a cura di Cornelio Galas
Winston S. Churchill: «Non ci arrenderemo mai»
di Enzo Biagi
Dietro la sua faccia rosea e dura, da bulldog, si intravedeva la Gran Bretagna. Pare di rivederlo tra le rovine di Coventry, il cappotto corto, il sigaro spento tra le labbra, le due dita della mano alzate, nel segno della «V», Victory. Ha voluto dire per milioni di uomini la speranza. Una vicenda straordinaria, questa di Winston Leonard Spencer Churchill, nato il 30 novembre 1874 nel Castello di Blenheim, contea di Oxford, primogenito di Lord Randolph, politico sfortunato, e di una bellissima americana, discendente del Duca di Marlborough, glorioso condottiero del Seicento.
Ogni anno migliaia di persone visitano Blenheim Palace, i suoi scritti sono raccolti in trentaquattro volumi, a cura della Library of Imperial History, francobolli e medaglioni perpetuano l’immagine. Ha vinto un Premio Nobel per la letteratura, è stato giudicato «una delle più grandi figure della storia d’Inghilterra». Lo hanno anche accusato di orgoglio spropositato: «Ha il complesso di Napoleone», diceva il generale Montgomery; «Non era un grande stratega», ha scritto Liddell Hart, il critico militare; «Il suo stile letterario è detestabile», affermava Malcolm Muggeridge.
Neppure Alan Brooke, che gli fu accanto durante il secondo conflitto mondiale, è del tutto condiscendente: «È il personaggio più difficile che abbia mai incontrato, ma non vorrei aver perduto la possibilità di lavorare con lui per nessuna cosa al mondo». «Era un vecchio bastardo, ma ha vinto la guerra: non è cosi?», ha sintetizzato un veterano davanti a un boccale di birra al Black House Pub di Londra.
Anche i giudizi severi non lo turbavano: «Ho sempre tratto vantaggio dalle critiche», confessava. «Non ricordo un solo giorno della mia vita nel quale mi siano mancate». Di errori ne ha fatti, e alcuni cospicui, e certe sue valutazioni paiono assai arbitrarie: per lui Gandhi è «un sedizioso avvocato», uno «spregevole fachiro», mentre Mussolini «uno dei più grandi uomini del secolo»; più tardi però lo definisce «sciacallo».
All’inizio, Winston non promette niente di buono; il padre, racconta, non lo ritiene abbastanza intelligente per gli studi di legge, e lo spedisce al collegio militare, dove agli esami di ammissione viene bocciato un paio di volte. «A scuola», narra in un libretto di memorie, «i miei maestri mi trovavano nel contempo precoce e ritardato mentalmente; leggevo roba da lettori più grandi di me, ed ero l’ultimo della classe».
Si distingueva in tattica, topografia, fortificazioni, ginnastica ed equitazione, più che in latino e in francese. È vero che il giornalismo può aprire molte porte e, secondo me, anche chiuderne altre, e Winnie esordisce come inviato speciale a Cuba, per seguire l’esercito spagnolo in guerra con la gente dell’isola. Ha ventun anni, e in quel momento suo padre è Cancelliere dello Scacchiere, ma sbaglia i tempi, azzarda troppe riforme, è costretto a dare le dimissioni, e a Londra sono anche capaci di accettarle. Fine di una carriera.
Winston, da allora, pensa di riscattare l’umiliazione subita dall’impetuoso Randolph. Dall’esperienza in quei lontani luoghi riporta tre amori che lo accompagneranno fino alla fine: quello per le battaglie, per le sieste, qualunque cosa accada, e per gli avana. Poi riparte per l’India; le tribù del Pamir sono in rivolta, e il Daily Telegraph lo ingaggia a cinque sterline a colonna. Il nostro cronista è abbastanza ignorante, e pensa che la parola «etico» sia il nome di un fiume.
Invece di mandare telegrammi, spara fucilate, e trova anche il tempo per fantasticare un romanzo, Savrida, di cui lealmente sconsiglia la lettura agli amici. Anche i dervisci si ribellano, guidati dal Mahdi, il califfo-profeta, e Churchill cerca di agganciarsi all’Armata del Nilo, comandata da Sir Herbert Kitchener, e prende parte all’ultima e leggendaria carica di cavalleria dell’Ottocento, a Omdurman; «Gli avvenimenti», sostiene, «prima è importante viverli, poi raccontarli».
Nel 1899 il Morning Post lo ingaggia a 250 sterline al mese, più le spese pagate, e lo manda a vedere quello che succede in Sud Africa, dove i Boeri difendono la loro libertà. Sbarca a Città del Capo, e cerca subito l’avventura, ma viene catturato. Non lo fucilano perché, gli spiegano «non ci capita tutti i giorni di prendere il figlio di un Lord; ci serviremo di te».
Lo buttano in un campo di concentramento, da dove scappa, e senza carte e senza bussola si inoltra tra foreste e palmeti, e trova rifugio nella casa di un compatriota. Mettono una taglia sulla sua testa, e lo descrivono così: «Altezza 1:65 circa, venticinque anni, andatura curva, colorito pallido, capelli castano rossiccio, parla nel naso». Ce la fa, e raggiunge i suoi.
Debutta finalmente in politica ma non può aspirare ad un seggio, perché non ha mezzi finanziari, e si presenta come oratore, per i conservatori: il suo eloquio piace, e quando un candidato si ammala, gli subentra, ma è battuto per qualche migliaio di voti. Alle elezioni del 1900, entra alla Camera, con sole 222 schede di preferenza sul suo avversario.
«Cambiò partito due volte», ha scritto John Barnes della London School of Economics, «dai conservatori ai laburisti, e poi nuovamente ai conservatori. Non ebbe in forte stima il suffragio universale e si oppose al voto delle donne con tutte le sue forze». La corsa comincia: sottosegretario alle colonie, e nel governo si fa promotore della pensione per i vecchi, delle assicurazioni sociali, degli uffici di collocamento, e nel 1908 è per la prima volta ministro, e sposa la donna della sua vita, Clementine, la figlia del colonnello Hozier, di antica e ricca famiglia, che ha dieci anni di meno, e gli dimostra una devozione totale.
Tra le sue carte trovano un libretto intitolato: Come curare Winston nel caso io venissi a mancare. Churchill aveva avuto un amore non ricambiato per Ethel Barrymore, una attrice famosa, che lo aveva respinto perché non credeva di poter fare a meno del teatro per vivere nel suo mondo. Da «Lady Clemy» avrà cinque bambini, che gli daranno anche molti dolori, ma Winston confessa: «Da allora vissi felice».
Dopo il Commercio, passa agli Interni, e nel 1911 è alla Marina, con un compito difficile: preparare una flotta in grado di controllare quella del Kaiser. È lui che concepisce e programma la disastrosa battaglia dei Dardanelli che costò agli inglesi 250.000 morti. Il disastro gli fa perdere la poltrona, e nell’estate del 1915 scopre le gioie dei colori e dei pennelli. Dirà poi Picasso: «Se fosse stato pittore di professione non avrebbe avuto difficoltà a guadagnarsi da vivere largamente».
In autunno, chiede di essere riammesso nell’esercito, e col grado di maggiore va a battersi in Francia. La commissione d’inchiesta lo riabilita: i suoi piani erano giusti, qualcun altro ha mancato. Tenendo conto delle sue straordinarie capacità organizzative, gli affidano gli armamenti: è di un attivismo frenetico. Vola quasi ogni giorno sul fronte, ed è protagonista di parecchi incidenti; incoraggia gli studi sui carri armati, di cui prevede l’impiego; agli operai delle officine aeronautiche, che per delle rivendicazioni sindacali minacciano lo sciopero, risponde che è pronto a militarizzarli e a spedirli in trincea.
Quando arriva la pace, il suo odio per il comunismo si scatena. In un rapporto a Lloyd George scrive: «Pace col popolo tedesco, guerra alla tirannia bolscevica». Vorrebbe riarmare la Germania, per metterla contro la Russia; ma anche le truppe inviate dagli occidentali in appoggio ai «bianchi» vengono duramente battute. Nel 1924, Stanley Baldwin lo riporta al potere e gli affida la carica di Cancelliere: deve occuparsi di problemi economici, ma il grande Keynes lo classifica e “presuntuoso e ignorante”.
Poi per un decennio resta fuori: e appare quasi un sopravvissuto, patetico e malinconico. Ma è uno dei pochi che si rendono conto del pericolo nazista, e si dichiara soddisfatto quando l’URSS viene ammessa nella Società delle Nazioni. È sempre pronto ad allearsi con chiunque sia contro Hitler e giustifica il suo mutamento di opinione: «Lenin è morto, Trotzkij è in esilio. Non sono io che sono cambiato, ma i russi: l’Unione Sovietica non è più una rivoluzione da esportare, ma si è ridotta ad essere solo una dittatura nazionale».
Siamo ai giorni di Monaco, e Chamberlain gli offre l’incarico di ministro della Marina. Nei porti arriva la notizia: «Winston is back», è ritornato. Il primo settembre 1939, le armate tedesche invadono la Polonia. È l’ora. L’Inghilterra è nella mischia. In novembre, Churchill fa un bilancio dei suoi successi: su sessanta sommergibili del Reich, tredici affondati; nello scontro di Rio della Plata, la corazzata Graf von Spee è costretta ad auto-affondarsi; nei fiordi della Norvegia il cacciatorpediniere Cossack colpisce a morte la nave tedesca Altmark.
Il 10 maggio 1940 Winston Churchill assurge alla responsabilità di Primo Ministro. Chamberlain è costretto a dimettersi, e qualcuno in Parlamento pronuncia parole che già furono declamate da Cromwell contro un inetto avversario: «Da troppo tempo siete in carica per quel poco di bene che avete compiuto. Andatevene, vi dico, e che sia finita con voi. In nome di Dio, andatevene».
Churchill ha sessantacinque anni, ha la coscienza della gravità dell’opera che lo attende, ma è fermo e sereno. Ricorda: L’intera mia vita passata era come fosse stata una preparazione a quell’ora e a quella fatica. Quando andai a letto alle tre di notte provai un senso di sollievo. Adesso avevo l’autorità per dare direttive sull’intera scena. Mi pareva di camminare col destino, e che . Dunque, benché impaziente dell’indomani, mi addormentai tranquillamente».
Si rivolse alla sua gente con un discorso che resterà memorabile: «Non ho da offrire altro che sangue, fatiche, lacrime e sudore. Ci attende una prova difficilissima». Dunkerque è il primo scoglio: sulle spiagge dell’Atlantico, la Wehrmacht ha ingabbiato le forze di spedizione britanniche e molte unità francesi. e le martella con gli Stuka. Ed ecco che un’armata di piccole navi, pescherecci, yachts, velieri, porta in salvo sotto le bombe 335.000 uomini; è un miracolo, anche se Churchill ammonisce: «Le guerre non si vincono con le evacuazioni».
Dopo, comincia la Battaglia d’Inghilterra. Si lotta nel cielo. La Royal Air Force è, rispetto al nemico, in svantaggio di uno a quattro, ma regge all’offensiva. Da luglio a ottobre gli Spitfire e gli Hurricane si alzano in continuazione per affrontare i Messerschmitt e i bombardieri. «Mai», dice Churchill, «nella storia degli umani conflitti tanti uomini dovettero tanto a così pochi».
È il momento della più grave crisi, quando la Gran Bretagna, circondata, e costretta sulla difensiva, è sola. Ma Churchill incita il suo popolo, che lo segue con devozione: «Non innalzeremo mai bandiera bianca. Noi continueremo fino in fondo. Combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo nell’aria con crescente fiducia e incessante forza, difenderemo la nostra isola a qualunque costo, ci batteremo sulle spiagge, ci batteremo sulle teste da sbarco, combatteremo nei campi e per le strade, combatteremo sulle colline. Non ci arrenderemo mai».
Churchill, racconta l’ispettore Thompson di Scotland Yard, che è la sua guardia del corpo, comincia a lavorare alle otto del mattino. Appena sveglio chiede i giornali, che scorre. Consuma un breakfast sostanzioso, e legge i bollettini che gli ha portato il suo corriere privato. Tiene il sigaro tra le labbra, ma quasi sempre spento. Consulta i documenti segreti contenuti in una cassetta color marrone, che nessuno deve mai aprire.
All’una fa un bagno caldo, si rade e si veste per la colazione. Dopo, scorre ancora pratiche per una oretta. Poi il riposo, e si copre gli occhi con una benda nera, che porta sempre in tasca. La tira fuori ogni volta che se ne presenta l’occasione, anche durante gli spostamenti in auto, e si addormenta per pochi minuti. Sveglia e altro bagno, poi la cena, poi le riunioni che continuano fin verso l’alba.
Il cinema è il suo svago preferito, e ogni tanto si fa proiettare qualche pellicola. Gli piacciono anche i dischi di marce militari e i canti popolari e tre sono i motivi preferiti: Cammina sempre diritto fino al termine della tua strada, Casa, dolce casa, Corri coniglio, corri. La signora Shearburn, la segretaria che stenografa i suoi lunghi rapporti, qualche volta, stremata, si addormenta.
Se detta qualche episodio tragico per le forze armate britanniche, gli vengono le lacrime agli occhi e stenta a trattenere i singhiozzi. Durante i fine settimana si rifugia nell’Oxfordshire, dall’amico Ronald Tree. Arriva nel tardo pomeriggio del venerdì, lo accompagnano la moglie e la figlia Mary. Va subito a dormire, e si presenta per la cena. È facile accontentarlo per il cibo, e gli piace molto lo champagne Pol Roger.
Il suo umore a tavola riflette le notizie della giornata. Quando le signore si ritirano, con un whisky e un virginia in mano, si scioglie e tiene banco. Trascorre quasi tutta la mattinata a letto, con le sue scartoffie, non esce quasi mai a passeggiare. Talvolta invita degli ospiti: Eden, Duff Cooper, Averell Harriman; quando riparte il personale è sfinito, e il suo «staff» anche. Dall’Africa gli arriva qualche soddisfazione. Il generale Wavell umilia il maresciallo Graziani: l’Italia perde 130.000 soldati, che finiscono nei campi di prigionia, 1240 cannoni, 400 carri armati. Hitler compie un errore fatale, e invade la Russia.
I Giapponesi si avventano sulla flotta americana a Pearl Harbor, e la Gran Bretagna perde Hong Kong, Singapore, la testa dell’Impero, Rangoon; Churchill parla del «più grande disastro che la nostra storia ricordi», ma gli Stati Uniti sono ormai dalla sua parte. Nell’agosto del 1942 va a Mosca, e ci dà un ritrattino piuttosto spregiudicato di Stalin: «Mi ha lasciato l’impressione di essere dotato di una profonda e serena saggezza, e di essere immune da illusioni di qualsiasi specie».
Il rapporto non deve essere facile, se confida: «Cercare di mantenersi in buoni rapporti con un comunista è come tentare di far l’amore con un coccodrillo. Non sai se fargli solletico sotto il mento o dargli una botta in testa. E quando spalanca la bocca non capisci se tenta di sorriderti o se vuole divorarti». Ascolta i suoi generali, e a differenza del Führer, non li scavalca, anche se certi errori strategici sono suoi. Capisce che De Gaulle sarà il salvatore della Francia, intuisce che il futuro verrà giocato da America, Unione Sovietica, Cina e India, e lancia l’idea degli Stati Uniti d’Europa.
«Non capisce nulla», dice A.J.P. Taylor, «delle forze politiche e sociali che stavano cambiando il mondo». Dice Roosevelt: «Ha almeno cento idee al giorno, di cui quattro buone». Ma è Churchill che pensa a un oleodotto per portare la benzina in Normandia, attraverso la Manica, ad un porto artificiale per lo sbarco, ad un sistema per snebbiare i campi di atterraggio. L’8 maggio 1945 gli portano l’annuncio tanto atteso: la Wehrmacht si è arresa. Le campane di Londra suonano a festa, Churchill ha il viso rigato di lacrime. Dice al fedele Thompson: «Non ho il sigaro, vai a prenderlo. Ci vuole».
Si reca in Parlamento e termina la sua orazione con un invito: «Questa Camera si porti ora nella chiesa di St. Margareth, Westminster, a presentare umili e riverenti ringraziamenti a Dio Onnipotente, per averci liberato dalla minaccia della dominazione tedesca». Approva, con tutti gli altri capi dei governi alleati, lo sgancio dell’atomica: meglio che sacrificare la vita di un milione di Americani e di duecentocinquantamila Inglesi nell’invasione del Giappone. anche se c’è chi crede che il paese del Mikado è già in ginocchio. Il 28 maggio, la stragrande maggioranza degli Inglesi butta fuori da Downing Street colui che li aveva salvati «nell’ora più buia».
Lo richiamano sei anni dopo, ma è ormai avvilito dall’età e un po’ sordo, nel 1955 si ritira, offre una cena alla Regina che chiama «la mia giovane padrona» per dirle che ha cercato di servirla nel migliore dei modi, e più tardi viene anche il triste momento dell’addio alla Camera dei Comuni: «Non occorre che vi spieghi», mormora, «con quale tristezza mi sento costretto a fare questo passo».
Per l’ottantesimo compleanno gli tributano onori da Padre della Patria: «Voi eravate i veri leoni», dice, «io ho soltanto ruggito». Graham Sutherland riceve l’incarico di fargli il ritratto, che non gli piace, e che Lady Clemy farà a pezzetti. È fuori dalla mischia: dipinge, fa viaggi sui panfili degli amici, vede sbocciare l’amore tra la Callas e Onassis.
Ha già sofferto di emorragie cerebrali e di polmoniti; si assopisce, non segue che a tratti ciò che accade attorno a lui. Alle 8:30 del mattino di domenica 24 gennaio 1965, nello stesso giorno in cui morì suo padre, Lord Moran, il suo medico personale, annuncia: «Il molto onorevole Winston Spencer Churchill ha reso l’ultimo respiro». Aveva 91 anni. Dalla casa di Hyde Park Gate lo portano nel piccolo cimitero di campagna di St. Martin, a Bladon, con un cerimoniale che fu concesso solo a due grandi condottieri, l’ammiraglio Nelson, il vincitore di Trafalgar, e il Duca di Wellington, che trionfò a Waterloo.
Nell’elogio del Parlamento si legge: «Nel combattimento e nella gloria non fu un superuomo, ma un uomo».
Il fallito rapimento del duca di Windsor
di Giuseppe Mayda
La mattina del 23 giugno 1940, l’ambasciatore tedesco a Madrid invia a Berlino al ministro Ribbentrop, un telegramma «segretissimo» ed «urgentissimo» che dice:
«Il ministro degli Esteri spagnolo ci chiede consiglio su quello che si deve fare del duca e della duchessa di Windsor che dovrebbero giungere qui oggi, evidentemente col proposito di partire per l’Inghilterra passando per Lisbona. Il ministro ritiene che noi forse potremmo avere interesse a trattenere il duca a Madrid e, se possibile, a prendere contatto con lui. Prego telegrafare istruzioni».
Il duca di Windsor, che proprio quel giorno compie 46 anni, essendo nato a White Lodge il 23 giugno 1894, è figlio del defunto Giorgio V ed è stato proclamato re il 21 gennaio 1936 col nome di Edoardo VIII. Undici mesi più tardi rinuncia al trono, in favore del fratello minore, per sposare la signora Wallis Simpson Warfield, un’americana due volte divorziata.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il duca di Windsor fa parte della missione militare britannica presso l’alto comando dell’esercito francese e, al momento dell’armistizio di Compiègne, passa in Spagna, assieme alla duchessa, per evitare di essere fatto prigioniero dei Tedeschi. Secondo quanto dichiarò Ribbentrop successivamente, Hitler, appena legge il telegramma di von Stohrer, decide che il duca e la duchessa devono essere rapiti, portati in Germania e indotti a collaborare per giungere alla pace con l’Inghilterra.
Per quanto la cosa possa sembrare incredibile e grottesca, Hitler è pronto a depositare in una banca di Ginevra, a nome del duca, la somma di 50 milioni di franchi svizzeri e, se necessario, «ad alzare la cifra». La prima mossa tedesca è quella di cercare di trattenere i duchi in Spagna «per almeno un paio di settimane» purché, come telegraferà Ribbentrop al suo ambasciatore, il fatto non appaia «come se sia stato suggerito dalla Germania».
Governatore delle Bahamas
Il 2 luglio von Stohrer informa Berlino che i duchi non hanno alcuna intenzione di lasciare la Spagna: al ministro degli Esteri il duca confida che tornerà in Gran Bretagna soltanto se la moglie sarà riconosciuta come membro della famiglia reale e a lui verrà affidato qualche importante incarico.
Tuttavia, all’indomani di questa comunicazione i Windsor proseguono inaspettatamente per Lisbona e l’11 luglio l’ambasciatore tedesco in Portogallo avverte Ribbentrop che il duca è stato nominato governatore delle Bahamas (carica che, in effetti, terrà poi fino al 1945) e che alla fine del mese, con ogni probabilità, si imbarcherà alla volta della sua nuova residenza. Allarmatissimo, Ribbentrop telegrafa all’ambasciatore ordinandogli di impedire la partenza del duca e di cercare, con qualche pretesto, di farlo rientrare in Spagna.
Nel messaggio Ribbentrop chiarisce le intenzioni di Hitler e sue: «Alla prima occasione si deve informare il duca che […] la Germania è decisa a costringere l’Inghilterra alla pace con tutti i mezzi della forza, dopodiché sarebbe pronta ad andare incontro a ogni desiderio espresso dal duca, specie per ciò che riguarda l’assunzione al trono d’Inghilterra del duca e della duchessa. Se il duca avesse altri progetti, ma fosse disposto a cooperare per l’instaurazione di buone relazioni fra Germania e l’Inghilterra, noi saremmo parimenti pronti ad assicurare a lui e a sua moglie mezzi di sussistenza tali da permettergli di condurre una vita da re».
Lo stesso giorno il duca, a Lisbona, riceve una lettera di Churchill, «fredda e categorica», che gli ordina di assumere subito la carica di governatore delle Bahamas: altrimenti, aggiunge minacciosamente il Primo Ministro inglese, Windsor rischiava di finire davanti a un tribunale di guerra.
Ribbentrop chiede aiuto alle SS
Sentendosi sfuggire la preda di mano, Ribbentrop si rivolge a Heydrich, capo del servizio segreto delle SS, e gli chiede un agente da mandare con urgenza a Madrid. La scelta cade sulla SS Walter Schellenberg, che si mette subito in moto.
Il suo piano approvato da Berlino si muove in due direzioni. Sul piano psicologico la finalità da conseguire è quella di spaventare i duchi facendo loro credere che il servizio segreto inglese stia tramando per sopprimerli (a questo scopo Schellenberg, di notte, va a gettare sassolini contro le finestre delle villa dei Windsor e l’indomani manda alla duchessa un mazzo di fiori con un biglietto che dice: «Guardatevi dalle macchinazioni del servizio segreto inglese. Un amico portoghese cui stanno a cuore i vostri interessi») e poi invitarli a tornare in Spagna, approfittando del fatto che trascorreranno le ferie nei pressi del confine portoghese: una volta a Madrid, il duca sarà internato come ufficiale inglese e «militare disertore».
L’attuazione pratica del rapimento tedesco prevedeva che i duchi avrebbero dovuto recarsi in una località di villeggiatura nei pressi del confine spagnolo, e da qui nel corso di una battuta di caccia passare la frontiera, previa corruzione del funzionario portoghese di servizio e l’impiego di forze spagnole opportunamente collocate al di là del confine per fungere da scorta.
L’eventualità di salire al trono…
Schellenberg e Ribbentrop dovrebbero capire immediatamente che i duchi non hanno alcuna intenzione di tradire l’Inghilterra, anche se non nutrono simpatia per il re o per Churchill e la sua politica: quando infatti i Windsor apprendono da un emissario dei Tedeschi che se torneranno in Spagna «vi sarà l’eventualità, per loro, di salire al trono di Gran Bretagna», esprimono il proprio stupore dicendo che, secondo la Costituzione inglese, ciò, dopo un’abdicazione, non è più possibile. Basta questa osservazione per comprendere che il duca non collaborerà mai con i nazisti «a quelle condizioni».
Tuttavia le pressioni continuano perché il tempo stringe. Il duca riceve il 30 luglio 1940 la visita di un importante funzionario britannico, sir Walter Manckton, giunto a Lisbona allo scopo di sollecitare la sua partenza alla volta delle Bahamas. Due giorni più tardi, il 1° agosto, i Windsor preparano i bagagli e si sa che si imbarcheranno sul piroscafo americano Excalibur.
Schellenberg, disperato, fa intervenire l’ambasciatore spagnolo a Lisbona, fratello del generalissimo Franco, per convincere il duca a non partire, poi sabota l’auto che deve trasportare i Windsor alla nave e fa anche correre la voce che, nelle stive del piroscafo, c’è una bomba a orologeria: la nave è frugata da cima a fondo dalla polizia portoghese e parte in ritardo, ma ad onta di tutto a bordo ci sono i duchi. Per quanto grottesca, questa è, forse, la principale operazione condotta dal servizio segreto del Terzo Reich nel quadro della Battaglia d’Inghilterra.
In Gran Bretagna, infatti, gli agenti tedeschi sono pochi e scarsamente efficienti perché, fin dal 1935, i nazisti avevano epurato vari loro emissari, non allineati dal punto di vista ideologico, perdendo così parecchi elementi-chiave. Del resto, malgrado la caccia data in Inghilterra alla «quinta colonna» tedesca, in tutta l’estate 1940 avvengono soltanto tre arresti: una donna dell’isola di Wight sorpresa a tagliare i cavi telefonici militari e due uomini colti in un bar mentre dicono, ad alta voce, che avrebbero voluto Hitler come capo del governo inglese.
Se i Tedeschi fossero sbarcati in Gran Bretagna
«Dall’Inghilterra, non dal suo popolo ma dai suoi politicanti, oggi viene un solo grido: la guerra deve continuare! Non so se codesti politicanti abbiano una idea precisa di quello che significherebbe la continuazione del conflitto… ». È il 19 luglio 1940 e Hitler al Reichstag pronuncia l’ultimo dei suoi grandi discorsi, e forse uno dei migliori, offrendo alla Gran Bretagna la pace a condizione che riconosca il dominio nazista in Europa, da Varsavia a Parigi, da Copenaghen a Oslo.
Il Führer, acclamato dai deputati in divisa nera, interrompe il suo discorso per consegnare il bastone di feldmaresciallo a nove generali dell’esercito (Brauchitsch, Keitel, Rundstedt, Bock, Leeb, List, Kluge, Witzleben, Reichenau) e a tre alti ufficiali della Luftwaffe (Milch, Kesselring, Sperrle) e insignire Göring del titolo di maresciallo del Reich del Grande Reich tedesco; poi riprende a parlare con questo minaccioso avvertimento:
«Credetemi, signori deputati, io provo un profondo disgusto per questo genere di politicanti privi di scrupoli che rovinano intere Nazioni. Mi fa quasi dolore pensare di essere stato scelto dal destino per dare l’ultimo colpo alla struttura che questi uomini hanno già fatto vacillare… Non v’è dubbio che, per allora, Churchill sarà nel Canada dove sono già stati mandati il denaro e i figli di coloro che hanno tanto interesse a continuare la guerra. Però, per milioni di altri, cominceranno grandi sofferenze… ».
Come amministrare l’Inghilterra
Non sono minacce infondate. Se i Tedeschi vincessero la Battaglia d’Inghilterra e sbarcassero al di là della Manica, gli abitanti della Gran Bretagna sopporterebbero sacrifici e subirebbero umiliazioni, soprusi e sofferenze non dissimili da quelle già provate, sotto il tallone nazista, dai Polacchi, dai Cechi, dai Francesi, dai Danesi, dai Norvegesi, In Germania, dopo la direttiva n. 16, Wehrmacht e SS si sono messe immediatamente a fare piani su come amministrare l’Inghilterra una volta che sia stata occupata.
Un documento rivelatore è l’ordinanza – ritrovata più tardi dai Sovietici, sul Fronte Orientale, in possesso della XVI Armata del generale Busch – con la quale si fissano sette punti per il «territorio occupato». Essa prevede la pena di morte anche per chi abbia strappato un solo manifesto, definisce «reato punibile dal tribunale militare» persino l’assembramento nelle strade e codifica la rapina, da parte dell’esercito tedesco ai danni dei fornitori inglesi, stabilendo che «le forze armate germaniche effettueranno i loro pagamenti con buoni speciali e non in contanti».
Con un’altra ordinanza, attribuita a Halder ed intitolata Sull’organizzazione e l’attività dell’amministrazione militare in Gran Bretagna, si ordina di fucilare sul posto e senza processo sia partigiani che civili sospetti di azioni di guerriglia: «Dal momento che le bande di guerriglieri inglesi non hanno insegne militari e non portano apertamente le armi, sono soggette alle decisioni della Conferenza dell’Aja sulla guerra terrestre. Quanto sopra vale anche per il rimanente dei civili che si rendano colpevoli di complicità».
L’ordinanza prevede la costituzione di tre campi di concentramento sul territorio inglese ed otto sul continente, ognuno capace di 10.000 detenuti. Von Brauchitsch, comandante in capo dell’esercito, precisa a questo proposito che «tutta la popolazione maschile valida inglese fra i 17 ed i 45 anni venga internata e trasferita sul continente, a meno che la situazione locale non richieda soluzioni particolareggiate».
Il territorio britannico occupato dovrà essere diviso dalla Wehrmacht in sedici Kommandantur, dodici locali e quattro di campagna; per Londra è invece prevista una Kommandantur speciale rinforzata. Quanto alla politica economica, l’esercito tedesco ha preparato un piano di sistematica rapina, il cui ente dirigente – il Centro economico-militare per l’Inghilterra – dovrà sequestrare le materie prime ed i prodotti finiti trasferendoli in Germania.
Liste di proscrizione
Dal canto suo la polizia nazista non è rimasta indietro. Fin dal giugno il capo del controspionaggio politico, Walter Schellenberg, ha preparato, su incarico di Heydrich, un manuale ad uso degli ufficiali delle truppe da sbarco e dei dirigenti SS e nazionalsocialisti che le accompagneranno.
Nel libretto, distribuito nel massimo segreto ed intitolato Informationsheft G.B., sono descritte le organizzazioni ebraiche, i maggiori gruppi industriali, i sistemi della distribuzione dell’elettricità e dei carburanti, i bacini portuali, le origini delle istituzioni inglesi, le istruzioni per occupare a Londra le sedi dei ministeri della Guerra, degli Esteri e dell’interno; brevi capitoli, sono dedicati alla struttura della polizia britannica, al servizio segreto, agli enti religiosi, come la Church Lads’ Brigade e la Chiesa d’Inghilterra, e persino ai Boy Scout, definiti «magnifica fonte di informazioni per l’Intelligence Service».
Allegato a questo libretto (il quale, pur non mancando di grossolani errori di traduzioni, come «alliance», alleanza, al posto di «aliens», stranieri, rivela una spietata e completa efficienza) vi era una lista di 2700 nomi, chiamata Die Sonderfahndungliste G.B., cioè «lista speciale di ricerca in Gran Bretagna»: tutti coloro che vi sono inclusi devono essere arrestati.
Oltre, naturalmente, a Churchill comprendeva i nomi di intellettuali come Noel Coward, C.P. Snow, H.G. Wells, Virginia Woolf, Aldous Huxley; studiosi come Bertrand Russell ed Harold Lasky; il cantante negro americano Paul Robeson; i giornalisti John Gunther e Douglas Reed; quattro personalità straniere come Chaim Weizmann, Paderewski, Beneš e Jan Masaryk; gli ex amici di Hitler Hermann Rauschning e Putzi Hanfstängl ed anche gente innocua come l’ottantatreenne Lord Baden Powell, fondatore dei Boy Scout e che era alla vigilia della morte.
Non manca neppure il nome di Sigmund Freud ma il padre della psicanalisi è deceduto l’anno prima. Ogni nominativo è spesso seguito da una annotazione che dice: «arresto immediato», «arresto», «immediata perquisizione» ecc.
Un carcere della Gestapo a Londra
A capo della polizia nazista in Inghilterra Himmler e Heydrich hanno nominato il professor Franz Six, trentunenne, colonnello delle SS, titolare della cattedra di politica estera all’università di Berlino ed ex «esperto di problemi ebraici» del ministero degli Esteri. «In virtù dell’autorità del maresciallo del Reich Göring», gli ha scritto Heydrich il 17 settembre 1940, «io la nomino rappresentante del capo della polizia di sicurezza e del SD per la Gran Bretagna.
Suo compito è di combattere, con i mezzi opportuni, tutte le organizzazioni e le istituzioni antitedesche, l’opposizione ed i gruppi di oppositori che si possono catturare in Inghilterra così da prevenire l’asportazione di qualsiasi materiale esistente, e concentrarlo e custodirlo per una futura utilizzazione. Stabilisco che Londra deve essere la sede del suo comando quale rappresentante del capo della polizia di sicurezza e del SD; e la autorizzo a creare piccoli gruppi di azione (Einsatzgruppen) in altre località della Gran Bretagna secondo le esigenze della situazione e del momento”.
Questo Six, che nel 1941 presterà servizio nei gruppi di sterminio in Russia e organizzerà nel 1944 un congresso antisemita internazionale, progetta di insediare i suoi Einsatzkommando a Bristol, a Birmingham, a Liverpool, a Manchester e a Edimburgo e di «iniziare l’attività simultaneamente con l’invasione militare»: il suo scopo è quello di instaurare un regime terroristico, non mediante assassinii in massa, ma prendendo in “custodia preventiva” capi politici, intellettuali e persone in vista; non per nulla uno dei primi incarichi dell’Einsatzkommando di Londra era quello di creare un carcere della Gestapo.
Hitler si è alleggerito la coscienza «In veste di profeta affermerò quanto segue: verrà distrutto un grande impero mondiale»
Conclusa vittoriosamente la campagna di Francia, Hitler – dalla tribuna del Reichstag – propone la pace agli Alleati con un discorso pronunciato il 19 luglio 1940 e che egli definì «l’ultimo appello alla ragione».
«Mister Churchill ha or ora di nuovo dichiarato che vuole la guerra. Egli ha dunque da circa sei settimane incominciato la guerra in un settore nel quale apparentemente ritiene di essere particolarmente forte, ossia la guerra contro la popolazione civile, senz’altro celata dall’espressione di azioni contro cosiddetti impianti di importanza bellica.
Questi impianti, dopo Friburgo, sono città aperte, siti di mercato e villaggi di contadini, abitazioni, ospedali, scuole, asili infantili e quant’altro venga comunque colpito. Finora non ho fatto dare quasi nessuna risposta. Ma ciò non significa che questa sia o debba rimanere l’unica risposta. Ora io so perfettamente che da questa nostra risposta, che un giorno o l’altro dovrà venire, proromperanno indicibili sofferenze ed infelicità per la gente.
Naturalmente non per il signor Churchill, poiché egli allora certamente se ne starà in Canada, dove già sono state trasportate le ricchezze e i bambini dei più importanti interessati alla guerra. Ma per milioni di altri uomini ne deriverà una grande sofferenza. E il signor Churchill forse questa volta in via eccezionale mi crederà, quando in veste di profeta affermerò quanto segue: da ciò verrà distrutto un grande impero mondiale. Un impero, che non è mai stato mia intenzione distruggere o anche soltanto danneggiare.
Solo, io so perfettamente che il proseguimento di questo conflitto terminerà soltanto con la completa distruzione di uno dei due combattenti. Mister Churchill può credere che questo sia la Germania. Io so invece che sarà l’Inghilterra. In quest’ora io mi sento in dovere, per la mia coscienza, di rivolgere ancora una volta un appello alla ragione, anche in Inghilterra. Credo di poterlo fare, perché non mi presento certamente come vinto a pregare per qualche cosa, bensì come vincitore parlo soltanto in nome della ragione. Non vedo nessun motivo che possa costringere alla prosecuzione di questa lotta. Io compiango le vittime che essa imporrà.
Vorrei risparmiarle anche al mio stesso popolo. Io so che milioni di uomini e di giovani tedeschi ardono al pensiero di potersi finalmente battere col nemico, che, senza un qualsiasi motivo, per la seconda volta ci ha dichiarato la guerra. Ora può darsi che il signor Churchill ancora una volta voglia respingere questa mia dichiarazione, urlando che si tratta soltanto di un parto della mia paura e dei miei dubbi circa la vittoria finale. Io. comunque, ho alleggerito la mia coscienza, di fronte alle cose che verranno… ».