COSA MANGIAVANO I SOLDATI? – 2

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Progressus”, rivista di storia, scrittura e società

di Marco Cuzzi *

Marco Cuzzi

L’antico rapporto tra alimentazione e guerra ha trovato un’applicazione su vasta scala durante il primo conflitto mondiale. Il governo italiano dovette affrontare al contempo tre emergenze: le razioni dei militari al fronte (il “rancio”), sovente scarse, poco nutrienti, cattive; l’alimentazione dei civili nel cosiddetto “fronte interno”, la cui gestione era in buona parte resa necessaria dai timori di proteste e rivolte dai contorni imprevedibili; e il nutrimento di coloro che – pur non militari – venivano coinvolti nel conflitto, dai sinistrati dei primi bombardamenti ai profughi delle offensive nemiche del 1916 e del 1917: la prima avvisaglia di una realtà che, su più vasta scala, si sarebbe presentata nella guerra successiva.

In che modo i vari governi affrontarono queste tre esperienze? E quali risultati vennero ottenuti in quella che è stata definita la prima guerra industriale della storia? Nel suo saggio Marco Cuzzi  cerca di tracciare alcune risposte a queste domande.

Il rapporto tra alimentazione e guerra è sempre esistito, e nei secoli ha riguardato il nutrimento sia dei militari al fronte sia delle popolazioni nelle retrovie, con l’aggiunta delle carestie che hanno flagellato i civili quando le zone dei combattimenti si trasferivano dalle prime linee alle campagne, ai villaggi e alle città. Questo rapporto ha trovato la sua declinazione più estrema nelle due guerre mondiali, con una varietà di situazioni a seconda dei paesi coinvolti: qui ci limiteremo ad analizzare il caso italiano.

Con l’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, si pose sin da subito il problema del sostentamento delle truppe. Una vera e propria emergenza fu l’approvvigionamento carneo: in una prima fase il governo, preoccupato dalle conseguenze che i disagi per la popolazione civile avrebbero potuto comportare, limitò il trasferimento dei bovini dalle regioni interne al fronte. La carenza di carne tra la truppa sarebbe stata in parte risolta con l’introduzione di congelati o conservati, un sistema di lavorazione degli alimenti che avrebbe trovato il suo sviluppo con quella guerra.

Fino almeno al 1916, la razione giornaliera del fante italiano comprendeva 750 g di pane, 375 g di carne fresca o conservata con pasta o riso (circa 100 g), 350 g di patate, 15 g di caffè tostato, 20 g di zucchero (entrambi suddivisi in due tranche giornaliere), un quarto di vino, i necessari condimenti e, in misura variabile e saltuaria, cioccolata. Per molti soldati, provenienti da regioni spesso ai limiti della sopravvivenza, tale pasto appariva superiore a quello consumato in famiglia: in ogni caso, queste porzioni sarebbero state ben presto ridotte.

Il difficile equilibrio tra le esigenze della prima linea e del fronte interno, sarebbe entrato in crisi con il perdurare del conflitto. Nonostante l’aiuto anglo-francese, all’inizio del 1916 si registrò un considerevole calo di carne, con il taglio “fresco” sempre più sostituito dal conservato, oppure, con tutte le conseguenze negative dal punto di vista nutrizionale, dal formaggio. Inoltre, vennero ridotti il pane, fino a 600 g, il caffè e lo zucchero.

Le cause di questa riduzione erano da attribuirsi principalmente alle linee di comunicazione scadenti, soprattutto nelle regioni meridionali, che rendevano lungo il trasporto dei viveri verso le zone d’operazioni; inoltre, la stessa conformazione del fronte, con linee logistiche tracciate sulle dorsali dolomitiche e carniche, allungava i tempi d’attesa del rancio.

Un forno Weiss

Le difficoltà logistiche furono la principale caratteristica di quella guerra e rappresentarono una delle cause della pessima qualità del rancio. Pasta e riso, trasportate in pesanti marmitte termiche per chilometri, giungevano trasformati in blocchi collosi; in alta montagna, viceversa, in blocchi congelati. Furono pertanto introdotti utili strumenti quali i fornetti Weiss e lo “Scaldarancio”, una piccola camera di combustione alimentata a carta, cera, alcol solidificato o grasso di bue che scaldava una vaschetta dove si versava il cibo.

Visto il lungo stoccaggio nelle retrovie e il tortuoso peregrinare dal fronte interno, sovente il pane giungeva duro e quasi immangiabile, mentre la carne o la frutta – quando disponibili – erano visibilmente deteriorate. Infatti, sin dall’ottobre 1915, l’Intendenza generale dell’esercito era intervenuta per raccomandare cautela nella distribuzione di “cibi putrefatti” alla truppa, per lo meno per quanto fosse possibile. L’introduzione delle gallette, un biscotto non lievitato a lunga conservazione, in sostituzione del sempre più assente pane fresco, non risolse del tutto il problema: questa soluzione venne accolta con comprensibile malumore dalla truppa, anche perché le gallette ammuffivano nei magazzini centrali prima di raggiungere la gavetta del fante.

A tutto ciò andava aggiunta la cronica scarsità dell’acqua, problema che sarebbe rimasto insoluto sino al termine del conflitto. Complessivamente la razione viveri italiana contava 4.082 calorie nel maggio 1915, ridotta a 3.850 nel dicembre 1916 e a 3.067 subito dopo Caporetto.

Per David Stevenson, le condizioni alimentari del soldato italiano risultano peggiori di quelle dei francesi e dei britannici, spingendosi addirittura ad avvicinarle a quelle delle truppe zariste, letteralmente insostenibili. Anche da questo punto di vista, Caporetto rappresentò un punto di svolta. Il ripiegamento delle truppe italiane sul Piave comportò la “strada obbligata delle requisizioni” e “una vera e propria battaglia per la sopravvivenza”  tra i soldati e i civili.

Abbandonato il criterio dell’equilibrio tra alimentazione militare e civile, il comando supremo dell’esercito, all’indomani dell’attestamento delle unità sulla linea Piave-Grappa, dispose che le forniture alle popolazioni civili dovevano tenere conto delle esigenze dei soldati: con l’ultimo anno di guerra, l’allargamento delle privazioni alle popolazioni nelle retrovie era conclamato. Ormai la battaglia coinvolgeva tutti, in una guerra sempre più totale.

L’arrivo delle derrate alleate, e segnatamente statunitensi, fece rialzare a 3.560 calorie la razione giornaliera, con un supplemento di circa 700 calorie per le truppe alpine. Pertanto, tra la primavera e l’estate 1918 la dieta del fante italiano iniziò ad avvicinarsi a quella dei soldati francesi (3.400 calorie), pur restando al di sotto di quella riservata ai tommies britannici (circa 4.400 calorie). Le derrate vennero sempre più innaffiate da alcolici: questi erano stati inizialmente centellinati dai comandi di corpo d’armata sia per questioni etiche sia per miopia; ma dopo Caporetto iniziarono ad essere considerati dagli stessi comandi utili strumenti di coraggio indotto, in aggiunta alle sostanze psicotrope ampiamente utilizzate dagli inglesi.

In realtà, questi miglioramenti furono più teorici che pratici. Molti alimenti continuarono a scarseggiare, e vennero rimpiazzati da succedanei: dai fondi di caffè alla “ciofeca”, una bevanda calda fatta con fichi, carrube, legumi, ghiande, orzo, cicoria; il pane era confezionato solo per metà con farina di grano; carne e gallette continuarono a giungere al fronte in condizioni quasi immangiabili. Oltre alla razione minima e surrogata, ogni altro consumo del fante al fronte assumeva anche a ridosso di Vittorio Veneto “il carattere di un’eccezionale concessione”.

Un’altra realtà che, antica come la guerra, comparve decuplicata nella sua gravità fu la vicenda dei prigionieri. Gli italiani catturati dal nemico ammontarono a circa 600 mila. Dalle scarse ricostruzioni disponibili, si può calcolare che tra il rancio passato dai carcerieri e i pacchi inviati attraverso la Croce rossa internazionale (interrotti però nei primi mesi dopo Caporetto dal governo italiano, che assimilava i prigionieri ai disertori), l’apporto calorico giornaliero degli ufficiali prigionieri fu di circa 1.400-1.600 calorie e di circa mille calorie per i soldati semplici.

Si calcolano circa 100 mila morti tra i prigionieri italiani, per lo più per fame e malattie, mentre i sopravvissuti si trasformarono in “scheletri cenciosi alla disperata ricerca di erbe e rifiuti”: il “rancio” dei prigionieri si risolveva spesso in un pane composto da paglia, ghiande, segatura, mentre la zuppa era una brodaglia a base di acqua, bucce di patate e pezzi di cavolo marcito. Sorte meno tragica, ma altrettanto dura, fu quella riservata dalle autorità italiane ai prigionieri austro-ungarici e tedeschi, circa 180 mila. Al termine del conflitto, quasi 28 mila prigionieri degli imperi centrali avrebbero perso la vita a causa delle indigenze, ma anche della terribile peste suina o “influenza spagnola”.

Parallelamente al vitto del soldato, il governo italiano – al pari di tutti gli altri – dovette affrontare l’annosa questione dell’alimentazione della popolazione civile. Anche da questo punto di vista, la guerra venne sottovalutata e ancora dopo un anno di guerra il gabinetto Salandra non ravvide la necessità di un intervento sui consumi.

Finalmente, con il decreto del 2 agosto 1916, all’indomani della battaglia degli Altopiani, il nuovo governo Boselli, conscio dell’insorgente emergenza alimentare, istituì un Servizio per gli approvvigionamenti e i consumi trasformato il 7 ottobre 1917 in Commissariato generale per gli approvvigionamenti e i consumi alimentari alle dipendenze del ministero degli Interni, e quindi (decreto del 22 maggio 1918) in Ministero per gli approvvigionamenti e i consumi alimentari. Il dicastero avrebbe dovuto restare in carica per tutta la durata della guerra e fino a un anno dopo “la pubblicazione della pace”.

La politica annonaria italiana durante la Grande Guerra prevedeva il divieto di esportazione fuori dai confini statali; l’acquisto diretto sui mercati attraverso i consorzi agrari e la vendita al consumatore dotato di carta annonaria; la gestione dell’importazione dall’estero, l’“acquisto forzoso” (ovvero la requisizione), con “prezzi d’imperio” di alcuni generi di primaria necessità (come il grano); la concessione di facilitazioni fiscali o premi di produzione; il contingentamento dei generi alimentari; il divieto di alcune forme di produzione “lussuose”, come l’alta pasticceria; l’introduzione di surrogati (ad esempio la saccarina in luogo dello zucchero); l’obbligo di esporre al pubblico i prezzi; la regolamentazione dei mercati sia all’ingrosso sia al dettaglio e la riduzione degli intermediari; l’istituzione di aziende annonarie, consorzi e cooperative che potevano vendere un genere di prima necessità sotto costo (come ad esempio, il pane, venduto dal 1916 a un “prezzo politico”); la vigilanza contro il mercato nero.

Il regime così imposto generò malumori e si registrarono tumulti, non sempre limitati all’approvvigionamento. Le privazioni si facevano sentire, prescindendo dalle questioni politiche, soprattutto nel sud e soprattutto dopo il 1917, e sovente, “Si grida ‘pane!’ e sempre più spesso si sottintende ‘pace!’”: i sacrifici stavano trasformandosi in un’efficace arma in mano ai socialisti e più in generale alle correnti pacifiste.

Va sottolineato che i dati ISTAT rappresentavano una realtà apparentemente diversa, con le calorie medie della popolazione ridotte di soli 80 punti pro capite nel 1916-20 rispetto al 1915. Il dato tuttavia è fuorviante, sia per l’assenza di rilevamenti omogenei (associare il triennio di guerra al biennio di pace è alquanto discutibile…) sia per la celebre definizione di statistica fatta da Trilussa, che qui appare perfettamente applicabile: come era distribuito il “dato medio”? Comunque, pur con ogni distinguo e tenendo ben presente le diverse situazioni locali, secondo i dati raccolti da Vera Zamagni, al termine del conflitto le disponibilità dei civili italiani si attestavano sulle 3.093 calorie, contro le 3.377 dei britannici e le 2.900 dei francesi.

Una situazione assai diversa da quella dei Paesi contrapposti, anche per merito delle relazioni commerciali con l’Intesa, rafforzatesi all’indomani della dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania (1916) e della trasformazione della “guerra italiana” in un teatro della più vasta iniziativa bellica alleata. Queste “ristrettezze limitate” facilitarono una mobilitazione solidale anche dal punto di vista alimentare. Numerosi enti privati (dagli enti assistenziali laici e cattolici ai circoli culturali e politici fino alle logge massoniche) si mobilitarono per confezionare pacchi natalizi e pasquali per i militari al fronte e anche per i prigionieri in Austria e Germania, quando ciò era possibile (e quindi verso la fine del conflitto).

L’ente morale “Pro Esercito” si occupava in quasi tutte le principali città del paese della sussistenza per le mogli e i figli dei combattenti. I militari che ritornavano dalle terribili battaglie del Carso, della Carnia, degli Altipiani venivano accolti nei “posti di ristoro per i soldati”, vere e proprie trattorie provvisorie che sorsero in tutte le città lungo la linea ferroviaria: Torino, Milano, Brescia, Verona, Vicenza, Padova. Anche le opere assistenziali – laiche e cattoliche – si trasformarono verso la fine della guerra in posti di ristoro riservati ai reduci, e poi a guerra finita ai prigionieri che lentamente ritornavano: la mobilitazione civile, imposta dal governo nel maggio 1915, si trasformava così in una straordinaria prova di solidarietà – anche alimentare – nonostante le difficoltà della situazione contingente.

La Grande Guerra fu un conflitto dai confini netti, almeno in Italia: i soldati combattevano, i civili attendevano e, bene o male, sopravvivevano. Raramente in Italia si registrò la compenetrazione tra guerra e vita civile, e solo in alcuni casi il fronte giunse nelle case, come invece stava accadendo in altri teatri. Con la battaglia degli Altipiani e la Strafexpedition del maggio-giugno 1916 si ebbe un flusso di profughi provenienti dalla Valsugana, in modo particolare provenienti da Borgo, il centro del sistema fortificato italiano sottoposto all’attacco austro-ungarico: si trattò di un flusso di almeno 35 mila trentini che vissero un’emergenza nell’emergenza, con derrate racimolate in gran fretta e insufficienti, soprattutto nella prospettiva di un’odissea indefinita e dagli esiti incerti.

Molti profughi giunsero nelle grandi città padane, soprattutto a Milano, dove vennero  accolti nei centri di ristoro riservati ai militari, rientrando in pieno nell’assistenza dei soldati provenienti dal fronte. L’offensiva italiana su Gorizia dell’agosto successivo coinvolse nuovamente le popolazioni civili, sebbene per pochi giorni, con la crisi alimentare tipica dei giorni d’assedio. Si trattò tuttavia di anticipazioni del dramma più generale che si sarebbe scatenato nell’ottobre 1917 con Caporetto.

L’attacco austro-tedesco di ottobre produsse uno spaventoso flusso di civili, mescolati ai soldati italiani in ritirata, ammontante ad almeno 600 mila tra uomini, donne e bambini. E mentre queste decine di migliaia di disperati si allontanavano dalla battaglia o dall’imminenza della stessa, due eserciti in lotta si sarebbero contesi le loro derrate abbandonate. Parimenti difficile fu la condizione dei rimasti, gli 800 mila abitanti di Udine, Conegliano Veneto, Pordenone, Feltre e Portogruaro che per un anno subirono l’occupazione di altrettanti soldati imperiali ai quali dovettero garantire adeguato nutrimento.

Fu così che nel corso dell’occupazione si assistette a un lungo braccio di ferro tra le autorità militari austro-tedesche intenzionate a sfruttare il territorio occupato (il raccolto di grano nel 1917 era stato eccellente), e quelle italiane (sindaci, notabili e parroci, soprattutto), che cercarono di limitare le confische. In condizioni del genere, divenne naturale l’apparire del mercato nero. In generale, l’alimentazione italiana nel corso della Grande Guerra – sia dal punto di vista militare sia da quello civile – appare per molti aspetti prodromica al conflitto seguente, dove tutti i problemi elencati parvero amplificarsi a dismisura.

La nuova guerra vide l’esercito italiano sostanzialmente fermo, anche dal punto di vista delle razioni alimentari, alla situazione del 1918. Anzi, per certi aspetti il soldato italiano disponeva di un rancio qualitativamente più limitato: nel 1940 non erano più disponibili i canali d’approvvigionamento estero (Impero britannico e francese, Stati Uniti, Sudamerica) garantiti nell’altro conflitto, e gli alleati tedesco e danubiano-balcanici dovevano anzitutto pensare a loro stessi.

Più limitato nella scelta, dal punto di vista calorico il rancio quotidiano non si discostava più di tanto da quello della guerra precedente, anche se si registrò un emblematico calo dell’apporto carneo e un aumento dei carboidrati (pasta e riso), a dimostrazione delle ristrettezze alimentari che il regime aveva imposto con l’autarchia, strumento protezionistico ma anche “leva patriottica” per rilanciare l’italianità dei consumi.

Quindi, all’ingresso in guerra il vitto quotidiano del soldato di Mussolini era circa il seguente: 700 g di pane, 250 di carne fresca o congelata (presto sostituita da carne conservata o da 100 g di pesce in scatola), 220 g di pasta o 170 g di riso, 10 g di formaggio da grattugiare, 15 g di grassi (olio, burro o strutto) e 15 g di conserva di pomodoro. Infine uno scarso contorno rappresentato da circa 50 g di legumi, o secondo le disponibilità, di patate, verdura fresca o essiccata.

Si prevedeva, inoltre, una razione di riserva o di emergenza, composta da una scatoletta di carne e 400 g di gallette, che diventarono la vera, e sovente unica, fonte di rifornimento della truppa impegnata in zone operative, come già avvenuto nell’altra guerra. Da notare che l’alimentazione del militare italiano, secondo le stesse indicazioni degli stati maggiori, avrebbe dovuto essere subordinata allo “sfruttamento delle risorse locali”.

Caratterizzato da una pianificata politica di aggressione e invasione da un lato e da una moltiplicazione dell’impegno strategico su vari fronti, spesso lontani e scarsamente collegati, il secondo conflitto italiano vide la presenza di militari italiani sulle Alpi marittime, nei Balcani, in Nord Africa, in Africa orientale e sul fronte orientale. Questo stato di cose avrebbe comportato problemi e sacrifici superiori alla già non facile situazione vista nella precedente guerra. Di fatto, i soldati dovettero fare affidamento sia sulle loro risorse e inventive sia sulle potenzialità produttive dei territori occupati.

In quest’ultimo caso si passò dalla relativa facilità con la quale i militari riuscirono ad accedere alle risorse agroalimentari dei territori di Jugoslavia e Grecia occupati (attraverso requisizioni che talvolta assunsero le caratteristiche di razzie), alla difficoltà riscontrata nelle operazioni desertiche o nel Corno d’Africa, sino al dramma logistico della campagna di Russia, che si trasformerà in vera e propria catastrofe alimentare dopo la ritirata dal fronte del Don: le “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi ne sono una emblematica metafora.

Il problema centrale dell’alimentazione militare durante questo conflitto era rappresentato dalla carenza delle linee di rifornimento: canali logistici gestiti autonomamente dai dicasteri delle tre armi, alle quali si aggiungeva per il Nord Africa il ministero dell’Africa italiana, e non comunicanti tra loro (mentre nel 1915-18 la logistica era di competenza di un unico dicastero, quello della Produzione bellica); assenza di depositi avanzati, al seguito delle truppe in movimento; carenza di una motorizzazione integrale delle divisioni, e quindi anche dell’approvvigionamento, ipotizzata nel 1937 ma mai applicata. Si aggiunga l’obsoleta organizzazione dei porti e dei trasporti marittimi, che restava quella del primo anteguerra.

Una situazione che sarebbe progressivamente peggiorata nel 1942-43 34. In generale, permasero i problemi del deterioramento delle derrate, soprattutto per quanto concerneva il pane, che seguitava a giungere ai reparti secco o ammuffito, mentre tendeva ad essere confezionato sempre di più con alti tenori di farine vegetali alternative. Si arrivò così all’introduzione del “pane scuro”, prodotto con i cereali e assai lontano dalla tradizione mediterranea, la cui funzione di evidente surrogato veniva camuffata da motivazioni nutrizionali, poiché ritenuto ricco di vitamina B1, tradizionalmente carente nel rancio.

Le numerose difficoltà d’approvvigionamento estero imposero inoltre il sempre più massiccio impiego di alternative, a cominciare dal caffè, sovente sostituito da varie ciofeche surrogate; nel marzo 1941, le truppe di stanza sul territorio metropolitano si videro negata la distribuzione di ogni tipo di caffè, in favore delle truppe impegnate in zone d’operazioni; le razioni di vino, parimenti, subirono riduzioni continue fino all’armistizio. In generale, nel 1942 il rancio delle truppe in patria era passato dalle 3.500 alle 2.500 calorie, mentre stabile appariva quello delle unità nelle zone d’operazioni.

L’armistizio del settembre 1943 comportò anche il collasso alimentare delle truppe, ormai allo sbando, che vagavano nelle campagne dei territori occupati (ma anche di quelli metropolitani) alla ricerca di un nutrimento affidato ora al buon cuore delle popolazioni e ora a pratiche di confisca degeneranti in episodi di razzia. I nuovi eserciti italiani che si costituirono nelle due zone occupate rispettivamente dai tedeschi e dagli Alleati, ricevettero inizialmente (1943-44) razioni equiparate a quelle delle popolazioni civili.

Nel caso delle truppe della RSI, queste riuscirono a utilizzare i magazzini residuali rimasti nel nord, anche se l’ingombrante presenza tedesca obbligò il governo del Garda a occuparsi quasi per intero del sostentamento delle truppe d’occupazione. Particolarmente privilegiati furono sia i corpi speciali (come la X Mas) sia le unità paramilitari e di polizia politica, queste ultime spesso invischiate in pratiche di accumuli illegali, sequestri illegali e mercato nero che garantirono a quei reparti razioni alquanto ricche.

Il ricostituito esercito del sud, dopo una fase di estrema precarietà, ottenne l’apporto delle nuove razioni alimentari americane, sino a giungere verso la fine della guerra – con la costituzione dei “Gruppi di Combattimento” organizzati su base divisionale – a un discreto vettovagliamento, superiore a quello destinato alle popolazioni civili . Le brigate partigiane dislocate a nord incontrarono inizialmente notevoli difficoltà nell’accedere alle risorse alimentari: nel difficile inverno 1943-44 l’approvvigionamento venne di nuovo garantito dalla generosità delle popolazioni fiancheggiatrici e talvolta da sequestri non sempre condivisi dai civili.

In alcuni casi si utilizzarono modeste trattorie periferiche, per non dare nell’occhio, ma il costo della vita (e la presenza di tedeschi e fascisti) ne ridusse la frequentazione. Si ricorse pertanto a soluzioni di ripiego: cucine da campo in montagna e persino vere e proprie mense partigiane clandestine. Soprattutto all’indomani della creazione del Corpo volontari della libertà (giugno 1944), le unità partigiane ricevettero il cospicuo aiuto delle razioni K inviate dagli Alleati, in considerazione dell’apporto militare da esse date al conflitto.

Infine, si deve di nuovo citare il dramma dei militari prigionieri in Italia (francesi, americani, inglesi, sovietici, jugoslavi, greci), i quali, dopo una lunga stagione di privazioni, dopo l’8 settembre si ritrovano sbandati. Non si può tacere neanche, ovviamente, della situazione oltre l’impossibile nella quale si trovarono i 590 mila internati militari italiani (IMI) in Germania catturati dopo l’armistizio: una sorte penosa per tutti, che sarebbe divenuta a dir poco degradante verso il termine del conflitto, dove alle privazioni volutamente punitive verso le Badogliotruppen si sarebbe sommata la crisi alimentare del Paese “ospitante”.

La razione riservata agli IMI raggiunse nel 1944 le 1350 calorie al giorno (contro le 2250 che dovevano essere assicurate), con picchi inferiori verso l’ultimo inverno di guerra e una qualità del cibo più che scadente. Gerhard Schreiber ricostruisce dalla memorialistica degli IMI la loro dieta settimanale: una minestra a base di patate al giorno, grasso o carne in modesta quantità, raramente pane e altri generi. C’è chi scrisse di avere perso in pochi mesi più di dieci chili.

Nonostante gli intendimenti dello Stato maggiore tedesco, che ne voleva sfruttare la forza lavoro, gli IMI avrebbero avuto un trattamento sempre più prossimo ai prigionieri sovietici, i veri paria del sistema concentrazionario militare germanico, e la loro produttività calò in maniera sensibile e allarmante. Al termine del conflitto, gli IMI deceduti furono almeno 45 mila: molti di questi per denutrizione o a causa di malattie causate dalla scarsa e scadente alimentazione.

Sorte migliore la incontrano i 602 mila soldati italiani in mano alleata, statunitense, britannica e francese, anche se nel caso dei prigionieri rinchiusi nei campi inglesi in Kenya e India il trattamento fu particolarmente duro.  La vicenda, ancora da studiare, dei circa 60-80 mila di prigionieri italiani in Unione Sovietica, si trasformò nell’ennesimo calvario senza vie di ritorno per molti di loro, lasciati morire d’inedia e di malattie conseguenti alla denutrizione nei lontani gulag militari staliniani .

La declinazione nella vita civile della crisi alimentare dell’Italia impegnata nel secondo conflitto mondiale fu ancora più difficile. Nel gennaio 1940, in preparazione del conflitto, furono introdotte le carte annonarie, sulla base delle disposizioni della prima guerra, con alcune integrazioni introdotte negli anni Venti e Trenta.

Si ebbe tuttavia un razionamento graduale, gestito da una Direzione generale dell’Alimentazione creata ad hoc presso il ministero dell’Agricoltura: inizialmente furono escluse dalle limitazioni la farina, la pasta e il riso (razionati solo dal dicembre 1940); nel marzo 1941 fu la volta di panna, latte e burro; infine, dall’ottobre giunse il turno di oli e grassi commestibili. Si trattò di un errore clamoroso, che impoverì le riserve nazionali e arricchì i magazzini illegali per il futuro mercato nero.

Il razionamento scatenò non poche proteste, sia a causa degli standard minimi, che vennero progressivamente ribassati (soprattutto per quanto concerneva la pasta, il burro, l’olio, lo zucchero e il pane), sia per via della disorganizzazione nella distribuzione. Già dopo pochi mesi dall’entrata in guerra, i questori delle città italiane registrarono diversi episodi di intolleranza nei negozi e nei mercati rionali, con le massaie trasformate in agguerriti capi popolo. Si aggiungano i non pochi casi di abusi, incameramenti, grassazioni e ammassi illegali compiuti dai funzionari o dai produttori.

Qualitativamente si assistette a una riproposizione, amplificata, delle soluzioni autarchiche che già avevano colpito la tavola degli italiani durante le sanzioni degli anni Trenta: il caffè tornò ad essere la ciofeca, orrido miscelato di cicoria, segale, orzo, tarassaco, bucce d’arancia e ghiande; il the diventò “karkadé”, prodotto con bucce di agrumi, petali di rose e una spezia libica ricca di teina (e per questo spacciato come prodotto esotico); dall’aprile 1940 la vendita della carne venne proibita il mercoledì, il giovedì e il venerdì, e in quei giorni non poteva più essere servita nei ristoranti, che si limitavano al “rancio unico”, composto da minestra, verdura e frutta, quando risultava disponibile; la razione di pane (di qualità sempre più scadente) venne limitata dalla carta annonaria a 200 g giornalieri nel settembre 1941 e a 150 g nel marzo 1942.

La scarsità del pane venne accolta dalla gente con sgomento e stupore, puntualmente registrato dalla polizia politica: “nessuno vuol credere che proprio il pane possa mancare”. I rincari erano all’ordine del giorno, in modo particolare quelli del latte, mentre i legumi secchi, il riso e la pasta (ovvero gli ingredienti del “pranzo dei poveri”) semplicemente sparirono dai mercati. A queste problematiche, si aggiunsero quelle prodotte dall’arrivo nelle regioni meridionali dei contingenti tedeschi di Kesselring (dicembre 1941), i quali vennero inquadrati nel sistema di vettovagliamento dell’esercito italiano, con conseguente riduzione delle disponibilità per i civili.

Sul territorio metropolitano, dal 1942, emersero progressivi contrasti tra le popolazioni e le autorità militari, con i produttori vieppiù ostili ad accettare le acquisizioni delle derrate in favore delle truppe italotedesche di stanza nel Paese. Dalla fine del 1941 la quantità dei generi razionati soddisfaceva solo la metà del fabbisogno interno; le calorie garantite pro capite erano 2.269: nel 1911 erano garantite cento calorie in più, mentre, come si è detto, nel 1918-19 la popolazione poteva accedere a più di 3.000 calorie giornaliere.

La propaganda cercò di trasformare queste ristrettezze in vantaggi e pregi. L’italiano era “sobrio di natura”; si moriva “più facilmente di indigestione che di fame”; gli obesi erano “infelici”. L’infelicità non era certo degli obesi (che peraltro erano ben pochi), gli italiani si dovettero arrangiare con gli orti di guerra, un po’ ovunque: giardini, balconi, terrazzi, aiuole. Le massaie compirono veri e propri miracoli gastronomici con torsoli di mela, pezzi di cavolfiore, bucce di piselli, gambi di prezzemolo.

Dal 1942-43 il mercato nero si diffuse a dismisura, e solo chi aveva una certa liquidità poteva ancora accedere all’introvabile carne e al rarissimo pane bianco. Con la dissoluzione del regime fascista, e con il conseguente allentamento di controlli già di per sé inefficaci e saltuari, la borsa nera divenne l’unica affermata fonte di sostentamento accettabile per la popolazione. La situazione degenerò, rasentando episodi di vera e propria carestia, dopo il 1943. La guerra giunse nelle case degli italiani, non solo con i massicci bombardamenti su tutta la penisola, ma anche con l’arrivo di eserciti conquistatori e con lo scoppio di una guerra civile.

Con lo sbarco del luglio 1943, la Sicilia diventò zona d’operazioni. La guerra tra italo-tedeschi e anglo-americani gettò la popolazione insulare in uno stato d’abbandono senza precedenti. Le sofferenze imposte dal razionamento e dalle requisizioni destinate alle forze dell’Asse spinsero la popolazione ad attendere con ansia l’arrivo dei liberatori, visti anche, e forse soprattutto, come una garanzia di sopravvivenza alimentare.

Di nuovo, lo strumento della fame diventò arma strategica e, in questo caso, di propaganda: al fianco di una minoranza antifascista militante che sosteneva gli Alleati, ecco una maggioranza di civili che ne valutava le qualità dal più prosaico punto di vista del nutrimento. E così sarebbe stato per tutto il sud, lentamente liberato dalle forze anglo-americane, con il loro corollario di razioni K e cioccolata distribuite alle genti affamate, in un tripudio che mescolava sete di libertà e pace, ma anche sete e fame tout-court.

Nel frattempo, nel resto del Paese – dichiarato da Badoglio zona di guerra il 7 agosto 1943 – proseguiva l’agonia: il nuovo governo fu impegnato soprattutto a smantellare le strutture del regime e a sostenere l’industria bellica, e soltanto il 6 settembre vennero varate nuove norme per l’acquisto di derrate alimentari da inviare agli ammassi.

In una relazione della Direzione generale dell’alimentazione commissionata all’indomani della dichiarazione di stato di guerra si individuavano, con una certa dose di ottimismo, in circa 3000 le calorie lorde per unità-uomo che dovevano essere assicurate. La situazione in realtà era ben peggiore: dati alla mano, nel 1944 le calorie giornaliere disponibili ammontavano a 1.865 (di cui 170 di origine animale) e a 1.747 nel 1945: lo stesso livello del decennio 1891-1900!

Rispetto al decennio precedente i consumi dei cereali si erano ridotti a un terzo, mentre quelli delle varie carni, a cominciare dalla bovina, all’incirca del cinquanta per cento. Il governo del cosiddetto “Regno del Sud” prese atto della situazione il 1° dicembre 1943, con la costituzione di un “Commissariato dell’alimentazione” affidato a Epicarmo Corbino, sottosegretario all’Industria. Tra le prime iniziative del nuovo commissario, si ebbe la richiesta di aumentare l’importazione di grano dall’estero, soprattutto in forza della nuova situazione internazionale che poneva l’Italia nel circuito commerciale alleato.

Si aprì una lunga trattativa con le autorità alleate, per assicurare una regolare alimentazione nei territori liberati. Drammatica risultava soprattutto la distribuzione, sia a causa della rete stradale insufficiente e danneggiata sia per la requisizione di autocarri costantemente condotta dagli anglo-americani. Gli Alleati promisero 90 mila quintali di grano, ma a tutto il dicembre ne giunsero solo dieci: si tenga conto che per le sole Calabria e Puglia il fabbisogno giornaliero da coprire avrebbe dovuto essere di ben mille tonnellate.

Si cercò “nella speranza di più immediati aiuti degli alleati” di sequestrare quantitativi di grano “indebitamente sottratti e che formano oggi delle scorte nelle mani dei privati”, di stimolare la consegna di grano agli ammassi, incentivandola con un aumento retroattivo di 115 lire al quintale. Oltre alle coercizioni, si fece appello al “patriottismo” degli agricoltori. Il tutto – una volta giunto il benestare degli angloamericani circa la messa a disposizione di trasporto gommato e marittimo – affinché si potesse “tra non molto cominciare ad avvicinarsi fra pane, farina e pasta al quantitativo di 300 g giornalieri per ogni persona”. A ciò si aggiunse l’eliminazione di ogni vincolo alla macellazione dei suini, all’ammasso di cereali e legumi, alla liberalizzazione delle patate bisestili e di secondo raccolto. Infine, si elevò il prezzo di requisizione dell’olio.

La questione non fu soltanto umanitaria, ma investì l’ordine pubblico: in molte regioni d’Italia si registrano moti popolari di protesta per la scarsa distribuzione delle derrate. Verso la metà del gennaio 1944 a Sassari scoppiarono disordini che spinsero la popolazione ad occupare la Prefettura e il municipio al grido di “Pane! Pane!”: la presenza della locale cellula comunista tra i dimostranti non poté che allarmare tanto le autorità italiane quanto quelle alleate.

La Sardegna fu solo uno dei tanti casi: proteste si registrano anche in altre regioni. In Sicilia si saldarono con l’insorgenza separatista, e con la criminalità organizzata, che giocò un ruolo altrettanto inquietante nel napoletano. Si giunse pertanto a ipotizzare uno spostamento delle dipendenze del Commissariato dell’alimentazione dall’Agricoltura agli Interni, soluzione poi abortita.

I dati del 1944 erano sconfortanti. Contro gli 80 milioni di quintali di frumento disponibili nel 1939, nel 1944 ne restavano 57, che sarebbero scesi a 43 l’anno successivo; a fronte dei nove milioni di quintali di granoturco, ne restarono disponibili al termine del conflitto solo cinque. E ovviamente, il supporto proteico a tale alimentazione risultava quasi inesistente: la disponibilità media per abitante di carne bovina raggiunse nel 1944 i 2,5 kg, con un leggero incremento fino a 3,4 l’anno seguente.

Solo il 16 marzo 1945 il governo siglò un accordo con l’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration, “Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione”), garantendo in tal modo merci e servizi per cinquanta milioni di dollari: nel piano erano previsti quattro milioni di quintali di cereali; dei trecento g tra pasta e pane pro capite promessi dagli Alleati, si giunse nel marzo 1945 a 200 g di pane e 80 di pasta.

Circa la situazione delle regioni del nord, sottoposte all’occupazione tedesca e all’amministrazione della Repubblica sociale, nonostante la lontananza – almeno iniziale – dal fronte e la presenza di maggiori risorse zootecniche e agricole, l’approvvigionamento delle popolazioni appariva più problematico di quello già non facile
del Mezzogiorno. A differenza degli Alleati, che potevano contare su buone risorse alimentari proprie, i tedeschi praticarono regolarmente la requisizione, soprattutto di bovini (sequestrati fino al novanta per cento) con un governo repubblicano-sociale che non era nelle condizioni di intervenire.

La produzione agricola era in calo costante, e gli “orti di guerra” – che il regime del Garda continua a incentivare – rappresentavano poco più di un palliativo propagandistico. Inoltre, la popolazione doveva dividere le magre disponibilità lasciate dai tedeschi con le Forze armate di Salò, e con la presenza delle polizie e delle formazioni paramilitari speciali. Si aggiunga il boicottaggio degli ammassi operato dalle formazioni partigiane, e più in generale da una classe contadina sempre più ostile, ora per questioni politiche, ora per interessi personali: la borsa nera era ancora più fiorente che al Sud, al punto che il giornalista Concetto Pettinato in un energico articolo di denuncia sulla Stampa di Torino scrisse di una popolazione che considerava tale realtà “un’opera filantropica”. Il tutto con un’unica finalità, ricorda Gabriella Pasqualini: “Realizzare, svendere, mangiare, speculare, arricchirsi, mettere a frutto per il futuro nel dopoguerra la ricchezza ottenuta”.

Il governo di Salò cercò di intervenire con ogni mezzo a sua disposizione. Il 23 febbraio 1944, lo stesso giorno del famigerato “bando Graziani”, un decreto legislativo autorizzò i “capi delle province” (nuova denominazione dei prefetti) a “dichiarare mobilitati civilmente i cittadini e le aziende per assicurare l’alimentazione” delle popolazioni locali . In seguito furono istituiti il Commissariato nazionale prezzi (dipendente dal ministero dell’Economia nazionale) la Commissione nazionale di vigilanza sull’alimentazione, l’Ufficio distribuzione cereali, farine e paste (controllati dal ministero dell’Agricoltura): una pletora di inutili enti che anziché risolvere, aggravarono la situazione.

Il 9 dicembre venne emanato un decreto di requisizione delle aziende dei grossisti e delle aziende di produzione, lavorazione e trasformazione di generi alimentari. Si inasprirono le pene per i borsari neri, fino a introdurre la pena di morte per chi avesse cagionato “immediato e grave nocumento all’approvvigionamento della popolazione”. Si trattò di iniziative senza alcun risultato: tutte le battaglie, da quella contro il mercato nero, a quella per potenziare la distribuzione, fino al tentativo di arrestare l’inflazione (un chilo di pane, ad esempio, passò da 2,23 lire nel 1940 a 24,24 lire nel 1944), furono drammaticamente perdute.

Il ministro dell’Agricoltura della RSI, Edoardo Moroni, avrebbe tracciato nel dicembre 1944 un quadro riassuntivo tanto preciso quanto disastroso della situazione alimentare nei seicento giorni di Salò: coltivazioni in deficit, allevamenti scarsi e colpiti dalle requisizioni tedesche, grassi vegetali scomparsi, pochi quelli animali, si dipendeva da non sufficienti importazioni dalla Germania, mentre il sistema di distribuzione, a causa della requisizione germanica di buona parte degli autocarri, era assai precario. La vita nel Nord occupato, appariva più che difficile, grottesca.

Nella Roma alla vigilia della liberazione, per esempio, lo zucchero era riservato ai bambini e ai malati, e in quantità insufficiente; la marmellata venne ridotta a 400 g al mese, per lo stesso periodo erano consentiti un kg di legumi secchi e un hg di carne, se disponibile 69. Dal dicembre 1944 i ristoranti della zona controllata dalla RSI vennero ribattezzati “mense collettive di guerra”, e servivano quasi nulla.

Persino gli operai delle strategiche fabbriche furono sottoposti a pesanti privazioni. In una circolare del ministero dell’Agricoltura del 20 febbraio 1945 si legge che le mense aziendali dovevano cessare la somministrazione del secondo piatto, e limitarsi a 60 g di generi da minestra (riso o pasta), sei g di grassi, 2,5 g di concentrato di pomodoro, 100 g di patate o 30 di legumi secchi e sale “in base alle assegnazioni consentite dalle disponibilità”. Il tutto, sia a casa sia in mensa, di una qualità quasi immangiabile.

Sulle riviste apparvero proposte di ricette che sembravano grida disperate: formaggini e lieviti fatti in casa, marmellate senza zucchero, castagnaccio di castagne selvatiche. Le ricette di Petronilla, al secolo Amalia Moretti Foggia, in questi ultimi giorni della guerra, erano la quintessenza della disperazione: anche la celebre intellettuale si coalizza con il popolo italiano “per affrontare e vincere la fame”. E sarebbe stata Petronilla a celebrare, a suo modo, la fine del lungo incubo, e delle feroci privazioni imposte agli italiani: “La guerra è finita! Anche voi siete nell’attesa di chi torna o dalla Toscana o dalle Alpi o dalla Germania o dalle carceri o dall’ospedale? E anche voi (serbando per il ritorno un po’ di spumante in cantina) vorreste porgerne i bicchieri con fettone della mia ciambellona?”.

Una ciambellona, va detto, fatta di mezzo chilo di farina, un pizzico di uvetta sultanina, e… un uovo. Le privazioni sarebbero continuate ancora, in un’Italia che stava per affrontare un lungo dopoguerra. Ancora nel 1947 un membro di una famiglia definita “disagiata” potrà permettersi 72 gr di proteine giornaliere contro i 120 di un “benestante”.

Marco Cuzzi

Marco Cuzzi *

Insegna Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano. Si occupa in particolare di storia del fascismo e del neofascismo sia nell’ambito italiano sia internazionale, della storia del confine orientale d’Italia, della Jugoslavia nel Novecento e delle occupazioni italiane nei Balcani durante la Seconda guerra mondiale. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943) (USSME, 1998); L’internazionale della Camicie nere. I CAUR (1933-1939) (Mursia, 2006); Antieuropa: il fascismo universale di Mussolini (M&B Publishing, 2007); Vivere ai tempi della Repubblica sociale italiana (Compagnia della Stampa, 2008); Istria, Quarnero, Dalmazia. Storia di una regione contesa dal 1796 alla fine del XX secolo (Libreria Editrice Goriziana, 2009). Tra gli altri studi si ricordano: Sui campi di Borgogna. I volontari garibaldini nelle Argonne (1914-1915) (Biblion, 2015) e Cibo di guerra. Sofferenze e privazioni nell’Italia dei conflitti mondiali (1915-1945) (BIM, 2015).

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