a cura di Cornelio Galas
Fonte: patria indipendente 21 settembre 2008
Cinque, cinque ragazzi trucidati barbaramente, per essersi rifiutati di presentarsi alla chiamata di leva della repubblichetta di Mussolini. Accadde a Firenze, in una città già sconvolta dalla guerra, il 22 marzo 1944, davanti ad alcune centinaia di altri giovani già arruolati e davanti ad un gruppo di cittadini terrorizzati che erano stati fatti affluire con la forza al Campo di Marte, una delle zone popolari della città e a due passi dallo stadio comunale. Persino i giovani in divisa del plotone di esecuzione ne uscirono sconvolti. Alcuni svennero, altri spararono in aria senza colpire i poveri morituri. Molti tra i presenti ebbero un malore ed altri ancora cominciarono a piangere a dirotto.
Il tutto fu di una barbarie senza pari, anche per il brutale intervento del torturatore fascista Mario Carità che sparò alla testa di alcuni dei ragazzi rimasti vivi dopo la scarica terribile. Il 25 aprile scorso (2008), il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, su proposta dell’allora ministro Amato, ha conferito a quei poveri ragazzi le Medaglie d’Oro al Valor Civile. Medaglie che sono state consegnate ai parenti, all’Altare della Patria nel corso
delle celebrazioni della festa della Liberazione. Molte altre medaglie sono state consegnate quel giorno, ma noi abbiano preso a simbolo della lotta per la libertà l’infame fucilazione di Firenze con la fine terribile di Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni e Guido Targetti.
Furono migliaia e migliaia i giovani che, in tutta Italia, non si presentarono alla chiamata per l’esercito di Graziani e Mussolini. Molti salirono direttamente in montagna per unirsi ai partigiani. Altri si nascosero in città. Altri ancora si presentarono, pronti a fuggire alla prima occasione. I cinque di Firenze, non erano né partigiani, né giovani della Resistenza, ma semplicemente ragazzi che non ne volevano sapere della guerra fascista. Non erano né scappati in montagna né avevano preso contatto con l’antifascismo militante. Insomma, non avevano ancora fatto nessuna scelta politica. Non ne avevano avuto il tempo.
Furono arrestati facilmente dalla polizia fascista e in seguito ad una spiata. Si volle, in realtà, “dare un esempio” alla Toscana e in particolare ai fiorentini, da tempo antifascisti e sempre pronti alla battaglia. D’altra parte, Firenze era anche la città del “fascistissimo” Alessandro Pavolini, segretario del partito a Salò e fondatore delle brigate nere. Un esempio durissimo e unico era dunque ritenuto necessario e “propedeutico”, come disse qualcuno.
Il massacro del Campo di Marte, sconvolse la città intera. I ragazzi fucilati rimasero nella mente e nel cuore di tutti e contribuirono direttamente a chiamare alla lotta per la libertà altre migliaia di giovani che raggiunsero le montagne per poi scendere tra le rive dell’Arno e liberare la città, al comando di Potente, Gracco, Brunetto Bernini, Gino Tagliaferro, Orazio Barbieri.
I racconti e la “cronaca” dell’infamia del Campo di Marte sono ripresi dal libro di Fernando Gattini Giorni da “Lupo” -fascismo e resistenza a Vicchio di Mugello tra l’estate ’43 e l’estate ’44. Sono tutti in prima persona e lasciano davvero senza fiato.
Ecco il testo della testimonianza del tenente Cappellano militare e dei Patrioti don Angelo Beccherle che ebbe modo di assistere in carcere i cinque “renitenti alla leva”. Il testo, subito dopo la Liberazione, venne inviato alla Segreteria di Stato del Vaticano e al CLN nazionale:
«La mattina del 21 marzo 1944 seppi che erano stati condannati a morte sette renitenti alla leva repubblicana fascista. Già il giorno prima seguivo attentamente lo svolgersi del processo ma non ero riuscito ancora a conoscere la sentenza. Ero assai turbato e mi offrii di assisterli. Verso la sera del 21 marzo mi recai a San Gallo e dalla Superiora ebbi cognac, caffè, anice e sigarette, carta da scrivere. Alcuni ufficiali che sapevano del doloroso incarico diedero pure delle sigarette per i condannati.
Arrivati in macchina con l’Altarino da campo al carcere delle Murate, lo stesso comandante del carcere, maresciallo Mangiacapra, ci introdusse nel suo ufficio, dove poco dopo venne il direttore delle carceri dott. G. B. Mazzarino; qui appresi la prima vera storia dei non più sette, ma cinque condannati a morte, essendo due stati graziati.
I nomi dei condannati a morte sono i seguenti:
- Raddi Antonio, di Attilio e di Boni Antonia, nato il 20-5-1923 a Vicchio di Mugello;
- Targetti Guido, di Cesare e di Roselli Anna, nato il 3-9-1922 a Vicchio di Mugello;
- Corona Leandro, di Daniele e di Corona Maria, nato il 4-5-1923 a Maracalagonis (Cagliari);
- Quiti Ottorino, di Pietro e di Rondini Luana, nato l’8-9-1921 a Vicchio di Mugello;
- Santoni Adriano, di Italo e fu Rossi Marianna, nato l’11-7-1923 a Vicchio di Mugello.
I nomi dei graziati sono i seguenti:
- Raddi Marino, di Attilio e di Boni Antonia, nato il 20-5-1923 a Vicchio di Mugello;
- Bellesi Guglielmo, di Amerigo e di Cecconi Adele, nato il 15-7-1923 a Vicchio di Mugello.
Condannato a 15 anni di reclusione:
- Chirico Domenico, di Saverio e di Benedetto Saverina, nato il 17-7-1924 a Reggio Calabria.
Condannato a 20 anni di reclusione:
- Cestinoli Giuseppe, di Vittorio e di Landi Attilia, nato il 23-8-1922 a Borgo San Lorenzo.
Condannati a 24 anni di reclusione:
- Boni Aldo, di Antonio e di Mei Giulia, nato il 20-2-1923 a San Piero a Sieve;
- Baggiani Dino, fu Giovanni e di Bangini Maria, nato il 21-1-1924 a Vicchio di Mugello.
Il direttore del carcere era molto costernato e mi raccontava con sdegno delle ingiuste condanne: aggiungeva di aver tentato quanto era possibile per salvarli. Conosceva soprattutto uno dei cinque condannati a morte, il Targetti, del quale si era particolarmente interessato conoscendo le disgraziate sorti della famiglia. Ogni cosa era riuscita vana. Fu allora che io suggerii al direttore l’ultima via da tentare: perché non interessare il Cardinale? Non riuscirà nemmeno lui a salvarli ma non omettiamo neppure questo tentativo.
Il direttore fece subito chiamare il Padre Carlo Naldi dei Filippini di S. Firenze e assieme a lui andò immediatamente dal Cardinale. Erano le otto di sera. Rimasi nel carcere in attesa fino alle ore 23, senza poter vedere nessuno e sempre in aspettativa di una telefonata. Finalmente questa venne: purtroppo, nulla era stato possibile fare. I responsabili di queste vittime si erano resi volontariamente irreperibili. Allora il comandante del carcere diede l’ordine di far venire uno alla volta i condannati a morte in una cella accanto all’ufficio suo. Erano nel centro delle carceri, rinchiusi in due celle, assieme ad altri non condannati a morte.
Il primo ad arrivare fu il Raddi, con un volto esterrefatto, barcollante, tutto esasperato, il quale, appena mi vide proruppe in grida esasperate. Sorreggendolo, lo condussi nell’ufficio del comandante. Cercai di consolarlo, di parlargli, ma per alcuni minuti dovetti lasciarlo sfogare. Poi, vedendo che ogni mio dire era vano, volli infondergli ancora speranza, dicendogli: “Coraggio, vedi tuo fratello Marino è stato graziato, chissà che la grazia non venga pure per te!”. Lui rispose: “Ma è vero? Me lo assicura? Mi tradirà?”. “Sì, Antonio, è graziato, è salvo!”. Allora si ricompose subito, si asciugò gli occhi e me lo vidi in ginocchio: “Padre, mi confessi, non ho paura di morire; di due figli la mia mamma ne ha almeno uno, che grazia mi ha fatto la Madonna!”.
Si confessò, era commosso, era rassegnato. Terminata la confessione, mi prese le mani e fissandomi mi disse: “Padre, mi guardi negli occhi, mi fissi bene: non ho paura di morire: sono innocente e sorrido, in faccia alla morte”. “Bravo Antonio, ora scriverai una lettera alla mamma, ai tuoi cari”. “Sì, Padre, e voglio scrivere anche al mio Priore che mi ha sempre voluto bene”. Così lo feci passare in un altro ufficio e si mise a scrivere.
Intanto, erano venuti pure gli altri quattro condannati. Erano disperatissimi: gridavano, si dimenavano, si buttavano a terra, mi abbracciavano e a mani giunte invocavano pietà, quasi che io potessi salvarli. Volevo lasciarli sfogare, volevo consolarli, volevo aiutarli, volevo pure calmarli. Non sapevo neppure io che fare. Per più di un’ora durò questa estrema esasperazione, eppoi venne il collasso fisico e morale per tutti.
Santoni svenne e si riebbe più volte, poi rimase svenuto tutta la notte. Non riuscivo a fargli prendere niente, non volevano fumare, poi aiutato dai secondini li convinsi a prendere una sigaretta che non fumarono. Targetti Guido rimase tutta la notte molto serio, ma impavido, senza neppure fare una lacrima, parlava, ragionava sulla sua ingiusta sorte, ma per nessuno ebbe parole di recriminazione: mi mostrava delle fotografie; mi parlava e chiedeva notizie della sua mamma che aveva lasciata moribonda e diceva che era rimasto a casa per assisterla perché era assai grave. Mi parlava di un suo fratello impiegato al Banco di Roma. “Lui si interesserà di me, non mi devono fucilare, non ho fatto nulla di male, ho combattuto ed ho sempre fatto il mio dovere, ero Guardia alla Frontiera e non sono mai stato punito”.
Allora lo invitai a scrivere. Gli dissi: “Su Guido, da bravo, conforta i tuoi cari!”. É tuttora presente, in tutti i suoi atti, serio, forte, seduto con la penna in mano in un angolo dell’Uff. Matricola: scrisse la lettera con una tranquillità e serenità ammirevoli. Di tanto in tanto mi aiutava ad incoraggiare gli altri. Dietro una fotografia scrisse una semplice dedica: “Targetti Guido, caduto il 22-3-1944. Primavera”. Mentre ad un certo momento della notte lo lodavo per la sua calma, mi rispose: “Cappellano, so quello che mi sta per accadere e perciò non so se riuscirò a mantenermi così”.
Il più disperato era il sardo Corona, gridava continuamente: “Mi fucilano, ma io non voglio morire, io sono innocente!”. E queste ultime parole le gridava in tutti i toni, mordendosi le mani. Poi continuava ancora: “Sono ancora giovane, non devo morire”. Esasperato, girava per la nuda cella, cercando quasi scampo, poi sostava, cadeva a terra svenuto, si riaveva presto, mi abbracciava forte dicendomi: “Padre, non voglio morire, mi deve salvare, ho la mamma lontana”.
Piangevo con lui e per tutta la notte continuò in questa esasperazione. Ad un certo momento si alza quasi impazzito e urla: “Non voglio che mi fucilino, mi ammazzo io da solo”. Allora Targetti, sempre calmo disse: “No Leandro, noi siamo innocenti, non ci dobbiamo ammazzare, ci ammazzino loro. Scrivi anche tu ai tuoi cari”.
Pure Quiti non si sapeva rassegnare, volle telefonare a dei parenti, riuscii a metterlo in comunicazione, ma non appena sentì la risposta al suo pronto, venne interrotta la comunicazione. Allora si mise a piangere disperatamente: “No Padre, non mi confessi, perché dopo mi fucilano”. “Confessati – replicò il Targetti – perché quei delinquenti ti fucilano lo stesso. È meglio per te andare alla morte con l’anima a posto!”.
Verso le quattro del mattino si celebrò la Santa Messa, assistevano seduti tutti, eccetto il Targetti che volle stare in piedi. Bella quella Messa in carcere, supremo conforto a cinque condannati a morte! Vi assistevano pure alcuni secondini e il comandante delle carceri. Fecero tutti e cinque la loro Comunione per viatico: subito dopo il Santoni svenne nuovamente e così il Corona. Terminata la Messa e fatte alcune brevi preghiere ci radunammo tutti in cerchio a sedere.
Le ore non passavano mai; i poveri giovani erano abbastanza sereni: si ragionava insieme della loro sorte e cercavano parole di speranza. Facevano a volte discorsi molto ingenui: “Cappellano, ci faranno tanto male quando ci fucileranno? Per le sette saremo già morti? I giornali parleranno di noi? Ci diranno traditori, ma noi siamo innocenti! Diranno che avevamo armi, ma noi eravamo tutti a casa nostra, disarmati. Come si starà sottoterra, morti?”. Questi e cento altri discorsi simili facevano quei poveretti, mentre cercavano da me parole di speranza. Non gliene potevo dare. Era imminente l’esecuzione, e illuderli sarebbe stata empietà e delitto: “No, ragazzi, basta con questi discorsi, confidate nel Signore, che prima di voi subì la più ingiusta morte!”.
“A che ora ci fucilano?”, era la domanda più insistente. Ed io, laconicamente, rispondevo: “Non lo so”. Allora il Targetti disse: “È meglio che ci prepariamo”. Erano le cinque: mi consegnò delle lettere, poi incominciò a frugare nelle tasche e mi consegnò il portafoglio e così fecero tutti gli altri. Mi consegnarono tutto quello che avevano nelle tasche e mi diedero alcune sigarette: “Queste, tenetele per voi”, dissi io. “No, Padre, bastano due”. “Ma no, tenetevi tutto, ancora non vi fucilano”. I secondini mi aiutarono a convincerli, ma ormai sentivano imminente la fucilazione. “È ormai giorno, alle sei ci vengono a prendere!”. “Ma chi vi ha detto questo?”. “Padre, le fucilazioni si fanno sempre di mattina”.
Per accontentarli, fui costretto a prendere ogni cosa, assicurandoli che avrei eseguito tutte le loro volontà. Seguirono alcuni momenti di silenzio (come erano lunghi quegli istanti…) poi un suono lungo di campanello diede l’allarme: “Eccoli, vengono a prenderci” dissero tutti impauriti e cominciarono a piangere disperatamente correndo all’angolo opposto della porta. Questa si aprì. Si affacciò un brigadiere dei carabinieri: momento terribile… con le manette in mano si avvicinò a Raddi. Questo presentò i polsi e disse: “So che tu sei comandato e non ne hai colpa: io ho sempre voluto bene ai carabinieri, non stringere forte perché mi faresti male”. A queste parole il carabiniere finse di cercare qualcosa, diede le manette ad un altro e uscì solo a piangere… Altri due carabinieri fecero lo stesso.
A queste scene mi commossi pure io, e il Raddi vedendomi piangere disse: “Padre, non voglio che pianga, ci deve fare coraggio e starci vicino. Vede che io non piango? Quando sarò in Paradiso pregherò per lei, ma ora non ci deve abbandonare: stia vicino, ho bisogno di lei”. Un brigadiere finalmente riuscì a mettere le manette al Raddi e poi agli altri quattro… Li aveva legati insieme, ma il Corona svenuto tirò a terra tutti gli altri… Allora vennero separati e, sorretti da me e da alcuni secondini e carabinieri, tradotti nella macchina del cellulare.
Il Corona ed il Santoni erano privi di sensi. Il Targetti era serio e taceva. Raddi pure era serio e chiedeva continuamente: dove ci portano? Corona si riebbe quasi subito e con Quiti cominciò a piangere e a gridare per tutto il tragitto: “Aiuto, pietà, ci fucilano, non avete la mamma, ci fucilano, il nostro sangue vi resterà sull’anima, griderà vendetta!”. Erano impazziti dal dolore. Ero seduto in mezzo a loro e non facevo che sorreggerli, accarezzarli e baciarli.
Giunti a Campo di Marte, vedrò le molte reclute schierate per assistere alla fucilazione. “Guarda – disse il Quiti – guarda quanta gente alla fucilazione”, e si nascose la faccia in un angolo della macchina. Cercavo di nascondere loro tutti quei preparativi, ma da alcune fessure della macchina potevano vedere tutto! “Guarda le sedie con le bende! Guarda il plotone che ci deve fucilare!”, disse il Raddi e urlando chiamava alcuni del plotone che, schierati in dodici per parte dalla macchina, udivano tutte quelle grida.
Ci fecero aspettare nel cortiletto dello stadio per ben 24 minuti, che furono ore di spasimo. Il Quiti disse a uno del plotone: “Colpiscimi giusto e non farmi tanto soffrire!”. Nel frattempo, una decina di gerarchetti della federazione di Firenze in trenci e con la sigaretta in bocca giravano intorno alla macchina, curiosando e desiderosi di vedere le vittime. Appena il Quiti e il Raddi videro questi borghesi, si misero nuovamente a gridare: “…Pietà, aiuto, ci fucilano, salvateci!”. Un brutto ceffo di delinquente rispose loro digrignando i denti: “Ah! Adesso, pietà…”. Balzai allora dalla macchina e pieno di sdegno li cacciai investendoli di male parole e dissi loro: “Non è lecito, né umano oltraggiare così dei condannati a morte!”. “Chi sono?”, mi chiesero il Raddi e il Quiti. Ed io risposi: “Sono degli assassini”.
Finalmente giunse il gerarca ed il papavero atteso. Don Giulio Roberti sollecitò affinché si portassero le povere vittime sul luogo dell’esecuzione e così fosse smessa quella tortura indicibile. Il luogo scelto fu la parte esterna dello stadio Berta, poco lontano dalla torre. Venne l’ordine di tradurre le vittime sul luogo del supplizio. Si udiva solo il pianto dei poveri condannati. Diedi loro l’ultima assoluzione.
Aiutai, assieme all’altro Cappellano, a bendare gli occhi degli infelici. Poi Raddi mi disse: “Cappellano, voglio darle un bacio”. Mi inchinai e mi baciò in fronte e per questo gli levai leggermente la benda. Allora tutti gli altri mi vollero baciare. Il capitano del Distretto Militare di Firenze, comandante del plotone di esecuzione, fremeva e con segnali voleva che mi sbrigassi. Quiti allora volle parlare col comandante del plotone di esecuzione; lo chiamai e gli chiese: “Ma perché ci fucilate? Sapete cosa vuol dire morire, mandateci al fronte, ma noi siamo innocenti, nessuno ci può salvare?”. “Stai buono – rispose il comandante – non ti facciamo niente”. E volle che si ribendasse subito.
Ancora il Raddi mi vuol parlare e dice: “Cappellano, dica alla mia mamma che mi sono confessato e che lei mi è stato sempre vicino”. Anche gli altri dissero: “Sì, anche alle nostre famiglie dica che ci ha assistito lei tutta la notte e faccia coraggio ai nostri cari”. Intanto un certo Paolo di Vicchio o forse meglio del Cistio, amico di Antonio Raddi, venne a salutarlo e salutò pure gli altri. Passarono perciò alcuni secondi. Quiti cominciò a tremare. Voleva alzarsi e scappare, anche il Raddi e il Corona ebbero un momento di esasperazione.
Con il cappellano Don Giulio Roberti riuscii a quietarli, dicendo loro: “Pensate al Paradiso, il Signore vi aspetta, siete nelle mani di Dio e della Madonna, coraggio!”. Con queste e simili parole, ma specialmente mediante la grazia del Signore che in questi momenti tutti sentivano potente ed efficace, si riuscì a far loro tornare un po’ di calma. Allora feci un balzo indietro e subito avvenne la scarica del plotone.
Targetti, Raddi e Santoni morirono subito. Non così il Quiti, che ancora vivo dopo la scarica del plotone, legato alla sedia si dimenava, gridando: “Mamma, mamma!”. Allora si avvicinò il comandante che gli scaricò in faccia a un metro di distanza sei colpi di rivoltella. Il disgraziato non era ancora morto e continuava a chiamare mamma, buttando continuamente sangue. Questa scena impressionò assai. Uno che con me assisteva, si appoggiò a me dicendo: “Che strazio!”. Alcune delle reclute che assistevano svennero. Si udì pure una voce: “Vigliacchi, perché li uccidete?”. Alcuni scapparono e ci volle la forza per trattenere altri che volevano fare lo stesso.
Fu il maggiore Mario Carità, il famigerato comandante delle SS che dopo alcuni istanti intervenne e diede il colpo di grazia. Mentre somministravo l’Olio Santo, il Corona ripeté lui pure: “Mamma!”. Allora pregai il Carità che desse il colpo di grazia a tutti. Stavano per andarsene, ma li feci fermare tutti e volli recitare ad alta voce il De Profundis. Messi con religioso rispetto nelle casse che furono subito portate, li accompagnai al cimitero di Trespiano ed assistetti alla loro sepoltura. Ritornai subito a S. Gallo dove celebrai la Santa Messa da Requiem per loro e vi assistettero tutte le suore. Poi mi recai dal cardinale di Firenze, raccontai ogni particolare; commosso per la morte cristianamente incontrata disse solo, dopo aver attentamente udito ogni cosa: “Queste povere vittime hanno finito di soffrire e sono già in Paradiso”.
Lesse attentamente le lettere che avevano scritto. Queste lettere furono pure fatte leggere al responsabile principale di questa fucilazione, il sanguinario Rossi Adami, il quale dopo averle lette si lasciò sfuggire: “Poveri ragazzi, non si meritavano queste pene”. E subito, quasi correggendosi dinanzi al Cappellano che le aveva fatte leggere, aggiungeva: “Bisognava fucilare tutte le loro famiglie!”.
L’impressione riportata in tutta Firenze da questo misfatto fu somma e per l’innocenza di queste giovanissime vittime e per il modo barbaro col quale vennero fucilate. Un ufficiale, uomo senza dignità e senza cuore, chiese a dei suoi soldati: “Beh, ragazzi, vi è piaciuto il cinematografo di stamani?”. Alcuni comandanti radunarono le loro truppe e spiegarono loro che i giustiziati erano stati giustamente fucilati, essendo degli assassini comuni, colpevoli di molti delitti, che seminavano o terrore o morte ovunque. Niente di più falso: erano cinque semplici e poveri figli del popolo, vissuti sempre tra la quiete dei loro campi, lassù in Mugello, lontano da tutti; mai avrebbero sognato che giù, a valle, nel marciume della città e del gran mondo, potessero esistere tante ingiustizie ed iniquità.
Troppi drammi simili a questo si sono svolti tra i popoli che si credono civili; lo scettico, che forse ha ancora qualche sentimento buono e onesto, si fa più pensoso ed impreca al destino. L’uomo di fede invece, mentre deplora tanta malvagità, alza gli occhi al Cielo e adora i segni imperscrutabili di Dio che tollera tanto male, ma che presto o tardi ne saprà trarre un bene proporzionato. Ma l’uno e l’altro di fronte a questa umana tragedia deve concludere: “Giovanissimi, belli, pieni di vita, buoni e innocenti, erano senza dubbio le vittime più degne da immolarsi per la salvezza della Patria nostra martoriata”.
Ten. Cappellano Militare e dei Patrioti Don Angelo Beccherle
Ed ecco la testimonianza di Luigi Bocci, allievo ufficiale poi passato alla Resistenza, pubblicata da Società del 1945 (n. 1-2). Bocci, si trovava nella caserma dalla quale partirono i soldati che fecero parte del plotone d’esecuzione ed era presente al Campo di Marte:
«Grande era la disorganizzazione dell’esercito repubblicano e nessuno sapeva, in attesa della risposta del Comando regionale a cui ci si era rivolti, quale grado darmi. Poiché ero stato allievo ufficiale mi si dette infine la qualifica di caporale allievo ufficiale e questa mi rimase per circa tre mesi, cioè fino a quando giunse la risposta del Comando che ordinava di rimuovermi da ogni grado e così tornai ad essere semplice autiere.
In caserma ritrovai molti miei compagni del vecchio corso di Massa che ricoprivano il grado di sergenti allievi ufficiali. Alloggiai nella loro camerata e potei così conoscere da vicino quasi tutti gli ufficiali che si erano presentati volontari. Quando in questo triste racconto mi capiterà di far menzione di loro, aggiungerò qualche parola per mostrare il loro carattere e le loro azioni.
La vita di caserma, appena io giunsi, non era molto dura; al precedente corso allievi ufficiali avevo dovuto lavorare molto di più. Tuttavia una continua minaccia ci turbava e questa minaccia era racchiusa nel nome di una città: Vercelli era sulla strada che portava in Germania. Ogni momento gli ufficiali ci dicevano: “Rigate diritti o vi si manda a Vercelli”. Certamente l’andamento delle caserme non era regolare come prima dell’8 settembre. Ogni sera dal rapporto che il sergente di giornata faceva all’ufficiale di picchetto apprendevamo che decine e decine di giovani non si presentavano alla chiamata o erano irreperibili. La Repubblica dava loro l’appellativo di “assenti arbitrari”.
Le prigioni erano sempre piene di autieri ricondotti in caserma dalla benemerita arma dei carabinieri; e molti di essi venivano spediti a Vercelli. Intanto in caserma si facevano grandi spese: i muratori erano sempre sul posto e si può dire che abbiano lavorato più in periodo repubblicano di quanto lo abbiano fatto in tutti gli anni precedenti. I lavatoi, il locale dello spaccio, i gabinetti, la sala del barbiere, tutto venne ricostruito di sana pianta.Il maggiore Maffioli, che doveva avere qualcosa di poco pulito sulla coscienza e che non usciva mai di caserma, aveva impiantato, accanto alla sua camera, un bagno personale con tinozza e bidè.
Dopo una decina di giorni che io ero a Firenze avvenne la chiamata alle armi delle classi 1922 e 1923. Benché non si presentassero molti giovani, la piccola caserma del Poggio fu presto gremita di richiamati vestiti di abiti borghesi. Ve ne saranno stati oltre duecento. All’improvviso una sera essi furono caricati sui camion e inviati a Vercelli. Partirono cantando “Bandiera Rossa” e la “Marcia reale” e tutte quelle canzoni che venivano loro in mente contrarie alla Repubblica. Insultavano il colonnello Mazzari e il maggiore Maffioli, che assistevano alla partenza dall’ingresso della caserma, gridando loro “porci e venduti”.
I giovani erano accompagnati da moltissimi ufficiali e sergenti, poiché si temeva che volessero fuggire durante il viaggio. C’erano in caserma una ventina di ragazzi che nel dicembre del 1943 erano fuggiti dall’esercito e che nel marzo successivo, dopo il bando del duce, si erano ripresentati per paura della fucilazione. Appena presentatisi, per punizione essi furono consegnati per trenta giorni in caserma e privati del soldo giornaliero. Erano molto preoccupati per la loro sorte e temevano sempre di essere mandati a Vercelli.
Io, che a quel tempo sbrigavo le mansioni di sergente, ebbi agio di conoscerli e di stringere amicizia con uno di loro, un bravo ragazzo spezzino che prima dell’8 settembre era stato caporale e che ora era semplicemente autiere. Mi diceva che non vedeva l’ora che arrivassero gli inglesi e che aveva paura di finire in Germania. Io stesso, a dir la verità, non ero troppo tranquillo per questo mio amico e per i suoi compagni. Un giorno decisi perciò di chiedere spiegazione ad un ufficiale, un certo F. N., che avevo conosciuto nella camerata dei sergenti.
Egli è un fiorentino, piccolo e insignificante, sottotenente effettivo sotto qualsiasi bandiera; ha giurato alla Monarchia e alla Repubblica e sono sicuro che apparterrà al nuovo esercito essendosi dato alla macchia pochi giorni prima dell’arrivo degli alleati e essendo stato ferito dai tedeschi, secondo quanto mi ha raccontato un amico. Egli mi rispose che i giovani consegnati erano disertori e le punizioni che si fossero inflitte loro sarebbero sempre giuste. Non chiesi altro, dopo questa risposta. In seguito io lo conobbi sempre meglio e il mio disprezzo verso di lui crebbe ancora.Una volta trovandosi in brutte acque per una sciocchezza commessa chiese di essere inviato in zona d’impiego per paura di perdere il grado e il relativo stipendio.
Nella nostra camerata oltre i sergenti allievi ufficiali c’era alloggiato anche il figlio del colonnello comandante il reggimento autieri. Si chiamava Ugo Mazzari, ed era fascista e tedescofilo. Alla sera egli usciva spesso di caserma insieme coi suoi amici, armati fino ai denti, per tentar di acciuffare i patrioti che si pensava si trovassero a Firenze. Essi tornavano sempre a mani vuote e per la rabbia facevano nutrite sparatorie contro gli alberi.
Ugo aveva un bel fucile mitragliatore Thompson che suo padre aveva portato dall’Africa. Lo puliva ogni due giorni e diceva che lo avrebbe volentieri adoperato. Aveva per intimo amico un certo Ugo Grazzini, detto il “Pupo”, fiorentino, giovane effeminato. Essi erano entrambi iscritti al fascio repubblicano e discutevano tra di loro sempre di fascismo. Il “Pupo”, del quale avrò occasione di riparlare, era malvisto e i soldati durante la notte gliene facevano di tutti i colori.
Una mattina mentre ci trovavamo dinanzi alla Villa del Poggio Imperiale a fare esercitazioni coi fucili mitragliatori giunse un ordine per cui dovevano essere scelti quindici autieri abili tiratori ed un sergente ed inviati immediatamente al Comando Presidio. Benché l’ordine non facesse parola dell’incarico che sarebbe stato affidato ai prescelti, si venne subito a sapere che cosa essi avrebbero dovuto fare. Il sottotenente Taviani, che ha un negozio all’inizio di via Martelli, prese la tabella dei tiri, scelse i primi quindici classificati e, dando loro per capo il sergente allievo ufficiale Ciappi, li mandò al Comando Presidio.
Mi ricordo bene di avere avuto quel giorno un permesso fino alle ore 22, di essere andato a cena da un mio zio che abita in via Fra Bartolomeo. A mio zio, che è comunista e che era a conoscenza del bestiale delitto che si sarebbe commesso, chiesi se non ci fosse stato alcun mezzo per salvare le povere vittime. Egli mi rispose che i comunisti avrebbero organizzato manifestazioni popolari. Le sigaraie sarebbero uscite compatte nelle strade. Ma quelle manifestazioni non potettero avvenire per non ricordo bene quale incidente.
Quella sera mi avviai verso la caserma assai tardi. In piazza Santa Maria Novella dovetti attendere lungamente il tram; infatti poco tempo prima i gappisti avevano attaccato con bombe a mano una macchina tedesca che usciva dal Comando in via Romana e la macchina era andata a sbattere nel muro impedendo il passaggio dei tram e la linea non era stata ancora sgombrata. Mentre aspettavo passò il “Pupo”, era solo, tornava da casa e andava al Presidio dove avrebbe passato la notte. Egli mi confermò con voce tremante che i nostri quindici compagni prescelti la mattina avrebbero formato il plotone di esecuzione di cinque giovani renitenti, esecuzione che avrebbe avuto luogo la mattina dopo.
Mi disse che i nostri compagni si erano rifiutati, ma erano stati minacciati dagli ufficiali. Era stato loro detto bruscamente: “O fate il vostro dovere, o metteremo al muro anche voi”. Poi per convincerli a compiere la loro opera senza tanti scrupoli avevano cercato di gettare il fango sui cinque giovani condannati, dicendo che erano banditi, che in una vicina campagna avevano strangolato una signora per derubarla, che avevano inoltre assassinato alcuni carabinieri. Il “Pupo”, per quanti difetti avesse, non era un cattivo ragazzo e credeva a tutto ciò che gli avevano detto. Perciò la mattina dopo si recò, con l’ampio consenso del padre, a fare il “fucilatone”.
Quella mattina anziché alle ore 6,30 la sveglia sonò alle 3. Fu distribuito il caffè, venne rastrellata la caserma in modo che neppure un soldato potesse sottrarsi alla adunata e partimmo inquadrati. Eravamo divisi per sezioni e in testa e in coda a ciascuna sezione erano stati posti due o tre sergenti che dovevano vigilare che nessuno abbandonasse le file approfittando dell’oscurità della notte. Il vialone del Poggio Imperiale era buio, neppure leggermente schiarito dalle lampadine tascabili e dalle fioche lampade a consumo ridotto molto distanti l’una dall’altra.
Marciavamo in silenzio e assai fievoli giungevano a noi i comandi degli ufficiali e il rumore del passo sonnolento del reparto. Pensavamo ai cinque giovani che venivano uccisi per obbedire al delinquente; tutti sapevamo infatti che ad ogni Comando provinciale era giunto l’ordine di fucilare un certo numero di renitenti per intimorire gli altri e frenare la formazione delle bande partigiane.
Allorché giungemmo quasi alla fine del viale, l’ufficiale che comandava la prima sezione ordinò l’alt e il suo grido turbò a lungo il silenzio. La prima compagnia fu allora presentata al suo comandante. Era il capitano Enrico Cirri, uomo ripugnante, ladro di coperte, di sigarette, in una parola di tutto ciò che era possibile sottrarre alla dotazione dei suoi soldati. Rubava con la complicità di magazzinieri suoi compaesani, pane, scarpe, indumenti di ogni genere ed anche rivoltelle. Una volta egli sottrasse alla sua compagnia tutta la dotazione di sigarette che doveva essere distribuita in una settimana, facendo distribuire per due settimane di seguito metà razione.
Il capitano era venuto a prendere il comando dei suoi uomini per portarli ad assistere al lugubre spettacolo. Stava impalato in mezzo al viale con la bustina un po’ piegata da una parte, con la sua aria di conquistatore come quando veniva nella camerata dei sergenti a raccontarci le sue avventure amorose. In quei giorni si era fatto crescere barba e baffetti. Egli non sapeva discorrere e parlando emetteva talvolta suoni così strani che nessuno riusciva a comprendere. Aveva, quella mattina, una bella macchina fotografica a tracolla per riprendere i particolari dell’esecuzione.
Fatta la presentazione iniziammo di nuovo la marcia e percorremmo lentamente le strade che dalla fine del viale portano vicino al Campo di Marte. La notte si era fatta chiara e stellata, di tanto in tanto lampi illuminavano il cielo, quei lampi ci richiamavano dinanzi alla nostra immaginazione i lampi dei bengala e ci auguravamo un’allarme aereo, un bombardamento, qualcosa che allontanasse il momento della strage. Giungemmo al Campo di Marte che già albeggiava, attraversammo le strade bombardate, sperando sempre in un altro bombardamento, ma ci trovammo ben presto di fianco allo stadio.
Alcuni reparti di fanteria ci avevano preceduto e facevano istruzioni sul posto. A brevi intervalli cominciarono a giungere formazioni di altri corpi, insomma tutti i militari di stanza a Firenze dovevano accertarsi coi propri occhi che si faceva sul serio. Nulla però si era detto agli altri soldati sull’avvenimento a cui avrebbero assistito; si era loro comunicato che si sarebbero tenute esercitazioni collettive, movimenti di truppa e niente altro. Soltanto noi della caserma del Poggio Imperiale eravamo a conoscenza di quanto sarebbe accaduto.
Arrivarono anche uno dopo l’altro, su automobili lussuose, gli ufficiali superiori e le autorità repubblicane. Quando furono giunti tutti i reparti dei vari corpi fu assegnato ad ogni compagnia uno spazio di terreno in cui gli ufficiali dovevano far compiere delle conversioni, correggere errori, insegnare come ci si presenta ad un superiore quando si è chiamati, e come si saluta romanamente. Queste manovre grottesche durarono circa un’ora. Guardavo quei soldati. Parecchi non avevano neppure la divisa, ma indossavano ancora gli abiti coi quali erano partiti da casa, sudici e laceri, e calzavano scarpacce rotte. Altri avevano di militare la giacca e la camicia, altri soltanto la bustina, e con l’aria scanzonata la portavano sulle ventitré.
Sulle facce di quei giovani si leggeva chiaramente che cosa essi pensavano. Vi erano i remissivi che ormai si erano messi l’animo in pace e avevano assunto un atteggiamento di passività e di assenteismo. Altri irrequieti, che parlottavano fra loro accennandosi con disprezzo gli ufficiali, facevano intendere che alla prima occasione se la sarebbero svignata a costo di rimetterci la pelle. Nel frattempo arrivò il picchetto armato: erano venticinque militari ed un capitano: avevano l’elmetto, la bandoliera e il moschetto; si fermarono un po’ lontano da noi e ad un tratto sparirono. Udimmo sparare. Io ed i miei compagni ci guardammo sorpresi. Avevano forse già compiuto il misfatto lontano da noi?
Ma purtroppo non era così. Poco dopo il picchetto armato ricomparve e non ho mai saputo perché si fosse allontanato di lì e perché avesse sparato. Intanto ci avevano fatto riunire e stavano disponendoci in quadrato proprio davanti all’alto muro delle gradinate dello stadio. Furono portate cinque sedie. L’esecuzione era ormai certa e prossima. Mi voltai indietro e scorsi un orto, forse un orto di guerra, in cui un uomo e una donna stavano lavorando senza curarsi di nulla. Mi parve che seminassero. Ad un tratto giunsero molti uomini vestiti di scuro che fecero allontanare tutte le persone che si erano avvicinate a noi e l’uomo e la donna che lavoravano nell’orto e che non ci avevano degnato neppure di uno sguardo.
Arrivarono infine camion carichi di militi fascisti, armati di mitra e moschetto, e ci circondarono. Parecchi altri militi furono disposti molto più lontano, forse perché ci sorvegliassero meglio. Sghignazzavano, bestemmiavano e lanciavano insulti contro le vittime; schernivano noi che stavamo dinanzi a loro minacciandoci di continuo coi mitra. Improvvisamente apparve alla nostra sinistra il furgone della polizia ai cui sportelli erano attaccati alcuni militi della guardia repubblicana coi mitra a tracolla. Dal di dentro venivano urla che poco avevano di umano e fra le urla le grida di “mamma, mamma”. Un fremito di orrore e di ribellione corse fra la truppa.
Da ogni parte si levarono voci di rivolta; e gli ufficiali non furono capaci di far tacere i soldati. Infine quando tornò un po’ di silenzio un ufficiale che si era portato in mezzo al quadrato lesse la sentenza del Tribunale Militare di Guerra che dichiarava i cinque giovani Antonio Raddi, Guido Targetti, Leandro Corona, Ottonino Quiti e Adriano Santoni renitenti alla leva e in conseguenza li condannava alla pena di morte mediante la fucilazione al petto.
Qui i miei ricordi sono un po’ confusi. Io ero in una delle ultime file e poi non volli vedere la preparazione di sì orrendo delitto; udivo soltanto le grida di quei ragazzi che non volevano morire. Intorno a me c’era molta confusione, le file si erano rotte: chi urlava, chi piangeva. Le file furono riordinate, ma ancora una volta si ruppero. In quell’istante scorsi accanto a me il capitano Cirri che stava cinicamente caricando la sua macchina fotografica e guardava ogni tanto il cielo, forse per poter dare al diaframma una giusta apertura. Mi parlò anche, ma di tutte le sue parole non ricordo che queste: “Tra poco giustizia sarà fatta” e accennando alla macchina fotografica: “Speriamo che vengano chiare”.
In questo momento risonò la scarica del plotone di esecuzione, udii qualche urlo, alzai gli occhi e vidi che due giovani erano caduti in terra insieme alla seggiola su cui stavano seduti; gli altri tre invece sempre seduti e gridavano “mamma”. I soldati del plotone di esecuzione, presi con la forza, piangevano forse fino da quando erano stati condotti in mezzo al quadrato e quasi nessuno di loro aveva sparato sulle vittime. Ora i cinque giovani dovevano attendere il colpo di grazia dal capitano di picchetto. Cominciò il lavoro della rivoltella ed io udii numerosi colpi.
Mi fu detto poi che per finire uno dei condannati si era dovuto sparargli nella testa un caricatore intero. Anche il capitano era commosso e tremava, e mentre sparava volgeva la testa dall’altra parte, così che i suoi colpi non erano mortali. Soltanto allora mi accorsi che il furgone della polizia era seguito da un carro funebre dal quale erano state scaricate cinque casse da morto che erano state deposte poco lontano dai cinque giovani.
Le file si ruppero ancora una volta, i miei compagni fuggivano e qualcuno era caduto svenuto per terra. Io fui travolto da quella confusione. Più tardi mi raccontarono che dal gruppo degli ufficiali si era ad un tratto staccato Carità e aveva sparato su uno dei moribondi. Subito dopo il delitto le cinque bare furono avvicinate al luogo dell’esecuzione e le salme vi furono composte. Sennonché qualcuno si accorse che uno dei fucilati non era ancora morto e fu necessario tirarlo di nuovo fuori e sparargli un altro colpo nella testa e poi ricollocarlo nella bara.
Ricomposti di nuovo i quadri ci avviammo verso la caserma e passammo accanto ai militi fascisti che sghignazzavano a causa del nostro contegno e ci dicevano che avrebbero volentieri fucilato anche noi. Rientrammo in caserma passando per la Costa San Giorgio. Verso le undici tornarono in caserma i nostri compagni che avevano fatto parte del plotone di esecuzione. Erano disfatti, si gettarono sui loro castelli e piansero. Per premiarli fu concessa loro una licenza di quattro o cinque giorni. Il “Pupo” si vergognava ora di appartenere al fascio repubblicano e non portava più il distintivo che teneva nel borsellino.
Luigi Bocci, allievo ufficiale
Per completare questo racconto mi sono rivolto al mio amico A.V. sergente allievo ufficiale, che assistette alla fucilazione da una delle prime file. Egli mi ha inviato questi particolari:
Il furgoncino si fermò vicino a me e subito udii le urla strazianti di quei poveretti. Tre di loro avevano proprio l’aspetto di bambini. Consci ormai della fine a cui andavano incontro urlavano disperatamente, invocando la mamma, chiedevano come forsennati: “Perché ci fucilate?” e pregavano Dio di salvarli. Più volte gli sgherri dovettero sorreggerli perché non si abbattessero a terra. Gli altri due di aspetto più virile dei compagni e più forti, erano abbastanza calmi, tanto che cercavano di confortarli. Anche il cappellano militare cercava di rendere sopportabili a quei poveretti i loro ultimi momenti di sofferenza.
Intorno si facevano gli ultimi preparativi per il supplizio. I carnefici in camicia nera allinearono cinque seggiole davanti al muro con una lentezza e un manifesto malanimo come se proprio volessero prolungare il più possibile la straziante agonia di quei poveretti che continuavano disperatamente ad invocare la grazia e la loro mamma. Giunse il plotone di esecuzione che si schierò a pochi passi dalle vittime. Li conoscevo quasi tutti perché erano stati presi nella mia caserma.
Essi, al mattino, si erano rifiutati di commettere l’assassinio, ma il maggiore Carità aveva detto: “Per coloro di voi che si rifiutano di obbedire ho nella mia pistola tante pallottole da spedirli all’inferno insieme con quei fuorilegge”. Essi mi facevano quasi più compassione degli stessi condannati. Questi non avevano che da passare pochi momenti di martirio, mentre i primi avrebbero avuto, forse per tutta la vita, davanti agli occhi la strage di cui si sarebbero purtroppo sentiti gli esecutori materiali.
Mi guardai intorno. Le ultime file erano in subbuglio, i soldati delle prime file, quelli vicini a me, fissavano cupi e atterriti quanto stava accadendo a pochi passi da loro. Moltissimi si coprivano, con le mani o con tutte le braccia, gli occhi e gli orecchi. Le cinque vittime furono prese e con sforzi sovrumani furono messe sulle seggiole. Si legò loro le braccia dietro le spalliere e si bendò loro gli occhi. Continuavano ad urlare come forsennati.
Uno di essi cominciò a chiamare il fratello che era stato graziato, chiedendo ripetutamente e con parole supplichevoli che gli consentissero di rivederlo e di riabbracciarlo ancora una volta. Ciò gli fu violentemente negato forse per non prolungare quella tragica scena che minacciava di fare esplodere quel qualcosa di grave, ossessionante e imprecisabile che tutti presentivano compresi i responsabili dell’eccidio. Essi mi apparivano in preda ad un malcelato terrore. Uno dei condannati disse dolcemente a colui che invocava il fratello di aver pazienza e che un giorno si sarebbero riabbracciati in cielo.
Un ufficiale con la pistola in pugno impartiva nel frattempo gli ultimi ordini agli uomini del plotone. Mirate giusto e con risolutezza al cuore, egli diceva, mentre il tenente colonnello di cui non ricordo il nome, lesse ad alta voce i nomi delle vittime con la relativa motivazione della condanna a morte emessa dal Tribunale Militare. Tutto fu pronto per l’esecuzione; allora scorsi parecchie persone ritirarsi in disparte, fra le quali anche il cappellano che fino a quel momento era restato vicino ai cinque giovani che vedevano in lui l’unico amico e dal quale non volevano distaccarsi a nessun costo.
Un ufficiale, con comandi secchi e decisi, ordinò il caricat ed il puntat. Le sue parole risonarono lugubri nel silenzio che si era fatto intorno a me, silenzio che agghiacciava il cuore, rotto soltanto dalle urla incessanti dei condannati. Vidi le braccia tremanti degli uomini del plotone puntare i fucili in direzione delle seggiole. Certamente essi non scorgevano nulla dinanzi a loro; infatti all’ordine di far fuoco, udii distintamente i colpi partire uno dopo l’altro in un crepitare lento e funesto.
Ben pochi raggiunsero il bersaglio. Soltanto due giovani morirono: gli altri squarciati dalle ferite caddero per terra contorcendosi e urlando di dolore come bestie. Il giovane, che pochi minuti prima aveva chiesto di poter riabbracciare il fratello, tentò con un ultimo sforzo di rialzarsi quasi volesse sfuggire alla morte. Allora vidi l’ufficiale avvicinarsi a lui e sparargli a bruciapelo, alla testa, una revolverata. Il giovane rotolò di nuovo per terra e di nuovo tornò ad alzarsi. Mi sembrò in quel momento che fosse dotato di una strana forza e che volesse sfidare il suo carnefice con accorti movimenti di lotta, ma quegli gli sparò addosso altri tre colpi di rivoltella e lo finì.
Gli altri due non erano ancora morti, continuavano a lamentarsi con un filo di voce, mentre alcuni militi si avvicinarono a loro per prenderli e gettarli nelle bare. L’ufficiale, poiché la sua rivoltella era scarica se ne fece dare un’altra da un premuroso collega e dette loro il colpo di grazia. Ad uno sparò mentre si trovava nella bara. Anche un ufficiale delle SS italiane sparò qualche colpo contro i giovani, e mi dissero che era Carità. Mi voltai indietro e vidi le file scomposte, molti soldati piangere e inveire.
Qualche giorno dopo parlai col “Pupo”. Egli mi disse che la notte precedente l’esecuzione era stata terribile e che egli era stato un po’ di tempo vicino alla stanza in cui erano i cinque giovani. Mi raccontò che il fratello di uno di loro, anch’egli condannato a morte e all’ultimo momento graziato, pianse tutta la notte, e la sua disperazione scosse ancor più i soldati che facevano parte del plotone di esecuzione. Mi disse anche che poco prima che i cinque giovani fossero portati via dalla caserma e condotti sul luogo del loro assassinio un ragazzetto, arruolato nelle SS italiane, ballonzolava dinanzi a loro ridendo e schernendoli.
La disperazione dei quindici soldati crebbe ancora nei giorni successivi. Essi talvolta si ritenevano autori volontari di quella strage, tal’altra vittime della prepotenza degli ufficiali. Urlavano e piangevano, e spesso la notte si svegliavano all’improvviso gridando “no, no” o ripetendo gli stessi gridi dei fucilati . Invocavano la mamma, dicevano di non voler morire, emettevano urla di spavento e invocazioni di aiuto. Noi li consolavamo meglio che ci era possibile.»
Ora le lettere scritte prima della morte da due dei cinque fucilati:
«Firenze, 22.3.1944
Carissimi genitori,
mentre penso al dolore che proverete alla notizia della mia triste sorte, vi voglio scrivere per confortarvi e assicurarvi che ho accettato ogni cosa dalle mani del Signore. Spero che come il buon Dio mi ha dato la forza di sopportare tanta pena così darà a tutti voi il coraggio e la rassegnazione. Vi chiedo scusa se non sono sempre stato buono come avrei dovuto e spero mi perdonerete. Per me non piangete che sono sicuro che il buon Dio accetterà il mio sacrificio ed ora mi trovo contento di unirmi a Lui.
Tutti vi ricordo in particolare modo la mamma e il babbo i nonni i fratelli la sorella i parenti tutti, per me non vi angustiate non piangete mi fareste dispiacere perché sono rassegnato alla volontà del Signore. Per questo sacrificio darà a voi ogni benedizione e a me darà il Paradiso dove tutti ci ritroveremo. Vi bacio e vi abbraccio tutti. Vostro affezionatissimo Leandro Corona»
«Carissimi genitori e tutti di famiglia,
vengo con questa ultima lettera, dove non mi è stato possibile darvi mie notizie, dato che mi trovo entro queste brutte mura, in questo momento sto ricordandovi, ad uno ad uno con tutto il mio cuore. Credetemi che sempre vi ho voluto bene e che sempre in qualunque
momento ho ricordato ciò che voi avete fatto per me. Se qualche volta vi ho fatto qualche torto vi prego di perdonarmi di tutto cuore. Vi ho sempre voluto bene e prego anzi, è pregato sempre il Padre Eterno con tutti i Suoi Santi, di aiutarvi e proteggervi. Se Iddio volesse chiamarmi a sé, io pregherò sempre d’alto dei cieli per la vostra felicità.
Il vostro figliolo che sempre vi ha voluto tanto bene, vi chiede perdono se qualche volta vi ha recato dolore e vi bacia tutti salutandovi e chiedendovi perdono se qualche volta vi ha recato dolore. Vostro figliolo Targetti Guido. Saluto a tutti. Qui insieme a me sta pure Corona Leandro. Vi prego di tenerlo come fratello. Ancora una volta vi bacio e vi saluto tutti. Vostro Targetti Guido».