a cura di Cornelio Galas
REAZIONE ITALIANA AL GOVERNO ADENAUER
PRIMI CONTATTI POLITICI
Le rappresentanze consolari italiane registrarono positivamente l’esito elettorale dell’agosto 1949 e la formazione del primo governo tedesco del dopoguerra nel settembre dello stesso anno. Soprattutto l’affermazione dei cristiano-democratici fu considerata incoraggiante ai fini di una maggiore cooperazione con la DC di De Gasperi. In Italia, la stampa indipendente e liberale corresse molte delle precedenti e pessimistiche previsioni, soffermandosi in particolare sul modesto risultato ottenuto dal partito comunista tedesco. Di tutt’altro avviso, invece, l’Unità.
Il 17 agosto un articolo firmato dallo storico e giornalista Giuseppe Boffa titolava «Una coalizione clerico-nazista governerà la Germania marshallizzata. Malgrado il terrorismo e le intimidazioni antidemocratiche il Partito comunista si afferma nei centri della Ruhr».
Il 17 settembre il Console Generale Gallina (in procinto di lasciare l’incarico a Babuscio Rizzo) comunicò a Palazzo Chigi che in occasione della presentazione del nuovo governo tedesco alle varie Missioni diplomatiche straniere il Presidente Heuss aveva sottolineato:
«l’importanza di collaborazione tra la nuova Italia e la nuova Germania ed ebbe parole assai lusinghiere per il Presidente della Repubblica italiana di cui ha seguito sempre da vicino l’attività di economista, di finanziere e di uomo di stato […] giova ad ogni modo notare esplicitamente che, pur nei limiti consentiti dal Protocollo, egli ha tenuto a dimostrare nei nostri riguardi una particolare simpatia […]».
L’incontro con le varie missioni diplomatiche offrì l’occasione a diversi rappresentanti tedeschi di manifestare attestazioni di stima e di riconoscenza al governo italiano. Erich Köhler, presidente del Bundestag e membro della Cdu molto vicino ad Adenauer, affidò a Gallina una richiesta di appoggio per il nuovo stato tedesco:
«[…] anche Koehler [Erich Köhler] mi disse testualmente: “Voi potete fare molto per noi”».
Nell’esposizione del programma di governo Adenauer auspicò la volontà di stabilire, nei limiti imposti dalle potenze di occupazione, relazioni di cordiale amicizia con tutti i paesi dell’Europa occidentale a cominciare dal Belgio, dall’Olanda, dalla Francia, dall’Italia e dall’Inghilterra. Se l’accenno fatto ai paesi delle potenze alleate o agli stati confinanti che avevano subito l’invasione nazista sembrava doveroso, non era affatto scontato citare esplicitamente anche l’Italia nell’elenco dei primi paesi con cui la Repubblica federale desiderava riallacciare buone relazioni.
Nella seconda metà del 1949 fu il consolato di Monaco a svolgere un’intensa attività per un ulteriore sviluppo dei rapporti politici italo-tedeschi. A settembre il ministro dell’economia bavarese, Hans Seidel, invitato ufficialmente dal governo turco all’inaugurazione della fiera di Smirne, comunicò a Malfatti che avrebbe desiderato approfittare del viaggio per fermarsi alcuni giorni in Italia.
Incominciarono così nell’autunno del 1949 ad essere organizzati diversi incontri informali tra politici tedeschi e ministri o politici italiani (quasi tutti appartenenti ai partiti di ispirazione cristiana) che approfittarono delle manifestazioni fieristiche per instaurare un primo dialogo.
Il ministero degli Esteri organizzò per il ministro Seidel una fitta serie di incontri con importanti uomini politici italiani, avendo cura tuttavia di non conferire alcuna ufficialità ai vari incontri che dovevano risultare «casuali». In primo luogo fu programmata una visita nel Nord Italia (nei giorni 12, 13 e 14 settembre), dove Seidel ebbe occasione di recarsi alla fiera di Bolzano e di incontrare, così, a Trento, il 14 settembre, il presidente del consiglio De Gasperi e il ministro dell’Industria e del Commercio Ivan Matteo Lombardo (ministro dal 23 maggio 1948 al 7 novembre 1949).
La visita di Seidel proseguì a Roma, dove venne ricevuto in udienza collettiva dal Papa prima di ripartire per Smirne. L’intera operazione fu seguita attentamente dal ministero degli Esteri: Palazzo Chigi organizzava, infatti, per la prima volta la visita di un rappresentante regionale tedesco in Italia. I vari incontri politici rientravano nel disegno di Sforza circa il nuovo atteggiamento italiano improntato all’intesa ed alla collaborazione politica con la Germania occidentale.
Pochi giorni prima dell’arrivo in Italia del ministro Seidel, Vittorio Zoppi (Segretario Generale agli Esteri) inviò una lettera all’onorevole Paolo Emilio Taviani (segretario della DC dal 1948 al 1950) contenente un invito affinché la DC approfittasse dell’occasione per avvicinarsi al partito cristiano-sociale tedesco:
«in vista della auspicata ripresa dei rapporti italo-germanici – scriveva Zoppi – e del fatto che il Dott. Seidl, oltre ad essere Ministro dell’Economia, gode di fama di essere uno dei dirigenti maggiormente quotati della Democrazia Cristiana bavarese [Csu], abbiamo ritenuto opportuno aderire a tale desiderio, facendogli significare che la sua visita sarebbe senz’altro gradita […] tanto Le comunico per opportuna conoscenza e per le iniziative che Ella ritenesse opportuno di far prendere dal Partito Democratico Cristiano, nel quadro di quella ripresa di contatti italo-germanici cui ebbe a farLe cenno il Ministro Sforza con la lettera del 30 giugno […]».
Il console Malfatti, il 29 settembre, inviò a Roma il testo di un’intervista rilasciata da Seidel sul suo viaggio all’estero: il ministro della Baviera riferiva di essere stato accolto nel modo più cordiale possibile nonostante si trattasse di una visita privata; inoltre, la fiera di Bolzano si era rivelata un successo con i padiglioni tedeschi che avevano registrato un enorme incremento di pubblico e di affari.
Gli inviti italiani furono ricambiati dal governo bavarese poco tempo dopo. A fine settembre, il Comitato direttivo delle fiere bavaresi invitò il ministro italiano dell’Industria e del Commercio, Lombardo, a presenziare all’inaugurazione della fiera elettro-meccanica di Monaco di Baviera.
Il 30 settembre Lombardo giunse nella capitale bavarese per un visita di due giorni: era la prima volta che un ministro della Repubblica italiana si recava in visita in Germania. Anche nel caso di Lombardo la visita manteneva il «carattere di viaggio privato», ma, come riportava il console Malfatti, Lombardo andava «a nome del governo italiano».
All’arrivo in Germania, il ministro dell’Industria fu ricevuto dal Governo militare americano e da tutti gli alti dirigenti dell’amministrazione civile di stanza a Monaco. Il primo ottobre Lombardo, accompagnato da Seidel, visitò la fiera di Monaco dove ricevette, attraverso il presidente dei ministri della Baviera Ehard, il «cordiale e affettuoso saluto» del cancelliere federale Adenauer. Il governo del Land della Baviera organizzò, inoltre, un ricevimento in onore del ministro Lombardo al castello di Herrenchiemsee a cui parteciparono circa 400 persone.
In generale i documenti d’archivio lasciano intuire che tra il 1949 e il 1950 la partecipazione alle fiere, oltre ad essere una consolidata tecnica di penetrazione dei mercati esteri, venne considerata da Palazzo Chigi, per via del carattere internazionale che caratterizzava tali fiere, un’opportunità di incontro e di contatto tra personalità politiche ed economiche al riparo da eventuali critiche, che sarebbero state molto probabili nel caso di manifestazioni limitate ai due paesi (a causa della passata intesa nazifascista).
Gli incontri tra i rappresentanti dei due partiti al governo in Italia e Germania occidentale proseguirono dopo il 1949. Diversi politici tedeschi di fede cattolica approfittarono della coincidenza del 1950 con l’anno giubilare della Chiesa cattolica per recarsi in Italia con la speranza di ottenere insieme alla remissione dei peccati anche qualche primo incontro informale e privato con esponenti del governo italiano.
Nel dicembre del 1949 un gruppo di deputati cattolici del Land della Baviera fu invitato dal governo a Roma per l’inizio delle celebrazioni dell’anno Santo. Il gruppo di deputati bavaresi, una quarantina circa, era capeggiato dal ministro dell’Educazione della Baviera, Alois Hundhammer, uno dei fondatori della Csu. Nell’aprile del 1950 fu Heinrich von Brentano a compiere il pellegrinaggio a Roma e recarsi poi a Sorrento dove era in corso un convegno delle «Nouvelles Equipes Internationales».
Nel corso del soggiorno a Roma Heinrich von Brentano fu ricevuto in Vaticano da monsignor Tardini e Montini, e fuori dal Vaticano incontrò in via informale e ufficiosa il ministro degli Esteri Sforza. Nella lettera inviata a Sforza il 20 aprile Brentano ringraziava il governo italiano per l’azione internazionale a sostegno della Repubblica federale e citava esplicitamente il neosegretario della DC, Guido Gonella, promotore dell’Associazione italo-tedesca, istituita circa un mese dopo nel maggio del 1951:
«Come tedesco e come europeo – scriveva Brentano a Sforza – mi auguro che Ella continui a prestare al nostro popolo e all’Europa quell’autorevole appoggio che sinora ha prestato, per garantirle al più presto la libertà e la pace […]è commovente per noi tedeschi ancora privi di un rappresentante ufficiale o officioso, avere degli amici sinceri che ci testimoniano la bontà, la gentilezza e la ospitalità del popolo Italiano».
I rapporti tra i due partiti al governo in Italia e in Germania occidentale si approfondirono nel corso dell’anno. Dal 20 al 22 ottobre due autorevoli rappresentanti della DC, Guido Gonella e Paolo Emilio Taviani, si recarono in Germania per assistere al primo congresso federale della Cdu a Goslar.
Pertanto prima della riapertura ufficiale delle relazioni diplomatiche bilaterali della primavera del 1951, i due partiti al governo in Italia e Germania occidentale (DC-Cdu) avevano già iniziato un significativo processo di incontro e di conoscenza. Un rapporto che come è stato mostrato era desiderato da non pochi politici tedeschi di area cristiano-democratica, ma che fu reso possibile dalla decisione di Sforza del maggio del 1949, quando il ministro degli Esteri decise di promuovere i contatti tra i partiti non comunisti dei due paesi.
L’INTESA PERFETTA: LE RELAZIONI BILATERALI
TRA COSTRUZIONE EUROPEA E RIARMO (1949-1951)
Dopo l’istituzione della Repubblica federale l’idea di una mediazione dell’Italia tra Francia e Germania fu uno degli obiettivi individuati da Sforza e De Gasperi nell’azione di politica estera europea. L’Italia puntava al ruolo di promotore del graduale reinserimento tedesco.
Le relazioni degli analisti di Palazzo Chigi concordavano nel ritenere che un’Europa occidentale «plurale» non sbilanciata su Parigi o su Bonn avrebbe consentito all’Italia di svolgere più agevolmente un’azione politica e diplomatica di conciliazione fra le potenze. Il console italiano in Baviera, Malfatti, condivise pienamente la linea di De Gasperi e Sforza, assumendo il ruolo di braccio destro del ministro degli Esteri nell’azione di riavvicinamento diplomatico italo-tedesco.
«A mio subordinato avviso – scriveva Malfatti a Sforza il 26 settembre 1949 – nella ripresa dei nostri rapporti con la Germania, abbiamo interesse a non metterci al rimorchio delle potenze occupanti e, naturalmente, ancora meno di agire contro di esse, ma di svolgere una nostra politica propria, diretta essenzialmente nel senso di una federazione europea, come l’Italia ha finora fatto a Parigi e a Strasburgo [dove aveva sede il Consiglio d’Europa].
Così rafforzeremo la posizione politica e morale dell’attuale governo democratico tedesco e potremo sviluppare sempre più i nostri rapporti economici con la Germania. Così renderemo anche servizio all’Europa ed agli stessi alleati, nel togliere ai tedeschi la sensazione, che in loro oggi prevale, di sentirsi disprezzati in mezzo ad un’Europa diffidente se non apertamente ostile e che finirebbe per spingerli nuovamente verso il più acceso nazionalismo».
Alla fine degli anni Quaranta i rapporti di forza in campo non consentivano al governo italiano di esercitare un’effettiva azione di mediazione tra francesi e tedeschi. Tuttavia altri fattori giocavano a vantaggio dell’Italia: la posizione geografica strategica di confine tra i due blocchi della guerra fredda, l’appartenenza al Patto Atlantico, il peso demografico di quasi cinquanta milioni di abitanti.
L’Italia non apparteneva al gruppo delle potenze che avevano vinto la guerra, ma poteva contribuire ad accelerare il processo di integrazione della Repubblica federale. Nel momento in cui il governo italiano manifestava l’opportunità, ma anche la necessità, di un pieno reintegro della Repubblica federale contribuiva ad isolare all’interno del dibattito politico europeo le voci contrarie o ancora molto incerte davanti all’ipotesi di un ritorno della Germania.
La convergenza tra le tesi italiane e quelle degli Stati Uniti conferiva maggiore incisività alla politica estera italiana sulla Repubblica federale. La scelta “europeista” unita alla volontà di svolgere un’azione di conciliazione consentì, inoltre, al governo di Roma di riallacciare rapidamente nuovi contatti politici con la Germania occidentale e di conservare allo stesso tempo, non senza qualche naturale e fisiologica difficoltà di percorso, l’amicizia di una delle quattro grandi potenze: la Francia.
L’idea di De Gasperi e Sforza di appoggiare apertamente la Repubblica federale in ambito europeo trovò diverse resistenze all’interno della diplomazia italiana. Autorevoli rappresentanti degli affari Politici, contraddicendo la linea che la stessa Direzione aveva suggerito nelle relazione dell’autunno del 1948, criticarono l’indirizzo del governo. Diplomatici come l’ambasciatore Taliani De Marchio (Capo del cerimoniale), Pietro Quaroni, Gastone Guidotti, Vitale Gallina, e il Direttore degli affari politici, e poi Segretario generale del ministero degli Esteri, Vittorio Zoppi, furono molto critici nei confronti di un riavvicinamento alla Germania (occidentale) e fautori, invece, di una forte intesa italo-francese.
L’Ambasciatore italiano a Parigi assunse il ruolo di “portavoce” di tali orientamenti politici, sollevando direttamente la questione del riavvicinamento italo-tedesco in diverse lettere e rapporti.
Nel settembre del 1949 Quaroni comunicò a Roma le sue perplessità circa l’utilità per il paese di adottare una politica estera, a suo giudizio, «filotedesca». L’Italia, infatti, a partire dall’introduzione della riforma monetaria e in seguito all’inasprimento dei rapporti tra Unione Sovietica e Stati Uniti a causa del blocco di Berlino, aveva richiamato più volte l’attenzione dei paesi occidentali sull’opportunità di un reinserimento della Germania (occidentale) in tutti i progetti europei. Dopo l’istituzione della Repubblica federale il governo italiano aveva accentuato il riavvicinamento con il nuovo governo tedesco puntando all’intensificazione dei contatti diretti.
In tale contesto Quaroni il 14 settembre 1949, scrivendo a Zoppi ma pensando in realtà agli orientamenti di Sforza e di De Gasperi, si domandava:
«[…] cosa ci aspettiamo noi da una politica di favoreggiamento alla Germania? Una posizione morale di difesa dei disgraziati? Vogliamo ripetere la politica che abbiamo seguita dopo l’altra guerra: appoggio al risollevamento della Germania senza mai avere nemmeno un grazie dai tedeschi; e nota che allora avevamo un po’ più di voce in capitolo. Riteniamo che il sorgere della Germania, spostando l’attuale equilibrio europeo, migliori la nostra posizione?».
Secondo Quaroni gli interessi economici non potevano costituire un motivo valido per appoggiare così apertamente la Repubblica federale. I tedeschi, osservava Quaroni, avrebbero stipulato accordi commerciali con l’Italia a prescindere dal gioco delle alleanze, seguendo, invece, unicamente il criterio della convenienza e della razionalità economica:
«Forse ci aspettiamo dei vantaggi commerciali: non ho l’impressione che i tedeschi siano oggi più sentimentali di quanto lo fossero in passato: commerceranno con noi se questo sarà per loro utile, e questo indipendentemente dalle nostre relazioni politiche: non credo ci faranno delle condizioni economiche più favorevoli per avere un nostro appoggio politico la cui importanza ed il cui peso sarebbe pressoché nullo».
Quest’ultima citazione dell’ambasciatore italiano a Parigi sollevava un aspetto importante. Infatti, come sarà più avanti esaminato, tra il 1949 e il 1951 fu soprattutto in sede di negoziati commerciali bilaterali che l’Italia adoperò la «carta» dell’appoggio politico alla Germania occidentale per ottenere da Bonn le migliori condizioni economiche a vantaggio degli interessi italiani.
Nonostante la mancata realizzazione dell’unione doganale, secondo Quaroni, l’Italia non poteva “permettersi” un ribaltamento dei collegamenti preferenziali, poiché solo una salda amicizia con una grande potenza, in questo caso la Francia, poteva riabilitare lo status di prestigio dell’Italia:
«[…] resta il fatto però che questa specie di mezze relazioni con i francesi è, in questo momento, l’unica cosa che noi abbiamo, specie dopo la ristabilita intimità anglo-americana. Se si trattasse di mandarle all’aria per stabilire delle ottime relazioni con gli inglesi, o con gli americani, o con i tedeschi se essi potessero servirci a qualche cosa, credimi, ma sarei il primo a dirvi mollate i francesi. […] [in Italia si dice] è tempo di cambiare: ma a quale scopo cambiare senza nessun vantaggio pratico?».
Anche il Console generale Gallina nella sua ultima relazione riservata inviata a Sforza prima dell’avvicendamento con Babuscio Rizzo ribadiva alcune critiche già formulate nel corso dei mesi precedenti. Il governo di Roma doveva agire in modo più deciso sullo scacchiere europeo poiché «non siamo più nel novero delle “Grandi Potenze” – osservava Gallina – ma siamo certamente la più grande delle piccole.
La “cobelligeranza” ci dà titolo per interloquire». La Germania, confermava Gallina, non doveva essere considerata rilevante per il futuro dell’Europa e la nuova classe politica tedesca presentava “difetti” non inferiori a quella nazista. Il Console generale a Francoforte sottoponeva al ministro degli Esteri l’ennesima lunghissima relazione basata unicamente sulla sua personale percezione delle qualità morali del popolo e della classe dirigente tedesca.
Le critiche di Gallina erano molto meno sofisticate di quelle dell’ambasciatore Quaroni, soprattutto quando si dilungavano sulla presunta incapacità dei tedeschi nella costruzione di uno stato democratico. È necessario rimarcare che tali giudizi sulla democrazia o sulla presunta inclinazione del popolo tedesco all’asservimento erano formulati da un diplomatico selezionato direttamente dal potere fascista per «meriti politici» (Gallina), un funzionario, infine, che aveva servito per diversi anni un regime molto distante dalla democrazia.
Quaroni comunicò più volte nel corso dell’autunno le sue incertezze sia a Sforza che ad alcuni rappresentanti italiani in Germania, come Malfatti. Il rischio paventato dall’ambasciatore a Parigi era di provocare un allentamento dell’alleanza italo-francese a favore di un collegamento preferenziale di Parigi con il governo di Bonn. Il 14 novembre 1949 Quaroni scriveva direttamente a Sforza che:
«[…] rischiamo però che la Francia riesca ad intendersi con la Germania: quel giorno amicizia, collaborazione italiana conteranno agli occhi della Francia e Germania meno di niente. Non che le conseguenze di questo sarebbero in sé gravi: esse però avrebbero come presupposto che noi ci adattassimo a fare una politica estera di tipo piccolo paese tranquillo, il che è difficilmente compatibile col nostro carattere».
È fondamentale sottolineare che tali contrasti ruotavano esclusivamente intorno ai ruoli politici della Francia e della Germania (occidentale), mentre, ad eccezione di Gallina, nessun diplomatico tra il 1946 e il 1950 avanzò dubbi sull’opportunità di riallacciare al più presto forti legami economici con la Repubblica federale. Durante la seconda metà degli anni Quaranta il ripristino dei traffici commerciali rappresentò uno dei motivi fondanti dell’azione diplomatica italiana nei confronti della Germania.
Nell’aprile del 1950 De Gasperi ritornava sull’opportunità di procedere subito alla creazione di una nuova Europa e invitava francesi e tedeschi a superare la storica inimicizia per avviare l’unificazione europea:
«Il problema principale – dichiarava De Gasperi il 14 aprile 1950 a Sorrento durante un Convegno delle Nouvelles Equipes Internationales – è l’unità europea. […] Dobbiamo fare presto. Purtroppo c’è ancora la liquidazione della guerra; ci sono i trattati di pace da fare. Per questi non ho naturalmente una soluzione da proporre; ma quando c’è la volontà c’è la possibilità. Io rivolgo un amichevole appello ai nostri amici di Francia e di Germania; io li prego di fare presto e di vedere lontano. Bisogna superare le barriere del passato in nome del futuro europeo, in nome della salvezza comune».
Quaroni non credeva che l’Italia potesse mediare tra francesi e tedeschi. Pochi giorni dopo il discorso pronunciato da De Gasperi a Sorrento in occasione del Convegno delle Nouvelles Equipes Internationales, l’ambasciatore italiano a Parigi inviò a Sforza una relazione nella quale riassunse in modo efficace l’obiezione mossa da alcuni diplomatici alla politica italiana di riavvicinamento alla Germania e ai paralleli tentativi di svolgere un ruolo conciliatorio tra la Repubblica federale e la Francia. Scriveva, infatti, Quaroni il 18 aprile 1950:
«[…] quello che è certo però è che oggi non si può fare ad un tempo una politica francese ed una politica tedesca: sono termini antitetici. […] Non voglio con questo suggerire che si faccia una piuttosto che l’altra politica: voglio solo dire che anche qui bisogna scegliere. Avere la botte piena e la moglie ubriaca è difficile per tutti: lo è più ancora per un paese nella situazione del nostro».
L’immagine di questa particolare fase della storia politica europea (occidentale) induce a vedere francesi e tedeschi che tentano, a turno, di instaurare un rapporto privilegiato con il governo di Roma: la Francia per un appoggio nei confronti delle pretese tedesche e la Germania per ammorbidire le chiusure francesi. Risulta, tuttavia, difficile decifrare i diversi tatticismi diplomatici e capire quando, consapevolmente o no, francesi e tedeschi si servirono dell’Italia come di una pedina per stimare i reciproci rapporti di forza all’interno del contesto europeo.
Nel corso del 1950, la linea di De Gasperi e Sforza si impose e le critiche di Quaroni e di Zoppi che covavano all’interno della Direzione affari politici furono sopite. È importante comprendere il motivo di fondo dell’affermazione dell’indirizzo proposto dal Presidente del consiglio e dal ministro degli Esteri. In ultima analisi, infatti, a vincere fu il programma di questi ultimi e non quello suggerito dall’alta burocrazia di Palazzo Chigi.
La linea di De Gasperi e Sforza vinse non solo perché entrambi ricoprivano rispettivamente le cariche di Presidente del consiglio e di ministro degli Esteri, ma anche perché il loro programma d’azione nei confronti della Repubblica federale si rivelò più adeguato alla logica della guerra fredda e all’atteggiamento degli Stati Uniti in Europa, i quali soprattutto dopo l’inizio della guerra di Corea nel giugno del 1950 iniziarono ad incoraggiare la necessità di un pieno reinserimento politico economico e militare di Bonn nel blocco occidentale.
Tuttavia per la politica estera di Roma muoversi su questo “doppio binario” non fu sempre facile. All’inizio del 1950 la linea del governo italiano che puntava contemporaneamente all’intensificazione dei contatti con la Repubblica federale e ad una mediazione tra Francia e Germania per la realizzazione di una maggiore integrazione europea parve entrare in crisi.
Il 17 gennaio 1950, infatti, il ministro federale per l’economia Ludwig Erhard, durante un incontro con Babuscio Rizzo propose al governo di Roma di istituire una commissione mista (italo-tedesca) con il compito di studiare i punti di incontro e di scontro tra le due economie (italiana e tedesca), per passare poi all’istituzione di un mercato unico allargato ai due paesi:
«Il Dr. Erhard – scriveva Babuscio Rizzo il 17 gennaio 1950 – mi ha subito parlato dei rapporti economici tra l’Italia e la Germania, delle complementarietà delle due economie e della necessità di passare rapidamente ad una fase di maggiore realizzazione per le possibilità di scambio tra di esse esistenti e per una maggiore possibile integrazione delle economie stesse […] egli propone la istituzione di una Commissione mista italo-tedesca con il compito precipuo di studiare a fondo gli elementi costitutivi delle economie stesse in vista di realizzazioni concrete in un momento successivo.
Per essere sicuro di interpretare correttamente il suo pensiero […] gli ho allora chiesto se egli intendeva esclusione di ogni carattere di trattative commerciali. Egli mi ha risposto affermativamente […] Prima di prendere congedo gli ho ancora chiesto se dovevo considerare la proposta sulla costituzione della commissione mista come fattami ufficialmente, ed egli non solo me ne ha dato conferma, ma mi [ha] ancora espresso la speranza che io potessi essere in grado di fargli conoscere al più presto possibile il pensiero del Governo italiano al riguardo».
La proposta di Erhard colse di sorpresa il rappresentante italiano e spiazzò completamente a Roma il ministro degli Esteri Sforza. L’idea avanzata dall’ex direttore della Verwaltung für Wirtschaft costituiva una prova della consapevolezza da parte tedesca dell’orientamento “filotedesco” del governo italiano, ma inserito nel contesto dell’Europa occidentale del secondo dopoguerra rappresentava un progetto dai risvolti politici troppo avanzati per essere intrapreso da due ex paesi sconfitti, alle spalle della Francia.
Il 30 gennaio fu direttamente il ministro Sforza a rispondere al rapporto di Babuscio Rizzo, contenente la richiesta di Erhard di procedere ad un’integrazione economica italo-tedesca. Secondo il ministro degli Esteri italiano conveniva spostare l’attenzione unicamente sull’intensificazione degli scambi commerciali, mentre bisognava evitare ogni apertura politico-diplomatica a qualsiasi progetto di integrazione economica italo-tedesca. Scriveva, infatti, Sforza:
«Ho letto con interesse gli accenni di indole economica che Ella ha esposti […] non v’ha dubbio che le relazioni economiche fra l’Italia e la Germania sono estremamente importanti e che è nostro desiderio di svilupparle quanto maggiormente possibile […] tuttavia stimo non inutile attirare la sua attenzione sull’opportunità di non incoraggiare troppe aperture che le venissero fatte costì in materia di integrazione economica fra i due Paesi, in quanto anche tali accenni, nel momento presente, avrebbero forse un significato eccessivamente polemico nei confronti francesi».
Sforza era preoccupato soprattutto dalle ripercussioni politiche della proposta di Erhard. L’integrazione economica fra Italia e Germania risultava troppo simile alla mancata unione doganale italo-francese. La ritrovata intesa con la nuova Germania della Repubblica federale poteva trasformarsi in un ostacolo al mantenimento di buoni rapporti con la Francia.
La politica estera italiana iniziò a temere la tenuta del suo rapporto con la Francia. Il primo febbraio Zoppi scrisse una lunga lettera destinata all’ambasciatore italiano a Parigi, Pietro Quaroni. In Francia erano sorti dei sospetti intorno al riavvicinamento italo-tedesco:
«Caro Quaroni – scriveva Zoppi – anche tu, come noi, hai notato che ogni volta che qualcosa non va, o va meno bene, nei nostri rapporti con la Francia, sorge subito il sospetto, a Parigi, di una nostra lungimirante politica che mira a staccarsi dalla Francia per concludere chi sa quali accordi con la Germania […] le disillusioni nate dal fallimento dell’unione doganale italo-francese, e al tempo stesso il nostro relativo isolamento politico, mediante un’intesa con la Germania, esiste indubbiamente, almeno negli ambienti abituati a pensare all’ingrosso sui problemi internazionali […]».
Zoppi affidava pertanto a Quaroni il compito di ribadire al governo francese che l’Italia non puntava affatto ad indebolire l’alleanza con la Francia:
«potresti dare queste spiegazioni a Schuman, e cogliere l’occasione per assicurarlo che il nostro atteggiamento rimane immutato. Nessuno in Italia ha la minima intenzione di mutare la politica di intima amicizia e cooperazione, quanto intima loro stessi ci permetteranno di realizzare, con i francesi. Il Governo francese può essere perciò tranquillizzato che da parte nostra non vi saranno iniziative, formali o sostanziali, di vistoso avvicinamento alla Germania […]».
Il governo italiano rifiutò la proposta di Erhard e così la commissione mista italo-tedesca non venne mai istituita. Gli interessi italiani per un approfondimento delle relazioni economiche italo-tedesche erano notevoli, ma De Gasperi e Sforza erano orientati ad avallare progetti di collaborazione politica-economica di natura inclusiva. La costruzione dell’Europa non poteva essere intrapresa senza l’attiva partecipazione dei principali paesi europeo occidentali e soprattutto senza l’iniziale partecipazione, da protagonista, della Francia.
Al momento la documentazione di parte tedesca non consente di formulare maggiori considerazioni sulla proposta di Erhard, molto probabilmente si trattò di un gioco delle parti con il governo federale impegnato a cercare di stemperare l’ostilità francese, mostrando un’intesa con l’Italia.
Anche in Germania, nella primavera del 1950, il ministro dell’Economia della Baviera Seidel confidava a Malfatti che «era necessario procedere con cautela, un rapido riavvicinamento italo-tedesco può provocare inopportune reazioni francesi».
In effetti, nella prospettiva del governo federale si trattava di raggiungere un delicato equilibrio politico-diplomatico: un rapido riavvicinamento tra l’Italia e la Germania poteva, infatti, contribuire a moderare in senso positivo l’ostilità del governo francese nei confronti di Bonn, ma al contempo rischiava di accentuare le chiusure della Francia. In tale contesto l’atteggiamento di De Gasperi e Sforza fu sostanzialmente coerente con l’impostazione individuata tra la fine del 1948 e l’estate del 1949: appoggio deciso al reinserimento tedesco, ma nell’ambito di un’Europa occidentale plurale.
Nell’ottobre del 1950 ci fu il primo incontro tra Sforza ed Erhard a Roma; in quell’occasione il ministro tedesco per l’economia ripresentò la stessa proposta fatta nel gennaio precedente. La possibilità di un’integrazione economica italo-tedesca era oramai da mesi fuori discussione per il governo italiano, soprattutto perché, come si vedrà, nel maggio del 1950 il governo francese aveva proposto il Piano Schuman.
Nel corso dell’incontro Sforza pensò unicamente ai risvolti politici di ogni singola parola pronunciata da Erhard; quest’ultimo non parlò d’altro che di fusione dei mercati, abbassamento delle tariffe doganali, vantaggi del liberismo (quello tedesco) e svantaggi del laburismo inglese. Al termine del colloquio con Erhard Sforza scrisse:
«Ho parlato per oltre un’ora col Ministro federale dell’Economia Germanica, Erhard. Abbiamo usato l’inglese, che sa male, intramezzato da frasi tedesche. More germanico è subito partito con un lungo monologo sulla necessità di coordinare le varie economie europee e, prima di tutto, la tedesca e l’italiana […] Erhard è uno schietto liberista. Sembra sinceramente convinto quando allude alla necessità di unione europea. “Le nazioni”, mi ha ripetuto più di una volta, “non sono più un ideale sufficiente. Almeno è così in Germania”. “Se è così”, gli ho detto, “sarà un gran bene pel popolo tedesco e per noi tutti».
Il ministro degli Esteri italiano rifiutò nuovamente la proposta di Erhard, spiegando che la soluzione per i problemi dell’Europa risiedeva in una collaborazione tra tutte le principali nazioni europee. Tra il 1949 e il 1950, l’atteggiamento “filotedesco” dell’Italia fu chiaramente percepito dai rappresentanti di Bonn.
Il 6 aprile Blankenhorn riportava in un appunto che il governo federale e in particolare il Cancelliere «erano molto grati per gli sforzi compiuti dall’Italia e dal ministro Sforza» nella difficile questione dell’adesione della Repubblica federale al Consiglio d’Europa, aggiungendo che Adenauer «in ambito europeo desidera[va] agire in armonia con l’attuale politica del governo italiano».
Nel marzo del 1950, infatti, il consiglio dei ministri del Consiglio d’Europa aveva invitato la Repubblica federale e il territorio della Saar ad entrare nel nuovo organismo europeo in qualità di membri associati. A Strasburgo Sforza aveva sostenuto l’invito alla Germania occidentale. Il partito di Schumacher si oppose all’adesione poiché giudicò l’invito rivolto alla Saar come un tentativo per separare definitivamente tale territorio dal resto della Germania.
Anche all’interno della stessa maggioranza di governo emersero simili perplessità, ma Adenauer considerò l’adesione al Consiglio d’Europa un’importante occasione offerta alla Germania occidentale per conseguire una maggiore sovranità. La linea del Cancelliere prevalse ed il 15 giugno il Bundestag approvò, nonostante i voti contrari della Spd, l’ingresso della Repubblica federale nel Consiglio d’Europa come membro associato.
Adenauer apprezzò e condivise la linea di politica estera di De Gasperi e Sforza. In un incontro con Babuscio Rizzo del 27 aprile 1950, il Cancelliere federale ringraziò il governo italiano per la «comprensione dimostrata» e confidò a Babuscio Rizzo che il suo primo obiettivo in politica estera riguardava la Francia, il raggiungimento di una «sincera intesa» franco-tedesca, ma «subito dopo veniva l’Italia».
In ambito europeo la partecipazione congiunta dei tre paesi costituiva la chiave di volta per la realizzazione dell’unione europea:
«Adenauer – riportava Babuscio Rizzo – mi ha riparlato dei rapporti con l’Italia. Egli ha detto che [il] suo primo obiettivo era quello di raggiungere una sincera intesa con la Francia al che io ho risposto che ciò era non solo nei voti di tutti, ma soprattutto dell’Italia, così direttamente interessata all’unificazione europea ed alla rimozione del principale ostacolo costituito appunto dalle relazioni franco-tedesche.
Il Signor Adenauer mi ha aggiunto: subito dopo occorrerà passare a più concrete intese con l’Italia. Egli mi ha però informato di avere già dato istruzioni al Ministro dell’Economia Erhard di favorire al massimo possibile l’incremento delle relazioni economiche tra i due Paesi.
Egli in altri termini ha spontaneamente associato le relazioni franco-tedesche a quelle italo-tedesche e quando io gli ho fatto rilevare che era in questo triangolo il segreto dell’unione europea, egli mi ha detto: “sono d’accordo con lei, e la prego di dirlo al Ministro Sforza; una intesa tra questi tre Paesi, sarebbe la soluzione del nostro problema e dovremmo compiere sforzi comuni a questo fine”».
Il 12 maggio la Die Neue Zeitung pubblicava un’intervista a De Gasperi realizzata da Diether Heumann e intitolata «L’Italia desidera una vasta collaborazione tedesca». Heumann sottolineò che il governo italiano si era sempre pronunciato «in favore dell’integrazione, più completa, di una Germania pacifica e democratica nella famiglia dei popoli europei». De Gasperi, proseguiva l’articolo, «considera la soluzione delle questioni franco-tedesche come il problema fondamentale della politica europea».
Come è noto, uno dei punti di svolta per l’integrazione europea fu rappresentato dalla decisione della Francia di proporre nel maggio del 1951 il cosiddetto Piano Schuman. Il progetto era rivolto alla Repubblica federale, all’Italia ed ai paesi del Benelux (Belgio, Olanda, Lussemburgo) e proponeva la creazione di una comunità sovranazionale nel settore carbo-siderurgico.
La proposta prese il nome del ministro degli Esteri francese, Schuman, anche se era stata ideata da Jean Monnet, responsabile del piano di modernizzazione dell’industria francese. Il governo italiano aderì al Piano senza indecisioni, la proposta avanzata dalla Francia, infatti, risultava coerente con la linea di politica estera di De Gasperi e Sforza relativa alla costruzione di un’unione europea attraverso l’integrazione della Germania.
Nonostante le perplessità manifestate dalle forze economiche e sindacali, il governo italiano puntò ad evidenziare soprattutto la portata politica della proposta francese che nell’aprile del 1951 diede vita alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca).
L’intensità dell’appoggio italiano all’ingresso di Bonn nei vari organismi politici europei fu addirittura superata dall’energia con la quale De Gasperi e Sforza sostennero la necessità di un riarmo della Germania occidentale. Dopo l’esplosione della prima bomba atomica sovietica (agosto 1949), che segnava la fine del monopolio statunitense sul possesso delle armi atomiche, e soprattutto dopo l’inizio della guerra di Corea (25 giugno 1950), il nodo di un riarmo tedesco, della creazione di un esercito della Repubblica federale, entrò progressivamente nel dibattito politico internazionale.
Il tema della ricostituzione di un esercito tedesco era legato al problema della difesa e della sicurezza militare dell’Europa nell’eventualità di un attacco sovietico. Con l’inizio della guerra di Corea, negli Stati Uniti e in Europa si diffuse il timore che gli eventi in atto nell’estremo Oriente potessero essere il preludio di una terza guerra mondiale, o di un’analoga precipitazione degli eventi in Europa centrale.
La Corea, infatti, così come la Germania, era divisa in due diversi campi politici ed economici, e nella prospettiva dei paesi appartenenti al blocco occidentale la Repubblica democratica avrebbe potuto tentare, con il sostegno di Stalin e con il “pretesto” dell’unificazione della Germania, di invadere la Repubblica federale, scatenando a quel punto un inevitabile nuovo conflitto mondiale.
Nonostante le apparenti analogie le differenze tra i due contesti erano notevoli, ma i governi occidentali percepirono la situazione con estrema gravità e per diversi mesi le tensioni della guerra fredda crearono uno scenario in cui si rimase “sull’orlo del baratro”.
A meno di cinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale, il riarmo della Germania rappresentava una questione estremamente complessa che toccava in pieno le opinioni pubbliche europee e sul piano politico si caratterizzava per l’ostilità del governo francese nell’approvare simili progetti.
Nella stessa Repubblica federale esisteva un ampio e trasversale fronte politico-sociale decisamente contrario alla rimilitarizzazione della Germania. Dalla fine della seconda guerra mondiale, è stato spesso osservato dalla storiografia, nessun tema politico ha agitato tanto i tedeschi occidentali come il dibattito sul riarmo. Il noto movimento «Ohne mich» (senza di me) esprimeva la sensazione di rifiuto che probabilmente la maggioranza della popolazione tedesca-occidentale provava nei confronti della guerra e delle armi.
Adenauer, invece, fu decisamente a favore del riamo e già il 17 agosto 1950 propose all’Alta commissione alleata di formare un primo contingente di volontari. Tra l’estate e l’autunno del 1950, nel governo federale, nonostante qualche difficoltà sorta in seguito alle dimissioni del ministro degli Interni Gustav Heinemann, contrario al riarmo, si impose la linea del Cancelliere.
Una parte della chiesa protestante, infatti, temeva che con il riarmo sarebbero definitivamente tramontate le possibilità di riunificazione e con essa la possibilità di riunire i fedeli protestanti che abitavano in stragrande maggioranza le regioni orientali della Germania: la Repubblica democratica. Heinemann rappresentava una parte del protestantesimo tedesco poco “contento” della maggioranza cattolica all’interno della Cdu.
Inoltre la Chiesa cattolica appoggiava senza riserve la causa del riarmo e nota Winkler: «il cattolico renano Adenauer doveva convivere con il sospetto di molti protestanti che gli stesse a cuore la riunificazione anche perché con essa sarebbe cambiata la bilancia confessionale a carico dei cattolici e sarebbero peggiorate le possibilità elettorali della Cdu».
Se nel contesto della guerra fredda il riarmo tedesco rappresentava una necessità strategica per gli Stati Uniti, per il governo della Repubblica federale costituiva un’ulteriore opportunità politica per accelerare la riacquisizione della sovranità e della Gleichberechtigung. Si tratta, come è noto, di un tema centrale per la storia politica europea degli anni Cinquanta e in queste sede si esaminerà soprattutto l’orientamento del governo italiano che già tra il 1950 e il 1951 si distinse per un deciso appoggio del riarmo della Germania occidentale.
Da un punto di vista strategico e militare Sforza e De Gasperi erano convinti della necessità di una partecipazione della Germania alla difesa dell’Europa, partecipazione che comportava un consistente spostamento verso est della linea di difesa europea. L’idea di un’attiva partecipazione dei tedeschi ai progetti europei (come mezzo per consolidare le difese occidentali contro l’Unione Sovietica e come strumento politico ideale per scongiurare eventuali ricomparse del nazionalismo nella stessa Germania) era presente in modo consapevole nell’impostazione del governo italiano fin dalla fine del 1948.
Il ministro degli Esteri Sforza prima ancora dello scoppio della guerra di Corea aveva prospettato la necessità di una piena «associazione» della Repubblica federale al “blocco occidentale”, non escludendo un contributo dei tedeschi alla difesa dell’Europa, come adeguata risposta dell’intero Occidente al blocco politico, economico e militare messo in piedi dall’Unione Sovietica in Europa orientale.
In una lettera inviata a Gallarati Scotti (ambasciatore a Londra) il 29 marzo 1950, Sforza spiegava così il suo punto di vista sulla partecipazione della Repubblica federale al rafforzamento della «comunità occidentale»:
«[…] mentre da parte sovietica si procede con logica implacabile al rafforzamento delle posizioni politiche, militari ed economiche, da parte occidentale si procede su questa via con estrema lentezza, fra gelosie e diffidenze reciproche quanto mai dannose […] il popolo tedesco, come ogni altro ha le sue qualità e i suoi difetti.
Pretendere di modificarne in breve tempo il carattere e il temperamento è quanto meno ingenuo: meglio vale volgere gli uni e gli altri a vantaggio della comunità europea coll’assegnare alla Germania nell’ambito di questa comunità il compito che essa può assolvere. Ciò non si potrà ottenere né ostacolandone o comprimendone la ricostruzione materiale e politica, ma facendo in modo che questa si sviluppi e si orienti in senso europeo e occidentale […]».
Nel settembre del 1950 Sforza aveva dichiarato pubblicamente la posizione del governo italiano durante l’incontro a New York dei ministri degli Esteri dei paesi membri del Patto Atlantico:
«La Germania – affermava Sforza – dovrebbe essere autorizzata a creare un esercito e a collaborare ai piani per la difesa dell’Europa occidentale. È nostro dovere ed è nostro interesse avere la collaborazione della Germania quando organizzeremo la difesa dell’Europa».
A New York, il Consiglio del Patto Atlantico raggiunse un’importante decisione che prevedeva l’approvazione «di una forza integrata sufficiente per scoraggiare l’aggressione e garantire la difesa dell’Europa occidentale, inclusa la Germania occidentale».
Restava da risolvere, tuttavia, il nodo della partecipazione tedesca alla difesa dell’Europa, argomento che a New York incontrò la netta opposizione della Francia. Nel corso degli incontri Sforza si rivolse direttamente al ministro Schuman e, dichiarando di comprendere il punto di vista negativo del governo francese, aggiungeva:
«[…] ma una Germania riarmata sotto il controllo e nell’ambito dell’organizzazione atlantica rappresenterebbe un apporto utile e necessario alla difesa comune, senza ingenerare soverchi timori di ritorni militareschi».
Due diversi ordini di motivi spinsero Sforza e De Gasperi a sostenere energicamente la partecipazione dei tedeschi alla difesa dell’occidente. In primo luogo, il riarmo tedesco rappresentava un altro mezzo per il reinserimento della Germania nel processo di integrazione europea, un mezzo, tuttavia, che avrebbe prodotto un’accelerazione della stessa unificazione europea. In secondo luogo si trattava di un interesse strategico militare: la partecipazione attiva della Repubblica federale alla difesa dell’Europa comportava, infatti, l’estensione del perimetro difensivo dal Reno all’Elba.
In questo modo l’Italia del Nord avrebbe beneficiato di maggiori garanzie in caso di attacco sovietico. Una considerazione del tutto in linea con le analisi contenute nella relazione dell’autunno del 1948 sull’«Atteggiamento dell’Italia di fronte al problema della Germania», relazione nella quale si prospettava che la creazione di uno stato tedesco-occidentale avrebbe contribuito a spostare i punti di frizione tra sovietici e americani dal sud al centro-nord dell’Europa.
Per la politica estera italiana, l’ipotesi di una Germania neutrale tra i due blocchi contrapposti comportava più rischi che garanzie. Il ministro Sforza lo aveva ribadito alla presenza dei francesi durante le riunioni di New York:
«Una linea sull’Elba – osservava Sforza – con una Germania artificialmente neutrale e in realtà ostile, sarebbe cosa impensabile, e una forza integrata dalla quale fossero assenti e i rinforzi americani promessi da Truman, e le unità tedesche proposte da Acheson, sarebbe in realtà una debolezza integrata; incapace, non solo di far fronte, ma anche di ritardare, tantomeno di intimorire, un’aggressione nemica».
Sotto il profilo politico la non esclusione della Repubblica federale dai progetti di difesa comportava maggiori garanzie di ancoraggio della Germania (occidentale) al sistema economico-politico dell’Europa occidentale. Un obiettivo, quest’ultimo, apertamente caldeggiato dalla politica estera italiana. Qualche mese dopo i colloqui di New York, De Gasperi riaffermò alla Camera la piena convinzione del governo italiano circa la necessità di una collaborazione politica e militare con gli Stati Uniti poiché costituiva la strada migliore per l’integrazione europea:
«Il Governo italiano crede perciò che la collaborazione economico-militare con gli Stati Uniti rappresenti non solo uno sforzo doveroso per la difesa della libertà e il consolidamento della democrazia mondiale, ma che esso apra anche la via verso l’effettiva e permanente comunità dei paesi europei, compresa la Germania».
Il 24 ottobre Pleven annunciò all’Assemblea nazionale francese la volontà della Francia di procedere alla costituzione di un esercito europeo. Il nuovo piano militare europeo proposto dal governo francese era stato suggerito da Jean Monnet. Quest’ultimo, ispirandosi al progetto del Piano Schuman avanzò l’idea di collegare il riarmo della Repubblica federale al processo di integrazione europea, inserendo i contingenti militari della Germania occidentale in un inedito esercito europeo integrato.
Comuni istituzioni sovranazionali avrebbero dovuto gestire l’organizzazione, l’equipaggiamento ed il finanziamento del nuovo esercito. Iniziava così la “tormentata” storia della Comunità europea di difesa (Ced) cui si aggiunsero i paralleli tentativi di istituire la Comunità politica europea (Cpe). Il percorso di questi progetti si concluse con un completo fallimento nel 1954 quando, come è noto, la stessa Francia non approvò il Trattato istitutivo della Ced e nel maggio del 1955 il problema della partecipazione militare della Repubblica federale fu risolto con l’adesione di Bonn alla Nato.
Nell’immediato la presentazione del Piano Pleven rappresentò un prima via d’uscita dalla situazione di impasse caratterizzata dai precedenti veti francesi circa una partecipazione della Germania occidentale alla difesa dell’Europa. Il nuovo progetto, infatti, implicava che il riarmo tedesco non era più considerato inaccettabile per la Francia, la quale, sebbene ancora traumatizzata dalla guerra e dall’occupazione, iniziava ad ammetterne la necessità.
Il 16 dicembre 1950 la questione del riarmo della Germania fu al centro di un’importante riunione del Consiglio dei ministri del governo italiano. Durante la riunione De Gasperi sottolineò nuovamente ai colleghi di governo l’importanza della partecipazione della Repubblica federale alla difesa dell’Europa. Si trattava di un punto che, secondo il Presidente del consiglio, l’Italia non avrebbe potuto non condividere pienamente. In via riservata, infatti, De Gasperi comunicò ai vari ministri che:
«Dal punto di vista della logica noi dobbiamo desiderare che gli americani si impegnino a fondo per il riarmo della Germania, che è l’unico modo di resistere. Il procedimento ha importanza secondaria e si può anche trattare».
L’insistenza di De Gasperi sulla necessità di appoggiare il riarmo della Germania trovò molto probabilmente qualche resistenza nel governo. Andreotti, che nel dicembre del 1950 partecipò alla riunione in qualità Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ha osservato in un libro di memorie che:
«questo assillo per la Germania a qualcuno di noi sembrava esagerato. E glielo dicemmo [a De Gasperi] provocando non una reazione polemica, ma l’invito a riconsiderare bene le tappe attraverso le quali in pochissimi anni era riuscito a creare una potenza militare e un fanatismo politico che aveva messo il mondo a ferro e fuoco».
L’attiva partecipazione dei tedeschi alla difesa dell’Occidente si configurava come uno strumento per un doppio contenimento: per la protezione dall’Unione Sovietica e per neutralizzare eventuali rigurgiti nazionalisti in Germania occidentale.
Al termine del Consiglio dei ministri del 16 dicembre De Gasperi e Sforza prepararono e diffusero un comunicato con la posizione ufficiale del governo italiano sulla questione della partecipazione della Repubblica federale alla difesa dell’Europa. L’Italia si dichiarava a favore del riarmo tedesco in funzione antisovietica, e tale processo venne anche presentato come primo passo verso l’Unione europea. Il messaggio, infatti, fu studiato ad hoc per non turbare come disse De Gasperi «i sentimenti contrari alla Germania [che] sono vivi anche in Italia e bisogna tenerne conto»:
«1) Il governo italiano – recitava il comunicato – mentre ammette il diritto della Germania a uno sviluppo che la renda pari agli altri Stati, riconosce che tale sviluppo debba svolgersi coi metodi e con le finalità di una democrazia libera e pacifica, al di fuori di ogni sospetto e di ogni possibile ripresa di elementi perturbatori.
Ogni garanzia che potrà essere data a tale riguardo nel campo dell’organizzazione interna e nei rapporti internazionali, contribuirà a dissipare le diffidenze verso lo spirito meramente difensivo del Patto Atlantico e a confermare che i paesi che stanno facendo uno sforzo per ricostruire le loro possibilità difensive non vogliono nuovi conflitti né si rifiutano ad ogni mezzo pacifico che conduca alla pace e alla sicurezza.
2) Ciò premesso, il Consiglio dei ministri riconferma il principio dell’inserimento della Germania nella solidarietà dell’Europa democratica, considerando la sua partecipazione alla forza integrata atlantica, come un decisivo passo verso l’unità europea. Per poter attuare tale inserimento è indispensabile in Germania il rafforzamento delle truppe alleate, e nel resto di Europa la costituzione unitaria delle forze occidentali, sotto un unico comando, il che non esclude un ulteriore sviluppo verso la creazione permanente di un esercito europeo.
3) Considerando, infine, che oggi più che mai la pace è un tutto indivisibile, il Consiglio dei ministri riafferma che per consolidarla in tutto il mondo bisogna ristabilire la legge internazionale anche in Corea […]».
Si trattava di un passaggio importante e che naturalmente venne molto apprezzato dal governo della Repubblica federale. Per la prima volta dalla Conferenza di Potsdam, che come è noto aveva sancito tra i suoi punti la demilitarizzazione della Germania, l’Italia si schierava ufficialmente e in maniera netta a favore di un riarmo tedesco, una possibilità impensabile ancora pochi anni prima, all’indomani della Liberazione dall’occupazione nazifascista.
Il 22 dicembre, il console Brentano da poco insediato a Roma scriveva a Bonn che il Presidente De Gasperi si era sempre «fortemente impegnato per il riconoscimento (Anerkennung) dei diritti tedeschi (der deutschen Anspruche)», e solo una piccola cerchia (Kreis) di alti funzionari del ministero degli Esteri dimostrava, secondo Brentano, «maggiore comprensione per i timori (Befürchtungen) francesi». Il console tedesco si riferiva al Segretario generale Zoppi e all’ambasciatore Taliani, due diplomatici che, come è stato in precedenza esaminato, appartenevano a quel gruppo di funzionari piuttosto critici nei confronti della linea del governo a favore della Germania.
Il 5 febbraio 1951 si svolse il primo colloquio tra Brentano e Sforza a Palazzo Chigi. Il console tedesco ottenne dal ministro italiano tutte le rassicurazioni desiderate riguardo alla partecipazione della Repubblica federale alla costruzione ed alla difesa dell’Europa occidentale.
«Sforza – comunicava Brentano a Bonn il 5 febbraio 1950 – è poi passato a parlare del problema dell’Unione europea, che per lui come è noto costituisce un obiettivo al quale ha aderito con la massima serietà e convinzione interiore. “La Germania”, mi ha comunicato Sforza, “ricopre un posto degno e importante nell’Unione europea, in questo contesto il popolo tedesco è in grado di sviluppare e di valorizzare tutte le sue eccezionali proprietà.
L’inclusione della Germania nell’Unione europea rappresenta anche la migliore garanzia che non si ripetano e non si finisca, come in un’epoca passata, in brutte avventure politiche”. Sforza ritiene che una più stretta unione economica tra la Francia, l’Italia e la Germania rappresenterà un buon inizio per l’Unione europea.
Poi siamo passati a discutere del problema della difesa dell’Europa contro la minaccia russa e il ruolo della Repubblica federale in un sistema di difesa. […] “Ha spiegato che la sua posizione in merito alla partecipazione della Repubblica federale alla difesa dell’Europa su un piede di parità (Gleichberechtigung) è ben nota”».
Pochi giorni prima della Conferenza italo-francese di Santa Margherita Ligure, che doveva discutere dei problemi del Piano Pleven, De Gasperi incontrò Brentano a Roma. Il Presidente del consiglio chiese «precise informazioni» a Brentano su diverse questioni che riguardavano l’attuale situazione della Germania: dall’atteggiamento dell’opinione pubblica alle posizioni del leader della Spd Schumacher.
De Gasperi dichiarò infine di ritenere «assolutamente necessaria» la partecipazione della Repubblica federale alla difesa dell’Europa. Nel rapporto segreto inviato alla Cancelleria federale, Brentano comunicò che:
«[…] il Presidente del consiglio voleva informazioni precise sulla situazione nella zona tedesca orientale, sullo stato d’animo (Stimmung) in Germania occidentale e sulla propaganda comunista nella Repubblica federale […]. De Gasperi mi ha spiegato che il suo punto di vista era che il contributo dei tedeschi alla difesa militare dell’Europa era assolutamente necessario (unbedingt notwendig). Egli [De Gasperi] è alla ricerca di un modo per risolvere il problema, sia per quanto riguarda l’opinione pubblica in Germania, come anche per la riluttanza della Francia».
Le ipotesi di una “terza via”, di una politica neutrale tra i due blocchi furono discusse da De Gasperi e Brentano durante un incontro che si svolse il 23 marzo 1951. Brentano minimizzò le proteste sorte nella Repubblica federale riguardo alla questione del riarmo e dichiarò a De Gasperi, ben sapendo di trovare l’assenso del suo interlocutore, che tutti gli schieramenti politici a Bonn, dal governo all’opposizione, sostenevano la necessità di appoggiare lo schieramento occidentale e rifiutavano l’idea della «neutralizzazione», considerata l’anticamera della sovietizzazione dell’intera Germania prima, e di tutta l’Europa occidentale poi.
«Ho spiegato al Presidente del consiglio che il Cancelliere e anche l’opposizione erano fermamente convinti, senza alcuna riserva, delle cooperazione con l’Occidente e che respingono l’idea (Gedanke) di una neutralizzazione [della Germania], poiché la neutralizzazione (Neutralisierung) avrebbe inevitabilmente condotto alla russificazione (Russifizierung) della Germania prima e dell’intera Europa poi. Il Presidente del consiglio De Gasperi concorda pienamente con questo parere».
Brentano e De Gasperi discussero anche del viaggio di Adenauer a Roma. Il Cancelliere, riferiva Brentano, desiderava compiere «con estremo piacere» tale visita, ma prima bisognava «migliorare la posizione internazionale della Repubblica federale», pertanto solo dopo la firma del trattato del Piano Schuman a Parigi tra tutti i paesi partecipanti «sarebbero caduti gli ostacoli per la realizzazione del viaggio del Cancelliere a Roma».
Alla vigilia della prima visita ufficiale di Adenauer in Italia (14-23 giugno 1951) l’“intesa” tra i governi dei due paesi nelle questioni di politica estera era allo zenit. Nell’Italia del governo De Gasperi, la Repubblica federale aveva trovato un solido e leale alleato. Non a caso la storiografia italiana e tedesca ha spesso presentato questa fase come uno dei momenti più “alti” di tutta la storia delle relazioni italo-tedesche della seconda metà del Novecento.
Nei capitoli precedenti sono stati esaminati i diversi fattori che concorsero ad orientare l’Italia a favore di un pieno e rapido reinserimento della Germania occidentale nel sistema economico politico dell’Europa occidentale. Si è mostrato come non furono solo le innegabili convergenze politiche e culturali tra De Gasperi e Adenauer o il loro comune impegno per l’integrazione europea a contribuire alla formazione della posizione italiana riguardo al «problema germanico».
Nel capitolo precedente, infatti, sono stati esaminati i tre principali fattori che risultano fondamentali per comprendere il processo di formazione della politica estera italiana sul «problema germanico»: gli interessi economici e commerciali, le analisi di natura geopolitica e la posizione di De Gasperi e Sforza.
Sarà, dunque, necessario esaminare ora con maggiore attenzione gli interessi e le ragioni di fondo che, secondo Bonn, contribuirono al riavvicinamento e alla collaborazione politica dei due paesi in ambito europeo tra il 1949 e il 1951, al di là delle affinità e delle convergenze politiche e culturali tra i leader dei due partiti al governo in Italia e Germania occidentale.
L’«ALLEATO NATURALE»: IL VIAGGIO IN ITALIA DI ADENAUER
Le fonti relative ai primi colloqui tra Babuscio Rizzo e le più alte cariche della nuova Germania occidentale, così come i primi incontri di Brentano con Sforza o De Gasperi rivelano la presenza di una sensibile attenzione dei rappresentanti di Bonn per un riavvicinamento italo-tedesco.
È importante soffermarsi su queste prime manifestazioni di interesse verso l’Italia da parte dei rappresentanti tedeschi. Come mai, infatti, nei primissimi mesi di vita della Repubblica federale numerosi esponenti politici di orientamento cristiano-democratico e non pochi rappresentanti di governo a livello centrale e locale – da Hans Ehard in Baviera ad Adenauer – manifestarono la volontà di instaurare subito buoni rapporti con il governo italiano? L’Italia non aveva vinto la guerra, né rientrava tra le potenze di occupazione.
A causa del veto dell’Unione Sovietica lo stato italiano in quegli anni non era nemmeno ammesso all’Onu. I rapporti di forza esistenti non consentivano al governo di Roma di determinare alcun significativo mutamento nelle principali controversie tra Stati Uniti ed Unione Sovietica riguardanti la Germania. Il governo di Bonn non ignorava che l’Italia non apparteneva, né poteva essere equiparata al gruppo delle grandi potenze che in ultima istanza prendevano le decisioni politiche.
Il complesso dei motivi economici e politici alla base dell’interesse italiano per la creazione della Germania occidentale sono stati ampiamente esaminati nelle precedenti puntate. Tuttavia le prove a sostegno della volontà tedesca di stabilire subito buone relazioni politiche con il governo di Roma sono molteplici.
Come si è visto, la Germania sperava che il riavvicinamento italo-tedesco potesse contribuire a stemperare l’ostilità del governo francese e creare una base di partenza per un processo di integrazione europea che consentisse contemporaneamente alla Repubblica federale di avviare la Gleichberechtigung.
È importante, dunque, mostrare come venne percepito da parte tedesca tale riavvicinamento e tale appoggio politico nelle questioni dell’integrazione europea e del riarmo. Nella prospettiva di Bonn il sostegno che l’Italia aveva dimostrato nei confronti della Repubblica federale derivava esclusivamente dall’europeismo di De Gasperi e Sforza?
La storiografia tedesca, a partire da Hans Peter Schwarz, ha in genere sostenuto che al momento della fondazione della Repubblica federale solo l’Italia (tra i paesi dell’Europa occidentale) guardava con simpatia il nuovo governo tedesco. Commentando le ragioni che spinsero Adenauer a compiere a Roma la sua prima visita di Stato all’estero nel giugno del 1951 (dal 14 al 21 giugno), Schwarz ha scritto:
«Perché questa prima visita di Stato ufficiale del Cancelliere federale viene fatta proprio in Italia? La risposta è semplice e un po’ deprimente (wenig deprimierend). Perché al momento solo in Italia egli è il benvenuto senza riserve (Weil er derzeit nur in Italien uneingeschränkt willkommen ist)».
L’osservazione di Schwarz risulta sostanzialmente condivisibile, anche se non accenna ai vari motivi che dal punto di vista italiano rendevano ben accetto l’esistenza di un nuovo stato tedesco in Europa occidentale. Nel giugno del 1951 De Gasperi e Sforza accolsero Adenauer senza riserve.
L’Italia aveva sondato un possibile invito del Cancelliere già nell’autunno del 1950, poi sfumato per non provocare possibili risentimenti francesi. Nel febbraio del 1951 lo stesso Adenauer durante un colloquio con il ministro Lombardo in visita a Bonn aveva dichiarato che visitare l’Italia rappresentava un suo «vecchio desiderio», ma preferiva non ferire la «sensibilità francese». Solo nel giugno del 1951, dopo aver compiuto una breve visita a Parigi per la firma dei trattati istitutivi della Ceca, Adenauer decise di recarsi in Italia da ministro degli Esteri e Cancelliere.
Tra il 1949 e il 1951, quindi, la Repubblica federale desiderava spezzare l’angusto “isolamento” politico e diplomatico che circondava la Germania in Europa fin dalla fine della guerra. In questo contesto l’Italia interpretò, così come aveva suggerito il console Relli alla fine del 1948, la parte del paese che «tende la mano al figliol prodigo tedesco avviandolo sulle vie della pace».
Il tema delle «esperienze comuni» rappresenta l’altro argomento generalmente impiegato dalla storiografia italiana e tedesca per spiegare l’iniziale riavvicinamento italo-tedesco. In effetti, nei primissimi anni di vita della Repubblica federale l’Italia rappresentò per molti politici tedeschi un invidiabile esempio di paese sconfitto in guerra e rapidamente ripresosi. Un paese, inoltre, che mostrava apertamente di voler sostenere la nuova Germania occidentale.
Ancora Hans Peter Schwarz in occasione del primo viaggio di Adenauer a Roma ha scritto che:
«[A Roma Adenauer] è accolto da un movimento cristiano-democratico che governa una Repubblica indipendente – e non un protettorato degli alleati occidentali come la Repubblica federale con la sua capitale provvisoria! Pieno d’invidia (neidvoll) egli osserva che l’Italia è già un autentico stato.
I carabinieri stanno in piedi con l’uniforme da parata e con il pennacchio rosso, l’inno nazionale risuona, il monumento al milite ignoto ha la sua corona di alloro […] Davanti a sé Adenauer ha un Presidente del Consiglio [De Gasperi] che parla la sua lingua, è legato ai suoi stessi valori, ha subito in prima persona l’esperienza della dittatura e dimostra di sostenerlo pienamente da un punto di vista diplomatico».
L’Italia rappresentava, quindi, una paese che per molti versi aveva attraversato esperienze analoghe a quelle della Germania, ma a differenza di quest’ultima aveva recuperato quasi subito la propria sovranità e la propria affidabilità internazionale. Il rapido cammino intrapreso dai governi De Gasperi poteva rappresentare un esempio a cui ispirarsi per ridare dignità e autorevolezza alla nuova Germania occidentale.
Tuttavia non erano solo i simboli esteriori della sovranità a colpire i rappresentanti di Bonn. È importante, infatti, specificare quali furono i diversi elementi concreti che contribuirono ad avvalorare la percezione dei tedeschi circa l’importanza politica della nuova Italia repubblicana.
In particolare: la netta affermazione di De Gasperi e del suo partito alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, l’abilità dello statista trentino nell’assumere il ruolo di interlocutore privilegiato degli americani in Italia, l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico nel 1949 e l’adesione al Consiglio d’Europa nel maggio dello stesso anno costituirono dei successi politici di grande portata per gli esponenti del governo italiano e assunsero un significato rilevante per i rappresentanti tedeschi.
Dal punto vista della Repubblica federale, il governo De Gasperi aveva ridato dignità ad un ex paese sconfitto e prostrato dalla guerra, assumendo allo stesso tempo un ruolo non secondario nelle discussioni e nei progetti per la realizzazione dell’Europa unita. I parallelismi storici e le convergenze politiche e culturali tra i leader politici dei partiti al governo nei due paesi erano, dunque, numerosi, ma l’aspetto che maggiormente risaltava agli occhi dei dirigenti di Bonn era rappresentato dalla rapidità con la quale l’Italia di De Gasperi era rientrata nella politica estera.
Si tratta di interpretazioni – l’unico paese a favore di Bonn e l’esempio italiano – già variamente abbozzate dalla storiografia italiana e tedesca sulla storia delle relazioni bilaterali; letture che contengono una buona dose di verità, ma che risultano incomplete ed incongruenti se non collegate ad una serie di considerazioni. È importante soprattutto non confondere uno o più parallelismi riscontrabili nello sviluppo storico dei rispettivi paesi con una spiegazione.
In primo luogo – come è stato dimostrato nei capitolo precedenti – l’Italia aveva già da tempo dato prova di non condividere e di non appoggiare le politiche punitive nei confronti della Germania. La Conferenza di Parigi dell’estate del 1947 aveva offerto la prima possibilità alla politica estera italiana di rendere noto in un consesso internazionale i propri punti di vista sul futuro della Germania.
Ai consistenti interessi economici e commerciali (emersi fin dall’immediato dopoguerra e riscontrabili in diverse fonti) per la presenza in Europa di un’unità economica tedesca si aggiunse tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, nel clima internazionale segnato dalla guerra fredda, un interesse politico per la costituzione di uno stato della Germania occidentale non sottoposto alla diretta influenza dell’Unione Sovietica.
Da parte italiana esistevano, quindi, interessi economici e geopolitici che rendevano favorevole un rapido riavvicinamento italo-tedesco. La vittoria della coalizione guidata dalla Cdu alle prime elezioni politiche della Germania occidentale e l’elezione di Adenauer a primo Cancelliere della Repubblica federale agevolarono il riavvicinamento politico fra l’Italia e la Repubblica federale.
Gli interessi economici e commerciali dell’Italia, così come l’orientamento del governo italiano sulla Germania occidentale rappresentavano argomenti noti ai dirigenti tedeschi fin dal 1948-1949. La ripresa dei rapporti commerciali bilaterali aveva offerto diverse occasioni di incontri fin dal 1948. Anche la stampa tedesca riportava le ripetute dichiarazioni di De Gasperi e Sforza a favore della Repubblica federale.
Diversi giornali pubblicarono articoli sulla politica estera italiana. Josef Schmitz van Vorst pubblicava articoli sulla politica estera italiana fin dal 1948. Il 22 aprile 1950 la Süddeutsche Zeitung presentava un lungo articolo sull’attività politica dell’Italia nei confronti della Germania dal titolo «Sforza si assume la parte di mediatore nei confronti della Francia». Stima e apprezzamento per la posizione del governo di Roma furono manifestati anche dall’Hamburger Abendblatt: il 10 luglio 1950 il giornalista Fritz von Wödke intitolava un suo articolo «Un paese che non conosce l’odio – In Italia il tedesco vale tanto quanto ogni altra persona».
La documentazione sulle relazioni italo-tedesche preparata dalla Sezione del Protocollo (Protokollabteilung) del ricostituito Auswärtiges Amt in vista del viaggio di Adenauer in Italia nel giugno del 1951 costituisce una prova importante dei motivi che, secondo gli esperti del ministero degli Esteri di Bonn, erano alla base dell’appoggio italiano alla Repubblica federale.
Allo stesso tempo le considerazioni presenti in tali documenti costituiscono un fondamentale riscontro per valutare la validità dell’importanza degli interessi economici e geopolitici all’interno degli indirizzi del governo italiano sulla «questione germanica». L’Aufzeichnung über Italien (appunto sull’Italia) intitolato Deutsch-italienischen Beziehungen (relazioni tedesco-italiane) rappresenta un documento molto importante per il tema della presente ricerca; si tratta, infatti, della prima riflessione ufficiale sui rapporti bilaterali italo-tedeschi realizzata direttamente dai vertici del ministero degli Esteri tedesco.
La documentazione conservata nell’archivio dell’Auswärtiges Amt non conserva traccia di studi precedenti sulle relazioni tra l’Italia e la Repubblica federale prodotti a livello centrale a Bonn. L’idea di fondo dell’analisi realizzata dalla Protokollabteilung nel giugno del 1951 si basava sulla tesi dell’esistenza di una serie di ragioni economiche e geopolitiche di carattere strutturale che rendevano «naturale» e del tutto logico l’atteggiamento “filotedesco” del governo di Roma. Per la diplomazia tedesca la Germania occidentale rappresentava un alleato naturale dell’Italia.
In primo luogo c’erano gli interessi commerciali: la ripresa economica tedesca costituiva un fattore trainante anche per l’economia italiana. La guerra fredda, invece, forniva la spiegazione dell’interesse italiano per una partecipazione di Bonn alla difesa dell’Europa occidentale. L’Italia, infatti, come è stato in precedenza ricostruito, in seguito alle tensioni internazionali scaturite dallo scoppio della guerra di Corea il 25 giugno 1950, aveva ribadito la necessità della partecipazione attiva di Bonn alla difesa dell’Europa occidentale.
Da un punto di vista geopolitico la Repubblica federale costituiva un utile alleato nell’ipotesi di un attacco sovietico. Una Germania Ovest alleata ai paesi dell’Europa occidentale e attivamente impegnata per la difesa dell’Occidente assicurava maggiori garanzie di difesa all’Italia in caso di attacco russo.
Per la Protokollabteilung, l’esistenza di una serie di analogie, definite «problemi comuni», come la sovrappopolazione, la comparsa del neofascismo e la volontà di contribuire alla creazione di una «nuova Europa» per «vincere i contrasti interni» rappresentavano gli elementi che si sommavano a quelli strutturali e agevolavano il riavvicinamento bilaterale.
Con naturale consequenzialità si affermava, quindi, che non c’era motivo di meravigliarsi per l’assenza di ripercussioni negative nei rapporti bilaterali a causa delle vicende legate alla guerra. Il governo italiano – asseriva la relazione – aveva rapidamente dimenticato l’alleanza nazifascista e l’occupazione tedesca, eufemisticamente definite con l’espressione di «brutte esperienze», per motivi riconducibili ad immediati «interessi politici e generali»:
«Le relazioni bilaterali mancano dal versante italiano di quella fiducia e di quelle sfumature sentimentali che caratterizzano la parte tedesca e si fondano, invece, su considerazioni di utilità (Erwägungen der Nützlichkeit). Se si osserva la situazione odierna dell’Italia, i suoi interessi politici e generali non sorprende che si siano rapidamente dimenticate le brutte esperienze (bösen Erfahrungen) fatte con la Germania nazista (Nazideutschland), poiché il desiderio di un avvicinamento è in realtà qualcosa di naturale (etwas Natürliches).
La volontà di un avvicinamento corrisponde ad un concreto interesse italiano che può solo aumentare grazie all’imponente ripresa economica della Repubblica federale. Entrambi gli stati hanno perso l’ultima guerra e lottano (ringen) per il loro pieno riconoscimento nella comunità dei popoli. Entrambi gli stati hanno lo stesso problema della sovrappopolazione, della dipendenza economica (wirtschaftlichen Abhängigkeit) dall’America e del neofascismo.
Entrambi i paesi vedono in una nuova Europa (neuen Europa) l’unico strumento efficace per superare i contrasti nazionali. I due stati cristiani (christliche Staaten) sono interessati a un fronte di difesa occidentale contro il comune nemico orientale (gemeinsamen Feind aus dem Osten). In questo caso, però, l’Italia rappresenterà di gran lunga il paese che prende più che dare. Spinta da un evidente interesse l’Italia si è già da molto tempo impegnata a favore di un rafforzamento dell’ombrello militare della Repubblica federale e di una sua attiva partecipazione alla difesa europea.
Dal punto di vista dell’Italia la Germania occidentale appartiene insieme all’Austria al perimetro difensivo esterno del spazio mediterraneo e quindi della stessa Italia, si tratta pertanto di una sicurezza che vale in primo luogo per De Gasperi e Sforza».
Ciò che il documento dava per scontato era il naturale appoggio alla Repubblica federale da parte di un qualsiasi governo italiano. La relazione della Protokollabteilung del giugno 1951 non dedicava, infatti, alcuna attenzione alla figura e al ruolo di De Gasperi e Sforza. Nel quarto capitolo sono stati individuati i tre fattori che erano alla base della linea di politica estera del governo italiano sulla Germania: gli interessi economici e commerciali, le analisi di natura geopolitica e la posizione di De Gasperi e Sforza.
La relazione dell’Auswärtiges Amt era consapevole dei primi due, ma tendeva a schiacciare la posizione del Presidente del consiglio e del ministro degli Esteri sugli interessi geopolitici della penisola. Qualsiasi capo di governo italiano, sembrava suggerire la relazione, avrebbe appoggiato la Germania con la stessa intensità di De Gasperi o Sforza, perché era, in primo luogo, nel loro interesse.
Sotto molti punti di vista si trattava di una lettura della politica estera italiana “rigida”, priva di spessore e poco articolata. Una lettura che in parte contraddiceva e ignorava la linea espressa dal rappresentante del governo tedesco a Roma. Come sarà più avanti esaminato, Clemens von Brentano fin dal mese di marzo del 1951 comunicava a Bonn che il Presidente del consiglio De Gasperi era sinceramente convinto del reintegro della Repubblica federale, ma al contempo segnalava la formazione di correnti interne al suo stesso partito che potevano indebolire le capacità dell’Italia di incidere in politica estera, poiché si trattava di politici che «guarda[vano] con meno interesse la politica estera e i problemi dell’Europa».
Nel lungo periodo – era il messaggio implicito dei rapporti di Brentano – l’impegno dell’Italia a favore della Repubblica federale non poteva considerarsi scontato e naturale, soprattutto se venivano a mancare figure come quella di De Gasperi. Risulta, inoltre, particolarmente difficile percepire dalla lettura di tali fonti diplomatiche il cosiddetto «respiro politico» dei progetti europeisti.
Il vago accenno alla «nuova Europa» (presente nella relazione prima citata) sminuiva più che esaltare gli slanci ideali che pure caratterizzarono parte della politica estera europea del tempo, almeno come veniva interpretata da De Gasperi, ma anche da Adenauer. L’unità europea non rappresentava solamente uno strumento politico per contenere l’espansionismo sovietico.
All’inizio degli anni Cinquanta, come è noto, i principali protagonisti della politica estera europea – Adenauer, De Gasperi e Schuman – percepirono l’importanza storico-politica inaugurata dai progetti europeisti. Il 23 agosto 1951, qualche mese dopo la stesura del documento dell’Auswärtiges Amt sulle relazioni italo-tedesche, Adenauer scriveva a Schuman che:
«[…] tutto il peso dei compiti è sulle spalle di uomini, che come Lei, il nostro comune amico (unser gemeinsamer Freund) Presidente del Consiglio De Gasperi ed io sono pervasi dalla volontà di sviluppare e realizzare una nuova costruzione del mondo europeo su nuovi fondamenti cristiani. Penso che solo poche volte nella storia europea ci siano state occasioni che vedevano condizioni favorevoli per il successo di un lavoro come il momento presente […]».
Secondo l’Auswärtiges Amt, l’Italia rappresentava, quindi, un alleato naturale della Repubblica federale. Il sostegno di Roma a Bonn derivava da un insieme di interessi economici e politici di natura strutturale; un complesso di interessi che, nella prospettiva della diplomazia tedesca, non lasciava all’Italia di De Gasperi molte alternative in tema di politica europea se non quella di appoggiare una piena ed attiva partecipazione della Repubblica federale ai progetti di difesa e di integrazione europea.
La documentazione sulle relazioni italo-tedesche preparata dalla Direzione affari politici di Palazzo Chigi in vista della visita di Adenauer presenta diversi spunti che attestano la presenza di una certa irritazione della diplomazia italiana per l’atteggiamento mostrato da Bonn.
La visita di Adenauer a Roma era stata preceduta da un importante incontro bilaterale con la Francia. Pochi mesi prima, infatti, il 12 e 13 febbraio 1951, a Santa Margherita Ligure si era svolta la conferenza franco-italiana che aveva segnato un consolidamento importante della politica di unificazione europea, rappresentando allo stesso tempo uno dei momenti più alti delle relazioni italo-francesi del secondo dopoguerra.
Nella prospettiva di Palazzo Chigi il viaggio di Adenauer in Italia rappresentava l’«occasione per un largo scambio di vedute su argomenti di interesse generale e di interesse comune ai due Paesi». Circa lo stato delle reciproche relazioni bilaterali, l’aspetto maggiormente sottolineato dall’appunto della Direzione affari politici era l’atteggiamento di sostanziale ingratitudine mostrato da Bonn.
Il governo italiano aveva sempre appoggiato la nuova Germania occidentale senza ricevere in cambio alcuna espressione di riconoscenza. I “tedeschi” consideravano naturale e scontato il sostegno dell’Italia; si osservava che era giunto il momento «di farsi pregare»:
«[Nei confronti della Germania] Quale è stato l’atteggiamento dell’Italia? La nostra politica non poteva essere più decisa e più rettilinea. Abbiamo dato credito alla Germania nella sua volontà democratica; abbiamo contribuito a risollevare il problema tedesco additando la necessitò di accogliere la Germania nel consesso europeo; abbiamo sostenuto il concetto del ritorno della Germania a Nazione sovrana […].
L’abbiamo appoggiata per la sua entrata nel maggior numero di organizzazioni internazionali, nell’Unesco e nel Consiglio d’Europa, nella convinzione che la convivenza e la cooperazione quotidiana negli organi collettivi che promuovono gli interessi comuni sia alla lunga la migliore garanzia di pace; abbiamo contribuito a rendere possibile la collaborazione tedesca al Piano Schuman, germe iniziale di quella unione europea alla quale noi tendiamo.
Abbiamo in sostanza ripetuto l’esperienza dell’altra guerra quando aiutammo la Germania a risorgere senza che questa ci dicesse “grazie”. Siamo quindi in credito e nelle imminenti conversazioni romane ci converrà stare a sentire quanto i tedeschi abbiano da dirci ed eventualmente “farci pregare”».
La prima parte della relazione riecheggiava alcune delle critiche mosse alla linea di De Gasperi e Sforza dalla Direzione affari politici, ma confermava l’analisi geopolitica dell’autunno 1948 circa la necessità di «una completa cooperazione con la Germania» e ribadiva il concetto della necessità dell’equilibrio fra le diverse potenze dell’Europa occidentale, soluzione che consentiva all’Italia di svolgere un ruolo di mediazione:
«la nostra influenza in campo internazionale aumenterà solo se rientriamo nel quadro di un’Europa rigenerata e forte, moralmente, politicamente ed economicamente, della quale noi, tanto quanto la Francia e la Germania, siamo elementi essenziali. Questa considerazione ci induce a contribuire ulteriormente alla evoluzione degli alleati verso una politica più realista nei riguardi della Germania e allo sviluppo di una collaborazione politica triangolare Parigi-Bonn-Roma, parallela a quella economica iniziata nelle grandi linee con l’Oece».
L’idea di Europa come «terza forza» nello scontro Est-Ovest era decisamente scartata dal ministero degli Esteri, l’Italia doveva mostrare al governo di Bonn di voler costruire una «nuova Europa» che fosse politicamente e militarmente schierata con l’Occidente e alleata degli Stati Uniti, i «nostri amici d’oltre oceano».
«Non dobbiamo quindi dare l’impressione di volere con Bonn, o con Bonn e Parigi, costituire una terza forza europea neutralista in faccia al conflitto in atto tra Oriente ed Occidente: siamo contrati a qualsiasi tendenza di fare dell’Europa una terza forza sul piano politico e che nel campo militare si cerchi di creare uno strumento militare a questa terza forza politica».
Al di là dei tatticismi e dei reciproci sospetti delle due diplomazie, per i due governi la prima visita ufficiale di Adenauer a Roma fu sicuramente un successo. Da un punto di vista simbolico gli incontri italo-tedeschi del giugno 1951 attestarono che era iniziata una nuova stagione della storia politica italiana e tedesca-occidentale.
L’ultimo ministro degli Esteri tedesco a visitare Roma era stato Joachim von Ribbentrop, con l’alleanza nazifascista sullo sfondo come quadro di riferimento in politica estera. Ad incontrarsi nel giugno del 1951 erano i leader di due governi democraticamente eletti, due capi di governo culturalmente orientati verso i valori del cristianesimo e decisamente schierati a favore dell’Occidente.
Nella ricostruzione politica e biografica di Adenauer scritta da Schwarz, il viaggio in Italia del 1951 occupa uno spazio importante. Il Cancelliere tedesco entrò subito in sintonia con il Presidente del consiglio De Gasperi, leader nel quale Adenauer distinse, secondo Schwarz, il «prototipo del federalista europeo». Nel resoconto della riunione del gabinetto federale del 26 giugno 1951 si legge infatti:
«[…] Ritorno [di Adenauer] molto in forma (Sehr frisch zurückgekehrt). Due conversazioni con De Gasperi e il conte Sforza, parecchie ore a quattr’occhi (je mehrere Stunden unter vier Augen). Problema comunista: nessun regresso degno di nota nelle elezioni amministrative […] identità di vedute sulla situazione mondiale (gleiche Auffassung über Weltlage) e sulla minaccia orientale. Sicurezza dell’Europa tramite l’unificazione e gli aiuti Usa permanenti».
In Italia Sforza dichiarò alla stampa che le conversazioni italo-tedesche di Roma «non [erano] state conversazioni bilaterali per lo sviluppo di specifici interessi bilaterali [ma erano] state essenzialmente conversazioni tendenti alla salvezza dell’Europa e della libertà umana». Nel telegramma di congedo, il ministro degli Esteri Sforza riaffermava l’identità di vedute tra l’Italia e la Germania occidentale «per una politica di pace e di libertà in Europa».
Il governo italiano cercò di presentare l’incontro soprattutto in chiave europea, avendo cura di sminuire gli aspetti esclusivamente bilaterali. Tale operazione d’immagine era preparata per gestire allo stesso tempo un piano esterno ed un piano interno. In ambito internazionale la presentazione della visita in un’ottica europea era destinata ad evitare possibili paragoni o parallelismi con la precedente alleanza italo-tedesca: quella dell’Asse e del Patto d’Acciaio.
In politica interna si trattava di controbattere alle accuse provenienti dall’opposizione di sinistra. La stampa di orientamento socialista e comunista, infatti, così come i partiti di sinistra criticarono l’incontro italo-tedesco presentandolo come l’inizio della «risurrezione del militarismo tedesco al servizio dell’imperialismo americano».
Togliatti in segno di protesta inviò un telegramma di omaggio all’“altra” Germania, a Wilhelm Pieck, presidente della Repubblica democratica. De Gasperi in un intervento alla Camera del nove agosto ribadì la fiducia del governo italiano per Adenauer e per la Repubblica federale, criticando l’atteggiamento mostrato da Togliatti e dalla sinistra durante il soggiorno del Cancelliere:
«Adenauer è il cancelliere della Repubblica federale di Bonn che rappresenta l’enorme maggioranza della Germania democratica. Egli è inoltre un cancelliere parlamentare e democratico, e come tale ha diritto di venire a farci visita. Era una visita di cortesia e noi dovevamo accoglierlo con altrettanta cortesia, trattandosi, ripeto, del rappresentante di una Repubblica democratica che ha aderito all’Unione europea e anche di un uomo che era sempre stato contrario al regime nazista e che, come tale, era stato anche tre volte confinato in campi di concentramento. Voi però dimenticate tutto questo e scrivete all’antagonista di Adenauer […]».
L’Europa fu sicuramente un aspetto centrale delle discussioni, ma la prima visita di Adenauer a Roma rappresentò l’occasione per normalizzare (o avviare alla normalizzazione) una serie di questioni bilaterali rimaste insolute al termine della seconda guerra mondiale.
La documentazione riservata del ministero degli Esteri italiano rivela, infatti, che gli argomenti di natura esclusivamente bilaterale occuparono gran parte delle conversazioni tra le due delegazioni. In particolare si discusse della questione delle biblioteche e degli istituti di cultura tedeschi in Italia, di alcune questioni di carattere economico derivanti dagli eventi bellici, della cessazione dello stato di guerra e dei criminali di guerra tedeschi in Italia. È importante ripercorrere brevemente la storia di quest’ultimo punto delle discussioni italo-tedesche del giugno 1951.
Alla fine del 1950 c’era stato un accordo tra l’Italia e la Repubblica federale sulla questione dei criminali di guerra tedeschi in Italia. L’accordo politico fu raggiunto attraverso la mediazione di un parlamentare tedesco della Cdu, Heinrich Höfler, inviato a Roma da Adenauer nel novembre 1950 per ottenere la scarcerazione dei criminali di guerra condannati in via definitiva dai tribunali italiani.
I «prigionieri di guerra» (Kriegsgefangenen) tedeschi – come sono indicati nelle fonti tedesche – al centro delle discussioni tra Höfler e Zoppi al ministero degli Esteri erano: il generale Otto Wagener, il tenente Walter Mai, il maggiore Herbert Nicklas, il caporale Johann Felten (questi ultimi appartenevano al cosiddetto «gruppo di Rodi», dall’isola dove avevano commesso i crimini di guerra).
L’Italia acconsentì alle richieste dell’inviato di Bonn e nel giro di pochi mesi gli ex soldati tedeschi furono tutti graziati con un decreto del Presidente della Repubblica Einaudi. Palazzo Chigi fin dalla fine della seconda guerra mondiale aveva adottato una precisa strategia diplomatica nella questione dei criminali di guerra tedeschi, evitando con cura di sollevare l’attenzione delle grandi potenze sull’argomento.
Anche l’Italia, infatti, annoverava tra i propri soldati dei “presunti” criminali di guerra. Si trattava soprattutto di crimini commessi durante l’occupazione italiana dei Balcani, nella prima parte del conflitto, prima della caduta del regime fascista. Come ha osservato Filippo Focardi (tra i principali studiosi italiani dell’argomento), le remore del ministero degli Esteri italiano:
«erano scaturite in primo luogo dalla preoccupazione per il destino dei cittadini italiani accusati di crimini di guerra, richiesti dai paesi aggrediti dall’Italia fascista. Roma non voleva estradare i propri presunti criminali di guerra e temeva che un’azione contro i criminali tedeschi avrebbe potuto rafforzare le ragioni degli Stati determinati a processare i criminali italiani. La paura di un “effetto boomerang” (come fu chiamato dall’ambasciatore Pietro Quaroni) aveva dunque inibito la conduzione di una vasta azione di giustizia contro i criminali di guerra tedeschi».
Quando nel giugno del 1951 Adenauer giunse in visita a Roma i criminali del “gruppo di Rodi” erano già stati graziati. Otto Wagener era stato graziato con il decreto del Presidente della Repubblica n. 1430 del 15 maggio 1951, Herbert Nicklas il 29 maggio (decreto n. 1438), Walter Mai il 24 aprile (decreto n. 1435), il caporale Johann Felten il 23 febbraio (decreto n. 1412).
La documentazione riservata preparata dalla Direzione affari politici in vista dell’arrivo a Roma del Cancelliere includeva un resoconto dell’intera operazione indirizzato al governo. Risulta, quindi, difficile escludere che l’accordo dell’autunno 1950 fosse stato concordato all’insaputa di De Gasperi e Sforza. Il resoconto sui criminali di guerra tedeschi sottoposto a De Gasperi e a Sforza l’8 giugno del 1951 dalla Direzione affari politici recitava:
«Fin dall’estate 1950 la Missione Diplomatica a Bonn [guidata da Babuscio Rizzo] segnalò che, in relazione al crescente interesse dimostrato dall’opinione pubblica e dalla stampa tedesca per la sorte dei cittadini tedeschi condannati per crimini di guerra, era prima o poi da attendersi in materia una iniziativa ufficiale del Governo di Bonn.
Nel novembre del 1950 infatti fu inviato in Italia, ufficialmente allo scopo di esaminare questioni attinenti al rimpatrio degli internati tedeschi, il deputato Hoefler [Höfler], direttore generale della Caritas e persona molto vicina al Cancelliere Adenauer, il quale prese contatto col Segretario Generale [del ministero degli Esteri: il conte Vittorio Zoppi] sulla delicata questione della concessione di misure di clemenza ai cinque tedeschi che scontavano pene inflitte loro da tribunali militari italiani per crimini di guerra (altri tre erano in attesa di giudizio o avevano ricorso in appello).
A seguito di tali contatti fu stabilito che il Ministero della Difesa, d’intesa con la Procura Generale Militare, avrebbe presentato alla Presidenza della Repubblica successive proposte di condono in modo che i provvedimenti di grazie venissero emanati a un certo intervallo l’uno dall’altro. Naturalmente si decise di trattare la cosa con la massima discrezione; qualche notizia è peraltro trapelata e ha dato luogo a vivaci reazioni sulla stampa italiana di opposizione.
Con l’Ambasciata di Germania si sono avute intese circa la procedure per il rimpatrio dei graziati. Si sono avuti finora due provvedimenti di clemenza e ne è in corso un terzo. Si prevede che verso agosto potranno essere rimpatriati anche gli ultimi due militari tedeschi».
L’ufficiale delle SS Herbert Kappler, tra i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, sarebbe rimasto l’unico cittadino tedesco detenuto in Italia per crimini di guerra fino agli anni Settanta. Si trattava di un “caso” molto noto all’opinione pubblica nazionale per l’efferatezza della strage commessa durante l’occupazione di Roma ed infatti la documentazione predisposta da Palazzo Chigi su Kappler nella primavera del 1951 raccomandava al governo che:
«se i tedeschi dovessero insistere per un provvedimento di clemenza a favore di Kappler che, se adottato, provocherebbe ovvie forti reazioni, si potrebbe rispondere che ci sembra opportuno attendere il funzionamento della Commissione alleata e che già abbiamo avuto difficoltà con gli inglesi per la liberazione degli italiani condannati dalle corti militari britanniche».
Tra gli argomenti discussi durante la prima visita ufficiale di Adenauer a Roma figurava anche il tema della «collaborazione in materia di lotta contro attività sovversive e di difesa delle istituzioni democratiche». Le fonti a disposizione non rivelano, tuttavia, la presenza di una particolare attenzione dell’Italia nel discutere con Bonn su tale questione. Nel giugno del 1951 il documento raccomandava di predisporre generiche collaborazioni bilaterali con scambio di materiale «di propaganda comunista ed anticomunista» sul modello di analoghe intese intercorse tra i ministeri dell’Interno italiano e francese.
In generale i resoconti dei colloqui tra Babuscio Rizzo e i rappresentanti del governo federale a Bonn, così come i rapporti del console Brentano a Roma sugli incontri con De Gasperi, Sforza o con i funzionari di Palazzo Chigi, mostrano la tendenza delle autorità italiane a non affrontare il tema del comunismo in Italia o del consenso riscosso dal Pci nel paese.
Brentano, come si vedrà, osservò con estrema apprensione la forza dei partiti di sinistra in Italia, ma le autorità italiane non discussero mai tale argomento con il console tedesco. La tendenza dei rappresentanti italiani a colloquio con gli inviati del governo di Bonn fu di minimizzare la “presunta forza” del Pci.
Le rassicurazioni rivolte agli osservatori tedeschi includevano un chiaro ed esplicito messaggio: il comunismo italiano andava riconsiderato, si trattava, infatti, di un fenomeno sopravvalutato, un presunto problema che visto da vicino risultava da ridimensionare.
Nel febbraio del 1951, durante un colloquio con il ministro Sforza, Brentano accennò in modo generico alla minaccia bolscevica in Europa ed alla necessità di adottare delle riforme sociali per «togliere terreno alla propaganda comunista». In particolare il rappresentante tedesco osservò che le sperequazioni sociali finivano per alimentare la forza del Partito comunista italiano.
Il ministro degli Esteri Sforza – così come risulta dal rapporto inviato da Brentano a Bonn – contestò le osservazioni del rappresentante tedesco e affermò che in realtà il comunismo in Italia non era destinato ad acquistare molti proseliti perché mal si adattava alla mentalità degli italiani:
«[…] ho detto al ministro Sforza – scriveva Brentano – la mia opinione puramente personale che nei paesi dell’Europa occidentale, soprattutto per combattere la minaccia bolscevica, forse qualche riforma sociale era necessaria […]. Quando ho fatto notare al ministro che io e molti altri osservatori tedeschi avevamo avuto l’impressione che in Italia ci fosse il bisogno di un miglioramento sociale, ho parlato soprattutto del lusso parzialmente invadente qui a Roma e altrove, il ministro si è irritato e mi ha detto che tali mie osservazioni e critiche erano scaturite dall’osservazione della condotta di alcuni grandi industriali e di altre persone facoltose, il cui comportamento era addirittura criminale [per via del lusso ostentato].
Sforza mi ha poi detto che la maggior parte degli operai della grande industria risulta comunista perché è costretta con la forza ad aderire ai consigli di fabbrica comunisti, ma in realtà gli operai aspirano per lo più ai consigli aziendali socialisti […] mi ha poi detto Sforza che il comunismo nella sua essenza poco si adatta all’italiano, il quale è per natura fortemente individualista […]».
Su questo tema si registra, pertanto, una sostanziale diversità di atteggiamento della politica estera italiana rispetto a quanto rilevato dalla storiografia circa le relazioni tra l’Italia e gli Stati Uniti. Diversi studiosi hanno evidenziato, infatti, che negli anni della guerra fredda le autorità di Roma, nonostante il timore di un’avanzata del Pci fosse reale, accentuarono il pericolo comunista per ottenere dagli alleati occidentali e soprattutto dagli americani maggiori concessioni, non solo per ciò che concerneva il sostegno ai partiti moderati, ma anche per quanto riguardava il ruolo internazionale dell’Italia. La debolezza interna, è stato osservato, fu spesso sfruttata e finalizzata all’obiettivo della riconquista di un ruolo internazionale di rilievo.
Nel rapporto con la Repubblica federale i rappresentanti italiani durante i primi anni Cinquanta non strumentalizzarono in nessuna occasione il ruolo della forza comunista in Italia per ottenere vantaggi. La documentazione a disposizione non conserva alcuna traccia di discussioni bilaterali incentrate sulle difficoltà interne aggravate dalla forza del Pci di Togliatti.
Nelle negoziazioni con i rappresentanti tedeschi le autorità italiane evitarono di giocare la carta del comunismo per ottenere eventuali vantaggi economici o appoggi politici. Esistono, invece, diversi indizi che documentano i tentativi della diplomazia italiana diretti a minimizzare i pericoli e le intenzioni eversive del Pci. Per la diplomazia italiana, infatti, ammettere tali pericoli rappresentava un evidente punto debole per i governi De Gasperi e per l’immagine dell’Italia in generale.
Particolarmente indicativo risulta un messaggio segreto di Grazzi del 1956 destinato al Presidente del consiglio Segni e al ministro degli Esteri Martino nel quale l’ambasciatore italiano a Bonn trasmetteva alcune “raccomandazioni” tattiche a suo giudizio indispensabili nel momento in cui si «aveva a trattare con gli uomini politici tedeschi»:
«Il dare impressione che si è in Italia decisi a fare una politica sociale aperta, ma allo stesso tempo a stringere le fila di difesa contro le agitazioni comuniste, è il miglior sistema per guadagnare la stima e la fiducia e quindi l’appoggio in tutte le questioni internazionali. Per contro insistere sul pericolo di una espansione comunista in casa nostra, ai fini di indurre i governanti tedeschi ad un’azione più decisa o in fatto di europeismo o in materia di resistenza all’Est, condurrebbe a risultati opposti».
I suggerimenti proposti da Grazzi nel gennaio del 1956 esemplificano in modo efficace un atteggiamento della diplomazia italiana presente sin dall’inizio degli anni Cinquanta per quanto riguarda i rapporti italo-tedeschi.
Durante i governi De Gasperi la forza delle sinistre non venne mai enfatizzata perché in quel contesto avrebbe nuociuto all’immagine di sé che i dirigenti italiani desideravano mostrare ai tedeschi: una forte stabilità di governo non intaccata da trascurabili problemi di politica interna. In questo modo risultava maggiormente credibile la capacità dell’Italia di esercitare una concreta influenza nella politica europea.
È stato analizzato in precedenza come l’ambasciatore Quaroni lamentasse il fatto che l’Italia stesse aiutando la Germania senza ottenere in cambio «nemmeno un grazie». Sono stati, quindi, esaminati i fattori che concorsero alla formazione della linea di politica estera italiana sulla Repubblica federale tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta.
Tuttavia, fin dall’inizio della presente ricerca si è avanzata l’ipotesi dell’osservazione dei rapporti commerciali bilaterali come un’importante chiave di lettura per la storia delle relazioni tra Italia e Germania (occidentale) dopo la seconda guerra mondiale. La storia del potenziamento degli scambi commerciali tra il 1949 e il 1950 mostra, infatti, come l’Italia percepì la propria condizione di forza rispetto al nuovo stato tedesco-occidentale e rivela anche che in determinate circostanze la «mano tesa al figliol prodigo» in Europa si tradusse in precise richieste negoziali.
In determinate occasioni tra il 1949 e il 1950 l’“amicizia” o l’appoggio italiano alla Repubblica federale nelle questioni di politica estera venne consapevolmente strumentalizzata per ottenere da Bonn migliori condizioni economiche a vantaggio degli interessi italiani.
Solamente a partire dalla fine del 1951, la diplomazia italiana percepì di aver perso tale iniziale condizione di forza. Infatti, nonostante sul piano europeo la collaborazione politica con la Repubblica federale rimaneva ottima, in sede di discussioni commerciali i dirigenti italiani non riuscirono più ad assicurarsi tutte le migliori condizioni economiche attraverso l’utilizzo strumentale dell’appoggio del governo italiano alla nuova Germania occidentale, così come invece era avvenuto tra il 1949 ed il 1950.