a cura di Cornelio Galas
Pubblichiamo, da oggi, – dopo l’analisi, in tutte le sue forme del fascismo, soprattutto in riferimento alla presenza di Mussolini in Trentino e sul Garda – una serie di servizi sulla “Resistenza in Trentino”. E non a caso dedichiamo la prima puntata alla testimonianza di Giorgio Tosi, scomparso nel dicembre 2014. Tosi, avvocato –un grande uomo che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente – è stato uno dei partigiani della resistenza trentina sopravvissuti all’eccidio del 28 giugno 1944 nel Basso Sarca.
Aveva raccolto le memorie di quei giorni drammatici in un libro “Zum Tode – A morte”, dal quale nel 2005 la Provincia ha tratto l’ispirazione per realizzare il documentario dall’omonimo titolo. Arnoldo Foà aveva prestato la sua voce per narrare l’orrore di quell’evento. Tosi, che viveva e lavorava a Padova, non di rado tornava in Trentino per portare la sua testimonianza (spesso nelle scuole). Aveva anche ricevuto dalla sezione dell’Alto Garda e Ledro dell’Anpi la tessera di socio onorario. Per anni è stato anche opinionista del quotidiano “Il Mattino” di Padova e nella sua lunga carriera di avvocato ha partecipato a processi importanti, su tutti quello che seguì la tragedia del Vajont.
Ma ecco cosa ha scritto sulla Resistenza in Trentino e soprattutto sulla ancora poco conosciuta “battaglia di Riva del ‘45”.
“Anche in Trentino la nostra repubblica antifascista ha tratto alimento e radici dalla resistenza. Ma anche in Trentino il passaggio difficile e sanguinoso dal fascismo alla democrazia è stato sepolto da decenni di silenzio, che hanno oscurato non solo la memoria di eventi ormai lontani ma l’identità stessa dei trentini e il loro stare nella comunità nazionale. Per esempio pochi sanno, anche in Trentino, che la battaglia per la liberazione di Riva del Garda (al confine con la repubblica di Salò) fu una delle più notevoli combattute dopo l’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945.
Durò tre giorni, e vide impegnate notevoli forze militari con alterne vicende. Alla fine la brigata Garibaldi “Eugenio Impera”, guidata dal comandante comunista Dante Dassatti, e i battaglioni degli operai Fiat (interi reparti erano stati trasferiti dopo l’8 settembre da Torino nelle gallerie della Gardesana occidentale) ebbero ragione della guarnigione tedesca e dei fascisti in fuga dalle vicine province di Verona e di Brescia, salvando la città dal bombardamento americano.
Pochi sanno, anche in Trentino, che la vittoriosa battaglia di Riva del Garda aveva radici lontane, tra cui la costituzione nella zona del Basso Sarca di un gruppo antifascista studentesco attorno a un insegnante del locale liceo, il prof. Guido Gori; gruppo poi allargatosi e trasformatosi in formazione partigiana guidata dal tenente degli alpini Gastone Franchetti.
Questo gruppo partigiano, che ebbe una struttura organizzativa, basi e armi già prima dell’8 settembre ‘43, venne successivamente distrutto dalla brutale repressione nazista. All’alba del 28 giugno 44 reparti “SS” operarono decine di arresti e assassinarono nel triangolo Riva, Arco, Torbole-Nago 16 persone tra cui i giovani studenti Eugenio Impera ed Enrico Meroni: “Ragazzi in guerra”, come li definisce un bellissimo filmato per le scuole a cura del Museo del Risorgimento e della Libertà di Trento e dell’Istituto Parri di Bologna.
Giovani martiri la cui epopea è raccontata nel libro “Stagioni interrotte” di Luciano Baroni, uno dei protagonisti di quella storia insieme a Renato Ballardini, a Giulio Poli e a tanti altri. Tra i sopravvissuti alla strage cinque partigiani vennero processati il 2 agosto 1944 dal tribunale militare tedesco di Bolzano: Gastone Franchetti, comandante della formazione, Giuseppe Porpora. Giuseppe Ferrandi, Gino Lubich e il sottoscritto. Il procuratore militare Werner von Fischer chiese la pena di morte per tutti. Il Tribunale presieduto dal generale Sprung condannò a morte Franchetti e Porpora, che vennero fucilati, e al carcere duro gli altri che vennero liberati alla fine della guerra (gli atti del processo sono stati ritrovati e acquistati dal Museo del Risorgimento e della Libertà di Trento).
La violenza del pluridecennale silenzio fa emergere in folla le memorie di quell’epoca che cambiò la mia vita. Voglio ricordare soltanto che nel carcere di Bolzano ebbi la ventura di incontrare Tita Piaz, il leggendario arrampicatore delle Dolomiti e Francesco Jori, altro grande dell’alpinismo, e di rimanere nella loro cella oltre un mese. Entrambi trentini, entrambi arrestati perché considerati nemici del Reich nazista.
Pochi sanno queste cose (e numerose altre che potrei raccontare) a causa dell’oblio in cui è stata sepolta la Resistenza anche in Trentino. Le ragioni della rimozione sono molteplici e comuni al resto d’Italia: non ultima la contraddizione insita nella Resistenza stessa, che è stata nello stesso tempo autentica opposizione e guerra di popolo, ma anche zattera di salvataggio sulla quale la classe dominante riuscì a traghettare la continuità dello stato, facendo abortire sul nascere quella rivoluzione (nel senso gobettiano e gramsciano del termine) di cui l’Italia aveva bisogno.
Ma nel biennio 1943-‘44 il Trentino ha avuto inoltre una sua storia particolare, che molto ha pesato e sulla quale solo da qualche tempo gli studiosi cominciano a riflettere. Essa può essere sintetizzata col titolo di un libro apparso nel 1975 e presto ignorato: “Trentino provincia del Reich” – (P. Agostini, ed. Temi, Trento, 1975).
Dopo l’8 settembre 1943 la provincia di Trento, insieme a quelle di Bolzano e di Belluno, fece parte della “zona di operazione delle Prealpi” (Alpenvorland) e venne posta da Hitler direttamente sotto il dominio del Gauleiter di Innsbruck, Franz Hofer.
A differenza che nel bellunese, che ebbe una storia del tutto diversa, i nazisti attuarono una politica intelligente basata sinteticamente su questi punti: proibizione in Trentino (e in Alto Adige) delle organizzazioni fasciste, chiusura delle sedi, divieto alle milizie repubblichine di oltrepassare i confini della regione (sottratta di fatto alla sovranità di Salò); leva dei giovani trentini in un corpo di sicurezza (che non fu inviato al fronte); mantenimento dei fondamentali rifornimenti alimentari; nomina a capo della amministrazione civile di un avvocato liberale trentino (de Bertolini) esponente di un moderato antifascismo.
Con questa operazione politica i tedeschi fecero venir meno fin dall’origine (per il Trentino) una delle tripartizioni suggerite da Claudio Pavone per la Resistenza: “Guerra civile”.
I partigiani, infatti, non ebbero occasione durante i 18 mesi di occupazione (salvo che negli ultimi giorni di guerra) di scontrarsi militarmente con i repubblichini che le forze armate tedesche tenevano rigorosamente fuori dei confini. Nessun’altra provincia italiana conobbe questa strana sorte, sottolineata dallo storico prof. Vincenzo Calì (già direttore del museo del Risorgimento e della resistenza di Trento) nella conferenza tenuta a Riva del Garda il 9 maggio 1994, sul tema: “La Resistenza in una provincia di confine”.
Non vi è dubbio che sotto questo profilo la resistenza trentina fu essenzialmente guerra di liberazione dal tedesco invasore, e solo indirettamente (come parte di un tutto) dal fascismo. Ma l’operazione politica sopra accennata produsse altri più rilevanti effetti. Un giovane storico ha recentemente evidenziato che gli obiettivi sottesi all’operazione non erano riconducibili alla sola dimensione militare, e cioè all’esigenza di garantire la sicurezza del Brennero (come via di rifornimento al fronte).
In realtà i nazisti miravano, illusoriamente, più lontano: a porre i fondamenti politici e amministrativi di una futura annessione del Trentino al grande Reich. L’incontro del Gauleiter Hofer subito dopo l’8 settembre 43 con un centinaio di notabili trentini , accompagnato dalla nomina a Prefetto dell’avvocato de Bertolini, voleva apparire la pedana di lancio di una “autonomia trentina” all’interno della galassia ariana ideata dai nazisti.
L’evento fu accolto favorevolmente dall’opinione pubblica trentina – (Giuseppe Ferrandi, “Resistenza armata e resistenza civile, riflessioni sul caso trentino” in “Archivio trentino di storia contemporanea” 1. – 1995). Del resto i trentini avevano conosciuto l’Italia dopo la prima guerra mondiale attraverso la funesta esperienza fascista, e non c’è da meravigliarsi che il gesto di Hofer apparisse loro come una chance verso la sospirata autonomia.
A parte ogni altra considerazione non vi è dubbio che le autorità naziste riuscirono, con quella operazione politica, a neutralizzare la maggioranza della popolazione che almeno fino al 28 giugno 1944 rimase sostanzialmente indifferente (talvolta ostile) ai nuclei resistenziali. Questi restarono di conseguenza un fenomeno elitario e minoritario, almeno sul piano militare, anche se di inestimabile valore su quello etico-politico, segnato da un grande sacrificio di sangue (arresti, internamenti, fucilazioni, torture, veri e propri massacri).
L'”anomalia” trentina durante la Resistenza sembra dunque nascere da un errato sogno di autonomia nel quadro del grande Reich. Non è da escludere che la successiva rimazione della Resistenza possa trovare una delle sue cause remote in quella “falsa autonomia”, e una causa prossima nel torpore indotto dalla “pingue autonomia” dei decenni che seguirono al 1945: torpore che ha rischiato di corrompere la autentica “koinè” trentina.
Ora che nuovi barbari premono alle porte, ora che la “democrazia di Barabba” (secondo la felice espressione di Gustavo Zagrebelsky) sembra prevalere sulla democrazia nata dalla Resistenza, anche in Trentino nascono iniziative per riscoprire le radici della nostra storia e per controllare la fondatezza di rinate speranze. Nonostante l'”anomalia”, o forse proprio per causa delle particolari difficoltà da esse create, i trentini possono essere fieri della loro Resistenza che ha visto intrecciate le tradizioni forti della nostra storia, impersonate da straordinarie figure: Gigino Battisti (figlio di Cesare Battisti), Gianantonio Manci di giustizia e Libertà, i partigiani della Val Cadino e del battaglione “Gherlenda” tra cui le due donne medaglie d’oro Ancilla Marighetto (Ora) e Clorinda Menguzzato ( Veglia), i martiri del 28 giugno 1944, e tanti altri che bisognerebbe ricordare ad uno ad uno.
E’ stato certamente un contributo di alto valore quello che i resistenti trentini hanno dato alla guerra di liberazione nazionale, base dell’accordo costituzionale che ancora regge la nostra repubblica. E’ necessario che i trentini, e quanti con loro combatterono allora (provenendo da altre regioni) lo ricordino oggi, a tanti anni dalla riconquistata libertà contro il fascismo, nemico di tutte le libertà”.