“IMI” TRENTINI, INTERNATI, MALMENATI, INGANNATI – 10

DIARI, LETTERE, TESTIMONIANZE

a cura di Cornelio Galas

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FAIT GIUSEPPE  (Noriglio, 1916-1997). Luogo di conservazione dei documenti: presso il nipote Stefano Spagnolli (attuale presidente della Circoscrizione di Noriglio). Tipologia: lettera. Il nipote conserva del nonno un quadro con lettera inviata da Fallingbostel il 14 settembre 1943, la targhetta in legno di riconoscimento nel Lager, fotografie delle località dove è transitato durante la prigionia, due o tre foto di Fait con gli altri due amici durante il “lavoro civile” del 1944/45.

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FANIZZA FERRUCCIO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento. Data di nascita: 1/8/1921; Luogo: Cannobio (NO); Occupazione: studente (dopo la guerra funzionario amministrativo). Tipologia: Diario – memoria. Descrizione: Agenda (cm 10 x 14,7); cc. 50 (di cui 18 bianche. Il testo, scritto durante la prigionia a partire dal 23 febbraio 1944, tra memoria e scrittura diaristica, racconta gli eventi accaduti tra l’8 settembre 1943 e l’11 maggio 1945: la cattura da parte dei nazisti a Rodi; il trasferimento in Germania (via Atene – Versen – Siedlee); la prigionia nel campo di Bremenvorde e in seguito nel campo di Wietzendorf; il lavoro, infine, in una fabbrica di automobili ad Amburgo. Conclude il diario un ironico “ricettario di prigionia”. Note: Del testo esiste anche una seconda copia, trascritta da Fanizza, e integrata con note relative alla fine della guerra e al ritorno in patria. Fanizza infatti rimane ad Amburgo dopo la fine della guerra, per poi essere trasferito in un campo inglese. Ritornerà in Italia attraverso il Brennero e arriverà a casa il 7 agosto 1945. Significative le prime lettere di Ferruccio da Rodi, “indignate” per i bombardamenti americani sulla Sicilia.

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I testi oggetto in particolare del nostro interesse, sono due memorie diario: entrambe partono l’8 settembre 1943 ma si concludono, rispettivamente, nel 1946 e il 5 maggio 1945. Le due versioni, salvo alcuni particolari, sono praticamente identiche. Scegliamo di leggere la prima, che estende alcune annotazioni al 1946. Il neologismo di Fanizza: “… Dal giorno in cui sono stato fatto prigioniero è oggi la prima volta che sono riuscito ad avere un pezzo di carta, che non sia straccia, per potervi impressionare quello che più mi colpirà di questa triste vita da ghefango”. Racconta che l’armistizio lo ha colto a Rodi; dopo alcuni giorni di resistenza gli italiani si arrendono; tenta una fuga in gommone verso la Turchia ma il mezzo va in avaria. Viene trasferito in seguito ad Atene (dicembre 1943). In Germania, a Meppen, ai confini con l’Olanda. Descrizione del pessimo alloggiamento, del misero tenore di vita, del vietato ingresso nel campo ad un funzionario della CRI. Trasferimento il 26.3 1944 al campo di Bremervörde.  Emerge ancora il tema del problema degli IMI meridionali i quali si trovano isolati, mentre il fronte tedesco arretra sulla penisola, nel trasmettere/ricevere notizie verso le famiglie. Il problema è soprattutto quello dei pacchi, che ai prigionieri del nord vengono invece recapitati in abbondanza. Solo il 26 giugno “… finalmente, dopo tanto dire e fare, si sono decisi a consegnare un pacco viveri a tutti coloro che non avevano mai ricevuto nulla. Così anche noi abbiamo potuto varcare quella porta dell’ufficio postale, che sembra voglia lasciar passare solo un privilegiato numero di persone…”. Ma anche in questo caso qualcuno ha già provveduto ad asportare del materiale dal pacco.

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Il tema della sofferenza per fame è assolutamente dominante nel testo. In data 6.12.1944 trasferimento a Wietzendorf. 15.12.1944: è chiamato al lavoro in un’autofficina a riparare motori di automobili.  Trasferimento ad Amburgo. La notizia della fine della guerra giunge il 4.5.1945. Rientro in Italia al principio del mese di agosto 1945. Interessante, nel secondo fascicolo, un elenco di succulente ricette gastronomiche che gli internati si scambiavano per cercare di colmare, almeno con la fantasia, il dolore della fame: “Ricettario di prigionia ovvero “I nostri sogni””, lo chiama Fanizza. Troviamo allora ingredienti e ricette per “Baccalà mantecatto”, “Baccalà alla vicentina”, “Sformato di spinaci”, “Crema di castagne”, “Agliada provenzale)”, “Arrosto sellato”, “Cavolfiori al gratin”, “Gab di patate”, “Minestra di ceci e baccalà”, “Salsicce con torta di ceci”, “Pasticcio di vermicelli alla pizzaiola”, “Risotto alla gastronomica”, “Crostata di vermicelli”, “Crema di piselli con riso”, “Mezzarelli alla siciliana”, “Torta fresca di fagioli con ricotta e mozzarella”, “Consommé alla celestina”, “Crema di legumi al latte”, “Crema verde ministeriale”, “Pomodori ripieni al riso”, “Fettucce alla Napoleone”, “Maccheroni gratinati”, “Involtini di pasta sfoglia”, “Salsa del ghiottone”, “Uova all’americana”, “Soffiato di formaggio”.

FRANCH MASSIMO Luogo di conservazione dei documenti: presso i famigliari. Data di nascita: 9/3/1914; Luogo: Tachesnbach (Linenburg); Occupazione: insegnante (dopo la guerra). Tipologia: diario. Titolo: “Note e appunti di prigionia (8 settembre 1943 – 25 agosto 1945)”. Descrizione: dattiloscritto. Di Franch (1914- 29 maggio 2005), insegnante elementare, poi ispettore e direttore didattico, esiste un diario, emerso dopo la sua scomparsa. Il titolo del testo “in copertina” è Ricordi di prigionia, nel frontespizio interno Note e appunti di prigionia (8 settembre 1943 – 25 agosto 1945). Pagine seguenti: una cartina a china con l’itinerario in Europa di Franch in vari campi di prigionia (Mezzocorona, Bolzano, Innsbruck, Staback, Varsavia, Beniaminowo, Deblin Irena, Ivanograd, Berlino, Sandbostel, Wietzendorf, Hannover).

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Nella “Premessa” l’autore illustra la storia del testo. “Nei quasi due anni di prigionia trascorsi nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, avevo preso qualche nota su di una minuscola agenda che mi ero trovato in tasca. Dopo la liberazione da parte delle truppe alleate, avendo a disposizione anche un quadernetto (“bottino di guerra” già appartenuto alla scolara Müller di Bergen) ho scritto più distesamente qualche ricordo o narrato qualche fatto per il semplice gusto di scrivere o di perdere un po’ di tempo. Recentemente, quelle mie lontane note scompaginate e bizzarre suscitavano l’interesse del dott. Nino Menestrina che, in quei due anni, mi fu fraterno compagno ed amico e divise con me preoccupazioni, sofferenze, speranze e fin l’ultima briciola di pane. Condividendo quei “ricordi” espresse il desiderio di avere una copia di quelle note, sollecitandomi a riscriverle in “bella”. Ciò che sto appunto facendo ora accogliendo il suo desiderio, come pegno – pur dopo tanti anni – dell’antica amicizia che ci univa e che, nelle circostanze di allora poteva assumere il significato di garanzia di sopravvivenza. Ne farò due copie, una per lui e l’altra per me.  Forse obbedisco anche ad un vezzo, ad una strana propensione crepuscolare di ricordare il mio passato e di guazzarvici dentro, magari illudendomi che qualche mio nipote o pronipote trovi qualche interesse nel seguire le mie vicende che, insignificanti per se stesse, fanno pur parte della Storia con la S maiuscola”.

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In questa stessa premessa Franch illustra le sue vicende personali ante armistizio: “Nel dicembre del 1940 ero stato richiamato alle Armi ed inviato sul fronte greco-albanese da cui, rimpatriato per malattia, dopo soggiorni di varia durata negli ospedali militari di Valona, nave ospedale “California” (successivamente affondata) e Gaslini di Genova, ero ritornato a casa nel marzo del 1941. Qui trovai mia madre gravemente ammalata; morì infatti il 14 maggio dello stesso anno. Rientrato al Deposito del 261° Regg.to Fanteria a Bressanone dopo due mesi di licenza di convalescenza, fui successivamente staccato al LII Gruppo Piemonte Reale Cavalleria ed assegnato al IV Squadrone che, come tutto il Gruppo, svolgeva compiti di guardia e protezione agli impianti civili di interesse militare, quali ferrovie, centrali elettriche, dighe, aeroporti. Con tale incarico, col grado di sottotenente prima e di tenente poi, passai successivamente per le residenze di Chiusa, d’Isarco, Ponte Gardena, Ora e Mezzocorona, ove mi colse l’armistizio dell’8 settembre 1943. Comandante dello Squadrone a Mezzocorona era il capitano Giovanni Sfiligoi, goriziano, ufficiale di Cavalleria richiamato, molto buono, ma piuttosto debole e inetto tanto che – anche per le istruzioni ricevute dal maggiore comandante del Gruppo – mi sentivo un po’ responsabile del buon funzionamento di tutto lo squadrone”.

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Il testo consiste in 93 fitte cartelle dattiloscritte, cui si aggiunge un’appendice di documenti (tra i quali alcune pagine fotocopiate dell’agendina, con annotazioni e disegni). Tra i documenti, interessanti disegni. I luoghi della prigionia di Franch sono quelli di molti altri memorialisti qui censiti, quelli dei “campi degli ufficiali”: Deblin Irena, Beniaminowo, Sandbostel, Wietzendorf. Tra gli amici e compagni di sorte, oltre a Nino Menestrina, Giorgio Raffaelli, al quale pure si lega di amicizia, i fratelli Betta ecc. Insomma, per consistenza, qualità e connessione con altri testi ha le caratteristiche per diventare un pezzo significativo del “canone” della prigionia in Germania. NB: Il testo tuttavia non è attualmente di uso pubblico (la famiglia, almeno per ora, non è disponibile a donarlo in copia all’Archivio della Scrittura Popolare). E’ probabile che oltre al dattiloscritto, siano conservate presso la famiglia anche le agendine e il quaderno scritti in Germania. Qualche prelievo antologico: “Stablack, 21.9.1943 Fa un freddo cane, come da noi in novembre. Sdraiati sul letto, con lo sguardo oltre la finestrella, sulla piatta, interminabile terra brumosa, così spesso nascosta da nebbie, anche il pensiero pare raggelarsi e chiudersi inerte, in se stesso. Nella giornata vi sono due soli momenti di attività quasi selvaggia: quando portano il mastello di “sbobba” e quando, al pomeriggio inoltrato, distribuiscono una pagnotta ogni dodici persone con un pezzetto di margherina. Allora si scatenano le furie e non sempre tutti riescono ad aver il loro mestolo di brodaglia. Chi ha libri cerca di ingannare il tempo leggendo. Io sto leggendo “L’amata alla finestra” di C. Alvaro, che ho avuto in prestito. Stamane ci hanno portati come montoni a fare l’immatricolazione. Dovevamo dare le nostre generalità, poi ci davano in mano una tavoletta sulla quale scrivevano col gesso il nostro numero di matricola, dopo di che ci fotografavano tre alla volta, mentre tenevamo alto sotto il viso il cartello. D’ora innanzi sono solo il n. 6759”.

(…) Deblin, 7.10.1943 “Ieri sera mi trovavo nella cameretta dei “boci” a sentire Nino Betta che, dall’alto di un castello, leggeva e commentava Dante alla luce tremolante di una candela sfuggita alla perquisizione. Eravamo tutti intenti al divino poema, quando un colpo secco, seguito da uno schianto di vetri infranti ci fece balzare in piedi: molti si gettarono in terra e la candela si spense. A tutta prima credemmo fosse una fucilata, ma tosto capimmo che una guardia passando e avendo visto la luce filtrare dalla finestra ci aveva reso quel bel servizio. Una voce rauca gridava infatti di fuori con tono arrabbiato e  minaccioso in tedesco di spegnere la candela. Così quatti quatti, ce ne ritornammo nei nostri “castelli” a commentare l’accaduto”.

(…) D.I. [Deblin Irena], 16. 10.1943 “Stanchezza che uccide l’anima. Ho tanto desiderio di pace: sento che la mia giovinezza è finita. Desidero tanto una mia famiglia, un mio focolare ove poter stare tranquillo negli affetti ed attendere allo studio per uscire da quest’ignoranza che mi opprime”.

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(…) 5.11.1943  “Grande animazione nel campo per l’arrivo del Generale Cerruti, rappresentante del governo repubblichino fascista. Non posso assistere all’adunata perché ancora ammalato. Mi sento molto debole. Molti sono delusi perché credevano di poter raggiungere l’Italia a buon presso. Tuttavia le discussioni pro e contro l’adesione – come al solito – sono animatissime. Io sono più che mai fermo nella risoluzione presa a Stablack e con me sono i fratelli Betta e Giuseppe Stefenelli. Verso sera arrivano nel campo della cittadella 170 ufficiali che hanno votato l’adesione alla repubblica Sociale. Marciano con il gagliardetto in testa. Più che schifo ci fanno pietà perché sono tutti vecchi o ammalati ed è forse questo l’unico modo per salvarsi la vita, qui dentro”. (…) Beniaminowo, 21.3.1944 “Nel tardo crepuscolo, passeggiando con gli amici tra le baracche, osserviamo gli stormi di anatre che squittendo volano via come frecce, in formazioni serrate, ad annunciare la primavera nelle regioni orientali del Nord. E la primavera è anche nei nostri cuori, come nell’aria umida, come negli alberi che, pur ancora morti, sembrano scossi da latenti fremiti di vita”.

GIACOMOLLI FRANCESCO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento. Data di nascita: 14/71919; Luogo: Saccone (Brentonico); Occupazione: contadino. Titolo: “Un po in sintesi la mia vita militare”. Tipologia: Memoria autobiografica. Descrizione: Quaderno scolastico; cc. 28.  Nella memoria (1939 – 1945) lo scrivente accenna al suo servizio come attendente a Verona e a Garda. Il 13 febbraio 1943 parte per il Montenegro: permanenza a Cattaro fino all’8 settembre. Rientrato in Italia, viene catturato dai tedeschi e inviato in vari lager. Giunto nei pressi di Graz lavora come cuoco nella cucina del campo. Il 26 aprile 1945 ritorna in Italia. Francesco Giacomolli appartiene al 4° reggimento Genio Guardia alla frontiera del plotone radiotelegrafisti. Il suo racconto fa un riepilogo della vita militare a partire dal 1939. Nel giugno 1940 Giacomolli si trova oltre il Sestrière, sul fronte francese:  “… Il primo paese francese che abbiamo incontrato fu “Moncinevro” e poi un paese molto più grande chiamato “Brienson”. Siamo entrati in azione con i campi minati. Dopo qualche giorno i nostro cannoni hanno smesso di sparare perché colpivano le linee germaniche e così la guerra con la Francia in una quindicina di giorni circa si concluse…”

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Viene poi descritta tutta la serie di passaggi successivi fino al 1943: il rientro del reparto in Brianza, la malattia ad un piede e la conseguente licenza di 40 giorni a casa (autunno 1940). Diventa attendente di un maggiore a Verona (1941/42) e gode di una certa libertà e tranquillità. In seguito trasferimento a Garda sempre come attendente (luglio 1942). Nel febbraio 1942 viene imbarcato da Bari per Cattaro, in Dalmazia. Dimora in un albergo con il maggiore (bolognese) di cui è attendente.

Al presidio di Cattaro – ricorda Giacomolli – c’erano circa 3.000 soldati italiani. Molto belle le pagine sull’esperienza in Dalmazia e sulla vita militare degli italiani colà presenti. 8 settembre 1943: battaglia tra 3.000 italiani e 5/600 tedeschi appostati a valle. I tedeschi in un primo momento si arrendono con la bandiera bianca. Poi arrivano gli Stukas germanici che costringono gli italiani alla resa. Imbarcati via nave fino a Venezia e poi trasferiti su carri bestiami diretti al Tarvisio. Arrivo al campo di smistamento Stammlager 18.A. Pane nero e margarina, furto di tutti i beni posseduti.

“Siamo ripartiti e dopo arrivati a Cafenberch ci hanno fatti scendere e di lì a piedi fino al campo di lavoro Ransenplatò Lager. Qui ci siamo fermati 18 mesi circa. Il campo di concentramento era su un altura in mezzo ai prati. Appena entrati qui, c’erano subito gli uffici e il comando tedesco poi le cucine e un’infinità di baracche, dove poi ci hanno sistemati anche noi”. Lavora in una fabbrica che produce pezzi per carri armati. Il 12 ottobre 1943 viene trasferito nella Stiria austriaca, non molto lontanto da Graz. Molto importante l’episodio dell’omicidio di un collega marchigiano di Giacomolli, padre di due figli, ucciso con un colpo di calcio di fucile in testa: “… Gli assassini dissero in tedesco: “Ecco che fine fanno i badogliani”. In poche parole per loro noi eravamo dei soldati da ammazzare…”.

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Imparando un po’ di tedesco riesce ad ottenere un lavoro in cucina dove – ovviamente – riesce a mangiare qualcosa di più. Nel campo ci sono altri trentini: Mario Caldrer di Sabbionara, un certo “Riolfati” di Rovereto, uno di Volano (“Moientale”), uno di Arco (“Depentori”) … Lavorando in cucina ci descrive le “ricette” standard del campo: “… Si riempivano a 3 quarti le caldaie, poi si metteva un certo quantitativo di rape e crauti, qualche busta di cumino, un pò di margarina e si faceva cuocere. A fine cottura si scioglieva nell’acqua un pò di farina bianca e poi si rimetteva a bollire ancora questo perché rape e crauti si legassero fra loro. Ogni giorno il “regnensunführer”, cioè il magazziniere, ci dava il quantitativo di spesa. Anche la razione non poteva variare: per tutti un mestolo di questa brodaglia per ciascuno, un mestolo più piccolo di patate lesse e un cucchiaio o due di sugo fatto con margarina e paprica che veniva usato come condimento delle patate”. Fatto eclatante per la sua tragicità: 20 agosto 1944, si presenta al lager un colonnello repubblichino per propagandare l’adesione degli IMI alla RSI. Quando viene chiesto ai prigionieri di farsi avanti nessuno si muove. Ascoltiamo il tragico racconto di Giacomolli: “… A questo punto una delle SS ha scaricato il suo mitra sui prigionieri. Tre sono rimasti uccisi e gli altri sono subito corsi nelle baracche a gambe levate (io lì non c’ero perché noi della cucina dovevamo fare da mangiare)”.

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Racconta della morte per malattia del Depentori di Arco: “L’hanno portato al cimitero con una camionetta. Li hanno scaricato la bara, l’hanno aperta e lui era dentro nudo e la cassa foderata con della carta. Poi hanno ribaltato la cassa dentro la buca e poi l’hanno coperta. Pensate voi che fine si faceva anche dei morti. D’altronde la cassa serviva anche per altri… Ora vi racconto una sera nella quale ho avuto un sacco di paura e me la sono vista proprio brutta. Stavo ritirando i bollini, fuori nevicava e faceva un gran freddo. I miei amici erano lì che aspettavano e facevano un gran baccano dalla stanchezza e dalla fame. Ad un certo punto mi vedo arrivare in cucina il lagher führer arrabbiatissimo con in mano un mauser 24 colpi. Li subito iniziò ad insultare senza guardare in faccia nessuno e poi puntò la pistola contro la fila che veniva avanti. Io non so ancora come ho fatto: ho dato un colpo spostando il braccio del lager Führer e i colpi sono esplosi sotto il tetto della baracca. Non fece nessun commento e se ne andò. Di li a un pò arriva un soldato che mi disse che dovevo presentarmi dal comandante che mi voleva parlare. Io spaventatissimo non sapevo più cosa fare; anche i miei amici pensavano che forse per me era finita. Nel fare quel pò di strada che ci distanziava me e il comandante, ho detto persino una preghiera. Il mio aguzzino era seduto al suo tavolo. Sembrava abbastanza tranquillo. Aveva davanti a lui una bottiglia e un bicchiere di cognac pieno: giuro davanti a me stesso che non mi sembrava vero di vederlo così rilassato. Mi fece sedere. Subito mi disse che avevo fatto molto bene a deviare quel colpo altrimenti lui avrebbe avuto ancora una volta molte vittime sulla coscienza. Poi mi disse anche: “Sai anch’io sono cattolico”. Mi fece infine bere un pò di quel liquore e poi mi disse che potevo andare. Quando ritornai i miei amici non sapevano più cosa dire. Io gli raccontai tutta la nostra breve discussione e poi ci siamo messi tutti a piangere insieme. Da quel giorno il comandante cambiò moltissimo: ora almeno con lui si poteva ragionare”.

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Attraverso una famiglia di austriaci poco distante ascolta clandestinamente la radio e sente, il 26 aprile, una notizia attraverso Radio Milano: “… non credevo alle mie orecchie: il generale Cheselinc [Kesselring] si era arreso e così l’Italia era finalmente libera e la guerra era finita”. Giacomolli e il gruppo di trentini suoi amici (a cui si è aggiunto, da marzo, un brigadiere dei carabinieri di Borgo Valsugana, tale Greter) decidono di partire subito per l’Italia (nella quale rientrano in treno attraverso Villach).

“… Quello che c’é scritto qui è tutto vero e non voglio sentire “Mi sembra impossibile” o altri dubbi, per le SS era tutto possibile e tutto permesso. Però mi raccomando pensate sempre che quello che ha scritto ha fatto appena la quinta elementare”. In appendice alcune canzoni che cantavano gli internati.

GIORDANI CARLO Luogo di conservazione dei documenti: presso le figlie. Copia in Museo storico in Trento. Data di nascita: 30 luglio 1913; Luogo: Rovereto; Occupazione: Perito agrario, negoziante. Titolo: “Giordani Carlo classe 1913 / Via Paganini 31 / Rovereto (Trento) / richiamato”. Tipologia: Diario. Descrizione: 1) Agenda tascabile (cm 9,5 x 6,5), copertina telata verde, pp. (numerate a stampa) 220. 2) Agenda tascabile (cm 10,5 x 6,5), copertina telata nera, cc. 205. Il diario è steso su due agendine prestampate del 1941 e del 1943. Nella prima Giordani, sbarcato a Tripoli nel gennaio 1941, annota gli spostamenti del proprio reparto (Sirte, Bengasi), riporta qualche notizia sul l’andamento della guerra; registra i bombardamenti effettuati dall’aviazione inglese. La seconda agendina contiene poche e scarne note relative al 1943, per poi infittirsi dopo l’otto settembre, quando Giordani, fatto prigioniero dall’esercito tedesco, è inviato in Germania (a Schönebek, nei pressi di Magdeburg). La medesima agendina contiene, negli spazi rimasti bianchi, anche il diario del 1944: sobrie note quotidiane sull’internamento e il il lavoro coatto. Note: Carlo Giordani nasce a Rovereto nel 1913. Allegate alle agendine 12 fotografie con immagini della Libia e della Germania dopo la liberazione. Le pagine dell’agendina 1943 vengono impiegate per narrare il periodo 3.1.1944 – 1.1.1945, quando il racconto si interrompe. A settembre 1943 si sovrappongono i diari del 1944 e quelli mancanti relativi al periodo settembre/dicembre 1943. Il materiale disponibile sul periodo dell’internamento è quello relativo al periodo cronologico 8.9.1943 – 1.1.1945. La calligrafia è minuta e di non facile lettura. Di tanto in tanto, su alcuni spazi liberi dell’agenda, Giordani annota nomi, cognomi e indirizzi di internati incontrati nei campi.  1943. 8.9.1943: “Ore 18,30 notizia dell’armistizio”. 9.9.1943: “Proposta del comando tedesco di disarmarci”. 11.9.1943: “… Ore 14.30 si consegnano le armi”. 13.9.1943: “Siamo prigionieri dei tedeschi”. 24.9.1943: “Partenza da Tripoli” (il che ci informa che alla data dell’armistizio il nostro si trovava nella guarnigione libica”). 1.10.1943: Durante il trasporto in Germania avviene uno scontro ferroviario con 2 morti fra gli internati. 7.10.1943 Arrivo al campo di concentramento. 14.10.1943: “ Si parte per la destinazione del lavoro: in un zuccherificio”. Per raggiungere la destinazione viene impiegata l’autostrada Berlino-Hannover. 16.10.1943: “Lavoro la notte nel reparto essicazione delle polpe di bietole, lavoro pesante a riempire i sacchi”. 17.10.1.943: “Lavoro la notte. Siamo maltrattati”. 1.11.1943: “… I soldati si rifiutano di lavorare ma vengono obbligati sotto la minaccia del fuoco dei fucili. Vengono rinforzate le sentinelle”.

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4.11.1943: “… Ho visto picchiare il mio compagno di lavoro, poi esser minacciato con la baionetta, perché lavorava piano dalla stanchezza”. 21.11.1943: “… Faccio la notte. Si lavora 18 ore, dalle ore 12 di oggi alle 6 del mattino di lunedì. Quando finirà questa vitaccia?” 27.11.1943: “… Si lavora fino a domani alle ore 12 del mattino (18 ore)”. 13.12.1943. “Cambio di destinazione, trasferito verso un altro paese” (che non deve essere molto distante in quanto viene raggiunto nel corso del pomeriggio).

Il paese in cui si trovano Giordani e compagni é Schönbeck: “… Siamo alloggiati in una sala di un teatrino di una frazione di “Sönbek”[sic]: cittadina a 16 km. da [?]. Passa vicino il grande fiume Elba. Il locale è sano, pieno di luce, pulito, con abbondanza di acqua, riscaldato da due grandi stufe che funzionano a carbone; anche i gabinetti sono puliti. In camerata si dorme in mutandine e scoperti dal caldo che fa. Non possiamo lamentarci dalle condizioni di vita. Anche in fabbrica al sabato abbiamo la possibilità di fare una buona doccia, con acqua calda e fredda. Abbiamo a disposizione, finito il lavoro giornaliero di magnifici lavandini con acqua calda e fredda per lavarci”.

25.12.1943: “… Mi sforzo a leggere un romanzuccio ma non riesco perché il mio pensiero è sempre rivolto a casa, ai miei famigliari. Penso al Natale 1944 dove sarò. In complesso: al confronto al Natale 1941 questo lo ho passato in migliori condizioni”. 28.12.1943: “Ho l’impressione che i tedeschi odiano gli italiani, abbiano dimenticato quanto sangue fu versato assieme in diversi campi di battaglia”. 31.12.1943: “Il Serg.Magg. Bortolotto, in fabbrica ha preso una scudisciata in testa, con rottura della pelle, tanto da dover essere fasciato perché era andato a vedere se era rimasto del rancio in una marmitta del refettorio delle donne russe…”. 1944. 3.1.1944: “Dalle ore 3,15 alle ore 3,20 di stamane sono passati sopra noi molti aerei Anglo americani. Si crede sia stato bombardato Berlino. Questa mattina andando al lavoro si vede in lontananza verso Berlino un grande incendio”. 9.1.1944: “Non lavoro. Lavo la biancheria, mi faccio un porta cucchiai. In camerata è appeso un avviso per i soldati Italiani Internati ai quali può essere ridotta la razione viveri a metà se non rendono nel lavoro”.

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I racconti proseguono con brevissime annotazioni giornaliere relative, per la maggiore, a bombardamenti. La località citata, dove si trova anche la fabbrica nella quale lavora Giordani, è Schönbeck. Questo edificio viene distrutto dai bombardamenti in data 22.1.1944. Fine gennaio 1944 primi di febbraio 1945: lavoro allo sgombero di macerie. Poi riprende il lavoro in una fabbrica anche se non è ben chiaro che cosa venga prodotto; parla di “tubi di polvere” (da sparo?), di lavoro “al bagno di parafina” (14.2.1944). Tra la fine di febbraio e il principio del mese di marzo emerge una profonda stanchezza fisica ma ancor più psichica di Giordani; a fronte di un lavoro anche molto duro la razione di cibo è del tutto ridicola e irrisoria. Il 13 marzo l’autore sottolinea che i turni di lavoro sono diventati di ben 12 ore l’uno (viene corrisposto uno stipendio). Singolare, 24.3.1944: “… Assistii ad una dimostrazione di greci, circa 400-500… per una vittoria riportata nel 1821 sui Turchi”. 27.3.1944: “Oggi ho scaricato due vagoni di Nitrato ammonio, uno dei quali veniva dall’Italia. Ho lavorato molto ma non sono molto stanco. La settimana scorsa sono stato bene, senza stanchezza o fiacca”. 28.3.1944: “Lavoro a scaricare un vagone di solfato ammonio che arriva dall’Italia (Porto Marghera – Venezia)”.

Passano i mesi con poche, sporadiche, essenziali annotazioni (del tipo, 9.5.1944 “Giornata di lavoro però non molto stanco. Ho avuto una lettera da casa e da Carla”.  13.5.1944: piccolo vocabolario con 8 termini italiani tradotti in tedesco (Vacca, bue… frumento, orzo, segala). 6.6.1944: “Si parla di sbarchi in Francia”. Verso la metà di giugno Giordani sta male, una forte e persistente emicrania a fronte di 12 ore di lavoro notturno quasi sempre ricorrenti. Dolori alla testa e al collo che si ripetono con intensità variabile ma pur sempre forte. 20.8.1944: “Abbiamo firmato per il passaggio a civili”. 30.8.1944: “Libero!! Non più internato grande gioia”. 31.8.1944: “Vado al lavoro senza poliziotto”. 1.10.1944: “Domani, dopo un anno, per la prima volta vado a Messa”. 7.10.1944: “Smetto di fare il diario”. 10.11.1944: “Prendo 40 Marchi di paga. Cosa posso comperare? Nulla”. 24.11.1944: “Per la prima volta ho portato sacchi di nitrato ammonio dal peso di 100 Kg!! Ne abbiamo caricati su un vagone pianale 100 sacchi. Non mi sento stanco per nulla”. 20.12.1944: “E’ saltato un reparto (capsule). Vi sono 5 o 6 morti e molti feriti. Il dopo pranzo devo andare a estrarre dalle macerie 2 ragazze morte. Quale pietoso quadro si presenta ai miei occhi”.

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 LAZZARONI OSVALDO Luogo di conservazione dei documenti: ASP (Archivio della Scrittura Popolare), Trento. Data di nascita: 19/10/1906; Luogo; Passirano (Brescia); Occupazione: ? Tipologia: diario. Diario di prigionia (8 settembre 1943 – 20 settembre 1945): catturato a Pavia il 9 settembre Lazzaroni è internato dapprima ad Hammerstein, per poi essere trasferito in un’azienda agricola. E’ poi spostato a Dusseldorf, Neandertal, Meppen, Colonia, Pederbon, Altenbeken. Nel dicembre 1944 è a Rhede (“6 km. Olanda”; “in un ex teatro con tutte razze – Fortificazioni linea Olanda”). Liberato dall’esercito statunitense in aprile 1945 è a Liegi e poi in Francia. In settembre giunge a Brescia. Le note si riferiscono ai frequenti spostamenti, alla violenza esercitata dalle guardie (“Prese le bastonate, col fucile, dalla sentinella”), al duro lavoro cui è sottoposto. Poi lettere e cartoline postali dalla prigionia (1943 – 1945). Le lettere non sono così esplicite, rispetto alle condizioni della prigionia, come il diario, poche le informazioni (“facciamo il boscaiolo”), pochi i riferimenti geografici (la Selva Nera, la Renania, Colonia). Indirizzate alla moglie Mary offrono rassicurazione e speranza; chiedono informazioni sullo stato di salute dei figli e dei familiari. Nato a Passirano in provincia di Brescia nel 1906, morto a Brescia nel 1960, Lazzaroni rientra nell’ambito del nostro censimento solo perché i suoi documenti sono stati versati all’ASP.

Prendiamo in esame innanzitutto il diario. Il racconto di Osvaldo Lazzaroni prende il via alle ore 19 dell’8 settembre 1943 (erroneamente indicato 9 settembre); il protagonista ci riferisce di avere udito alle ore 20,00 il messaggio di Badoglio: “Si canta ma certi ufficiali invitano ad essere calmi perché la situazione è grave. Veniamo armati e molti escono di servizio pubblico”). Non abbiamo ancora alcuna indicazione circa il luogo dove si trova il testimone. Quest’ultimo ci riferisce che i soldati italiani tentano una fuga dalla Porta Cariaggio, ma vengono respinti – pistola alla mano – dall’ufficiale di guardia. Solo un’ora più tardi (ore 11 del 9.9.1943) le porte vengono aperte, ma è troppo tardi: i tedeschi hanno già circondato la zona. L’11 settembre 1943 “veniamo portati alla Caserma Umberto scortati dalle SS davanti al palazzo R.R.P.P., imprecazioni da parte della Popolazione perché i tedeschi non ci lasciano consegnare ai civili cartoline e lettere da imbucare e questi ci invitano ad essere calmi ed aver coraggio”.

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Il 13 il gruppo di prigionieri viene condotto in stazione a caricato sulla tradotta per la Germania: alle 20,00 giungono a Verona. All’indomani, 14 settembre, alle ore 4,00 ripartono e raggiungono Bolzano (18,00) e il Brennero (23,00). Il 16 sono a Monaco (ore 9,00), quindi a Norimberga (17,00). Il 17 sono a Francoforte (20,00). Il 18 ad ore 13,30 giungono ad Hammerstein: “Scesi per recarsi al campo concentramento che arrivammo alle 16,00. Visita al corredo con ritiro della roba più bella. Dormito per terra”. Il primo rancio viene distribuito solo alle ore 18,00 del 19 settembre (“orzo, pane e burro”). Il 21 settembre: “Propaganda per arruolamento volontari nelle truppe SS. Hanno aderito in 150 e partiti in 7 (causa assegnazione destinazione ignota)”. Lo stesso giorno viene fatta la fotografia agli internati e “piastrina con impronta digitale”. Nei giorni successivi viene trasferito in un’azienda agricola dove lavora dalle 7 alle 12 e dalle 13,30 alle 19,30, nella “raccolta e copertura patate”. Vengono annotati con precisione gli orari del lavoro: il 1 ottobre lavora dalle 7 alle 12 e dalle 13,30 alle 19. Nei giorni successivi violenze dalle guardie: “Prese le bastonate, col fucile, dalla sentinella… Viva indignazione di tutti i compagni Polacchi e Russi. Fatto rapporto”. Il 3 novembre … di ritorno dall’acqua presi un pugno alla nuca che mi mandò in mezzo ai binari. Escoriazioni mano sinistra relativo braccio, come pure il destro”. Nello stesso giorno Lazzaroni ci segnala l’omicidio di un soldato italiano per avere fatto i suoi bisogni senza autorizzazione. In viaggio da Hammerstein, arrivo a Düsseldorf dove viene impiegato per conto organizzazione Todt; ancora violenze con schiaffi e pugni. 13 dicembre 1943: “Lunedì. Tutta la notte ricordo la mia famiglia non potendo dare loro notizie ed averne, e non poter esser presente per allietare i miei piccoli e la mia Mary in occasione di Santa Lucia”.

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Il magazzino dove lavora Lazzaroni si trova in località Neandertal. Riesce a scrivere a casa per la prima volta solo il 15 dicembre 1944. In questo periodo risulta trasferito a “Blaukenloch” (cita anche la località di “Villniggen” o “Villingen”). Il 27 giugno denuncia il proprio deperimento organico (peso kg. 54). L’11 settembre trasferito a Meppen; il giorno successivo a Colonia. Nei giorni successivi a Pederborn. Il 4 dicembre segnala la località di Altenbeken. Il 14 è a Rhede (“6 km. Olanda”): “In un ex teatro con tutte razze – Fortificazioni linea Olanda”. Il 31 dicembre scrive: “Terminato l’anno 1944 con suoni balli e canti ma il pensiero mio sempre alla mia Mary, ai miei bimbi, genitori e parenti tutti. Dove sarà, cosa penserà la mia Mary? I bimbi miei ed essa godranno di buona salute? L’anno 1945 sarà portatore di buone nuove? Ritornare alle proprie case, quale desiderio! Quale tristezza nel mio animo privo di notizie dal giugno!”

Eloquente questa annotazione del gennaio 1945: “CIVILTÁ TEDESCA= Trattamento degli internati come schiavi. Obbligati a qualunque lavoro sotto pena di schiaffi, pedate, bastonate, ecc. Mangiare insufficiente come quantità e nutrimento. Nessuna libertà d’azione e di far valere i  propri diritti. Rovine di famiglie, di giovani e nessun freno alla prostituzione fra le donne internate. Si assiste a cose che fanno piangere qualunque cuore. Si vive fra la durezza d’animo che a noi “Italiani” fa molto male… Che orribile!”

Il 16 febbraio 1945 partenza da Rhede per Dingden: “Sempre più vicini al fronte. Cannone che tuona e passaggio aerei. Paese bombardato e mitragliato”. Il 28 febbraio vede passare dei prigionieri russi e 30 italiani combattenti sul fronte olandese, appena fatti prigionieri. “Vestiti bene e a chi ebbero il piacere di vederli dissero: Coraggio ragazzi, finisce presto! Passaggio artigliere e carri Armati…”.

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Il 4 marzo giunge voce che la prima linea sia a 20-25 km dal campo di Lazzaroni. 11 marzo: “Il fronte si stringe. Colonia e Düsseldorf cadute”. Il 28 marzo 1945: “A 30 km Münster 2 caccia ci mitragliano. 4 morti 5 feriti fra cui il sottoscritto con n. 5 ferite. Fasciati ma non medicati ci portano sotto un porticato sulla paglia. Promettono invio ospedale e venuta medico per medicazione ma solo parole!” All’indomani il gruppo di feriti cui appartiene Lazzaroni si ritrova abbandonato dai tedeschi, senza alcun soccorso: “Ufficiali e soldati ci vedono ma non hanno pietà, non rispondono neppure ai nostri appelli. Convinti che per noi è più morte che vita ci ricoveriamo nella casa vicina coricandoci sui letti. Una buona rivista alla casa, uova, pane, latte, caffé. Arriva il proprietario che ci ricovera in una stalla, pazienza, prima di morire tutte bisogna provarle, ci si adatta a tutto”. Alle ore 17 Lazzaroni annota: “Si sente la mitraglia ed infatti giungono i feriti. Il cannone tuona sempre più e la mitraglia fa la raganella. Da un momento all’altro si prevede il crollo della casa e Noi (4) le povere vittime. Tutti ricordiamo le nostre famiglie. Quante volte ho guardato, ricordato tutti i miei cari. Dicevo “Addio, Addio mia Mary, miei bimbi, miei genitori. A mia madre dicevo: presto ti raggiungo. La stanchezza e la debolezza (dal 27 alle 12 che non si mangiava) ci fece addormentare. Svegliatomi fra la notte mi sembrava capire che il cannone sparasse più oltre di noi e la Mitraglia si sentiva da una parte sola, Americana, certo! Ebbi la sensazione che il pericolo maggiore fosse passato”. Il giorno successivo si spalanca la porta ed entra un soldato americano che sorprende i feriti italiani. Dopo poco arriva un’autolettiga che li conduce all’Ospedale. “Ci fu offerto biscotti e sigarette. Prima di sera passammo da tre ospedali, medicazioni, iniezioni e radiografie. Alle 19 entravo in sala d’operazione, nr. 9 schegge gamba destra, 3 gamba sinistra alla superficie gialle, e 4 tallone sinistro”.

La sera del 31.3.1945 viene condotto in treno in territorio belga (“trattamento ottimo su tutto, mangiare buono, pillole, iniezioni”. Il primo di aprile giunge a Liegi. Il 5 aprile viene condotto in Francia. Lazzaroni, grazie alle attente cure degli americani, riesce a riprendersi un giorno dopo l’altro. La notizia della fine della guerra anche in Italia rincuora il protagonista e i suoi compagni italiani. Tra giugno e luglio 1945 viene trasferito dagli americani in campi di lavoro dove gli ex internati sono impiegati nel recupero di munizioni; riesce a scrivere più volte a casa. In agosto è a Tolone e vive ogni giorno nella speranza di poter tornare al più presto in Italia. Finalmente il 20 settembre viene condotto sul confine italiano, via Domodossola: alle ore 17,00 giunge a Novara. Il mattino successivo giunge a Brescia, quindi raggiunge Monterotondo (Bs) – che scopriamo essere il suo paese di origine: “Quale soddisfazione rivedere la mia Brescia, i miei cari bimbi, la mia Mary (che tanto ha sofferto e tribulato), mio Padre, i miei suoceri (che tanto hanno fatto per la mia famigliola), i miei fratelli tutti. Quale gioia nel rivedere tutti in buona salute. Non mi sembra vero rivivere fra tutti i miei cari e ricordare il tempo passato prima e durante la prigionia. Non è un sogno, no, una realtà vera e propria. Mai più pensavo ritornare in Patria, fra coloro a cui sono legato dai più grandi affetti. Ora riprendere la vita di famiglia, la vita di civile. Evviva la libertà! A morte coloro che non conoscono affetti, che non sanno amare il prossimo!”

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Conclude lo scritto un elenco di nomi ed indirizzi di internati (quasi tutti della zona lombarda). Dal documento di due pagine intitolato “Pro Memoria” apprendiamo che l’8 settembre 1943 Lazzaroni era arruolato presso il 3° Rgt. Genio in Pavia. Questo scritto è molto interessante perché, dopo avere ripercorso le date e i luoghi di transito nella prigionia, propone una sorta di diario delle pratiche seguite nel dopoguerra per avere un riconoscimento della propria attività di internato (viene illustrato il vero e proprio “calvario fisico derivante dall’esperienza di prigionia”).

Conviene qui ripercorrere questi passaggi: “Novembre 1945. Tramite Ass.Comb. fatto domanda di pensione”. “27 aprile 1948. Sottoposto a visita collegiale con proposta 59 Ctg. per Nefrite. Ferita alla gamba e reumatismi spalla destra”. “Luglio 1948. Tosse catarro e sudori notturni”. “Il 6 Nov. 1948 ricoverato nel Sanatorio di Villa delle Rose in Fasano del Garda. Furono eseguiti ripetuti tentativi di phx [?] con esito negativo per esiti di pleurite riferibili al periodo di internamento in Germania”. “[?] mbre 1948. Visitato dal Dott. Fadini e trovato affetto di TBC” “[?] re 1948. Tramite Ass. Naz. Comb. trasmessa a Roma domanda di visita per aggravamento (quando invece dovevo fare domanda di nuova visita ma ciò fu per consiglio errato). Detta domanda non fu possibile rintracciare benché si scrisse parecchie volte al Comitato Centrale Ass. Naz. Comb. Reduci in Roma”. “Marzo 1949. Inoltrata domanda di nuova visita”. “[?] 1950. Chiamato alla visita collegiale per rinnovo 5° Ctg. Alla Comm. Medica ho fatto presente ch’ero affetto di TBC e che avevo in corso la domanda di nuova visita. Ho chiesto che venisse segnata a verbale ma ciò fu negato perché, mi si disse, non avevano alcun ordine in proposito da Roma. In seguito a mia insistenza mi accordarono che venisse segnata in Rubrica a fianco della diagnosi delle altre infermità”. “[?] re 1950. Presentatomi per il Dispensario Antitubercolare”. “Il 19/6/1950 trasferito al “Camillo Golgi” in Brescia”. “Il 4/7/1950 ritornato a Fasano del Garda”. “Il 27/3/1951 trasferito al “Camillo Golgi” in Brescia per essere operato di Toracoplastica”. “Il 23/4/1951 ritornato a Fasano del Garda”. “Il 27/11/1951 trasferito al “Camillo Golgi” in Brescia per secondo intervento di Toracoplastica”. “Il 5/1/1952 ritornato a Fasano del Garda”. “Il 15/3/1952 dimesso per stabilizzazione”. “Il 6/7/1952 ricoverato nuovamente a Villa delle Rose in Fasano del Garda”. “Il 5/8/1953 trasferito a Villa Bianca in Brescia”.

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Un esempio della corrispondenza. Il 5 giugno 1944 la moglie gli scrive: “Mio caro Aldo, non so se questa mia ti giungerà ma confido nella gentilezza di chi la censurerà che cercherà di farla proseguire poiché è tanto poco quello che ho potuto scriverti! Spero avrai ricevuto le mie precedenti, onde così tranquillizarti un pò, la nostra salute è buona, i piccoli sempre ti ricordano e attendono il tanto atteso ritorno! La Annamaria continuamente ti chiama ed alla tua fotografia non fa che mandare baci, bisogna vedere come è carina. Afra continua la sua scuola, è fra le più brave, ha conservato tutti i quaderni perché li vuol far vedere al suo papà. Gianfranco è un birbante, dice che è stanco di aspettarti poiché non vieni mai. Siamo sempre a Monterotondo, ho una voglia di ritornare alla nostra casa, giorni beati quelli! Ma verranno ancora vero? Nel nostro appartamento c’é lo zio Paolo (provisorio). Vittorio ha scritto, è ancora dove era prima. Camillo nulla ancora. Dalle mie precedenti avrai appreso la morte della povera Ester, anche questa ci voleva, ti dico che ancor oggi non mi so convincere! Tuo papà stà bene, è venuto due o tre volte costì, e l’ultima volta con la Sig. Emma, ho fatto questo sacrificio solo per te mio caro, così è rimasto contento anche tuo papà. Il buon Dio vorrà così esaudire le mie preci, facendoti ritornare presto fra i tuoi cari che non attendono altro che questo giorno. A te mio caro Aldo forza e coraggio, la tua Mary ti è sempre vicina e prega per te unitamente ai tuoi cari piccoli. Quando sarà quel bel giorno in cui ci potremo rivedere? Speriamo presto…”.

Interessante, sempre nella corrispondenza, fotocopia dell’originale della lettera che Lazzaroni inviò il 13 settembre 1943 durante il viaggio verso la prigionia:  “Cara Mary, stamane partendo da Pavia ho visto la Signora Filotelli di Brescia moglie di un altro militare al quale ho consegnato una cartolina per te e [?]. Mary, cara animo e coraggio, ambedue dobbiamo [?]… Tutti forti e sempre animo sereno! Non so dove ci [porteranno? fermeranno?], ti sembrerà strano eppure è così! Ti raccomando i bimbi e tu non farti mancare nulla. Riguardo allo stipendio non ò ancora ottenuto quel documento… Sono stato richiamato il 18/8… Ci troviamo verso Mantova e colà la consegnerò per imbucare. La mia salute sempre buona come il morale. Ai bimbi più cari baci con saluti… A Te infiniti baci e abbracci. Tuo aff. mo Aldo”.

LIBARDI DARIO Luogo di conservazione dei documenti: Dario Libardi e i sui famigliari.  Libardi l’8 settembre 1943 si trovava in servizio in Italia, a Firenze; una volta fatto prigioniero venne trasferito il 15 settembre 1943 dalla stazione di Campo di Marte al campo di smistamento di Memmingen, da cui viene poi trasferito in diversi altri campi. Tra i documenti del Libardi spicca il consistente epistolario. Sono una cinquantina tra cartoline per prigionieri di guerra e lettere in busta (con netta prevalenza numerica delle prime). Ci sono lettere da e per la famiglia (residente a Novaledo. Tra gli altri materiali si segnalano un’autobiografia recente di nr. 10 pagine scritta a mano su fogli protocollo (con molte informazioni anche sul periodo della prigionia in Germania) e “Cronistoria di un internato militare in Germania”, schematico riepilogo autobiografico dell’esperienza di prigionia. Ci sono inoltre copia del foglio matricolare; una scheda originale tedesca impiegata per classificare gli IMI nei Lager, sprovvista della fotografia di riconoscimento (appartenuta a tale Torquato Tassi di Prato); la fotografia a colori di una tazza in ceramica che il Libardi prelevò nella fabbrica dove lavorava in Germania (fabbrica che appunto produceva questo tipo di materiali; sul piccolo recipiente è ben visibile il logo della ditta produttrice, Otto Ramstetter Werk).

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MAESTRI ANTONIO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento. Data di nascita: 26/5/1912; Luogo: Carisolo; Occupazione: Arrotino. Titolo: “Annotazioni e Diario”. Tipologia: Diario. Descrizione: 23 quaderni di misura diversa: coprono gli anni dal 1927 al 1975.  Diario dal 1927 al 1975. Le annotazioni riguardano innanzitutto le attività lavorative di Maestri: arrotino in Emilia (a Molinelle) da novembre a marzo e vaccaro nelle malghe di Carisolo, in estate. Si aggiungono le notizie familiari, più frequenti dopo il matrimonio avvenuto nel 1949. Altre note riguardano le condizioni atmosferiche, la cronaca locale (di Carisolo e di Molinelle), i nati e i morti del paese. Il diario inoltre contiene il bilancio professionale e familiare. Quattro notes contengono il diario 1939-1945. Richiamato sotto le armi, Antonio Maestri presta servizio presso il reparto della “Sanità alpina” della 5° Divisione alpina “Pusteria”. Dal 1940 fino all’estate 1943 è in Albania e in Montenegro. In agosto il reparto si sposta in Francia, a Grenoble e poi ad Albertville. L’8 settembre l’intero reparto di sanità è fatto prigioniero dall’esercito tedesco e trasportato in Germania, nel campo di Kassel. Maestri registra le reazioni dei soldati e degli ufficiali e poi via via la vita del campo, occupazioni, lavori, espedienti per sopravvivere, gli inviti frequenti alla collaborazione. Fino alla liberazione e alla partenza per l’Italia, avvenuta nell’agosto 1945.

Annotazione relativa al 7 agosto 1943: “I tedeschi hanno invaso Trento”. Il 9 settembre scrive: “Nelle prime ore del mattino sono prigioniero dai tedeschi me e moltissimi altri italiani. Il resto è venuto in seguito. Alle ore 9 antimeridiane circa a Albano Laziale provincia di Roma è morto mio fratello Aldo”.

Solo un mese più tardi, il 7 ottobre 1943, Maestri segnala di avere lasciato la Francia “per ignota destinazione. Arriviamo a Saarbruchen nella Germania est”. Il successivo 23 ottobre vi è l’arrivo a Kassel, “nel cuore della Germania, una città di 200.000 abitanti distrutta dai recenti bombardamenti. Lì proviamo una dura prigionia”. In questo “Notes” non c’è alcun dato relativo al 1944.

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“Annotazioni e diario dal 1945 al 1947”. La narrazione prende il via nel gennaio 1945. L’autore ci ricorda – nell’annotazione relativa al primo gennaio ’45 – di essere ancora a Kassel: “Incomincio l’anno con un grosso bombardamento che per poco non ci restiamo sotto in tanti. Sono a Kassel prigioniero”. Tutti i giorni successivi sono segnati dai bombardamenti su Kassel: il 28 febbraio cade una bomba sopra il rifugio il cui soffitto è profondo 1,60 m. di cemento: il proiettile lascia un solco di 22 cm. Poche annotazioni fino all’aprile 1945. Il 3 aprile “non si va al lavoro. Combattimenti alla periferia della città. Ora che siamo sicuri di non andar via siamo più calmi”.

Arrivo degli americani. Trascorre velocemente l’estate senza che il gruppo cui appartiene Maestri possa fare rientro in Italia: il 15 luglio 1945 giunge in Germania una commissione del Vaticano il cui scopo è quello di comunicare alle famiglie le rispettive novità. Attraverso Stoccarda e Ulm, ai primi di agosto Maestri inizia il suo percorso di rientro verso la patria.  Arriva a Trento il 10 agosto 1945 e scopre che il fratello Aldo è morto in combattimento il 9 settembre 1943 contro i tedeschi. La narrazione continua, senza interruzioni, per raccontare tutto il periodo successivo al rientro dalla prigionia. E’ sicuramente interessante la descrizione dei piccoli meccanismi quotidiani di reinserimento nella vita sociale e anche dell’aiuto che la comunità locale cerca in qualche modo di dare sopperendo alle carenze delle istituzioni statali (“Ricevo £.1.000 dalla Lotteria fatta ieri Pro Reduci”, 17 settembre 1945).

30 settembre 1945: “Domenica. Sono chiamato a Pinzolo all’adunata di tutti gli IMI. La passo allegra”.

Il diario, anche nelle parti successive, ripropone di tanto in tanto il tema dell’internamento (soprattutto in riferimento alle richieste di sussidio che vengono presentate).

MANFREDI FERDINANDO Luogo di conservazione dei documenti: presso l’autore. Si tratta di un cospicuo numero di lettere e cartoline. I documenti sono importanti anche per la tipologia dei supporti (ad esempio, cartoline e lettere scritte sulla carta dei sacchi di cemento).

MARTIGNONI ALESSANDRO Luogo di conservazione dei documenti: copia in Museo storico in Trento. Data di nascita: 18 aprile 1912; Luogo: Canezza di Pergine; Occupazione: Artigiano. Incipit: “Riccordando il giorno più spaventoso e più pericoloso della mia prigionia…”. Tipologia: Diario – memoria. Descrizione: Quaderno di scuola (cm 20,5 x 16,5), sfascicolato e privo di copertina; cc. 10 (la prima pagina volante è scritta a macchina, le altre manoscritte con inchiostro blu e nero). Il breve testo sembra scritto, ancora in Germania, nei mesi successivi alla liberazione da uno dei campi alla periferia di Berlino. Sono alcuni ricordi slegati tra loro, segnati da una profonda sofferenza: la paura dei bombardamenti alleati, la durissima prigionia (le umiliazioni, la fame, il lavoro coatto nella fabbrica metallurgica), l’acuta nostalgia per la famiglia. La memoria e le note diaristiche si distinguono per la capacità di analisi interiore. Note: Nel 1938 sposa Leopolda Tonelli dalla quale avrà tre figlie. Dapprima lavora come panettiere e poi a Trento come meccanico di biciclette. Muore l’11 gennaio 2001. La cartella contiene un dattiloscritto trascritto dall’originale, presente pure in fotocopia. Titolo del dattiloscritto: “Alcuni giorni di prigionia. Dal diario di Alessandro Martignoni”. Esso è diviso in tre capitoli. “Berlino Tegel, 26 novembre 1943. Ricordando il giorno più spaventoso e più pericoloso della mia vita”. Racconto di come il protagonista è scampato alla morte durante un bombardamento degli angloamericani. E’ colpito il rifugio nel quale egli aveva tentato di ripararsi; fugge tra le fiamme:  “Che spettacolo commovente! Tutta Berlino sembrava in fiamme. Io credevo che la guerra dovesse finirsi quella sera, invece è durata quasi due anni ancora. Nel pomeriggio abbiamo cambiato campo. Io sono rimasto con il solo vestito che avevo addosso, il resto era tutto bruciato. Ricordo che nel tragitto cercavo ghiande e castagne di ippocastani che mangiavo come fossero frutti squisiti. Anche questa volta Iddio ha voluto risparmiarmi dalla morte”.

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“1 gennaio 1944. Ricordando uno dei tanti giorni della durissima prigionia”. Descrizione della “tipica” giornata di un internato, dall’adunata il mattino fino alla spedizione al lavoro. Peso 47 chili, come “uno scheletro che camminava”. Durante trasferimento dal lager alla stazione ferroviaria dove i prigionieri venivano trasferiti al lavoro, passaggio attraverso paesi come Henningsdorf dove “alla distanza di 500 metri da un forno si sentiva il buon profumo del pane caldo”.

“Quanti castelli in aria facevo… in un minuto sparivano tutti i pensieri lasciando il posto al solo desiderio di avere un filone di pane. Sempre però dovevo saziarmi del solo profumo. Mai avevo pensato alla fame ma ora riconosco che è la malattia più brutta e più tormentosa. Con ancora il profumo del pane alle narici, arrivavo alla stazione; qui dovevo aspettare 20 o anche 30 minuti prima che arrivasse il mio, anzi il nostro treno…”.

Il tema della nostalgia: “Spesse volte mi guardavo da capo a fondo e mi chiedevo: “Sei tu che una volta avevi una sposa che ti preparava il vestito pulito, le scarpe lucide e la pietanza che ti piaceva? Sei tu che una volta vivevi in seno a una famiglia, felice della vita?”

“14 luglio 1945”. Martignoni ritarda nel rientro verso la patria. Si pone tanti perché su quell’epoca e sembra in un certo senso volerci rendere consapevoli del fatto che qualcosa, anche in chi si è salvato dall’esperienza dell’internamento, è morto per sempre. “Vorrei dimenticare tutto; vorrei che questa ombra oscura si cangiasse in un velo bianco, ma purtroppo sarà difficile poiché le zanne della belva tedesca hanno ferito il mio sentimento lasciandone la cicatrice”.

MUCCI ALVARO Luogo di conservazione dei materiali: Museo storico in Trent. Data di nascita: 3-12-1921; Luogo: Caldana (Grosseto); Occupazione: impiegato alle Poste. Titolo: “Diario di prigionia Germania”. Tipologia: Memoria autobiografica. Descrizione: dattiloscritto, 40 pp.  La memoria ricostruisce il periodo della prigionia in Germania dal giorno della cattura (13 sett. 1943) al ritorno a Rovereto nell’ottobre 1945. Mucci ricorda i frequenti spostamenti: da Kustrin (a 91 km nord-est di Berlino) a Wriezen, a Oderberg, a Berlino, a Spandau; per poi giungere nella bassa Slesia a Seedorf. Viene impiegato in lavori agricoli, successivamente in una segheria; a Berlino lavora presso la “Dinamo Werk”. La memoria insiste sulla questione della scelta per la RSI, sulle durissime condizioni di lavoro, sulla violenza (esercitata non solo dalle guardie ma anche dai capi reparto e dai contadini).

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Bibliografia: Quando la Musa canta, 1962; Un filo annodato di ricordi, 1962; Brevi voli, 1963; La siepe  umana, 1963; Il paese sulla collina, 1964; Nell’ore del silenzio buio, 1964; Sul vetro fragile, 1966. Alvaro Mucci ha svolto un’intensa e apprezzata attività poetica.  In ASP é custodito un fascicolo rilegato che appare come fotocopia di un originale dattiloscritto. Sono 39 pagine piuttosto fitte. Il titolo del documento è “Alvaro Mucci. Diario di prigionia. Germania” (i caratteri del frontespizio sono stati ritagliati dai titoli di una rivista e utlizzati per comporre il titolo). Lo scritto inizia così: “Partii dall’Italia col pianto nel cuore. Avevo progettato la fuga saltando un muro della caserma assieme ad altri compagni ma i volantini gettati da un aereoplano sul piazzale della caserma stessa, invitavano a star calmi, promettendo belle cose. Pure un tenente tedesco ci invitava alla calma perché saremmo stati lasciati liberi”.

Il racconto quindi parte ad armistizio già compiuto. Poche righe dopo compare il nome la città di Treviso, attraverso la quale passano i prigionieri italiani. Il gruppo parte in treno dalla stazione di Treviso, condotto verso la Germania. E’ il 13 settembre 1943. All’alba il treno transita per il Trentino: “Mi volli assicurare dove eravamo in quel momento e con mio grande stupore lessi un nome “Ala”. Provai un tuffo al cuore e dissi “sono a casa mia”. Mi misi davanti a tutti, scrissi un biglietto per la mia famiglia onde poterlo gettare in stazione a Rovereto…”.

Mucci tenta di avere un vestito borghese da un militare piemontese presente sulla tradotta, ma non c’è nulla da fare: “Il treno correva verso Rovereto. Io in piedi guardavo e soffrivo. Ecco Marco, Mori, Lizzanella. Lassù in alto l’Ossario di Castel Dante. Più mi avvicinavo a Rovereto e più mi sentivo battere il cuore. Rivedevo quei posti che erano stati testimoni della mia vita giovanile, delle mie passioni, dei miei ricordi. Eccomi sul ponte del Leno, a destra la Chiesa di Santa Maria, lassù in alto i boschi sempre verdi e finalmente in stazione. Detti uno sguardo intorno, nella speranza di vedere il babbo, ma nulla. Presso il vagone si fermò una signorina che conoscevo di vista. Era una studentessa. Mi rivolsi a lei dicendole in dialetto: “La me conosc?” [sic]. Lei mi guardò e rispose: “Me par e no me par”. “Son da Roveredo” risposi. Lei rimase stupita. La pregai di trovarmi un vestito presso il capostazione ma non le fu possibile nel momento. Ricordo che mi invitava a scendere dall’altra parte del treno in direzione del cotonificio e recarmi nella casa dei ferrovieri. Sarebbe poi tornata con un vestito ma tutto ciò non fu possibile perché guardie tedesche vigilavano attentamente. Feci telefonare a mio padre da un capostazione di mia conoscenza, nella speranza di poterlo vedere ma tutto fu vano. Mio padre in quel momento si trovava fuori dal carcere per la provvista ai detenuti. Mi feci dare un cappello da un signore che si era avvicinato al vagone, una giacca da ragazzo ma mi mancavano i pantaloni. In quel momento indossavo quelli militari. In quelle condizioni non potevo certo fuggire. Colui che tanto avevo pregato si rifiutò ancora alla mia richiesta e così mi rassegnai al destino”.

Il treno poi si ferma a Mattarello dove delle donne portano dell’uva ai malcapitati. Un civile tenta di far fuggire Mucci ma la sorveglianza rende tutto impossibile. “Dopo alcuni giorni arrivo al Lager presso la città di Kustrin, a 91 chilometri nord est di Berlino”. Interessante la descrizione dell’arrivo con le centinaia di prigionieri italiani che corrono a cercare un posto nelle baracche e un volto amico, quello di un paesano o di un commilitone con cui condividere quella tragica situazione.

Ritorna anche in questo racconto la mossa propagandistica dei nazifascisti con la quale si vogliono fare “aderire” gli IMI alla RSI. Poi il lavoro: “Ogni giorno venivano dei tedeschi a prendere gli uomini. Sembrava il mercato delle bestie. Un tedesco, con la cartella personale di ognuno chiamava i nomi. In quell’attesa ricordo di aver dormito due notti per terra, sotto una misera tenda”

Mucci viene quindi condotto nella cittadina di Wriezen, dove è impiegato in lavori agricoli. Una sera mentre sta per addormentarsi viene avvicinato da un signore che gli fa cenno di prendere il proprio bagaglio e di seguirlo. Lavora presso un altro contadino a cavar patate. Poi viene aggregato ad una squadra di toscani “i quali lavoravano in una segheria assieme alle donne tedesche”. Un giorno viene trasferito in una grande fabbrica – che lui chiama “polverificio” – dove sono impiegati prigionieri di tutte le nazionalità e anche civili italiani. La situazione e il trattamento sono  sempre peggiori, così come aumentano le violenze delle guardie tedesche. La fabbrica si trova in prossimità del fiume Oder (“Oderberg”).

Il lavoro di Mucci consiste nel caricare, scaricare vagoni di traverse di legno per la ferrovia; spingere carrelli, scaricare carbone, sacchi di cemento, pali di legno lunghi e grossi.”Le mie forze assai deboli per quel genere di lavoro furono messe a dura prova. Era davvero un inferno. Lavoravano assieme a noi pure i prigionieri francesi. Era pericoloso portare le traverse sulle spalle, passando da un vagone all’altro sopra un tavolone il quale tante volte era ghiacciato. Bastava scivolare per troncarci le gambe. Le legnate non mancavano. Quanta umiliazione! Certi giovani grandi e grossi bastonati senza poter reagire. Grazie a Dio c’era anche un buon caposquadra che quando il “capoccia” si assentava, ci faceva riposare. Non stavo in piedi dalla debolezza. La sera dopo aver lavorato come bestie dovevamo fare cinque chilometri per arrivare al campo”.

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In seguito viene riportato ancora a Kustrin (dicembre 1943). Le sue condizioni di salute non sono tra le migliori; viene ricoverato in “infermeria” (“mai una medicina, soltanto rancio di rape e patate sporche”). Il 27 dicembre 1943 viene trasferito nella località di Berwalde (ad una trentina di chilometri c/a da Kustrin). Qui viene impiegato in svariati lavori, sempre come “uomo di fatica” presso civili tedeschi o – quando la stagione lo consente – nella trebbiatura del grano. Nel gennaio 1944 viene trasferito in città a Berlino. Qui viene assegnato alla “grande fabbrica «Dinamo Werk»”. Il capo del campo è un carabiniere italiano: “Il capocampo italiano, un disgraziato brigadiere dei carabinieri, bolognese, che ebbi poi modo di conoscere bene, ci fece un discorsetto tutto riferentesi alla disciplina, alla buona volontà di lavorare e ci disse pure di pregare perché eravamo in una zona dove il pericolo era grande, dato che in detta zona pullulavano le fabbriche e che i bombardamenti erano frequenti. Infatti sul campo ci fu già un attacco aereo durante il quale una baracca fu colpita da spezzoni come ebbi modo di vedere”.

Il quindici febbraio 1944 avviene un “fatto disastroso”. “Stavamo tutti in baracca a fare le solite chiacchiere quando udimmo suonare l’allarme. Le luci si spensero. Un pesantissimo bombardamento distrugge parte del campo”. Interessante osservare come i ripari degli internati siano costituiti da vere e proprie “fosse”, profonde un paio di metri rispetto al livello del terreno, coperte con assi e terra. Il tutto non garantiva nessuna protezione per i prigionieri e, quando le bombe esplodevano a pochi metri, saltava anche la copertura”. Poiché il campo è semidistrutto il giorno successivo i prigionieri italiani vengono trasferiti dal quartiere in cui sono impiegati (Salzhof) a Spandau (sette chilometri di distanza). Tuttavia anche la fabbrica dove lavora adesso viene colpita e distrutta. Il 24 maggio 1944 viene ricondotto nella località di Kustrin. Mucci riferisce quindi di essere stato aggregato alcuni giorni ad una compagnia di disciplina, senza motivo apparente. Tornato a Kustrin il 7 luglio 1944 viene trasferito ancora una volta: dopo 25 km di treno giunge insieme ad altri compagni in un paesino dove li attende un carro trainato da buoi. Il contadino li porta in una fattoria nella località di Eichendorfer Muehle “formata solo da un mulino e dalla nostra luridissima baracca piena di pulci che salivano su per le gambe tanto da farle diventare nere (non esagero)”. In questo campo tuttavia il cibo non manca: “Mezzo chilo di pane al giorno, molta carne e salami… Cuocevamo quasi tutti i giorni bracioline e patatine fritte. Quello fu il tempo più favorevole per il mangiare. Nonostante questo voglia di lavorare per i tedeschi non ne avevo”.

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Il padrone un giorno scopre Mucci ed un compagno appisolati: passa sulle loro gambe con la bicicletta e poi li riempie di botte. Dedica una parte del suo racconto ad un prigioniero italiano nei confronti del quale è molto riconoscente, Balilla Cerri di Bibbona (Livorno): “… Egli mi fu sempre accanto nei momenti più tristi della fame e che sempre mi aiutò nel lavoro. Per me fu un fratello maggiore, un padre. Mi volle un gran bene e tutto quello che mi mancava me lo procurava. Mi difese contro tutti compiendo per me ogni sacrificio. Non mi faceva fare una fatica. Io ero diventato il suo “bimbo”. Non so come potrò ricambiare tanto affetto. Certamente è la persona più cara che abbia mai incontrato…”.

In questa zona Mucci viene impiegato per la bonifica di terreni e nel disboscamento. Sul passaggio allo status di “civili”: “Incominciavano a circolare le voci che obbligatoriamente tutti i prigionieri italiani sarebbero passati civili. Noi non credevamo anche preferivamo restare prigionieri. Avevamo sofferto tanto e così volevamo resistere fino al termine della guerra. Arriviamo così al primo settembre [1944]. Forzatamente fummo costretti a passare civili. I cancelli furono aperti e da quel giorno potevamo circolare liberamente. Dove potevamo andare così miseramente vestiti? Eravamo stracciati come zingari. Ogni tanto io con la mia squadretta andavo in un bel paese a circa sei chilometri di distanza a vedere il cinema… “. Amicizia con un gruppo di ragazze ucraine deportate in quella zona. Il 15 novembre 1944 il gruppo di Mucci fa ritorno a Kustrin. In seguito trasferito nel paese di Nordhausen. Quindi nuovo trasferimento: nella bassa Slesia a Niederschlesien: esperienza molto dura, nel taglio di pini al freddo con pessimo trattamento tedesco. Trasferimento a Seedorf: qui impiego ancora nel taglio del bosco ma con migliore trattamento da parte dei tedeschi: “In tal periodo non è che ci ammazzassimo dal lavoro. La mattina alle otto eravamo sempre in branda mentre dovevamo essere sul posto di lavoro alle sette. La sera rientravamo quasi sempre prima dell’ora stabilita. Insomma non era certo la vita del prigioniero. Seedorf era un paesino calmo, circondato da immensi boschi. Il paese di Grosslessen, situato sulla strada camionabile, si trovava a tre chilometri di distanza. Ogni tanto ci andavo a bere birra o a comprare il pane. Una sola volta ci andai per assistere alla Santa Messa. In paese acquistammo la simpatia di tutte le famiglie. Era abitato da belle ragazze e tutti ne eravamo ammiratori. Nonostante fossimo vestiti non molto bene, queste ragazze nutrivano per noi una certa simpatia”.

Ad un certo punto ha una simpatia, ricambiata, per una ragazza del luogo, la quale – insieme agli anziani genitori – lo aiuta molto. Nella casa di queste persone riesce ad ascoltare anche radio Londra in lingua italiana dove riceve notizie del pessimo andamento della guerra per l’esercito germanico. Data la sua buona conoscenza del tedesco riferisce alla famiglia quanto ha udito: “Mi domandavano cosa avevo sentito e io spiegavo loro. Loro non credevano. E’ proprio vero che la gente tedesca ha creduto ciecamente nel suo capo ed ora deve subire suo malgrado tutte le conseguenze nonostante che adesso dicano che loro la guerra non la volevano”.

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Piano piano si avvicinano nella zona i sovietici: “Un giorno incominciammo a sentire le prime cannonate e le prime scariche di mitragliatrice. Sembrava di sognare. Dopo un anno e mezzo stavamo per essere liberati dai russi. Il cannonneggiamento si faceva sempre più vicino ed insistente…Dopo poco riprese però riprese a tambureggiare l’artiglieria e così definitivamente smettemmo di lavorare. I russi erano stati fermati sul fiume Oder, distante sette chilometri da Seedorf. Durante tutto il giorno e la notte sentivamo un fuoco infernale. I primi apparecchi russi incominciavano a volteggiare nel cielo di Seedorf. Il paese di Netkow, distante circa quattro chilometri da Seedorf, era martellato dalle artiglierie. Il Burgmaister dopo tante richieste che furono sempre negative, una sera radunò tutti i paesani nell’albergo, invitandoli tutti ad evacuare il paese. Tutti però preferivano restare e morire nelle proprie case. Evaquare [sic] per dove andare, dicevano. Per trovarci in mezzo alle strade coperte di neve senza viveri?… Il Burgmeister era un tenace seguace del partito nazista… Anche per noi italiani le preoccupazioni si facevano sentire. Pensavamo così “disgraziatamente venissero in paese i tedeschi per far fronte all’avanzata russa, cosa sarà di noi?”.

Ancora pochi giorni prima che arrivino i russi un anziano tedesco li tratta male e li costringe al lavoro: “Balilla, sempre con la visiera della bustina sugli occhi, rosso in faccia come un pomodoro maturo, ascoltava gli ordini del tedesco e in puro toscano rispondeva “s’é capito gobbo. Vedrai che quando arrivano i russi te la spiano io la gobba. Facevamo una bella risata”.

La situazione si fa in breve molto difficile, perché i prigionieri sono molto legati alla popolazione locale che ora rischia una rappresaglia da parte dei tedeschi. I pochi uomini tedeschi presenti nel paese iniziano ad essere benevoli nei confronti degli italiani, Danno loro un maiale: “Il quattordici febbraio [1945] le cannonate erano frequenti e spaventose e le mitraglie cantavano incessantemente. Era stata sfondata la linea dell’Oder e i russi, oltrepassato il fiume, si erano portati a quattro chilometri dal paese. Incominciavamo a sentire già i primi colpi di fucile. In aria salivano alte e dense colonne di fumo”.

“All’indomani della precedente segnalazione, verso le ore 12,30 vedemmo arrivare due russi in bicicletta. Le donne fuggivano in casa. Il paese era già stato imbandierato ma non a festa. Da ogni finestra sventolava una bandiera bianca in segno di resa. I tedeschi se ne stavano rintanati nella loro casa mentre noi italiani diventammo i padroni. Non si stette a pensare tanto. Andammo loro incontro di corsa. Ci strinsero cordialmente la mano. Fummo accolti veramente bene. Quando dicemmo loro che eravamo italiani si mostrarono subito contenti. Odiavano Mussolini e il suo partito non gli italiani. Ci dissero subito che presto saremmo tornati a casa”.

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Da quel momento fino al rientro in patria (ottobre 1945) Mucci vive situazioni di alterna fortuna; certamente è liberato dal giogo tedesco tuttavia da una lato i russi costringono gli italiani a lavorare (anche duramente per loro), benché le condizioni di vitto siano certamente migliori di quelle prima imposte dai tedeschi. I tempi per il rientro in Italia sono molto lenti in quanto sono moltissimi i prigionieri italiano che rientrano dai lager tedeschi (oltre a numerosi prigionieri italiani che ritornano dai lager sovietici).

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