La lettera che non potrò mai spedirti

E’ come se fossi in una centrifuga. Sbattuto con ritmo regolare contro le pareti. Dall’oblò riesco, per un attimo, a scorgere i tuoi occhi, i tuoi punti di domanda. Inevitabilmente sommersi dalla schiuma del mio cervello. E tutto si confonde, si mescola. Fino al prossimo giro, fino ai prossimi, regolari, ineluttabili interrogativi tra i tuoi capelli.

Vorrei ribellarmi a questa tortura. Potrei semplicemente farti capire che in fondo tu hai questo potere: un bottone da schiacciare, a pochi centimetri dalla tua mano. Ed invece è quasi un sollievo masochista questo continuo girare su me stesso dopo quell’incrocio effimero dei nostri sguardi. Senza parole inutili.

Ricordo purtroppo tanti periodi di esaltazione del mio essere condiviso. Quando non contava l’esterno. Quando si era senza gravità nello spazio infinito, eppure conosciuto per esperienza, dell’innamoramento. E ricordo anche l’atterraggio traumatico su terre aride. La trasformazione dei liquidi in solidi. Gravi, come le parole che mettevano fine alle orbite elicoidali. Dell’aria in gas letali nelle scatole domestiche. Della carezza in tentativo di pugno. Del far l’amore pensando ad altri e altro.

E’ per questo che continuo a girare, per la felicità micro che mi dà questo millesimo di secondo in cui ti vedo, ti sogno, ti porto con me, fino al prossimo giro. Per la precisa volontà di cancellare quando ancora non è stata terminata questa lettera. Per i sentimenti incompiuti che mi porto dentro. Rimpianti, paure che mi fanno sopravvivere, insieme a quello che vorrei scriverti e lascio girare attorno a me.

 

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