanza italiana, fu probabilmente il primo passo in direzione di una legislazione razziale nelle colonie.

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Nel 1937 furono varate norme che formano un vero e proprio corpus legislativo coloniale di ordine razziale: in aprile, la proibizione di relazioni coniugali con sudditi coloniali; a giugno, voluta dal governatore dell’Eritrea, l’ammiraglio De Feo, la segregazione razziale per motivi di ordine pubblico e di igiene, onde evitare la promiscuità tra italiani e africani; a dicembre, il decreto che ampliava il divieto delle relazioni coniugali tra italiani e indigeni (in pratica una ratifica del precedente decreto di aprile).

L’attività legislativa fu accompagnata da un battage propagandistico: nel maggio del ’36 il Ministro della stampa e della propaganda Ciano ricordava ad esempio ai giornali che è necessaria una netta separazione fra razza dominante e razza dominata.

La razza italiana non deve subire ravvicinamenti di sorta con la razza negra e deve mantenere intatta la sua forte purezza.

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Quale fu dunque il collegamento tra razzismo coloniale e antisemitismo? Abbiamo già accennato al fatto che le idee razziste e antisemite provenienti dalla Germania non erano state accolte favorevolmente negli ambienti scientifici, governativi e intellettuali del fascismo, anzi il più delle volte erano state criticate: tanto le concrete analisi sulla struttura e sulla storia delle popolazioni italiane, quanto le riflessioni  metodologiche sul rapporto tra antropologia fisica e etnologia, concordemente portavano gli studiosi a respingere le teorizzazioni degli “scienziati” cari al nazismo.

Simile atteggiamento critico, che era comune agli ambienti bio-medici e – con meno decisione – a quelli sociologici risultava, alla metà del decennio (si parla degli anni Trenta) perfettamente coerente con le direttive ufficiali, che si manifestarono duramente avverse alle prime traduzioni legislative della “religione del sangue” in Germania.

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Queste posizioni erano del resto condivise anche dalla Chiesa cattolica, il cui antisemitismo rimaneva ispirato a tradizionali motivi religiosi. Perfino gli intellettuali fascisti propugnatori  di teorie più radicali (Preziosi, Cipriani, Evola), che pure si addossarono il compito di diffondere in Italia gli aspetti del razzismo tedesco, ne criticavano gli elementi biologici legati al “sangue” e alla “terra”, e ne  proponevano una  re-interpretazione in chiave «spiritualistica».

Alla teoria biologizzante di derivazione tedesca, cioè, si opponeva piuttosto l’immagine di una comunità nazionale italiana, una “stirpe” invece di una “razza”. L’unità di questa “stirpe” italiana era realizzata attraverso il riferimento alla storia di Roma: il mito della romanità, la continuità tra il regime fascista e l’Impero romano, la leggenda di un popolo colonizzatore e  portatore di civiltà  nel mondo  (confermata  ora  dalle  nuove conquiste coloniali) fornivano da sole una risposta convincente all’esistenza di una razza spirituale italica superiore.

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In questo contesto, l’antisemitismo di carattere nazista non riusciva ad attecchire facilmente. Le motivazioni religiose, costitutive di un antisemitismo italiano non solo negli ambienti cattolici ma anche in quelli nazionalisti, mal si conciliavano con un riferimento al “sangue” ebraico: anche in questo caso, riscontrava maggiore successo l’immagine evoliana di un’opposizione tra “spirito” ariano e “spirito” semita.

Tuttavia: nella stessa Italia fascista vi fu una sorta di schizofrenia tra l’esaltazione tutta nazionalista della stirpe e dei trascorsi della romanità, sino a gonfiarsi in veri e propri impeti razzistici, e l’originaria sufficienza nei confronti del razzismo e dell’antisemitismo tedeschi.

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Quella ambiguità che rese possibile tra il 1933 e il 1938 anche l’accoglienza in Italia di rifugiati che avevano preso la via del sud per sfuggire alla persecuzione razziale in Germania, ma che già pochi mesi dopo l’Anschluss, proprio quando l’allargamento della Grande Germania significava l’inglobamento nell’area di sovranità nazista di nuovi consistenti nuclei di popolazione ebraica, era destinato a diventare un rifugio sempre più precario.

Nel 1937, le polemiche e gli spunti antiebraici comparsi sulle pagine di molti giornali, nonché la pubblicazione di alcune opere chiaramente orientate contro gli ebrei italiani e stranieri, prepararono il terreno alle leggi del 1938.

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La storiografia è ormai concorde nel ritenere che questa vera e propria campagna antiebraica della stampa e della pubblicistica italiana fu orchestrata molto probabilmente da Mussolini e dagli ambienti governativi fascisti, in un momento in cui, anche in considerazione del nuovo contesto internazionale (l’avvicinamento alla Germania nazista dopo le conquiste coloniali e la guerra in Spagna), stava maturando l’opportunità di emanare una serie di provvedimenti antisemiti a livello statale.

Con la pubblicazione del libro di Paolo Orano, Gli ebrei in Italia, e il dibattito che ne seguì, si procedette a un attacco politico e religioso nei confronti degli ebrei: l’ebraismo, tanto più  dopo la crescita del movimento sionista internazionale, era considerato un elemento perturbatore delle società europee.

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La polemica non risparmiava neanche gli ebrei italiani e poneva l’accento sull’idea dell’incompatibilità tra l’essere ebreo e il dichiararsi buon fascista: per scongiurare qualsiasi pericolo interno, secondo l’autore, ogni espressione ebraica in Italia, dai giornali alle comunità, doveva essere inglobata dalla propaganda e dall’educazione fascista.

Del ‘37 fu inoltre la riedizione dei Protocolli dei Savi di Sion, con introduzione di Evola, a opera di Giovanni Preziosi60. Sempre dello stesso Preziosi apparvero numerosi articoli antisemiti sul giornale «La Vita Italiana», nei quali l’autore denunciava con toni violenti la congiura mondiale di un’Internazionale ebraica.

Dello stesso tenore erano i pezzi di Interlandi sulle colonne de «Il Tevere»: il futuro direttore de «La Difesa della razza» prospettava già la necessità di una legislazione razziale che colpisse gli appartenenti a una razza differente da quella italiana, ebrei in primo luogo, al fine di tutelare la purezza di quest’ultima.

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Gli esempi appena citati sono solo alcuni degli episodi più rappresentativi della campagna del 193761. È difficile del resto credere che questa concentrazione di pubblicazioni contro gli ebrei sia stata frutto del caso.

Osserva ancora Collotti: quelle manifestazioni erano espressione infatti di un clima di cui elementi vicini al regime andavano percependo il montare e la consistenza, sicché esse venivano a trovarsi in sintonia con una svolta potenziale del regime, di  cui anticipavano prese di posizione o alla quale fornivano argomentazioni e consenso.

Questa campagna doveva servire al regime anche per capire quali risultati avrebbe raggiunto un ufficiale uso politico dell’antisemitismo da parte dello Stato. La studiosa francese Marie Anne Matard-Bonucci pone l’attenzione sul fascino che l’esperienza tedesca ebbe sul Duce.

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L’antisemitismo aveva portato in Germania «una rivoluzione economica, sociale,  sentimentale e culturale nella vita di centinaia di migliaia di individui» dal momento che i provvedimenti non colpivano solo gli ebrei ma anche tutti gli ariani alleati agli israeliti.

Il governo di Mussolini aveva bisogno, dopo le conquiste coloniali e la guerra di Spagna, di mobilitare le élites intellettuali e le organizzazioni fasciste per rilanciare la «macchina totalitaria fascista» e suscitare un nuovo slancio popolare: la battaglia contro l’ebreo si inseriva allora nel contesto (e al servizio) di una campagna contro il «nemico interno», rappresentato da coloro che avevano interrotto il processo rivoluzionario fascista (ad esempio  i borghesi e il loro lassismo).

Anche per questo motivo, i toni della campagna, seppur in certi casi violenti, rimasero principalmente su un piano etico, politico e religioso.

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Certo è che, nel luglio 1938, quando fu pubblicato su «Il Giornale d’Italia» il Manifesto della razza (sotto il titolo in realtà di Il fascismo e i problemi della razza), le motivazioni storiche, culturali e religiose lasciarono spazio anche e soprattutto a teorie basate su fattori biologici.

Gli storici sono oggi concordi nel legare l’origine del Manifesto alla figura di Mussolini, presente dietro il gruppo degli scienziati firmatari: se non fu proprio lui a redigere il testo, senza dubbio egli ne condivise il contenuto e vi mise mano prima della pubblicazione. Il documento rompeva con le esitazioni manifestate ancora qualche mese prima sulla stampa.

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Ancora nel mese di febbraio, era stata diffusa infatti l’Informazione diplomatica n. 14, nota redatta dallo stesso Mussolini e considerata la prima dichiarazione ufficiale sulla questione ebraica da parte del governo fascista, in cui si negava che il regime volesse adottare una legislazione antiebraica, ma si proclamava l’obiettivo di vigilare sull’attività degli ebrei affinché la loro presenza «nella vita complessiva della Nazione non risulti sproporzionata ai meriti intrinseci dei singoli e all’importanza numerica della loro comunità».

Il riferimento all’importanza numerica, in particolare, si ricollegava agli obiettivi di politica demografica  che il regime portava avanti ormai da anni. Riassunta nello slogan «il numero è potenza», questa attenzione al problema demografico passava attraverso l’adozione di precise iniziative politiche di salute pubblica e di ripopolamento delle campagne (le più note sono quelle legate ad esempio alle bonifiche).

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Con le conquiste coloniali e l’affermarsi della questione del meticciato e della tutela della razza, il governo prestò sempre più attenzione, come abbiamo già spiegato, alla preservazione della popolazione italiana dalla contaminazione con i popoli africani. Sulla scia di questo orientamento, il Manifesto della razza esplicitava però nuovi elementi.

Innanzitutto le razze umane esistono e sono un concetto «puramente biologico» (punto 3). Per la prima volta si annunciava che la popolazione italiana aveva origini ariane millenarie conservatesi fino a quel tempo (punto 4) e che esisteva quindi una vera pura “razza italiana” sulla base della trasmissione del sangue e non di principi culturali (punto 6).

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Dal momento che gli Italiani erano ariani, quella italiana apparteneva alle razze umane nord- europee. Dopo aver messo in guardia contro le teorie che volevano anche le popolazioni africane e semite originarie dell’Europa (punto 8), si chiariva l’estraneità all’Italia degli ebrei, popolo impossibile da assimilare: gli ebrei non appartengono alla razza italiana.

Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia.

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Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani.

L’origine e la trasmissione ereditaria degli elementi fondanti di una razza ricoprivano quindi un’importanza fondamentale nel Manifesto, rendendo così esplicito un discorso basato sulla trasmissione del sangue e non dei valori culturali di un popolo.

Da questi concetti conseguiva inoltre il pericolo di un incrocio tra razze europee e extra-europee in grado di alterare il carattere puro dell’Italiano (punto 10).

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Questo brusco passaggio verso un razzismo di tipo biologico invece che culturale non ricevette un’accoglienza unanime. Non in linea con il più diffuso orientamento scientifico e culturale italiano, il Manifesto fu percepito generalmente come una traduzione del razzismo tedesco, basato su teorie fino a quel momento respinte in Italia.

Sembra quasi che gli estensori del documento avessero sospettato una simile critica se, al punto 7, insistevano sui meriti di un fascismo da sempre razzista («È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo») e specificavano: la questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico.

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Questo non vuol dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca  completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità.

La reazione alla pubblicazione di questo testo, come detto, non fu ovunque la stessa. Due giorni dopo la diffusione del documento, il Partito nazionale fascista comunicava prima al Duce e poi pubblicamente su «Il Popolo d’Italia» il suo allineamento ai contenuti del Manifesto, condividendone gli aspetti razziali ma riproponendo, allo stesso tempo,  motivazioni strettamente politiche.

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Dopo aver accennato alle leggi razziste dell’Impero coloniale italiano che intendevano “giustamente” preservare la razza italiana da ogni contaminazione, il comunicato aggiungeva: quanto agli ebrei essi si considerano da millenni dovunque e anche in Italia, come una “razza” diversa e  superiore alle altre ed è notorio che malgrado la politica tollerante del Regime gli ebrei hanno in ogni nazione costituito – coi loro uomini e coi loro mezzi – lo stato maggiore dell’antifascismo.

D’altra parte, però, già all’inizio di agosto l’Informazione diplomatica n. 18 attenuava i toni del Manifesto con l’intenzione di rassicurare la popolazione ebraica in Italia: si ripeteva che il governo non aveva «alcuno speciale piano persecutorio contro gli ebrei, in quanto tali» – era qui che si coniava la celebre formula «discriminare non significa perseguitare» -, ma si insisteva comunque sulla necessità di regolare la partecipazione degli ebrei nella vita dello Stato fascista.

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In queste note le accuse di complotto internazionale o di antifascismo («dell’equazione, storicamente accertata in questi ultimi venti anni di vita europea, fra ebraismo, bolscevismo e massoneria»), sono affiancate da altri motivi: gli ebrei sono considerati da sempre gli apostoli del più integrale, intransigente, feroce, e, sotto un certo punto di vista, ammirevole razzismo; si sono sempre ritenuti appartenenti ad un altro sangue, ad un’altra razza; si sono autoproclamati “popolo eletto” e hanno sempre fornito prove della loro solidarietà razziale al di sopra di ogni frontiera.

Sebbene questa frase non presentasse toni eccessivamente violenti – si parla addirittura di «ammirevole razzismo» –, insistere sull’equazione ebrei/popolo razzista serviva forse a spiegare che quello razzista era appunto l’unico strumento efficace per risolvere il problema ebraico, quasi rappresentasse una risposta a un attacco condotto dagli ebrei su vie analoghe.

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Nel  discorso  “riservato”  pronunciato  al  Consiglio  nazionale  del  Partito,  il  25 ottobre, Mussolini riprendeva questo concetto, chiarendo l’opportunità dei provvedimenti antiebraici in procinto di essere presi dallo Stato: l’ebreo è il popolo più razzista dell’universo. È meraviglioso come si è conservato puro attraverso i secoli,  poiché la religione coincide con la razza e la razza con la religione.

Era necessaria dunque, secondo il duce, una battaglia condotta sullo stesso piano perché «non v’è dubbio che l’ebraismo mondiale è stato contro il Fascismo, non v’è dubbio che durante le sanzioni tutte le manovre anti-italiane furono volute e organizzate dagli ebrei».

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Nelle settimane successive, la tendenza dei giornali, degli intellettuali e della pubblicistica fu comunque orientata a sfumare il razzismo del Manifesto verso una concezione spiritualista e non biologica: veniva contestato in particolar modo il carattere “ariano” della razza italiana.

In polemica con le teorie espresse nel documento si pose anche la Chiesa cattolica: lo stesso Pio XI, in un discorso pronunciato a fine luglio, denunciava il fatto che l’Italia fosse andata a imitare in quel modo la Germania e ne chiedeva spiegazioni.

In ottobre, dopo che già era stato avviato il censimento della popolazione ebraica, la Dichiarazione sulla razza del Gran consiglio del Fascismo, che pur precedette di un mese i successivi provvedimenti amministrativi e legislativi di novembre, non insisteva così energicamente su principi di razzismo biologico.

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Per prima cosa si metteva in risalto la necessità di misure anti-ebraiche per contrastare il pericolo internazionale e antifascista che gli ebrei rappresentavano.

I motivi di ordine politico rimanevano quindi prevalenti, se, come si legge, eventuali provvedimenti potevano in futuro essere annullati, modificati o aggravati in base alla lealtà che gli ebrei italiani avrebbero dimostrato nei confronti del fascismo e «a seconda dell’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei riguardi dell’Italia fascista».

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Questa Dichiarazione poneva quindi delle condizioni nella vita della popolazione ebraica e preannunciava così i principi sui quali  si basarono in seguito le leggi di novembre: il divieto di matrimonio tra ariani e non ariani, l’espulsione degli ebrei dal partito, il divieto di possedere aziende o un terreno agricolo di una determinata estensione, uno speciale accesso per l’esercizio delle professioni, l’esonero dal servizio militare, l’allontanamento dagli impieghi pubblici.

La Dichiarazione sulla razza conteneva però anche una prima definizione di ebreo, nella quale ritornava il tema della nascita e dell’ereditarietà («è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei»).

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Tuttavia, come già detto, altrettanto presenti erano i criteri culturali e religiosi: «è considerato di razza ebraica colui che pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica».

Quella della definizione di chi fosse un ebreo, in realtà, era stata una questione già affrontata nei mesi precedenti. Il 17 luglio 1938, l’Ufficio demografico del ministero dell’Interno cambiò nome e diventò Direzione generale della demografia e della Razza (comunemente noto come Demorazza), a dimostrazione che, anche a livello amministrativo, si stesse procedendo verso una soluzione di carattere razzista e non solo di controllo demografico.

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A questo ufficio, guidato da Guido Landra e sotto la supervisione del sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi, personaggio centrale poi anche nella politica antiebraica di Salò quale ministro dell’Interno della Repubblica sociale, era affidata l’elaborazione di una legislazione razziale.

Una tale iniziativa fu ben presto affiancata da una campagna propagandistica condotta attraverso le organizzazioni fasciste e soprattutto la stampa.

In agosto, presso il Gabinetto del ministero della Cultura Popolare, fu creato così l’Ufficio studi del problema della razza, con compiti di propaganda e di ricerca sul razzismo. Il primo numero de «La difesa della Razza», diretto da Interlandi, uscì il 5 agosto 1938, mentre dal marzo 1940  anche il ministero dell’Interno si doterà di una rivista ufficiale, sotto il controllo della Demorazza («Razza e civiltà»).

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Appena istituita, la nuova Direzione generale della demografia e della razza fu incaricata di eseguire il censimento della popolazione ebraica, italiana e straniera.

Iniziato nell’agosto 1938, il censimento seguiva quello generale della popolazione del 1931, grazie al quale erano stati individuati circa 48.000 ebrei in Italia, e serviva anche a valutare quale fosse stato l’impatto dell’immigrazione ebraica  dalla  Germania  e  dall’Austria  negli  anni  Trenta.

In  questa  occasione  fu  formulata  una  prima definizione giuridica di ebreo, nella quale risultava centrale l’elemento ereditario: l’appartenenza di una persona alla razza ebraica era infatti accertata quando erano di religione ebraica entrambi i genitori.

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Tuttavia, l’individuazione degli ebrei fu spesso affidata all’autodenuncia degli ebrei stessi o all’indagine effettuata presso portinai o vicini di casa  sulla base, ad esempio, del cognome. Furono schedati 58.412 residenti nel Regno nati da almeno un genitore ebreo o ex ebreo, divisi in 48.032 italiani e 10.380 stranieri residenti da oltre sei mesi.

Tra tutti questi, 46.656 (37.241 italiani e 9.415 stranieri) erano considerati ebrei effettivi – ovvero iscritti a una comunità o che avevano dichiarato di essere ebrei –, mentre 11.756 o si erano distaccati dall’ebraismo (circa 2.500) o erano figli di matrimoni misti (circa 7.000).

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Il mese successivo, il 5 settembre, i Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, decretando l’espulsione degli insegnanti ebrei nella scuola pubblica e vietandone l’iscrizione alle persone di razza ebraica, diedero il via a un processo di esclusione con obiettivi politici e culturali.

Il 17 novembre 1938, il Regio decreto  denominato Provvedimenti per la difesa della Razza italiana trasformò in legge i principi già esposti nella Dichiarazione sulla razza di un mese prima.

Le misure estromisero gli ebrei dalla società italiana e ufficializzarono la separazione tra la popolazione di razza italiana e gli ebrei, attraverso ad esempio il divieto di matrimoni e unioni. Le modalità applicate nei territori coloniali contro i sudditi africani venivano ora replicate anche nella penisola per colpire la popolazione ebraica.

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Si compiva qui la definitiva congiunzione tra il razzismo coloniale e l’antisemitismo di Stato. Il criterio dell’ereditarietà, ovvero l’essere figlio di qualcuno che avesse sangue ebreo, risultava un fattore determinante: l’avere più o meno del 50% di sangue ebraico, in base appunto alla razza dei propri genitori, stabiliva l’appartenenza alla razza ebraica.

Le caratteristiche  individuali  e  culturali  della  persona ricoprivano ora  un peso secondario, con risultati che sembrano paradossali ma che in realtà risultano in linea con una scelta fondata su criteri biologici: ad esempio, la legislazione definiva ebreo il figlio di due genitori ebrei, anche se non professante la religione ebraica.

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La “razza”, ereditata dai genitori, era più importante dell’elemento religioso e culturale, nonostante si volesse ormai far passare l’idea che religione e razza coincidessero. Come osserva Alberto Burgio, due sono gli ingredienti necessari per la costruzione di una razza: l’attribuzione di un connotato “naturale” e allo stesso tempo “deteriore” al gruppo destinato alla discriminazione.

La razza richiede sempre e soltanto la presentazione (non importa se rispondente o meno alla realtà) e la svalorizzazione (in tutti i casi arbitraria e ideologica) di uno o più caratteri comuni a tutti gli individui del gruppo destinato alla razzizzazione e stabili nel tempo. Questa è la ragione per cui in tutti i discorsi razzisti il tema della ereditarietà assume un rilievo incomparabile con quello conferito a qualsiasi altro elemento.

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Per il fatto di svolgere una funzione costitutiva della identità di “razza”, la (reale o presunta) trasmissione ereditaria di un connotato “razziale” è di gran lunga più importante della sua stessa visibilità, pur cruciale ai fini delle ricadute pratiche del razzismo, a cominciare dalla gestione pubblica (sociale e politica) delle sue teorizzazioni.

Seguendo il percorso che portò alla legislazione di novembre 1938, si nota che il governo fascista fu attento però a non introdurre drasticamente elementi solo biologici nella  sua politica antisemita.

Nei mesi che precedettero l’adozione dei provvedimenti amministrativi e legislativi, del resto, il regime si era mosso in due direzioni differenti: da una parte, col Manifesto della Razza intendeva proporre giustificazioni scientifiche e biologiche al razzismo fascista; dall’altra, con la pubblicazione di testi ufficiali come l’Informazione diplomatica e la Dichiarazione sulla razza di ottobre lasciava spazio a motivi di ordine politico, religioso e culturale.

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Grazie a un consolidato orientamento razzista legato alle colonie d’Africa, il regime alla fine riuscì a far passare una normativa nella quale soprattutto le caratteristiche “naturali” attribuite a un gruppo umano diventavano determinanti fattori negativi e discriminanti.

Ciò che facilitò l’introduzione nella penisola di concetti razzisti e biologici concernenti gli ebrei fu probabilmente l’immagine ben diffusa e accettata tra gli italiani del “negro” quale suddito coloniale e essere inferiore: questa immagine, come è stato osservato, sarebbe stata «il cavallo di Troia con cui il razzismo antisemita verrà fatto penetrare in Italia».

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Michele Sarfatti, nei suoi studi, ha affermato che anche nel caso in cui le si volesse  considerare un «incidente di percorso» o una concessione alla Germania di Hitler, le leggi razziali del 1938 si basavano su un concetto biologico di razza.

Rispetto a quelle tedesche, le norme anti-ebraiche italiane non prevedevano la classificazione di ebrei “misti”: i figli di coppie miste (un coniuge ariano e uno ebreo) erano considerati ariani o ebrei a seconda della percentuale di sangue ebraico calcolata in base alla razza dei genitori e dei nonni.

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Sotto questo punto  di  vista  esse  sembravano  più  radicali  dei  provvedimenti  contro  i  sudditi coloniali, all’interno dei quali era prevista invece una specifica categoria intermedia, ovvero i “meticci”. Se questo è innegabile, va tuttavia rilevata la persistenza di aspetti storici, culturali e sociali specifici della persona, determinanti nella definizione di appartenente alla razza ebraica.

Ad esempio: è considerato di razza ebraica colui che pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia comunque iscritto ad una comunità israelitica, o vi abbia fatto in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo.

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Le cosiddette «manifestazioni di ebraismo» (ovvero le attività che rivelavano tendenze e sentimenti ebraici, come ad esempio l’iscrizione a una comunità) e le caratteristiche individuali influivano soprattutto in quelle che il regime considerava la gamma delle possibili esenzioni e “discriminazioni”.

L’esistenza di criteri discriminanti all’interno della legge, quali l’appartenenza a famiglie di caduti e decorati di guerra o l’accertata fedeltà al fascismo grazie all’iscrizione al partito prima di una certa data, poggiava il più delle volte su motivazioni di tipo politiche. Si effettuò dunque una distinzione giuridica tra “discriminati” e non, che si traduceva per i primi nella parziale esenzione dalle misure antiebraiche.

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Tale distinzione veniva effettuata secondo fattori politici e culturali e non sulla base di considerazioni legate esclusivamente a criteri di nascita e di sangue (riguardo ai quali, anzi, non esistevano vie di mezzo: si era considerati o ariani o ebrei).

Osserva a questo proposito Renzo De Felice che il governo di Mussolini: non aveva voluto imboccare decisamente la via “biologica”, unica possibile per chi voglia realizzare senza sbandamenti un vero antisemitismo, e si era invece mantenuto su un ibrido terreno un po’ biologico, un po’ religioso e un po’ politico che – all’atto pratico – seminò subito sulla strada di chi doveva legiferare e di chi doveva applicare tale legislazione tutta una serie di ostacoli e di contraddizioni.

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A livello legislativo, quindi, le disposizioni anti-ebraiche oscillavano tra un orientamento biologico-scientifico e uno politico-culturale. Questo duplice orientamento si ripercuoteva però nell’applicazione concreta delle norme. Se per certi versi per stabilire la posizione di un individuo era determinante il fattore biologico, in altri casi lo erano ad esempio la nazionalità o le «manifestazioni dei sentimenti ebraici».

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A riprova di quanto fosse complicato riuscire a definire un appartenente alla razza ebraica, già un mese dopo l’emanazione delle leggi del 17 novembre, la Demorazza fu costretta a inviare una circolare riservata in accompagnamento al testo legislativo, nella quale si chiarivano alcuni punti dell’art. 8 (quello relativo appunto a chi dovesse essere considerato un ebreo).

In essa si era costretti a spiegare perfino la definizione base del testo di legge (quella che, apparentemente, avrebbe dovuto lasciare minori dubbi): chi discende da genitori entrambi ebrei è ebreo egli stesso, qualunque sia la religione professata: in questo caso quindi il fattore religioso non può modificare l’origine razziale.

Se ne deduce, quindi, che pur essendo una legge impostata su basi biologiche, altri fattori (religioso, storico e culturale) potevano in qualche modo rendere “relativo” un elemento come la razza, giustificato in teoria secondo criteri naturali e immutabili (come il sangue).

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Probabilmente stabilita senza una chiara consapevolezza e conoscenza del mondo ebraico nel paese, ormai assimilato e integrato nella società italiana, la definizione di chi appartenesse alla razza ebraica uscita dalle leggi del 1938 allargava la famiglia delle persone che avrebbero potuto essere colpite dai provvedimenti, invece di restringerne il campo a un preciso gruppo facilmente individuabile.

E allo stesso tempo non definiva con precisione i confini di questa categoria di persone, lasciando quindi ampio spazio alla confusione e a un’interpretazione discrezionale dei singoli casi da parte di chi era destinato ad applicare realmente le misure.

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