di Cornelio Galas
C’è anche chi la morte la doveva (e la deve ancora?), suo malgrado, sfidare. Quei battaglioni colorati di soldati – non di piombo, ma in carne ed ossa – schierati contro i cannoni. Avanzano, avanzano, sostenuti da proclami (d’altri, in loro vece) d’eroici atti. Per la patria. Per la difesa di atavici confini territoriali. Per fermare il vile invasor. Vanno avanti, al ritmo di tamburi. Cade di lato, orrendamente mutilato, il compagno d’armi. E i suoi brandelli si mischiano al fango, al sangue del cavallo – ovunque – che nitrisce nell’agonia. E vanno avanti, la mente ottenebrata dall’alcol distribuito abbondantemente, prima della battaglia. Incuranti dell’aspettativa di una vita normale, in quei campi rigogliosi abbandonati per andare in guerra.
Va in picchiata, sulla nave americana, il kamikaze giapponese. Una fascia attorno alla testa, come un rosario destinato al fuoco eterno. E schiaccia, un altro, l’acceleratore dell’auto-bomba, gridando “Allah è grande” dopo aver assunto droghe religiose.
Non erano, non sono, queste, ricerche di verità oltre la vita. Né scandagli gettati negli abissi, desiderio di sapere cosa c’è oltre le colonne d’Ercole. Assomigliano, piuttosto, ad inconsci incesti – con rimorsi che resteranno nell’ultimo grido – tra improbabili calcoli delle probabilità.
Un po’ quello che capita lanciando un sasso piatto a pelo d’onda: quanti salti farà? Un gioco solitario, dove alla fine, comunque, è quel sasso a scomparire, di colpo, esausto. Mentre il lanciatore s’interrogherà su nuovi, possibili, migliori traiettorie da seguire.
La morte può anche sussurrarti qualcosa, creare elettricità – come penna di plastica sfregata contro lana – e quindi cercare, come fenomeno magnetico, la tua attenzione. In un film d’azione, in un suono orribile , tipo il gesso che si rompe sulla lavagna e lascia alle unghie fare il resto. In un crescendo d’attesa dell’inatteso, non dell’inattendibile. In fondo basta la bara di un amico che va sotto terra. Lentamente. Con la stessa lentezza delle sue ultime parole.
Della morte si può anche ridere. Per sdrammatizzare – dicono – per far finta che sia, alla fin fine, proprio quel nulla evocato da tanti filosofi: “Quando ci sarà la morte io non ci sarò: non c’incontreremo mai. In eterno”.
Di colpo mi giro di scatto, il primo gelo del tardo autunno. Sì, anche sotto il balcone la natura sta morendo. Per prepararsi meglio alla primavera, alla rinascita. Ad altre vite nuove dopo la morte di quelle vecchie …
Ma non è la stessa cosa. Perché, se funzionasse così il mondo, mi sentirei responsabile di tanti fiori recisi, solo, solo … per dare annunci d’amore ad una donna. E sarei mangiatore di cadaveri animali, persino d’insalata tagliata prima di creare i presupposti di semi, germogli, ricrescita. Nella piramide della giungla (l’ex Paradiso Terrestre?) in cima c’è l’uomo. Padrone assoluto della vita del resto del creato. E anche di quella dei suoi simili. C’è sempre bisogno di un capo tribù. Gli altri lo seguiranno. Finché non ci sarà un capo migliore. Magari più crudele, però in grado di far eseguire i propri ordini. Altrimenti …