a cura di Cornelio Galas
Come ogni formazione garibaldina anche il “Gherlenda” aveva il suo commissario politico, “Silla”, sostituito poi da “Leo”. Vice comandante era Gastone Velo “Nazzari” (per la sua somiglianza all’attore Amedeo, in voga a quel tempo). Partirono con poche armi individuali: dieci parabellum, tre mitra, 17 moschetti, fucili e ta-pum e pochissime munizioni che spesso erano quelle sottratte ai tedeschi. C’erano viveri per soli due giorni e una coperta ciascuno.
Il viaggio si svolse in quattro tappe. Partiti da Pietena alle 18 del 21 agosto, i partigiani giunsero a malga Vallazza alle 21.45. Il comandante inviò “Nazzari” e “Tormenta” a Lamon a prendere contatto con il presidente locale “Valasco” per l’appoggio necessario ai combattenti in transito e rifornimenti vari.
Alle 19 del giorno successivo partenza da malga Vallazza. Il gruppo attraversò la strada per Passo Rolle eil Cismon, con breve sosta in località Bellotti nel comune di Lamon. Qui abitava una signora chiamata “Melessa”, perché originaria di Nel, che dava sempre ospitalità e qualche cosa da mangiare ai partigiani che spesso transitavano.
La frazione, a quel tempo di una certa consistenza, era abitata anche d’inverno. Negli anni tra le due guerre la locale scuola vantava una pluriclasse composta da una trentina di alunni che venivano anche dalle località Prese Pugnai, a circa mezz’ora di cammino. Stimata maestra dell’epoca era tale Brandoria Bee.
Per strada trovarono “Tormenta” il quale, appurata la presenza di macchine nemiche, aveva atteso i compagni per preservarli da un’eventuale imboscata. Allora “Fumo” mandò “Lupo” a raggiungere “Nazzari” a Lamon con precise istruzioni sul prossimo appuntamento.
“Lupo” sistituì “Tormenta”, Romolo Bellotto, che era di Lamon e quindi una faccia conosciuta alle spie della zona. La marcia proseguì con arrivo al Rifugio Croset (nel territorio del comune di Lamon, a pochi metri dal confine con la provincia di Trento) alle ore 4.30 del 23 agosto.
Durante il giorno partirono pattuglie in perlustrazione e per prelevare viveri nelle malghe della zona. Il giorno 24, alle ore 15, partenza per il passo Brocon (m. 1.616), mentre una pattuglia di tre uomini rimaneva ad attendere i due recatisi a Lamon. Per questi ultimi erano però sorte complicazioni e al Croset saranno attesi invano.
Era stata catturata una giovane staffetta, Ermenegildo Vendrame. “Nazzari” e “Valasco” decisero di tentare di liberarla mentre veniva tradotta in corriera verso Feltre per essere sottoposta a interrogatorio.
In una malga in prossimità del passo il gruppo di “Fumo” consumò il rancio e, verso le 21, proseguì, giungendo dopo tre ore a malga Telvagola dove pernottò. Il 25, alle undici, riprese la marcia, favorita durante il percorso da fitti boschi, fino alla meta, raggiunta alle 18. Con un’ora di distacco rientrò la pattuglia lasciata al rifugio Croset, senza “Nazzari” e “Lupo”. Le condizioni fisiche e morali dei componenti del reparto erano buone.
Il vestiario era quanto mai variegato e rispecchiava in gran parte i corpi militari di provenienza. Più difficile sarà in seguito il rifornimento di scarpe, perché per quella merce i negozianti raramente accettavano come pagamento un buono intestato alla “Brigata Gramsci”: la materia prima doveva essere pagata con moneta corrente. Inoltre, chiunque fosse stato pescato con un buono rilasciato dai partigiani poteva essere arrestato per collaborazionismo.
Per ovviare a ciò nel Bellunese venne inviata dagli aerei italiani moneta italiana, vera o falsa che fosse, e non di rado i partigiani ricorsero a requisizioni di denaro presso le banche. Il maggiore inglese Tilman, che rimase oltre un mese a Pietena, nel diario già citato fece un quadro quanto mai esauriente e colorito della “divisa” di quei montanari, a volte improvvisata:
“I garibaldini amavano portare fazzoletti rossi al collo, si presume a testimonianza delle camicie rosse dei Mille di Garibaldi, così come ogni altra formazione comunista e, quando possibile, un berretto grigio con la punta lunga, simile a un kepì francese, ma più morbido, con una stella rossa in fronte.
Al di sotto di questo tutto era permesso, anzi ben accolto: rimasugli di uniformi tedesche, italiane ed inglesi, uniformi italiane di poliziotti, pompieri, marinai, guardie doganali, guardie forestali, o carabinieri; e naturalmente ogni concepibile genere di tenuta civile.
Molti erano ex Alpini e portavano con ostentazione il cappello degli Alpini del loro reggimento. Le barbe degli Alpini erano sempre alla moda, fin che esse non divennero troppo pericolose, perché un uomo con la barba diventava ipso facto un partigiano o un brigante, a seconda dei punti di vista. Non vidi mai tra i partigiani della montagna il tipico saluto a pugno chiuso, anche se credo sia abbastanza comune in pianura.
Si usava salutare con un gesto normale, e l’immancabile esclamazione di saluto nell’entrare in una stanza o nell’uscirvi era “Morte ai Fascisti (o al Fascismo)”, cui si replicava “Libertà ai Popoli”.
Il fazzoletto rosso fu l’unico “distintivo” usati fra i garibaldini, non certo però in zona di operazione. E quando “Bruno” si lamentava con Tilman della scarsità di di lanci dagli aerei con armi e viveri nella zona delle Vette Feltrine, la risposta era sempre quella: “Levatevi quel fazzoletto rosso e gli aiuti arriveranno !”
Il maggiore inglese forse non voleva riconoscere che, accanto alle brigate “Giustizia e Libertà” del Partito d’Azione, che rappresentavano tra il 25 ed il 30 per cento della forza resistenziale, i garibaldini erano oltre il 50 per cento e che i comunisti pagarono il più alto contributo di sangue nella lotta contro il fascismo prima e contro il nazismo poi.
Attraversata la Val Malene (alta valle del torrente Grigno), la compagnia “Gherlenda” giunse sulle rive del lago di Costabrunella (comune di Pieve Tesino) e per prima cosa effettuò una perlustrazione della zona.
Stabilì subito buoni rapporti con i dipendenti Sit che lavoravano alla centrale di Sorgazza e alla diga, trovando tra questi dei veri e propri collaboratori e un partigiano, Lodovico Franchini, che nel “Gherlenda” fu ribattezzato con il nome di Tosca”.
“Il lago di Costabrunella, che prende il nome dall’omonima cima, è di origine glaciale. Esso è alimentato dalle piogge e dalle nevi che cadono nel suo bacino. La sua morfologia è stata modificata negli anni Trenta per la costruzione di una giga per scopi idroelettrici”. Questa annotazione è del geologo Andrea Fuganti, della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Trento.
La sua nota prosegue: “La zona di Costabrunella è costituita da rocce granitiche appartenenti al gruppo di Cima d’Asta; essa è separata dalla vetta più alta (Cima d’Asta, m. 2.847) dalla valle del torrente Grigno.
Il granito, tipica roccia intrusiva, è circondato da rocce metaformiche filladiche ben affioranti attorno allo stesso. Le corrispondenti rocce magmatiche effusive sono le colate laviche appartenenti alla piattaforma porfirica atesina che affiora estesamente ad ovest ed a sud del gruppo Cima d’Asta”.
Di giorno l’acqua del lago scendeva alla centrale di Sorgazza, mentre di notte viene pompata al bacino sovrastante. Lungo le tubature sotterranee una scalinata portava alla casa del custode della diga.
Questa a volte veniva usata dagli stessi partigiani per raggiungere il comando, anche se, più frequentemente, essi salivano e scendevano a piedi o usando la rudimentale teleferica esistente.
Con la popolazione erano già state avviate buone relazioni tramite i partigiani provenienti dal Tesino. Vennero suddivisi i compiti e istituiti tre posti di blocco: alla casetta del capo centrale a Sorgazza, alla Malga Val del Lago (a metri 1.826) nella Rorcelletta che guarda Quarazza, e, a nord, presso il Forzellin, per controllare eventuali arrivi da Spiado e da Val Vendrame.
Quest’ultimo posto di guardia fu costruito con assi portate a spalla dai garibaldini: la zona era senza vegetazione arborea. Costruita la garitta si organizzarono i turni di guardia. Chi era di servizio al Forzellin, ricorderanno i partigiani, doveva subirsi tutta la notte un vento gelido che le poche assi improvvisate non riuscivano ad attenuare.
Ed un continuo dondolio obbligava anche i più stanchi a rispettare la consegna della veglia. Venne costruito il forno per il pane, comandando “Gisella” al suo funzionamento.
A turno era necessario scendere più in basso a raccogliere la legna. “Katiuscia”, un carabiniere di Trapani, svolgeva le funzioni di furiere-segretario. Dopo il suo arrivo con “Nazzari” da Lamon, alla sede del comando c’era anche l’intendente (economo) “Valasco”.
Nella lettera inviata al comando in Pietena tre giorni dopo l’insediamento, “Fumo” spera nell’arrivo di nuove reclute, “altrimenti l’affare si fa serio perché fra pattuglie, posti di blocco e servizio di guardia ci rimangono pochi uomini per fare il resto ed è il più importante”.
Egli aveva già programmato l’assalto alla caserma del Cst di Castello Tesino per procurarsi armi, ma, a sua insaputa, il distaccamento “Mameli” aveva già fatto un tentativo non riuscito scombussolando tutti i suoi piani. “Fumo” se ne lamentò con il comandante di brigata e “Bruno” gli rispose, a stretto giro di staffetta, il 31 agosto, consigliandolo di “reclutare elementi locali, ad ogni modo quanto prima vi invieremo un’altra squadra con fucile mitragliatore ed alcuni parabellum e bombe sipe”.
Diede inoltre istruzioni sul “Mameli” e gli raccomandò di pagare sempre tutti, di distribuire viveri alla popolazione e di accattivarsi le simpatie del popolo trentino. Per quanto riguarda la consistenza della truppa, essa sarà più che raddoppiata nel giro di tre settimane. Come tutte le formazioni partigiane, anche la compagnia “Gherlenda” aveva una squadra Comando, di cui facevano parte, oltre al comandante, il furiere, l’intendente o economo, il medico o un infermiere, dei portaordini e staffette e naturalmente il commissario politico.
L’istituzione del commissario politico. L’istituzione del commissario politico era stata raccomandata dal Comando generale del Corpo Volontari della Libertà e l’incaricato doveva mettere al corrente i compagni della situazione generale e in particolare di quella italiana.
Per questo c’era la cosiddetta “ora politica”, durante la quale venivano chiariti i vari problemi che si presentavano. Il commissario teneva anche i rapporti con la popolazione. L’intendente aveva il compito di amministrare il denaro e sopperire alle varie necessità della formazione. “Valasco” custodiva un pacchetto di buoni di requisizione numerati dal 1204 al 1253, firmati da “Bruno” da Salvatore Ferretto, “Cimatti”, commissario politico della brigata.
Per ogni volontario veniva compilata una cartella biografica aggiornata con tutto ciò che lo riguardava: azioni, promozioni, rimproveri ecc. Per le munizioni vigeva il codice militare di guerra, che comprendeva anche la pena di morte. In tutta l’organizzazione resistenziale del Bellunese le decisioni più importanti vennero discusse e votate a maggioranza, comprese eventuali condanne a morte, anche nel “Gherlenda”.
La nomina del nuovo comandante di una formazione era subordinata all’approvazione da parte dei suoi componenti. Presso il Comando di Pietena c’era una sezione assistenza che si occupava delle famiglie dei partigiani particolarmente bisognose o che avevano subito rappresaglie. Ognuno era fornito di un lasciapassare: nelle vicinanze delle zone occupate da partigiani era vietato l’accesso a chiunque ne fosse sprovvisto.
Il 31 agosto 1944 una pattuglia composta da “Marco”, “Renata”e “Orso”, comandata da “Silla”, partì per catturare una spia nascosta a Strigno che era in possesso di una radio trasmittente.A Bieno requisirono un camioncino, probabilmente di Francesco Bordignon che gestiva la torbiera di Pradellano.
Giunti sulla curva all’entrata del paese, alla luce dei fari intravidero un ufficiale tedesco assieme a un borghese. I partigiani intimarono l’alt al militare e questi estrasse la pistola e sparò. Risposero con una raffica di mitra.
Il tedesco venne colpito a una spalla, mentre il borghese, che fungeva da interprete, cadde a terra colpito a morte. Condotto al comando, il prigioniero venne interrogato, processato e fucilato subito dopo. Carlo Zanghellini descrive l’azione nel suo diario, aggiungendo particolari che i partigiani non potevano conoscere.
L’ufficiale tedesco era il tenente Fogler, viennese della Wehrmacht, e l’uomo in borghese era il suo interprete Raffaele Tomaselli, 35 anni, di Strigno. Da buoni amici, si stavano dirigendo in trattoria per la consueta partita. All’intimazione dell’alt, Tomaselli non poté alzare subito le braccia perché in parte anchilosate.
“Alla sparatoria che ne seguì il Tomaselli cadde fulminato in mezzo allo stradone, mentre il tenente, gravemente ferito ad una spalla, tentava di fuggire correndo per una stradicciola di fianco verso la casa Sartori”.
Tomaselli non morì subito, ma il giorno seguente all’Ospedale di Borgo Valsugana. Secondo Zanghellini sarebbero state usate anche due bombe a mano: nella relazione ufficiale si legge che “Orso” ne lanciò una sola. Zanghellini nomina uno dei quattro partigiani, “Orso”, che secondo lui sarebbe stato di Castello Tesino: invece era di Lamon e rispondeva al nome di Carlo Pante.
Il 4 settembre avvenne un secondo scontro, questa volta nei pressi di Pieve Tesino. Una pattuglia del “Gherlenda”, con “Renata”, “Orso”, “Leo” e “Silla”, si dirigeva alla torbiera, a prelevare materiale necessario al campo. Presso la “strada delle Fontanelle”, fu raggiunta da “Rina”, che faceva la staffetta tra il comando e il Cln di Castello Tesino, perché da un viottolo di montagna stava arrivando una pattuglia composta da quattro tedeschi.
“Renata” intimò loro l’alt, ma per tutta risposta ci fu una forte reazione. I tedeschi furono però sopraffatti e dovettero arrendersi, anche perché uno di loro era stato ferito a una gamba.
I garibaldini rientrarono con i catturati al comando seguendo percorsi diversi per evitare di venire rintracciati. Alla sera tre dei prigionieri vennero fucilati mentre l’altro, un bellunese, si salvò dimostrando di non aver sparato e passò con i partigiani.
Alle votazioni seguite ai due processi ci fu una spaccatura tra le due anime del “Gherlenda”. I bellunesi, in maggioranza almeno in quel periodo, erano per la linea dura, mentre quelli del Tesino, che temevano rappresaglie sulla popolazione, erano contrari alle condanne a morte.
Racconterà Alberto Ognibeni “Leda”, che fu poi direttore dell’Avviamento Commerciale di Borgo e un seguito preside a Strigno e Castello Tesino, che in occasione del processo al tenente Fogler venne chiamato a Costabrunella.
Di solito faceva la spola fra Pieve Tesino e il Cln di Castello per raccogliere informazioni. Ricordava che anche “Fumo” era contrario alla fucilazione, come pure “Ora”, che inutilmente propose altre soluzioni. La maggioranza invece fu di diverso avviso: se rilasciato, il tenente avrebbe svelato la localizzazione del Comando portando i tedeschi sul posto.
D’altra parte era impossibile trattenere prigionieri per mancanza di un locale adatto e di viveri: in guerriglia non si fanno mai prigionieri se non nel caso di alti ufficiali da utilizzare per eventuali scambi. Dopo il secondo processo fu presa la decisione di non portare più a Costabrunella tedeschi catturati.